Opinione scritta da viducoli
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L'unica, limitata possibilità...
... di conoscere un autore presumibilmente grande
Carl Sternheim è un autore del primo novecento tedesco quasi del tutto ignorato dall’editoria italiana. Oltre a questa novella, meritoriamente data alle stampe da Adelphi, mi risulta esistano solo una edizione delle cinque commedie che costituiscono il Ciclo dell’eroe borghese (De Donato, 1967) e pochissime altre vecchie edizioni di alcune delle sue opere, reperibili solo sul mercato dell’usato.
Eppure Sternheim è ancora oggi molto popolare in Germania, essendo considerato uno degli esponenti di spicco dell’espressionismo, ed in particolare le sue opere teatrali sono molto rappresentate.
Sternheim, di agiata famiglia ebraica, visse tra il 1878 e il 1942, dal 1912 quasi prevalentemente a Bruxelles; le sue opere vennero messe al bando dal nazismo sia in quanto l’autore era ebreo sia per il loro contenuto. In esse infatti Sternheim denuncia, secondo quanto è possibile desumere dalle notizie reperibili in rete, la grettezza e la corruzione morale della borghesia tedesca dell’età guglielmina. Fu amico di numerosi intellettuali ed artisti tedeschi del primo novecento, tra i quali Franz Wedekind, di cui in seguito sposò la figlia, e collaborò nel 1908 alla fondazione della rivista espressionista Hyperion, la prima a pubblicare scritti di Kafka.
Queste scarne note – condizionate dalla scarsa diffusione della sua opera nel nostro paese – contribuiscono a delineare la notevole personalità artistica di questo autore, personalità che probabilmente non emerge appieno dalla lettura di Libussa, novella probabilmente eccentrica rispetto alla sua produzione maggiore che si identifica con le opere teatrali. In Libussa, infatti, non si rintraccia una connotazione espressionista del testo, che al contrario, come vedremo, si caratterizza per la sua levità e pacata ironia. Forse ciò è dovuto, oltre che alla natura quasi da apologo della novella, al fatto che essa viene scritta nel 1921, da uno Sternheim ormai lontano da anni dalla convulsa realtà della Germania postbellica, ed ormai verso l’esaurimento della sua produzione letteraria (non scriverà praticamente più dopo il 1925).
Se la forma di Libussa non ci fornisce probabilmente una visione completa dei mezzi espressivi tipici dell’autore, il suo contenuto è però sicuramente coerente con la tematica principale dell’opera di Sternheim, vale a dire la critica alla Germania guglielmina e ai suoi connotati sociali.
Libussa è una nobile cavalla bianca, che narra in prima persona la sua avventurosa vita. Il suo racconto è raccolto da colui che l’ha acquistata, ormai vecchia, dopo la fine della guerra, e le ha insegnato ad esprimersi (come nel caso di altri cavalli parlanti) battendo lo zoccolo anteriore. Nata in Russia verso la fine dell’800, ella è stata prima la cavalla preferita dalla zarina Aleksandra Fëdorovna, moglie di Nicola II, quindi da quest’ultimo donata al principe Edoardo del Galles, futuro Edoardo VII, di cui segue le vicende prima a Parigi quindi – dopo l’incoronazione – in Gran Bretagna, per divenire dal 1904, a seguito di un’ulteriore donazione, la cavalcatura del kaiser Guglielmo II, che seguirà sino alla fine della guerra.
Attraverso la vicenda autobiografica di Libussa, Sternheim ci può così narrare, con un tono come detto lieve ed ironico, i vizi (tanti) e le virtù (pochissime) di tre sovrani che sarebbero stati al centro della deflagrazione bellica, fornendoci, anche attraverso resoconti storicamente accurati, notizie importanti sulle motivazioni – soprattutto per la verità incentrate piuttosto riduttivamente sulla psicologia dei protagonisti – che portarono al conflitto. Del resto è lo stesso Sternheim ad avvertirci che le storie narrate dalla cavalla risentono ovviamente di una mentalità cavallina, e delle esperienze concrete, seppur limitate quanto a visione, che essa ha fatto portando sul suo dorso i sovrani.
Le tre fasi della vita della bianca Libussa si susseguono per così dire in ordine di importanza. Il breve periodo in cui, ancora giovane, è la cavalla della zarina è centrato sulla descrizione della crudeltà, della volgarità e della bassezza di un potere autocratico, incapace di rendersi conto della sofferenza delle masse, sofferenza che di lì a poco avrebbe portato alla rivoluzione. Libussa prova inizialmente simpatia per la zarina, donna fragile, assoggettata alla violenza di Nicola che ”firmava migliaia di condanne a morte e alla deportazione con inchiostro rosso e svolazzi”, il quale una volta minaccia la moglie incinta di prenderla a calci in pancia. Quando però Aleksandra Fëdorovna manifesta deliri mistici e si assoggetta al potere perverso di Rasputin la cavalla si ribella, con le armi equine di cui dispone, e pertanto viene donata, come detto, a Edoardo. Il ritratto dell’Edoardo libertino e anticonformista degli anni parigini precedenti l’incoronazione è seguito da una lucida descrizione della politica inglese dei primi anni del ‘900, volta ad isolare la Germania nelle sue mire egemoniche. Edoardo è zio di Guglielmo II (la madre di quest’ultimo essendo sua sorella), ma ne odia la grossolanità, la mancanza di stile. Attraverso gli occhi di Libussa ripercorriamo la partita a scacchi che si svolge in Europa in quegli anni cruciali, lo stringersi e il rapido dissolversi di accordi ed alleanze, gli incontri tra sovrani che erano tutti legati da parentela ma che si sarebbero trovati presto a difendere interessi nazionali opposti. Durante una visita realmente avvenuta nel 1904 di Edoardo in Germania Libussa viene donata a Guglielmo, che ne fa la sua cavalla preferita. Inizia la parte più bella del libro, forse anche perché basata su esperienze di prima mano dell’autore. La personalità distorta del Kaiser, il suo assolutismo, il suo essere convinto di governare per diretta volontà divina vengono messe alla berlina dalle riflessioni, apparentemente giustificazioniste, del suo cavallo. Guglielmo ne emerge come un pericoloso idiota, succube del potere industriale ma convinto di essere un semidio, incapace del potere di riflessione che deve caratterizzare chi detiene il comando. L’ultima parte del breve libro, quella dedicata alla guerra, è la più sarcastica: Libussa si sente pervasa dalla retorica della guerra, ed è esaltata dal parteciparvi portando in sella l’imperatore. Grazie alle osservazioni di un cavallo comunista si rende però conto di essere tenuta lontano dal fronte, nelle retrovie, dove l’imperatore si aggira tra folle di soldati osannanti che non sanno cosa realmente li aspetta. Così, una volta che si trova più vicina alla battaglia, si lancia verso di essa, salvo essere fermata a suon di scudisciate da un kaiser disperato che dopo questo episodio non la vuole più cavalcare. Cadono quindi tutte le illusioni sulla guerra eroica, e plasticamente la bassezza morale di chi l’ha scatenata è evidenziata dal kaiser che tenta di sfuggire alla cattura nascondendosi dietro un’automobile a sei cilindri – episodio che lo accomuna a ciò che farà, meno di trent’anni dopo, un guitto di casa nostra tentando inutilmente di sottrarsi alle sue responsabilità storiche.
Libussa è un libro gradevole, forse incantevole come ci dice il breve commento in quarta di copertina, ma mi sento di dire che non è un capolavoro. Ciò che non funziona è proprio l’elemento narrativo che ne è al centro, vale a dire la pretesa che sia stato scritto da un cavallo. La narrazione è infatti troppo infarcita di precisi richiami storici, di descrizioni del contesto storico e politico in cui gli attori si muovono, per risultare convincente come memorie di un cavallo. Il libro potrebbe benissimo essere avvincente e divertente, come difatti è, senza ricorrere a questo escamotage narrativo, che si rivela essere a mio avviso una inutile sovrastruttura volta solamente a permettere la descrizione sequenziale delle tre monarchie e del carattere dei monarchi. Libussa è quindi innanzitutto la cronaca degli avvenimenti e dei caratteri dei protagonisti politici di un periodo che avrebbe portato alla prima guerra mondiale, ma il fatto che questi avvenimenti e questi caratteri siano raccontati da un cavallo appare del tutto irrilevante, ed in molti casi chi narra sembra essere più il narratore onnisciente piuttosto che l’occhio di chi avrebbe potuto avere solo una visione parziale degli eventi (e per di più una parzialità equina). Al di là di questa critica, è indubbio che la novella ci permette di conoscere meglio alcuni tratti, anche non scontati, dei protagonisti di quel periodo e delle loro relazioni, anche condizionate dalla loro psicologia, e di farci un’idea del quadro delle condizioni che portarono alla grande deflagrazione, anche se di questo quadro mancano nel racconto alcuni tasselli fondamentali.
Resta il rammarico di poter conoscere questo autore, senza dubbio importante, solo attraverso un’opera quale Libussa, che come detto rappresenta un episodio sicuramente minore all’interno della sua produzione letteraria. Attendiamo quindi pazientemente, ma con scarsa fiducia, che anche al lettore italiano sia data la possibilità di leggere e gustare le sue opere più importanti.
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Alle sorgenti del mito
Il mito di Faust è forse il più importante topos della cultura tedesca, e ad esso si sono ispirate, nel corso dei secoli, alcune delle opere letterarie – e non solo – dell’intera Europa. Da The Tragical History of Doctor Faustus di Marlowe, composto ancora nel XVI secolo, sino al Doktor Faustus di Thomas Mann (1947) ed oltre, passando ovviamente per il Faust goethiano e per Il maestro e Margherita di Bulgakov, sono decine i romanzi, i testi teatrali, gli scritti poetici, le opere musicali che riprendono la storia dell’uomo che strinse il patto con il diavolo per acquisire la conoscenza. Il perché di tanto successo è facilmente intuibile: il rapporto tra scienza e morale, il tema della libera volontà umana contrapposta ai limiti a questa imposti dagli ordinamenti sociali di ordine religioso e politico, l’angoscia dell’uomo di fonte ai propri limiti esistenziali ed intellettuali, tutti temi che fondano il mito, sono altrettanti spunti attorno ai quali hanno riflettuto, dai diversi punti di vista dati dalle loro condizioni materiali e avvalendosi di diversi strumenti interpretativi, gli intellettuali della modernità e della contemporaneità occidentale, essendo strettamente connessi all’organizzazione sociale come si è venuta sviluppando dalla fine del medioevo in poi.
Quello di Faust è infatti un mito moderno, anzi si potrebbe forse dire che è Il mito per antonomasia della modernità, della società borghese, per gli interrogativi che a questa pone. Faust come personaggio storico – tale Georg (o Johann) Faust, mediocre alchimista e negromante – visse infatti tra il 1480 e il 1540 circa in Germania: di lui non si sa molto, se non che per le sue arti fu spesso scacciato dalle città in cui si trovava. Probabilmente era uno dei tanti scienziati popolari dell’epoca che tiravano avanti vendendo ai potenti e ai meno potenti conoscenze chimiche, fisiche ed astronomiche più o meno approssimative, che venivano spacciate per stregoneria e occultismo. I primi decenni del ‘500 non sono però in Germania decenni qualunque: sono quelli dell’affermazione – anche cruenta – della riforma luterana. Il patto tra Lutero e i principi tedeschi, attraverso il quale viene brutalmente repressa la guerra dei contadini di Thomas Müntzer (1525), sancisce l’organicità della riforma al mantenimento dello status quo economico e politico: il nuovo ordine necessita anche di strumenti culturali per diffondere le idee della vera riforma tra le masse tentate da una visione egualitaria delle tesi luterane. Tra questi strumenti un ruolo peculiare giocarono i volksbucher, libretti a diffusione popolare (per l’epoca) molto usati per spiegare la riforma. Tra questi iniziò a circolare già pochi anni dopo la morte di Georg Faust un volumetto che raccontava la sua vita e i suoi prodigi come frutto di un patto stretto con il diavolo.
Il testo edito da Spies, che deriva da un precedente volsksbuch di cui si conserva il manoscritto, viene stampato nel 1587, e rappresenta il primo vero libro dedicato alla figura e al mito di Faust, l’archetipo cui si rifaranno direttamente sia Marlowe sia Goethe. Johann Spies ne è lo stampatore, e si limita ad apportare alcune modifiche piuttosto marginali al manoscritto edito pochi decenni prima.
La storia romanzata di Faust è nota: prima teologo, poi scienziato laico e negromante, il dottor Faust è ossessionato dal sapere, dallo spingere la sua conoscenza oltre i limiti umani. Evoca perciò il demonio, e gli appare Mefistofele, un diavolo di secondo ordine che è però autorizzato a soddisfare tutti i desideri di Faust a patto che questi abiuri il cristianesimo e sigli con il sangue un patto che consegni, al termine di 24 anni, la sua anima e il suo corpo al demonio. Faust accetta, convinto di poter recedere dal patto e comunque allettato dalla prospettiva di essere onnisciente ed onnipotente per così lungo tempo. Il tempo trascorre e Faust, dotato di poteri e conoscenze straordinari, viaggia in tutto il mondo, vede il paradiso e l’inferno, comprende l’organizzazione del firmamento e il moto dei pianeti, è ricevuto nelle corti di re e imperatori dei quali soddisfa i desideri, non si fa mancare ovviamente le più belle donne del mondo, amando anche Elena di Troia da cui avrà un figlio, organizza scherzi e beffe ai danni tanto di contadini quanto dell’odiato papa romano.
All’approssimarsi della scadenza del patto, resosi conto della sua irreversibilità, Faust si pente e rivolge un accorato appello ai suoi amici a non lasciarsi tentare dalla smania di conoscenza e potere, quindi – accomiatatosi invero con grande dignità dalla vita – va incontro al suo destino di corpo straziato ed anima dannata per l’eternità.
Se come detto il mito di Faust sarà foriero nel corso dei secoli di rielaborazioni da parte dei più grandi artisti, per la sua complessità e per le implicazioni di cui è intriso, questo suo esordio è caratterizzato nettamente dalla sua funzione didattica, di insegnamento per il popolo della riforma.
Questa funzione didattica si riscontra non solo nella morale della vicenda, su cui ovviamente tornerò, ma anche nella struttura stessa del libro e nel susseguirsi delle avventure faustiane narrate.
Il libro, che si compone di 69 brevi capitoli, alcuni di neppure mezza pagina, è strutturato secondo un intento talmente didattico da potersi definire quasi manualistico. Si compone infatti di quattro parti: la prima dedicata al patto con il diavolo e all’esposizione, sotto forma di dialoghi tra Faust e Mefistofele, dei reciproci impegni, di chi sia il demonio e di cosa sia l’inferno; nella seconda parte i viaggi e le avventure di Faust servono da pretesto per fornire al lettore precise conoscenze (ovviamente rapportate all’epoca) di geografia, astronomia, astrologia, demonologia, alchimia etc.; la terza parte raccoglie prevalentemente beffe e scherzi giocati da Faust a vari soggetti, ed in molti casi presenta, contestualizzandole, storie e dicerie popolari; nella quarta ed ultima parte viene proposto il compimento del dramma di Faust con tutte le considerazioni morali del caso. Come detto, il libro di Spies deriva direttamente da un volksbuch, conservandone appieno, anche strutturalmente, la funzione divulgativa, del resto pienamente aderente a quella dell’edizione stampata. Illuminante, a questo proposito, l’episodio della visita di Faust in Vaticano, dove incontra un papa ed una corte dedite a mangiare e a vivere nell’ozio e nel lusso, secondo la più scontata vulgata luterana.
Quanto alla morale complessiva quella che balza più agli occhi è l’ovvia indicazione che l’uomo non può trascendere i suoi limiti se non andando oltre, infrangendo la volontà divina che lo vuole confinato entro i confini dell’imperscrutabile. Al pari di quanto successe ai progenitori nell’Eden, il prezzo della conoscenza è la dannazione, è la rottura del patto con dio. Rilevo però una sottile contraddizione rispetto a questa tesi, che pure domina il libro a partire dalla programmatica e fondamentale Prefazione al lettore cristiano. In realtà le conoscenze di Faust, che egli ottiene dannandosi, sono esposte al lettore, vengono messe a sua disposizione nel libro, quasi a volerci dire che la dannazione, l’uscita dal seminato portano comunque ad un avanzamento delle conoscenze di cui l’umanità può beneficiare. Questa contraddizione, che è a mio avviso il cuore del mito di Faust, rappresenta l’elemento di congiunzione tra l’aspetto medievale del Faust di Spies e la sua modernità, e può essere indubbiamente indicato come l’aggancio che ha reso possibile la rielaborazione del mito nei secoli successivi.
Vi è poi un’altra morale sottesa alla vicenda di Faust, a mio avviso tipicamente luterana e protestante. Faust stringe il patto con il diavolo all’inizio del racconto: periodicamente gli sorgono dubbi ed angosce per ciò che ha fatto, e cerca una via d’uscita, cerca di rompere il patto e di ritornare ad essere un buon cristiano. Ciò però, secondo la concezione luterana di dio e del rapporto uomo-dio, è impossibile: non esiste perdono, non è possibile recuperare la fede, dio è inflessibile con chi lo ha rinnegato indipendentemente dal suo comportamento successivo, così come dio riconosce la grazia e la salvezza per sola fide, secondo uno dei dogmi della riforma, che tanta parte ha avuto nel modellare la società capitalistica occidentale come ancora oggi la conosciamo.
Leggendo il libro di Spies si risale quindi alle radici di uno dei miti che più ha permeato l’espressione artistica moderna, e si entra appieno nell’atmosfera drammatica che caratterizza il primo secolo della riforma luterana in Germania. La funzione didattica del libro, la necessità che venisse letto da molti, ne fanno però anche un libro leggero e piacevole, pur se ovviamente sconta anche strutturalmente il fatto di essere stato scritto oltre 400 anni fa. Suggerisco, a chi volesse approfondire l’evoluzione del mito di Faust, una lettura tematica che comprenda, nell’ordine, Spies, Marlowe, Goethe, Bulgakov, Mann: sarebbe un viaggio letterario fantastico, dalle sorgenti alla foce di un fiume a tratti sotterraneo che attraversa tutti i territori della letteratura moderna, e che lascia spesso sulle loro rive frammenti e detriti di cui è difficile stabilire la provenienza ma che possono essere riutilizzati per nuove, imponenti costruzioni.
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Frammenti di un mondo vacuo che ritorna
Stendhal, scrittore caotico e disordinato, lasciò molte opere incompiute, tra le quali spicca sicuramente il 'Lucien Leuwen', uno dei suoi indubbi capolavori letterari. Fra queste vi sono anche i 'Ricordi di egotismo', frammento di un’opera di memorie cui lo scrittore lavorò per poche settimane all’inizio dell’estate del 1832, quando si trovava, in qualità di console, a Civitavecchia.
Nelle intenzioni dell’autore i Ricordi avrebbero dovuto coprire quasi un decennio della vita di Stendhal, il periodo che va dal giugno del 1821 – quando lascia Milano per non cadere nelle grinfie della polizia austriaca che lo sospettava di appoggiare i carbonari, rientrando a Parigi – al novembre 1830 – allorché parte per Trieste essendovi stato nominato console dal nuovo regime orleanista. Come andò è noto: Metternich non espresse il gradimento per il console liberale e Stendhal fu inviato nella noiosa Civitavecchia come console presso lo stato pontificio.
Proprio per sfuggire alla noia che prova nella sonnacchiosa città di estrema provincia Stendhal, che ha da poco dato alle stampe Il rosso e il nero, inizia a scrivere le memorie della sua vita durante la restaurazione, durante il regno degli odiati Borboni, che rappresentava per Stendhal la negazione di tutto ciò in cui credeva, il trionfo – ancor prima che della reazione – della stupidità e della vacuità. Come detto, i Ricordi d’egotismo sono poco più di un frammento, in quanto le poche settimane in cui Stendhal ci lavorò gli permisero di descrivere di fatto solo il primo anno della sua vita parigina, e sono un frammento anche dal punto di vista stilistico, in quanto il manoscritto non fu mai rivisto dall’autore (fu pubblicato per la prima volta solo nel 1892) e si presenta quindi abbastanza disomogeneo e a volte sconnesso, colmo di divagazioni, di spunti che probabilmente Stendhal intendeva sviluppare in seguito, di appunti e note dell’autore in alcuni casi di difficile interpretazione senza le (per la verità stringate) note a margine del curatore della elegante, vecchia edizione SE che ho letto.
Pur con questi limiti, i Ricordi di egotismo rappresentano un testo molto importante per comprendere da un lato la personalità di Stendhal, il suo pensiero politico e i tratti della sua psicologia, dall’altro lo spirito di un mondo talmente antistorico che sarebbe presto stato spazzato via dalla logica ferrea della realtà, ed infine per conoscere alcuni dei personaggi che in tale mondo si trovavano a vivere, molti dei quali essendosi riciclati per far dimenticare il loro passato napoleonico quando non rivoluzionario.
Stendhal riesce quindi, in queste pagine sia pur frammentarie, nell’intento – dichiarato nel primo capitolo – di '…far dimenticare al lettore gli eterni “Io” che qui troverà scritti', presentandoci una galleria di personaggi colorita e a tratti picaresca, riuscendo attraverso questi a descriverci la Francia smarrita e vacua del dopo-Napoleone.
Tutto è ovviamente filtrato dallo sguardo dell’autore, dalla sua capacità analitica e critica, che si esercita anche verso sé stesso, soprattutto nei primi capitoli, che ci parlano della sua disperazione per aver dovuto lasciare Milano e Metilde, la donna tanto amata che non gli concesse mai più di un’intima amicizia. Stendhal in quei primi mesi parigini vive di dolore e di noia, trova Parigi peggio che brutta, insultante per il mio dolore ed accarezza l’idea del suicidio, oltre a quella di approfittare del suo dolore per uccidere Luigi XVIII. Toccante, a mio avviso, per il candore con cui l’autore si confessa, è l’episodio raccontato nel terzo capitolo. Tre suoi amici di allora, vedendolo malinconico, organizzano una serata con alcune prostitute: Stendhal si apparta con Alexandrine, una ragazza molto bella che gli piace, ma non riesce a combinare nulla, perché il pensiero di Metilde si impossessa di lui. Gli amici naturalmente lo prendono in giro e per anni lo soprannomineranno 'babilano'.
Tra i personaggi che Stendhal ci presenta ricordando il primo periodo del suo ritorno a Parigi un rilievo particolare assume La Fayette, che frequentava – al pari del nostro – il salotto della Signora De Tracy, moglie del filosofo illuminista. Stendhal dice di venerarlo per il suo coraggio e per il suo passato, ma non gli risparmia gli strali acuminati della sua pungente ironia, descrivendolo mentre ultrassessantenne, nel 1821, 'viveva alla giornata, tra pensieri scarsi… non si occupava d’altro che di strofinarsi da dietro alle sottane di qualche bella ragazza (vulgo tastarle il culo)'.
Le descrizioni del salotto De Tracy e degli altri luoghi in cui si ritrova una società varia ma in generale vuota di valori, intellettualmente e moralmente corrotta, sono tra le pagine più intense e divertenti dell’opera, e rappresentano tra l’altro un topos letterario che diverrà in qualche modo centrale nella letteratura francese del XIX e dell’inizio del XX secolo. L’emarginato Stendhal, che in quell’epoca sopravvive con pochi soldi, guardato con sospetto tanto dalle autorità quanto dai salotti per il suo radicalismo politico, si vendica così a posteriori delle grettezze e degli opportunismi che lo circondavano.
Annoiato dalla società Parigina, pochi mesi dopo il suo arrivo Stendhal compie un viaggio in Inghilterra, sulle tracce dell’amatissimo Shakespeare. Se da un lato sarà soddisfatto dall’aver avuto la possibilità di vedere alcune opere del bardo interpretate dal grande Kean, dall’altro non manca di farci notare come nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, dove la borghesia ormai domina incontrastata, accumulare denaro è ormai la sola preoccupazione delle classi dominanti, che vedono la cultura e l’arte come una inutile perdita di tempo, mentre gli operai inglesi, con la loro giornata lavorativa di 18 ore, sono molto più poveri dei poveri francesi od italiani, che almeno hanno più tempo libero. Durante questo viaggio inglese, quasi a dimostrarci un equilibrio in via di recupero rispetto al dolore dovuto alla separazione da Metilde, Stendhal ci racconta di un altro incontro con una prostituta, durante il quale 'tutto va bene'.
Stendhal dedica anche alcune pagine a Giuditta Pasta, la celebre cantante che riuniva nel suo salotto parigino i rifugiati milanesi, che per Stendhal fu una carissima amica e che rappresentava per lui il legame con Milano. Anche in queste pagine l’autore prende lo spunto per parlarci dei suoi gusti in ambito artistico, specialmente quelli musicali: venera Cimarosa e Mozart, mentre definisce fanfaronate le opere rossiniane.
Molti altri sono i personaggi e le situazioni che questo breve volumetto ci presenta, ma la sua accennata frammentarietà, accentuata dalla tendenza di Stendhal a divagare continuamente per analogia o per associazione, rende difficile seguire un filo logico anche di rendiconto, ragion per cui lascio al lettore inoltrarsi nei meandri della narrazione stendhaliana. Basti dire che a mio avviso i Racconti di egostismo rappresentano probabilmente il primo tentativo della letteratura romantica dell’800 di affrontare un tema – quello del recupero della memoria soggettiva che si fa anche affresco sociale – che quasi un secolo dopo sarebbe stato portato per così dire a compimento da Marcel Proust, non a caso francese e non a caso figlio di Stendhal e di Balzac.
Stendhal probabilmente concepisce i Racconti di egotismo insieme come un esorcismo ed una vendetta rispetto al periodo più difficile della sua vita, quando si trovò solo e sbandato sia in senso personale sia in senso sociale. A differenza di quanto avviene in genere nei suoi romanzi, non racconta 'in media res', ma subito dopo che il mondo da lui descritto si è dissolto con la rivoluzione di luglio. Ciò gli permette probabilmente di apparire un buon profeta rispetto al destino di quel mondo, alla sua vacuità e vanità, che egli riassume ad un certo punto magistralmente così: 'l’unica loro preoccupazione era che i loro capelli, aggiustati in modo da formare un rotolo sulla fronte, non s’appiattissero'. Oggi, che viviamo in un clima culturale e politico per molti versi simile a quello della restaurazione, nel quale senza alcun Congresso di Vienna ci viene imposto di tornare a modelli sociali ed economici prebellici, quanta gente che pensa solo a non permettere che i propri capelli si appiattiscano ci circonda?
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Il doppio straniamento del formalista Šklovskij
E’ uno strano destino quello di Zoo o Lettere non d’amore di Viktor Šklovskij su internet: l’autore dichiara espressamente nel titolo ciò di cui il libro non parla, eppure la maggior parte delle recensioni (per la verità numerose) che si trovano in rete scritte da chi lo ha apprezzato, dalle più concise a quelle più analitiche, lo considerano uno dei più bei libri d’amore mai scritti, e molte si affannano (anche sulla base di indizi disseminati dall’autore nel corso del tempo) a cercare di capire se Alja, la destinataria delle lettere di cui si compone il libro, sia esistita davvero e chi fosse.
Credo che da un lato queste recensioni, questa caccia al tesoro nascosto sarebbero piaciute a Šklovskij, al suo amore per lo straniamento, ma dall’altro lo avrebbero fatto ironicamente sorridere della sua capacità di avviluppare molti lettori, grazie alle capacità evocative della sua prosa fatta di frasi brevi ed essenziali come versi, in una sorta di doppio straniamento, del quale le singole parti, annullandosi vicendevolmente come in un gioco di specchi, riportano alla semplicità ed alla evidenza della dichiarazione programmatica che è scolpita nell’introduzione alle Lettere, laddove Šklovskij scrive: E io vorrei scrivere come se non ci fosse mai stata letteratura. Scrivere, per esempio: “Stupendo è il Dnepr, quando il tempo è sereno”. Non posso: l’ironia si mangia le parole.
Šklovskij, il formalista Šklovskij, vuole, deve scrivere della cultura russa, della rivoluzione, della vita degli emigrati a Berlino, della loro nostalgia e del loro rapporto quasi edipico con la madrepatria: vuole però farlo da letterato, non da cronista. Ricorre quindi ad un topos classico della letteratura ottocentesca, quello del romanzo epistolare tra un uomo ed una donna da lui amata. Devia quindi la nostra attenzione di lettori, facendoci credere che parlare di letteratura, di emigrazione, di Russia e di rivoluzione sia il ripiego dell’innamorato cui è stato proibito, dalla donna che gli sfugge ed è visibilmente seccata dalle sue insistenze, di parlare d’amore. Senonché è lo stesso Šklovskij a dirci che parlare d’amore, riprendere i cliché della letteratura antecedente è ormai impossibile, perché l’ironia si mangerebbe le parole. L’amore del protagonista per Alja è quindi semplicemente un vestito finto, la maschera di carta nera che Šklovskij si trova in mano nel cuor della notte, che solo indossata gli permette tuttavia di scrivere della sua vita berlinese, dei tempi di cui è testimone. E così si torna al punto di partenza: le Lettere sono non d’amore perché parlano d’altro, anche se è necessario che l’opera d’arte per essere tale abbia una forma, una struttura determinate, accettate e riconoscibili.
Questa forma, nell’edizione Einaudi da me letta, è fatta da ventitré lettere, da una Epigrafe e da una Introduzione. Ciascuna Lettera ha una sua precisa fisionomia: molte sono dedicate al ritratto di alcuni dei più importanti esponenti della intelligencija russa espatriati dopo la rivoluzione; altre analizzano in generale il rapporto tra la cultura russa e quella occidentale, altre ancora sono quasi dei piccoli saggi sul rapporto tra l’uomo e le macchine, nell’epoca in cui si delinea il dominio di queste ultime e il tentativo rivoluzionario di emancipazione dell’umanità, rispetto al quale – almeno nella sua forma realizzata – Šklovskij nutre più di un dubbio, non essendo bolscevico, anzi avendo partecipato anche ad attività contro il governo dei soviet (all’epoca simpatizzava per il partito Socialista-Rivoluzionario).
Senza nulla togliere alle lettere centrate su singoli personaggi – alcune – come quelle che parlano di Chagall, di Pasternak o di Ivan Puni sono molto belle e abbozzano la loro personalità anche in relazione alle radici culturali da cui provenivano – credo che le Lettere più interessanti ed importanti in un’ottica critica siano proprio quelle di carattere più generale rispetto al clima sociale e culturale vissuto da Šklovskij ed alle sue convinzioni rispetto al ruolo dell’intellettuale in tale clima.
Da questo punto di vista credo che una delle Lettere più importanti sia la Lettera introduttiva, non a caso Diretta a tutti, a tutti, a tutti. Tema della lettera: le cose rifanno l’uomo. In essa Šklovskij dichiara il suo amore per la velocità e l’automobile, riprendendo un motivo tipicamente futurista. L’automobile tra l’altro è stato il vero motore della rivoluzione, perché ha permesso che si diffondesse rapidamente e che avesse successo. Tuttavia Šklovskij, proprio analizzando il ruolo anche simbolico che l’automobile ha poi assunto nel paese dei soviet, ci ammonisce sull’effetto che la macchina e la velocità hanno sull’uomo, perché per il solo fatto di essere disponibili devono essere giustificate, e questo trasforma l’uomo che le usa. Dice Šklovskij (così abbiamo anche un esempio della sua poesia in prosa):
L’arma fa l’uomo più coraggioso.
Il cavallo lo muta in cavalleggero.
Le cose fanno con l’uomo ciò che egli fa di esse.
La velocità richiede uno scopo.
Sono parole che denotano una posizione pienamente conscia della contraddittorietà del progresso tecnologico , quasi antitetica a quella acriticamente appiattita sulla sua esaltazione tipica del futurismo e anche dell’immaginario sovietico. Il tema del fascino che la macchina esercita sull’uomo e nel contempo del pericolo che essa rappresenta in quanto fattore di alienazione dei rapporti umani torna anche in altre Lettere, non meno affascinati di questa.
La Lettera terza ci regala una delle metafore più belle dello scrittore, che non può essere agricoltore, e coltivare in ogni stagione lo stesso appezzamento, ma è un nomade, e con la mandria e la moglie passa a nuova erba.
Bellissima e terribile è la Lettera ottava, nella quale Šklovskij si scaglia contro le futili convenzioni sociali (i pantaloni che devono avere la piega, il modo di mangiare prescritto dalle buone maniere) e, ricordando un episodio biblico e i pogrom ucraini ci ricorda come le diversità culturali siano state spesso nella storia utilizzate come causa sufficiente di orrendi massacri.
La Lettera tredicesima contiene una bellissima descrizione di Berlino, del suo anonimato agli occhi dell’espatriato russo, una città dove non c’è inverno, dove i palazzi escono da un negozio di palazzi in serie. E’ la descrizione di una struggente solitudine, che si contrappone a quelle che in altre Lettere ci fa di Pietroburgo, città dove Šklovskij viveva, ma anche a quelle di altre città tedesche, giudicate più vive, come Amburgo e Dresda.
La Lettera quindicesima è forse quella più importante, perché in essa Šklovskij ci espone compiutamente la sua concezione della letteratura e dell’arte. Leggendola si chiarisce il fondamento teorico della scuola formalista di cui Šklovskij è uno dei più autorevoli esponenti, e si chiarisce anche – nel senso che ho cercato di esprimere sopra, il significato profondo di questo libro, che provocatoriamente è proprio citato come esempio del tentativo di uscire dai limiti del romanzo ordinario congiungendo momenti singoli attraverso la storia dell’amore di un uomo per una donna. Questa concezione dell’opera d’arte come un mondo di cose che esistono in modo autonomo chiaramente entrerà presto in conflitto nella russia staliniana con i dogmi del realismo socialista ma, come lo strutturalismo del secondo dopoguerra si incaricherà di dimostrare e come già questo libro esemplifica splendidamente, possiede una carica rivoluzionaria ed eversiva che non poteva essere sopportata da qualsiasi ortodossia zdanoviana, e proprio per questo ne fu tra le principali vittime.
Il libro prosegue con altre bellissime Lettere cariche di storie, apologhi e considerazioni che riguardano gli argomenti già accennati, sino a giungere alla penultima, l’unica scritta da Alja, nella quale all’autore viene intimato di smetterla di scriverle, e all’ultima, nella quale Šklovskij inoltra al Comitato Centrale la richiesta di poter tornare in Russia. Šklovskij tornò effettivamente in URSS poco dopo, e nonostante i suoi precedenti di antibolscevico vi restò fino alla morte nel 1984.
Nello stesso periodo in cui Šklovskij era a Berlino, tra i molti emigrati russi vi era Vladimir Nabokov, che sulla sua esperienza scrisse Il dono. Un confronto tra le due opere non può a mio avviso che mettere in evidenza la grandezza intellettuale di Šklovskij rispetto al livore aristocratico di Nabokov nei confronti della nuova Russia. Come detto Šklovskij non era bolscevico, ma ciò non gli impedisce di riconoscere – pur identificandone subito i limiti congeniti (La trazione della rivoluzione è passata dice al termine di una Lettera) – la grande funzione anche simbolica che l’ottobre 1917 ha rappresentato per l’umanità intera. La sua vicenda personale non gli impedisce, a differenza di quanto accade a Nabokov, di vedere la straordinaria energia intellettuale scatenata da quell’evento e dai fatti che l’hanno preceduto e, come detto, tornerà nella sua terra a dare il proprio contributo pur in un contesto che non condivideva e dove correva sicuramente dei rischi, dimostrandosi anche in questo più grande dell’autore di Lolita. Del resto il suo formalismo ha come detto uno straordinario contenuto analitico rispetto alla funzione dell’opera d’arte, e non si risolve certo nella astratta e reazionaria arte per l’arte nabokoviana.
Un grande intellettuale, dunque, la cui complessità andrebbe approfondita come antidoto in questi tempi in cui la superficialità di giudizio regna sovrana a tutti i livelli delle relazioni umane e sociali.
Resta infine da spiegare il titolo dell’opera: gli intellettuali russi vivevano per lo più a Berlino nel quartiere dove c’è lo Zoo (Tiergarten). C’è però un sottinteso più profondo, evidenziato dalla poesia di Velemir Chlebnikov posta da Šklovskij in epigrafe all’opera: la solitudine e l’isolamento dei russi a Berlino, attorniati da una cultura in cui non si riconoscevano, era paragonabile alla condizione degli animali nello zoo cittadino.
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La spietata analisi di una costruzione sociale...
...giunta al termine della sua storia
'Armance' è il primo romanzo scritto da Stendhal. Pubblicato nel 1827, è sicuramente un’opera più acerba dei tre grandi romanzi della maturità, ma contiene in sé tutti gli elementi formali e di contenuto che fanno di Stendhal uno dei scrittori più rivoluzionari della storia della letteratura, per la sua capacità di analizzare e criticare la società in cui vive, per la sua dichiarata convinzione che i rapporti sociali determinati dalle effettive condizioni materiali ed economiche fondano e condizionano l’organizzazione sociale, il comportamento dei singoli e i rapporti interpersonali.
Anche da un punto di vista formale e stilistico, questo romanzo d’esordio – in realtà Stendhal ha già 44 anni, ed ha già alle spalle una vita da funzionario napoleonico nonché la pubblicazione di saggi e scritti sull’Italia, sulla musica e sulla letteratura – ci permette subito di entrare in quell’atmosfera di scrittura essenziale, cronachistica, da molti percepita come letterariamente sciatta, che caratterizza i romanzi del nostro, e che lo ha fatto contrapporre da sempre, soprattutto nel cuore dei francesi, al quasi contemporaneo maestro indiscusso della bella pagina, Flaubert. Scherzando (ma non troppo) si potrebbe dire che la divisione che esiste in Francia tra 'stendhaliani' e 'flaubertiani' assume la stessa importanza che nel nostro paese ha quella tra chi preferisce il panettone e chi il pandoro: ogni paese ha le spaccature culturali che si merita in base alla propria storia.
Personalmente, pur non disprezzando affatto la bellezza della pagina flaubertiana, ritengo che lo stile di Stendhal sia la diretta conseguenza, quasi programmatica della piena coscienza che egli ha della funzione politica della letteratura: parafrasando Von Clausewitz, ritengo si possa dire che per Stendhal la letteratura non è che la continuazione della politica con altri mezzi. Come giustamente dice Piergiorgio Bellocchio nella breve ma preziosa prefazione a questa vecchia edizione Garzanti del romanzo (prefazione su cui tornerò) il romanzo costituisce per Stendhal "… lo strumento capace di connettere i suoi molti interessi e di analizzare e soddisfare i suoi bisogni più intimi." E’ indubbio che gli interessi di Stendhal in quegli anni siano soprattutto legati alla necessità di analizzare la società in cui viveva, la Francia della restaurazione post-napoleonica, che lo aveva emarginato (vivrà sino al 1822 a Milano) in quanto organico al passato regime, in quanto repubblicano di antica fede, in quanto in definitiva potenzialmente sovversivo. La pagina di Stendhal deve quindi essere essenziale, non badare alla forma se vuole essere reale, se vuole trasmettere quanto più direttamente possibile il contenuto politico delle storie che narra.
La storia di 'Armance' è, secondo i canoni più ortodossi del romanticismo, la storia dell’amore infelice tra due giovani: Armance de Zohiloff, ragazza povera di origini russe che è stata accolta nella casa della zia, la brillante e nobile M.me de Bonnivet, e Octave, visconte di Malivert, suo cugino, rampollo di una delle famiglie più antiche di Francia. Questa semplice cornice, che – soprattutto agli occhi del lettore contemporaneo potrebbe apparire convenzionale – è distorta da due elementi di grande importanza per lo sviluppo del romanzo, che certamente rappresentarono i motivi per cui il romanzo fu quasi ignorato all’epoca ma che oggi ne testimoniano la grandezza. Il primo è che Stendhal ambienta la storia nel 1827, come esplicitamente riportato nel sottotitolo. Egli quindi scrive in presa diretta, descrive i salotti dell’aristocrazia restaurata, analizza la loro fatuità, il revanchismo nei confronti della borghesia, il loro vano opporsi all’inevitabile dominio della ricchezza rispetto alla nascita, il loro essere a loro volta ormai schiavi del denaro nel momento stesso in cui queste cose accadono, in cui le certezze seguite alla restaurazione del 1815 stanno lasciando il passo al presentimento di ciò che accadrà nel luglio 1830. Il secondo elemento di meraviglioso realismo della storia, che all’epoca fu senza dubbio percepito come eccessivamente scabroso, sta nell’impotenza sessuale di Octave.
Octave de Malivert è in assoluto il vero protagonista del romanzo, rispetto al quale la figura di Armance non assume altro ruolo che quello di spalla, di strumento per poter dispiegare compiutamente l’analisi del dramma psicologico e sociale del giovane visconte. Egli è la plastica rappresentazione dell’impotenza dell’aristocrazia, formalmente di nuovo al potere, di arrestare l’avanzata dei tempi nuovi,di fermare il suo annientamento in quanto classe dominante.
L’impotenza sessuale di Octave, mai dichiarata apertamente da Stendhal e anche contraddetta nel finale ma facilmente deducibile da una serie di indizi sparsi nel racconto, è la metafora della sua impotenza ad uscire dalle contraddizioni oggettive in cui il suo essere un rappresentante dell’aristocrazia in quel preciso momento storico lo pone. Octave è un ribelle, legge i libri proibiti degli illuministi, le riviste giacobine. Sa perfettamente che l’aristocrazia a cui appartiene così com’è non ha futuro. Ormai, ci dice in una delle sue tante riflessioni, essa fonda il proprio potere solo sulla necessità di difendersi dagli assedianti e non più su una leadership culturale e morale sulla società intera. D’altro canto egli è anche perfettamente consapevole che la borghesia, fondando il potere sul denaro e l’arricchimento personale, spinge il mondo verso una nuova, sconosciuta volgarità. Infatti l’aristocrazia, pur aborrendo la borghesia e gli arricchiti dalla rivoluzione, ha ormai assorbito da questi ultimi la piena coscienza che il potere è strettamente legato al possesso del denaro, più che ai diritti di nascita. Per questo nei primi capitoli del romanzo Octave, con le sue idee giacobine prima mal sopportate in società, diverrà una star dei salotti nel momento in cui, grazie all’approvazione di una legge di risarcimento dei nobili, entrerà in possesso di una considerevole fortuna. Allora le sue idee, il suo comportamento scostante verranno letti come elementi di brillantezza, e le madri faranno a gara per proporgli una figlia in moglie.
Armance, sottilmente disprezzata in società in quanto povera, è l’unica che apprezza Octave per quello che è, e fatalmente i due finiranno per innamorarsi. Questo amore, però, non viene dichiarato. Octave, a causa del suo mostruoso segreto ha infatti deciso di non innamorarsi mai, e Armance teme le conseguenze sociali riservate alla povera ragazza che sposa il bel partito. La storia si dipana quindi lungo una serie di equivoci e sotterfugi tra i due giovani, che non hanno il coraggio di dichiararsi reciprocamente. Sono pagine molto belle, in cui emerge la capacità di Stendhal di analizzare l’animo dei protagonisti, e che arricchiscono il romanzo di una componente schiettamente romantica e intimistica che magnificamente si accompagna all’ordito sociale e politico. Quest’ultimo appare clamorosamente nel capitolo XIV, nel quale Octave e Armance discutono apertamente delle contrapposizioni sociali e del disagio di Octave rispetto al ruolo che la società gli ha cucito addosso. Il capitolo si chiude con una riflessione del narratore, che dice tra l’altro che "la politica che viene a interrompere un racconto così semplice può fare l’effetto di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto", immagine che – ci dice Piergiorgio Bellocchio, Stendhal utilizzerà anche nei romanzi maggiori, a testimonianza del ruolo politico che l’autore attribuisce ai suoi romanzi.
Gli equivoci tra Armance e Octave cadranno in conseguenza di un episodio drammatico e del fatto che Armance erediti da parenti russi una piccola fortuna, per venire subito di nuovo innescati dalle macchinazioni di un parente, che – guarda caso – agisce spinto da sete di denaro. Il romanzo si chiude in tragedia, con un finale che dal punto di vista narrativo appare quasi posticcio. Dal capitolo XXV in poi sembra infatti che si apra una nuova storia, forse troppo macchinosa per avere l’appeal di ciò che la precede, ma pienamente coerente con il tema, che pervade tutto il libro, del disfacimento prossimo venturo di un ordine sociale non coerente con i tempi. Questo finale, nel quale tra l’altro come detto sembra contraddetta l’impotenza sessuale di Octave, è forse il segno più tangibile dell’inesperienza di Stendhal in quanto narratore, ma nulla toglie alla forza della vicenda narrata, forza che si dispiega a vari livelli, tra i quali vorrei citarne almeno tre.
Innanzitutto c’è la straordinaria capacità analitica di Stendhal nell’identificare la dicotomia allora esistente tra la pretesa dell’aristocrazia di preservare il proprio predominio politico e le dinamiche di una società ormai di fatto dominata dalla borghesia, di cui peraltro l’autore percepisce i vizi d’origine, perlomeno a livello sovrastrutturale. In questo senso appaiono quasi profetiche alcune considerazioni sparse qua e là nel romanzo, che prevedono direttamente l’imminente fine della monarchia dei Borboni. Vi è poi, strettamente connesso a questo, il tema del dominio del denaro quale fattore che determina le relazioni tra le classi e gli uomini, che costituisce la piattaforma su cui si innalzerà di lì a pochissimo il monumento letterario eretto da Balzac. Infine, ultimo ma non meno importante degli architravi su cui è costruito 'Armance', l’uso quasi metaforico di un tema, come quello dell’impotenza, dai chiari risvolti metaforici e psicanalitici, inusitato per l’epoca e che quindi – anche se arditamente – può avvicinare questo romanzo a tematiche squisitamente novecentesche.
'Armance' costituisce in definitiva la prova generale di un autore che ci avrebbe regalato tre dei più importanti romanzi della letteratura di ogni tempo (non dimentichiamoci infatti di 'Lucien Leuwen'), e come tale si può dire che sia una prova perfettamente riuscita, ancorché passibile di affinamenti.
L’edizione Garzanti da me letta, risalente al 1982, è preceduta come detto da un breve saggio di Piergiorgio Bellocchio, intellettuale della nuova sinistra degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, fondatore tra l’altro dei Quaderni piacentini. Consiglio di leggerlo attentamente, perché pur nella sua brevità e schematicità, questo saggio a mio avviso è un chiaro esempio di come la critica letteraria di matrice marxiana riesca ad interpretare in maniera illuminante le radici profonde della produzione letteraria. Indubbiamente questo compito nel caso specifico è in certo qual modo facilitato dal sostrato dichiaratamente politico cui Stendhal si appoggia per narrarci le sue storie.
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Argomenti scomodi affrontati con armi inadeguate
'Memento mori', del 1959, è il terzo romanzo pubblicato da questa prolifica autrice, della quale Adelphi ha curato la pubblicazione in Italia di buona parte dell’opera. La Spark, di origine scozzese, convertitasi al cattolicesimo prima di iniziare a scrivere romanzi, visse a lungo in Italia, per la precisione in Toscana, dagli anni ‘60 alla morte, avvenuta nel 2006.
Il titolo rivela che 'Memento mori' è un libro che parla di morte, o meglio di vecchiaia e di morte. Lo fa con un tono e uno stile di scrittura tipicamente anglosassoni, che a mio avviso risente sin troppo di un certo dickensismo di ritorno, francamente anacronistico in un’opera scritta nella seconda metà del XX secolo. E con questo dico subito che questo libro non mi è piaciuto.
Lo spunto è tuttavia interessante: alcune persone iniziano a ricevere periodicamente telefonate anonime nelle quali gli viene detto “Ricordati che devi morire”. Le prime vittime telefoniche dello sconosciuto molestatore sono Lettie Colston, dama della corona, suo fratello Godfrey, ex industriale in pensione, e la moglie di lui Charmian, famosa scrittrice. Tutti e tre sono anziani o molto anziani, e ciascuno di loro reagisce diversamente alle telefonate. Il romanzo diviene in breve corale, perché attorno a questo nucleo centrale di personaggi iniziano a ruotare parenti, amici e servitori (siamo nell’high society inglese), nessuno con meno di settant’anni, i cui reciproci rapporti ci portano a scoprire gli equivoci e le ambiguità che hanno caratterizzato, nei decenni precedenti, le relazioni apparentemente affettuose e formalmente corrette tra i vari personaggi, in realtà fatte di odii repressi, di amori e tradimenti risalenti ai primi anni del secolo, di inconfessabili vizi e anche di ricatti. Nel corso della storia numerosi personaggi moriranno, la più parte per cause naturali e comunque nessuno a causa del misterioso personaggio che telefona.
L’atmosfera da thriller con cui si apre il libro, data dal mistero delle telefonate anonime, è accompagnata e presto soppiantata dal tono leggero e ironico con cui la Spark narra le vicende dei protagonisti. Ciascuno di essi è infatti alle prese con gli acciacchi fisici ed anche mentali dell’età, e questo stato senile, descritto con crudeltà leggera dalla Spark, condiziona il loro essere ed il loro modo di relazionarsi agli altri. Così Charmian, la scrittrice che ormai da decenni non scrive più, sembra stia perdendo la memoria e questo irrita in particolare suo marito; Godfrey è ormai ridotto a soddisfare ciò che resta dei suoi trascorsi appetiti sessuali pagando una giovane donna perché gli faccia vedere le cosce; la fedele cameriera e dama di compagnia di Charmian ormai è costretta a vivere nel reparto geriatrico di un ospedale, in compagnia di un gruppo di combattive ultraottantenni; la paranoica Dame Lettie cambia continuamente il suo testamento sospettando di volta in volta l’uno o l’altro dei suoi amici di essere il misterioso molestatore telefonico. Il libro si trasforma quindi presto in una sorta di commedia di costume, nella quale complicate questioni di eredità e di famiglia divengono il pretesto per scavare a fondo nelle piccolezze e nelle debolezze dei personaggi e forse, nelle intenzioni della Spark, di un’intera classe sociale. Tra le singole vicende che compongono questa storia corale ve ne sono di buffe, di laide e di macabre, ma il libro a mio parere si sfilaccia in tanti episodi, come detto di sapore vagamente dickensiano, senza riuscire a darsi una precisa e credibile fisionomia. Tutte queste storie non costituiscono una vera e propria trama, cosa che di per sé potrebbe non essere un male; tuttavia leggendo non si sfugge all’impressione che l’autrice si avviti su sé stessa, e che al termine di ogni capitolo il lettore si trovi ancora al punto di partenza, e che quindi la mancanza di trama derivi da una incapacità dell’autrice di sviluppare coerentemente ed in profondità il tema centrale del romanzo, quello della senilità e della morte, ragion per cui è costretta ad affastellare spunti, storie, personaggi che divengono man mano sempre meno credibili. Alla fine comunque le telefonate non avranno un autore: ciascuno dei personaggi le riceve infatti, sembra di capire, da persone diverse, tanto che l’ispettore (in pensione) che indaga sul caso dirà che a suo modo di vedere l’autore è la morte stessa, rivelando in modo a mio modo di vedere goffo e quasi didascalico la funzione metaforica delle telefonate.
Un ulteriore elemento di caduta narrativa è dato a mio modo di vedere dal finale, in cui la Spark – conclusa la serie di episodi e di storie individuali – è costretta a dirci cosa ne sarà dei personaggi rimasti vivi. Una conclusione 'alla American graffiti' che francamente consacra la sensazione di avere di fronte un romanzetto forse ben scritto ma di poco spessore.
Non ha spessore come romanzo che descrive una classe o un gruppo sociale ormai al tramonto, perché la coralità del romanzo è data, come detto, dall’affastellarsi a mio avviso disordinato e quasi casuale di singoli episodi, molti dei quali decisamente di genere. Non ha spessore neppure come romanzo che voglia descriverci il dramma individuale della vecchiaia, perché nonostante alcuni personaggi siano indubbiamente ben caratterizzati (su tutti a mio avviso quello di Jean Taylor, la ex cameriera di Chairman) prevale la sensazione che la maggior parte siano poco più che delle forzate macchiette, messe lì in maniera del tutto strumentale (si pensi alle figure del poeta Percy Mannering, del critico Guy Leet e del sociologo Alec Warner). In alcune pagine, è vero, il romanzo ci parla in maniera molto diretta e senza falsi tabu della vecchiaia e della morte, (a mio avviso le pagine migliori sono quelle dedicate al reparto geriatrico Maud Long) ma ciò non basta ad elevarlo a capolavoro, anche perché questo pasticcio (nel senso culinario del termine) ci è servito in una salsa stilistica che non si eleva al di sopra della correttezza formale.
Ritengo che nella scelta stilistica e nel modo in cui il romanzo si sviluppa si possa anche vedere in trasparenza una forte attenzione dell’autrice per il pubblico: temi ostici come la vecchiaia e la morte, di cui l’autrice sentiva probabilmente l’urgenza di parlare in quanto religiosa, vengono quasi anestetizzati da uno stile di scrittura facilmente riconoscibile dal pubblico britannico come domestico, oltre che dall’uso del formato thriller come catalizzatore dell’attenzione.
Non dimentichiamoci che siamo negli anni ‘50, in un’epoca quindi in cui le convulsioni della guerra erano alle spalle da poco, ed in cui al pubblico era necessario fornire prodotti culturali rassicuranti e funzionali allo sviluppo dell’incipiente società affluente. Con questo romanzo Muriel Spark a mio avviso dimostra di collocarsi in una terra di mezzo, equidistante rispetto agli intellettuali che rifiutano il ruolo di veicolo dell’ideologia dominante e quelli che la assecondano: è come se proponesse all’attenzione del pubblico un tema scomodo pur non avendo il coraggio di portare alle dovute conseguenze questa scomodità, per cui si limiti ad indagarlo superficialmente e per di più avvalendosi di armi narrative del tutto convenzionali.
Muriel Spark asserì che il suo essere divenuta cattolica era stata la premessa del suo essere divenuta scrittrice di romanzi, perché attraverso la religione aveva potuto guardare alle cose nel loro insieme. Credo che questo 'Memento mori' (che peraltro è il primo romanzo della Spark che leggo, per cui il mio giudizio potrebbe essere parziale) dimostri come questo sguardo d’insieme mancasse alla scrittrice, perlomeno nel 1959. Dando per assodato che alla Spark non interessasse essere realistica, ritengo di poter dire che il suo tentativo di ricordarci attraverso questo romanzo l’ineluttabilità e nello stesso tempo l’inaccettabilità della morte sia sostanzialmente fallito, proprio perché il non realismo in tutte le sue varianti richiede, per elevarsi oltre il genere, una cifra narrativa ed una coerenza interna che qui mancano.
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Gli interrogativi posti 2.500 anni fa...
... con cui ci confrontiamo ancora oggi
Leggere l’Edipo Re di Sofocle significa toccare con mano quanto la nostra civiltà, con tutte le sue contraddizioni, sia debitrice – nei suoi tratti fondamentali – della cultura ellenica. Questa tragedia, non a caso uno dei capolavori assoluti del teatro greco, è infatti di una stupefacente complessità e contiene una straordinaria stratificazione di temi, ciascuno dei quali rimanda a grandi interrogativi esistenziali e sociali, ancora oggi oggetto di dibattito tra differenti scuole di pensiero e strettamente connessi alle fondamenta stesse della nostra costruzione culturale e sociale.
Il mito di Edipo è uno dei più conosciuti dell’antichità, ma visto che è molto articolato e l’Edipo re ne narra solo una parte è bene riproporlo dettagliatamente, anche per iniziare ad addentrarci nei meravigliosi meandri culturali di cui è composto.
A Laio, re di Tebe, viene vaticinato che suo figlio lo ucciderà. Quando sua moglie Giocasta partorisce Edipo, decidono di consegnare il neonato ad un pastore, perché lo abbandoni sul Monte Citerone. Il pastore, mosso a pietà, consegna Edipo ad un altro pastore, di Corinto. Questi porta il piccolo Edipo al re di quella città, Polibo, che non avendo figli lo adotta.
Edipo cresce come figlio di Polibo e futuro re. Da un oracolo viene però a sapere che è destinato ad uccidere suo padre e a giacere con sua madre. Sconvolto, per sfuggire al tremendo vaticinio abbandona Corinto e vaga per le montagne. Un giorno, nei boschi della Focide, ad un trivio Edipo dopo un alterco uccide un vecchio e la sua scorta.
Edipo giunge quindi a Tebe: la città è sotto il giogo della terribile Sfinge, che ne custodisce la porta sottoponendo ai viandanti il famoso insolubile indovinello, uccidendo chi non sa risolverlo. Edipo risolve l’enigma, la Sfinge si uccide e i tebani, grati, proclamano Edipo re della città: egli quindi sposa Giocasta e ha da lei quattro figli, due maschi e due femmine.
Tutti questi fatti sono antecedenti all’azione della tragedia di Sofocle, che inizia con Tebe preda di una pestilenza. Edipo ha mandato il cognato Creonte a Delfi per sapere dall’oracolo cosa fare per liberare la città dal morbo. Creonte torna e rivela ad Edipo che la causa della peste è il fatto che l’assassino di Laio vive in città, e deve essere trovato. Edipo, saputo da Creonte che Laio a quanto si sa è stato ucciso dai briganti mentre si recava dall’oracolo, emana un editto che decreta la maledizione e l’esilio dell’assassino del vecchio re. Creonte suggerisce ad Edipo di ascoltare il vecchio indovino cieco Tiresia, che forse potrà dire chi è il misterioso assassino. Tiresia viene convocato, ma si rifiuta di dire ciò che sa, ammonendo Edipo di non chiederglielo, altrimenti la verità sarà troppo dura da sopportare. Edipo si infuria per il rifiuto, insulta e minaccia Tiresia, che andandosene gli rivela che lui, Edipo, è l’assassino di Laio. Edipo, convinto che Laio sia stato ucciso da briganti, non solo non crede a Tiresia, ma sospetta che il vecchio sia stato lo strumento di un complotto di Creonte per detronizzarlo. Nel drammatico dialogo tra Edipo e Creonte quest’ultimo cerca di discolparsi, rivendicando la sua lealtà. Arriva Giocasta, che cerca di rassicurare Edipo, raccontandogli di come lei e Laio decisero di abbandonare il loro figlio perché morisse, e come in seguito Laio fu ucciso ad un trivio. Edipo chiede a Giocasta di essere più precisa circa la morte del primo marito e dalle risposte di lei comincia a capire di essere davvero l’uccisore di Laio. Siccome c’è un testimone, un pastore che da allora vive in campagna, Edipo lo manda a chiamare per sapere con certezza se sia l’assassino del re; quindi racconta a Giocasta della terribile profezia per cui avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre, e di come questa sia stata la causa che lo spinse ad abbandonare Corinto. Giunge a Tebe un messaggero che porta la notizia della morte di Polibo: Edipo quindi può salire sul trono di Corinto. Giocasta accoglie la notizia come la prova che la profezia di cui le ha parlato Edipo non si avvererà: suo padre è infatti morto di morte naturale. Il messaggero rivela però che Edipo non è figlio di Polibo: lui stesso lo portò alla reggia dopo averlo avuto da un pastore tebano sul monte Citerone. Giocasta, che ormai ha capito tutto, si ritira nella reggia. Giunge il vecchio pastore, che dopo molte insistenze di Edipo racconta di come diede il bambino proprio al corinzio che ha di fronte: quel bambino è proprio Edipo, che ormai, avendo compreso di non avere potuto nonostante tutto evitare l’avverarsi della terribile profezia, si ritira urlando nella reggia, dove scopre che Giocasta si è impiccata, e si acceca con le spille della sposa/madre.
La tragedia si chiude con Edipo cieco che dopo un dialogo con Creonte e uno struggente addio alle figlie abbandona Tebe. Sofocle scriverà anche il seguito della vicenda in Edipo a Colono.
Bellissima e tragicissima storia, quindi, intorno alla quale è stato detto e scritto moltissimo, tanto che oggi – soprattutto grazie alla lettura del mito in chiave psicanalitica – il termine edipico è entrato nell’uso corrente.
Indubbiamente la trasposizione freudiana della vicenda, secondo la quale il figlio, per affermare la propria personalità e la propria sessualità, deve simbolicamente uccidere il padre e giacere con la madre è il lascito oggi più usato, ma anche abusato e banalizzato, del mito di Edipo e della tragedia di Sofocle. Ve ne sono però moltissimi altri, e tra questi, senza pretesa di esaustività di fronte a un così grande capolavoro, cercherò di illustrare brevemente quelli che ritengo più importanti.
La prima considerazione da fare a mio avviso riguarda la struttura dell’opera. Con Sofocle la tragedia greca raggiunge forse l’apice: egli accentua l’importanza degli episodi rispetto al ruolo del coro, ed esalta la funzione del dialogo tra i protagonisti, che a volte avviene anche a tre voci (nelle tragedie di Eschilo molto spesso l’attore interloquisce solo con il Coro o con il Corifeo). Questo fatto, accanto ad un uso del monologo esteso e riflessivo, da un lato esalta l’importanza della personalità del singolo, della sua psicologia nel determinare la vicenda, e dall’altro deprime specularmente l’importanza e l’influenza del sentire collettivo. La tendenza all’emarginazione del coro, che diverrà palese in Euripide, può essere letta come il segno dell’evoluzione della società e della cultura ateniesi (siamo in piena epoca di Pericle e Sofocle ricopre cariche pubbliche) verso modelli nei quali l’uomo, con il suo pensiero, la sua individualità e i suoi bisogni, è l’oggetto dell’azione pubblica e quindi dell’arte. La democrazia ateniese produce forme d’arte che non a caso saranno il modello di quelle prodotte dalla nascente democrazia borghese del XVIII e XIX secolo: il teatro di Sofocle è il grande precursore del teatro moderno anche nella sua struttura scenica.
In questo quadro, la figura di Edipo, la sua humanitas, la sua ribellione di fronte al fato e la sua sconfitta finale pongono come detto una serie di problemi ancora oggi in gran parte irrisolti.
Edipo può essere visto come il loico: si ribella al suo destino sino al punto di lasciare tutto per sfuggirgli. Risolve con la logica ed il ragionamento l’enigma posto da forze oscure, misteriose e che vengono dal passato (la Sfinge viene dal remoto oriente), e grazie alla logica conquista il potere. Potrebbe rifiutarsi di sapere la verità, come gli consigliano Tiresia ed il pastore, ma anche quando intuisce che sapere lo porterà alla disgrazia non si tira indietro: sapere è un imperativo morale, ed egli non può sapere di non sapere.
Formalmente è innocente, perché ha ucciso il padre e sposato la madre senza esserne cosciente, tuttavia non può non subire le conseguenze di ciò che ha fatto, proprio perché non è stato in grado di impedire che la profezia si avverasse, che generasse, attraverso di lui, i suoi macabri frutti.
Egli è quindi innocente e colpevole ad un tempo ma a mio avviso è emblematico che simbolicamente, attraverso la cecità, giunga ad un grado di conoscenza superiore, tanto che nell’Edipo a Colono egli, nel bosco sacro, predirà a Teseo il glorioso avvenire di Atene. L’interrogativo centrale posto dalla tragedia riguarda quindi a mio avviso le nostre responsabilità individuali rispetto alle conseguenze oggettive dei nostri atti, a prescindere dal nostro grado di consapevolezza e di conoscenza. Questa domanda, se ci si pensa bene, costituisce uno dei grandi interrogativi di sempre e in particolare dell’oggi. Quanto ciascuno di noi, con i propri normali comportamenti, con il proprio stile di vita, contribuisce allo sfacelo ambientale e sociale del mondo, allo sfruttamento della parte ricca del pianeta su quella povera, alle guerre che vengono scatenate per mantenere questo status quo? Cosa possiamo fare? Dobbiamo sapere ed essere coscienti, anche se questo ci può generare fastidi e problemi o è meglio continuare a vivere nell’indifferenza? Edipo ci indica una strada, difficile da percorrere, ma che è quella percorsa dai singoli e dalle masse che hanno cambiato la Storia. Edipo è l’opposto degli indifferenti contro cui si scaglierà Gramsci. Come è al tempo stesso colpevole ed innocente, si può dire che sia contemporaneamente sconfitto e vincitore.
Altri ci diranno che quella di Edipo era 'hybris', superbia di sapere, e che questa sua hybris è la causa per cui viene punito dagli dei: sono quelli che ci vogliono nell’ignoranza, e sono gli stessi che ci dicono che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che l’ingiustizia è giusta perché i migliori sono sempre al posto giusto, che abbiamo il diritto di vivere meglio di altri perché la nostra civiltà è superiore. Non dovremmo ascoltarli, dovremmo edipicamente uccidere questi cattivi padri per sostituirci a loro.
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La tragicommedia di un filisteo
*° Attenzione: Anticipazioni sulla trama °*
'Il dottor Gräsler medico termale' non è una delle opere più conosciute di Arthur Schnitzler, anche perché ormai da tempo, dopo l’ultima edizione Mondadori che risale al 2000, non è più reperibile in libreria. Eppure a mio modo di vedere è un’opera importante per comprendere appieno la poetica di questo grande scrittore del primo novecento mitteleuropeo.
Si tratta di un lungo racconto, o di un romanzo breve, fedele quindi in ciò ad un modulo narrativo caro all’autore, pubblicato nel 1917, dunque in piena guerra, nello stesso periodo in cui Schnitzler lavorava ad alcuni dei suoi capolavori, come Fuga nelle tenebre e Il ritorno di Casanova. Rispetto a queste due opere, tuttavia, 'Il dottor Gräsler medico termale' appare come prova a sé, non tanto per la tematica trattata, come vederemo, ma rispetto al tono generale del racconto.
Nella bella prefazione a questa vecchia edizione Oscar Mondadori il curatore, Giuseppe Farese, parla giustamente, a proposito di Gräsler, di personaggio tragicomico, e da tragicommedia è l’andamento complessivo del racconto.
La tematica generale è quella che Schnitzler sta esplorando insistentemente in quel periodo, e che infatti costituisce anche l’asse portante de Il ritorno di Casanova: l’incapacità di accettare l’invecchiamento. Non è un caso, a mio avviso, che il medico Schnitzler, da tecnico del corpo umano, superata la soglia dei cinquant’anni approfondisca nelle sue opere questa tematica: possiamo congetturare che, di fronte ai segni per lui facilmente riconoscibili e diagnosticabili della imminente decadenza fisica ci fosse la percezione di sé stesso come immutato ed immutabile dal punto di vista intellettuale e del sentimento, e che questo dualismo tra la capacità razionale di analizzare gli effetti sul proprio corpo dello scorrere della vita ed una percezione di sé come ancora e sempre giovane egli abbia tentato di analizzarlo ed anche di esorcizzarlo attraverso la scrittura. Sempre nella prefazione di Farese è al riguardo illuminante la citazione tratta da frammenti ed aforismi scritti da Schnitzler circa un decennio dopo, nel 1927, laddove asserisce che "come idea base della tragedia moderna bisogna sempre considerare l’insolubile contraddizione tra ragione e sentimento (perciò la tragedia moderna si trasforma necessariamente in tragicommedia)."
A questa tematica ne 'Il dottor Gräsler medico termale' se ne affiancano altre, anch’esse tipicamente schnitzleriane: la distanza tra l’apparenza dell’essere, determinata dalle convenzioni sociali, e la vera essenza della personalità di ciascuno, nonché il tema della solitudine esistenziale del protagonista, contrapposta alla sua apparentemente piena integrazione sociale.
Se le tematiche trattate sono quindi tipiche dell’autore, il tono del racconto è decisamente più leggero rispetto a quello dei due capolavori sopra citati ed in generale a quello della gran parte delle opere di Schnitzler. È appunto un tono da tragicommedia, ed anche se nel racconto non mancano situazioni e momenti decisamente tragici, vengono anch’essi immersi in una atmosfera ovattata, quasi di ineluttabilità fisiologica: è anche questo tono che contribuisce al fascino indubbio del racconto.
La vicenda narra alcuni mesi della vita di Emil Gräsler, medico di mezza età che esercita la professione in uno stabilimento termale di Lanzarote durante l’inverno e in quello di una cittadina termale tedesca durante l’estate. Significativamente, a mio avviso, il nome di battesimo del protagonista compare solo in un paio di occasioni. In genere Schnitzler lo indica per cognome, quasi sempre come dottor Gräsler, a sottolineare con indubbia ironia il fatto che le sua personalità, quasi la sua stessa esistenza è definita unicamente dal ruolo professionale e sociale che ricopre. Questo ruolo poi non è affatto elevato: Gräsler ha rinunciato in gioventù ad occuparsi della vera scienza medica, ha trovato più comodo viaggiare per nave come medico di bordo e più tardi occuparsi delle finte malattie della buona borghesia che andava a passare le acque, peraltro adattandosi a esercitare in località non di primo piano.
All’inizio del racconto Gräsler sta lasciando Lanzarote all’inizio della primavera: pochi giorni prima la sorella, che viveva con lui, si è inspiegabilmente suicidata. Dopo poche settimane Gräsler giunge nella cittadina termale tedesca dove esercita, e qui incontra Sabine, una giovane donna per cui sente subito una forte attrazione. Quando Sabine gli farà pervenire una lettera nella quale si dichiara disposta a sposarlo, Gräsler tuttavia risponde prendendo tempo, ritornando, visto che la stagione è finita, nella sua città natale. Qui incontra un’altra ragazza, Katharina, graziosa commessa con la quale intreccia una relazione, ma anche il suo rapporto con lei è segnato da incertezze e da continui confronti con Sabine, che spera ancora di riconquistare. Nel contempo ritrova in soffitta le lettere della sorella e, non resistendo alla curiosità di leggerle, scopre in lei una personalità sconosciuta, una vita piena di relazioni amorose ed anche la probabile causa profonda del suo suicidio.
Quando Katharina muore di scarlattina, e dopo un tardivo tentativo di riavvicinamento a Sabine, Gräsler sposa, in un inatteso finale, una vedova sua vicina di casa, leggera e dalla vita non irreprensibile, con la quale, insieme alla figlia di lei, sbarca a Lanzarote per una nuova stagione medica.
Il cuore del racconto è indubbiamente nel rapporto tra Gräsler e Sabine: è qui che si gioca il destino esistenziale del protagonista, nell’incontro con una donna volitiva, affine a lui (è stata infermiera) e che gli vuole sinceramente bene. Gräsler tuttavia sarà incapace di accettare il compimento di questo rapporto, nonostante lo desideri fortemente, perché è incapace di pensare che qualcuno possa amarlo per quello che è, e costruisce quindi secondi fini, interpretando secondo i suoi schemi precostituiti le parole e gli atti delle persone che lo circondano. Si chiede sempre perché le persone fanno quello che fanno, dicono quello che dicono, rapportando tutto a sé stesso, alla sua coscienza di essere un 'filisteo', un uomo sulla soglia della vecchiaia cui gli altri si avvicinano solo per il suo (peraltro modesto) status sociale ed economico.
Sabine capisce il dramma di Gräsler, sa che lui da solo non potrà uscire da questa gabbia della coscienza e fa l’unica mossa che può fare per tentare di liberarlo: prende l’iniziativa in maniera forte e pratica. Ottiene però l’effetto opposto, quello di rendere espliciti i sospetti di Gräsler, che tuttavia non avrà neppure il coraggio di di troncare definitivamente, preferendo dilazionare il chiarimento. E’ da notare, perché a mio avviso significativo nell’ambito dell’universo borghese in cui si muove Schnitzler, che rinunciando a Sabine Gräsler rinuncia anche alla possibilità di rilevare una clinica e quindi di migliorare la sua condizione sociale.
Se Sabine è il personaggio centrale della storia, Katharina è senza dubbio quello più commovente, con la sua semplice sensibilità e la sua capacità di dare senza chiedere nulla in cambio.
Il contraltare di Gräsler è la sorella, che a differenza di lui ha vissuto, si è abbandonata alle sue passioni (nascondendole tuttavia accuratamente, da buona borghese): il suo suicidio ci dice però che per Schnitzler anche questa strada non è praticabile per trovare un equilibrio esistenziale, perché inevitabilmente la fine dell’età della passione porta alla fine del senso della vita.
E allora, dopo tutte le occasioni perse per il suo egoismo esistenziale, al buon filisteo Gräsler non resta che arrendersi, consegnandosi alla vedova Sommer, che sicuramente della triade femminile del racconto è quella che più approfitterà delle debolezze di Gräsler a proprio vantaggio, tanto che già nella scena finale dello sbarco a Lanzarote sembra di percepire l’incipiente spuntare di protuberanze cornee presto molto ramificate sul capo di un Gräsler ormai in trappola.
Con 'Il dottor Gräsler medico termale' un maturo Schnitzler ci regala quindi un altro dei suoi mirabili personaggi, e l’approfondita analisi psicologia che ne conduce è sapientemente amalgamata ad un tono leggero, come detto da tragicommedia, che quasi stupisce soprattutto se si ricorda che Schnitzler scrive nel pieno del conflitto mondiale che avrebbe portato al completo disfacimento del suo mondo. Sembra quasi che lo scrittore abbia voluto prendersi una pausa di fronte all’orrore che indubbiamente lo circondava, o meglio che abbia voluto concentrare nella figura di questo medico irresoluto e 'filisteo' la sua incapacità di accettare ciò che avveniva in sé ed attorno a sé.
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La Belle Époque alla periferia d’Europa...
... tra sarcasmo e nostalgia
Alberto Savinio è un intellettuale oggi forse un po’ messo in disparte nel nostro paese, anche se senza dubbio è stato uno dei protagonisti della vita culturale, italiana e non solo, a cavallo della seconda guerra mondiale. Fratello di De Chirico (Savinio è uno pseudonimo), fu scrittore, musicista e pittore, frequentò la Parigi delle avanguardie negli anni ’20 e, nei pochi anni del dopoguerra in cui visse (morì nel 1952) fu critico letterario e culturale del Corriere della Sera.
Questo volume della piccola biblioteca Adelphi, una collana la cui eleganza, anche formale, non cesserò mai di lodare, ci propone una delle opere letterarie più divertenti di Savinio, 'Infanzia di Nivasio Dolcemare', accompagnata da due brevi racconti con lo stesso protagonista e da alcuni frammenti inclusi da Savinio stesso nell’edizione originale dell’Infanzia.
Tema del lungo racconto – edito nel 1941 – sono i primi anni di vita ad Atene del protagonista, che – come si deduce facilmente dal nome – altri non è se non lo scrittore. I De Chirico infatti nacquero e vissero sino alla morte del padre ingegnere ferroviario nel 1905, quando Savinio era quattordicenne, nella capitale greca.
Di quella Atene Savinio, che per tutta la vita fu legato alla Grecia come culla della cultura europea, rievoca con tono sarcastico l’alta società, di cui la sua stessa famiglia faceva parte, costituita da un insieme di personaggi in genere ridicoli, ottusi, vuoti ed ignoranti, che non si rendono conto che il loro mondo, quello di una società cristallizzata nei riti, nelle formalità e nelle gerarchie che l’alta borghesia al potere ha ereditato dall’aristocrazia, prima detronizzata poi resa complice, sta per finire per sempre, per l’inevitabile procedere del progresso tecnologico dalla stessa borghesia alimentato. Il tono sarcastico con il quale Savinio descrive quel mondo è accentuato dall’ambientazione provinciale, in quella Grecia che, come ci dice nella Prefazione alla vita di un uomo «nato» posta all’inizio del libro, “geograficamente… fa parte dell’Europa, pure gl’indigeni di quella terra, se non addirittura Non Europei, si considerano Europei Minori certamente”. Eppure quella Grecia tra ‘800 e ‘900 è guardata da Savinio anche, come detto, con l’occhio di chi sa riconoscerne lo splendore passato e ne apprezza la diversità culturale rispetto all’occidente. Questo, probabilmente accanto al fatto che dopotutto si tratta di una rievocazione della sua infanzia, rende la scrittura di Savinio, sempre estremamente elegante e a tratti di una forza esplosiva, uno strano miscuglio tra gusto per la satira e afflato nostalgico di un mondo che, sia pur vacuo e provinciale, è stato il suo mondo. A questo si aggiunga anche il fatto che Savinio, da sempre su posizioni elitarie, antiegalitarie e persino antidemocratiche, era approdato ad una sorta di liberalismo superoministico, come appare chiaro in un passo della già citata Prefazione: “Noi pensiamo con sempre maggiore insistenza alla necessità di una biologia superiore: biologia morale, biologia intellettuale… Allora… apparirà l’equilibrio perfetto tra «massimi» raggiunti dall’uomo in sé e fuori di sé, l’affinità tra aristocrazia e stile, il consorzio degli ottimi.” E’ chiaro quindi come Savinio, pur smascherando con la sua prosa tagliente le piccolezze intellettuali e morali della società della sua infanzia, in fondo la rimpianga con una forte carica di nostalgia, perché da lui ritenuta comunque migliore a ciò che le è succeduto. Della società ateniese descritta in 'Infanzia di Nivasio Dolcemare' Savinio può infatti scrivere che ”Non si dava terreno più favorevole per conoscere al tatto quell’Europa così frolla e salottiera, quell’Europa di «buoni europei» che alla prima cannonata del 1914 stirò le membra già stanche e debilitate, e nel settembre 1939 vide andare in polvere anche le ossa di quelle membra.”
Tuttavia, al netto delle contraddizioni ideologiche di Savinio, è indubbio che 'Infanzia di Nivasio Dolcemare' sia un libro delizioso, in cui possiamo rilevare una forte affinità con gli scritti di un altro grandissimo scrittore del ‘900 italiano, anche lui su posizioni di destra, quasi che tra i due corresse un rapporto diretto: Carlo Emilio Gadda. Come in Gadda, in questo testo di Savinio il linguaggio diviene strumento essenziale del racconto, ed in questo si vede chiaramente l’influsso fondamentale che sullo scrittore Savinio esercitò la frequentazione delle avanguardie parigine ed europee negli anni ’20. A differenza che in Gadda, però, la prosa di Savinio non è fatta di spericolate invenzioni tra dialetto, neologismi e onomatopeie, non serve a travolgere la narrazione lineare: è piuttosto una prosa che fonda la sua novità nel dosaggio sapiente di una correttezza formale classica posta al servizio del sarcasmo e dell’ironia. Un tardo e senza dubbio minore epigono di questo modo di scrivere, di rappresentare situazioni comiche attraverso un linguaggio formalmente inappuntabile possiamo trovarlo in Piero Chiara, guarda caso anche lui scrittore di estrazione liberale.
Un primo elemento di sincera comicità di Infanzia di Nivasio Dolcemare è dato dalla scelta dei nomi dei personaggi, che non risparmia neppure i membri della sua famiglia. Se il padre del piccolo protagonista è chiamato semplicemente il Commendator Visanio, altro anagramma dello pseudonimo dello scrittore, quasi a sottolineare una sua affinità elettiva con il genitore, la madre fa di nome Trigliona, da cui sembra che Savinio non le attribuisse eccelse virtù intellettuali. Ma è il cosmopolitismo provinciale dell’haute societé ateniese che permette a Savinio di scatenarsi. Ci sono quindi un generale Papatrapatàkos, un prefetto Tsapatatakalàkis e un sindaco Pestromastranzòglu, una musicista tedesca nomata Deolinda Zimbalíst, un dottor Naso, un domestico Pelopide, un colonnello Tsè, una contessa Mincìaki, solo per citare i casi più clamorosi.
Il lungo racconto si apre con uno dei capitoli più brillanti, dedicato alla nascita di Nivasio, e prosegue poi raccontando, anche per interpolazioni che sfilacciano mirabilmente l’andamento lineare del testo, storie ed aneddoti relativi ai vari personaggi che ruotano attorno a casa Dolcemare, di cui alcuni veramente spassosi. Su tutti a mio avviso la vicenda di Ermione, domestica della signora Trigliona che, sospettata di un furto, si rivelerà essere in realtà un uomo, il famoso bandito Cosma il Saltatore (commento della Signora Trigliona alla notizia: ”E quante volte quell’uomo mi ha vista nuda!”), le altre storie legate alla servitù di casa Dolcemare nonché le vicende di casa Trimis. Non mancano momenti di tenera poesia, come quello dell’iniziazione sessuale di Nivasio adolescente o quello del sogno del protagonista alla ricerca del “Dio Greco”. Ed è proprio questo della ricerca delle radici della cultura greca uno dei fili conduttori del racconto oltre a quello dominante della descrizione di una vacua società morente. Significativamente Savinio narra la sua infanzia in terza persona, ed a volte il narratore interviene per dirci cosa pensa oggi un Nivasio ormai adulto: in questi interventi traspare sempre il grande amore di Savinio per il retaggio culturale greco, per l’anima mediterranea di quel popolo. Il senso di oggettività del racconto è esaltato da un altro elemento di grande impatto ironico: le lunghe note che Savinio distribuisce a piè di pagina per puntualizzare, spiegare, contestualizzare un episodio, un nome od una situazione.
Il racconto principale è seguito da due molto più brevi, già ricompresi nell’edizione del 1941. Il primo narra la storia di Spiridon Luis, il vincitore della maratona dei primi giochi olimpici moderni, svoltisi ad Atene nel 1896, cui un Savinio quinquenne poté assistere. Anche in questo racconto traspare da un lato il sarcasmo per il provincialismo della società greca, dall’altro il fatto che nella figura di Luis e nella sua impresa un intero popolo, ormai dimentico del suo glorioso passato, trovò un motivo di identificazione e di orgoglio.
L’ultimo breve racconto, intitolato Senza donne, è quasi un reportage giornalistico, e si riferisce ad uno dei luoghi oggi più conosciuti della Grecia turistica: le Meteore, nei cui monasteri non sono ammesse le donne. Questo spunto permette a Savinio, analogamente a quanto fatto nel racconto precedente, di cogliere le radici classiche della Grecia dei suoi tempi, delle sue consuetudini e della mentalità dei suoi abitanti.
Se 'Infanzia di Nivasio Dolcemar'e è molto divertente e pungente, resta comunque a mio avviso, leggendo, il senso di un’incompiuta: la sapienza narrativa di Savinio, la sua capacità di descrivere attraverso l’ironia sarebbero forse approdate ad un livello superiore se la storia della sua infanzia ateniese fosse stata dilatata, se fosse entrato con maggiore dettaglio nella vita dei suoi personaggi. Invece Savinio si limita a fornircene un assaggio, quasi come succede in quei ristoranti della 'nouvelle cuisine' dove di un piatto buonissimo viene servita una porzione miserrima, che non ci sfama. Molti personaggi che ci vengono presentati in maniera fulminante quanto a capacità di rappresentare un tipo e di farci divertire alle loro spalle scompaiono dopo poche pagine, quasi che Savinio avesse l’ansia di consegnarci un’opera senza ritmo. E’ un peccato, perché di certo sappiamo che non ci sarà alcun seguito alla deliziosa infanzia del piccolo Nivasio Dolcemare, che dovremo accontentarci per sempre di questo piccolo libriccino dalla copertina arancio.
Un’ultima notazione: a un certo punto Savinio parla del processo di decorticazione della Grecia, un tempo terra fertilissima poi spogliata del suolo, che finì in mare. Mi pare metafora attualissima, che rispecchia appieno ciò che i nuovi tiranni di un’Europa asservita al potere del danaro stanno facendo alla Grecia di oggi.
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Uno straordinario piano sequenza
Arthur Schnitzler è stato senza dubbio uno degli autori più importanti del primo novecento: pienamente immerso nel clima culturale della Vienna a cavallo della prima guerra mondiale, è stato il testimone e uno dei grandi narratori delle inquietudini e delle tragedie dei primi decenni del secolo, della catastrofe del conflitto, dello sfacelo dell’impero e dei convulsi anni privi di ogni certezza dell’immediato dopoguerra. Medico e scienziato, nelle sue opere letterarie – centrate spesso su singoli, straordinari personaggi – la patologia individuale ha quasi sempre un ruolo centrale, ma è sempre associata, anzi è la spia precisa, di una patologia sociale, di un malessere collettivo dato dalla falsità e dall’ipocrisia dei rapporti tra le persone, determinato a sua volta dai rapporti sociali vigenti. Ebbe contatti diretti con Sigmund Freud, che lo ammirava perché vedeva in lui quasi la trasposizione in forma letteraria delle sue teorie psicanalitiche; si può dire anzi che lo sviluppo della psicanalisi freudiana e la crescente importanza che nelle opere di Schnitzler assumono le tematiche legate all’inconscio, alla dimensione onirica, alle pulsioni sessuali e alla loro rimozione come fattore determinante i rapporti umani e sociali, siano andati in certo qual modo di pari passo.
Scrittore borghese, Schnitzler – come un altro suo contemporaneo grande borghese di area tedesca, Thomas Mann – è spietato nell’analizzare la dissoluzione di un mondo di falsi valori che sino a pochi decenni prima sembravano guidare infallibilmente il consorzio umano verso nuove magnifiche sorti e progressive. Tuttavia, a differenza di Mann, ed in questo a mio avviso più grande di Mann, egli non si illude che la soluzione della crisi stia nel recupero della purezza delle origini del mondo borghese magari associata alla saggezza delle piccole monarchie tedesche (si vedano in proposito 'Tonio Kröger' o 'Altezza reale'): Schnitzler è austriaco, non è impregnato di spirito e 'kultur' tedesche cui anche Mann soggiace appieno, e se da un lato non ha rimpianti e nostalgie per il mondo che gli si dissolve davanti, dall’altro non è neppure in grado di indicare soluzioni allo sfacelo, non ricerca affannosamente nel letame della Storia i germogli della rinascita. Parlando in termini medici (Schnitzler lo era) egli è grandissimo nella diagnosi, ma non si addentra in improbabili prognosi, il che del resto, come la Storia si è incaricata di dimostrare, non avrebbe avuto molto senso.
Il parallelismo di Schnitzler con Thomas Mann riguarda anche la loro capacità di essere antesignani della rivoluzione novecentesca della letteratura: solitamente – anche se in una maniera sicuramente convenzionale – si fa nascere la letteratura novecentesca propriamente detta con l’uscita de I Buddenbrook, il grande romanzo epico della crisi borghese. Ebbene, nello stesso anno in cui Mann esordiva con il suo capolavoro Schnitzler pubblicava un lungo racconto, 'Il sottotenente Gustl', feroce critica dell’imperialregio esercito, nel quale per la prima volta veniva usata, per narrare l’emblematica vicenda del protagonista, la tecnica del monologo interiore (lancio un accorato appello perché questo racconto, essenziale per capire il ‘900 letterario, venga riedito in Italia!). Siamo nel 1901, ben 21 anni prima dell’uscita di Ulisse e del suo 'stream of cosciousness', ed un allora pressoché sconosciuto medico viennese annunciava già che tutto era cambiato nel modo di scrivere, con una radicalità che sarebbe stata riconosciuta solo alcuni decenni dopo.
Il monologo interiore è la tecnica narrativa con cui, quasi un quarto di secolo dopo, uno Schnitzler ormai affermato costruisce un altro dei suoi capolavori, forse il più celebrato: 'La signorina Else'. Si tratta di un lungo racconto la cui vicenda si esaurisce in poche ore, tra il pomeriggio e la serata del tre settembre di un anno imprecisato, a San Martino di Castrozza, allora (come oggi) una delle località turistiche più note delle Alpi. Else, diciannovenne figlia di un noto avvocato di Vienna, è lì in vacanza da tre settimane, ospite di un grande albergo nel quale soggiornano anche sua zia, il cugino ed alcuni conoscenti. Else è una ragazza, spensierata, senza arte né parte, che sta cominciando a pensare al proprio futuro, naturalmente già perfettamente incanalato verso il ruolo di sposa e madre della buona società: sente però vagamente il richiamo del sesso, di cui ovviamente non ha ancora avuto esperienza diretta, osserva tra lo sprezzante e l’incuriosita i segnali di una relazione tra suo cugino e una donna sposata e si immagina donna spudorata, infedele e piena di amanti.
Nella hall dell’albergo le viene consegnata una lettera della madre, che le ingiunge di chiedere a nome del padre un prestito importante (trentamila gulden, che diventeranno con un successivo telegramma cinquantamila) a Von Dorsday, un conoscente di famiglia di mezza età con fama di uomo d’affari poco onesto e di scapolo impenitente. Si viene così a sapere che il padre, col vizio del gioco, è sull’orlo della bancarotta, che già in passato ha ricevuto ingenti somme da parenti e da amici, che Von Dorsday è l’ultima possibilità prima del carcere e che la dolce vita di Else, fatta di svaghi a Vienna e di soggiorni nelle località alla moda, è ormai insostenibile e forse destinata a cambiare per sempre. Else si sente usata dalla famiglia, e ondeggia tra il rifiuto di chiedere un favore ad un signore di mezza età che disprezza perché nei suoi confronti ha un atteggiamento ambiguo e il dovere filiale, che tra l’altro le potrebbe permettere di continuare a fare la sua bella vita. Nasce in lei il terribile sospetto che la famiglia, conoscendo le mire di Von Dordsay su Else e sulle giovani donne in genere, voglia letteralmente venderla al vecchio puttaniere (ovviamente Schnitzler non si esprime mai così, ma…), e questo pensiero comincia a far vacillare tutte le labili certezze di Else. Ella trova infine il coraggio di parlare con Von Dorsday: Nel corso del drammatico colloquio egli prima sembra negare il suo aiuto, quindi si dice disposto a versare la somma (che sa comunque non essere risolutiva e che, ne è conscio, non rivedrà più) ad una precisa condizione: vedere Else nuda. A questo punto Else, messa di fronte ad un dilemma angosciante e sempre più convinta di essere stata usata dalla famiglia in modo cinico, precipita progressivamente in uno stato di confusione mentale in cui alterna caoticamente momenti di apparente assoluta decisione su cosa deve fare ad altri in cui rivela la sua fragilità psichica. In breve il dramma giunge al suo compimento con modalità che lascio scoprire al lettore.
L’elemento caratterizzante in assoluto questo racconto è l’utilizzo esclusivo del monologo interiore. Tutto si svolge come detto in poche ore, diciamo tra le 17.00 e le 21.00 del tre settembre. Durante questo tempo noi siamo dentro la testa di Else, e non la abbandoniamo un secondo. E’ una sorta, cinematograficamente parlando, di lunghissimo e ininterrotto piano sequenza, fatto di frasi brevi, i pensieri di Else, che divengono sempre più convulse e contraddittorie via via che la sua vicenda assume le tinte del dramma; le frasi dette dagli altri personaggi sono sempre e solo quelle ascoltate da Else, ed è lei, attraverso i suoi pensieri e commenti interiori o attraverso le sue risposte a farci capire la situazione. Il racconto assume così un fascino peculiare, perché la tecnica usata, e la maestria con la quale è usata, riescono davvero a farci percepire appieno l’incalzare del dramma di Else.
Sbaglieremmo però se pensassimo che l’uso del monologo interiore serva a Schnitzler per descriverci solamente il dramma di una persona: come detto la grandezza di questo scrittore va ricercata nella sua capacità di descriverci un’epoca, una società attraverso l’analisi della psicologia dei protagonisti delle sue storie. Così, ne 'La signorina Else' il monologo interiore serve a Schnitzler per sottolineare la distanza tra il formalismo e la banalità delle frasi di Else, dettate dalle convenzioni sociali, in cui abbondano i "signor tale e talaltro", i "gnädige frau", e i suoi veri pensieri; serve a Schnitzler per sbatterci in faccia la grettezza ed il cinismo di Von Dordsay, degno rappresentante dello spirito affaristico su cui è fondata ancora oggi la società; serve infine a Schnitzler per sottolineare i drammi umani, il vuoto di sentimenti e l’abisso sociale sui quali è fondato uno dei pilastri dell’organizzazione sociale borghese: la buona e rispettabile famiglia. La signorina Else presenta quindi a mio avviso tutti i tratti del capolavoro letterario, per la storia narrata, per il valore universale che essa assume, per come è narrata. Ho solo maturato, leggendolo, un piccolo dubbio. Schnitzler scrive il racconto nel 1924, avendo passato la sessantina: mi sembra di poter dire che la società da lui descritta, almeno nei suoi tratti esteriori, fosse già stata spazzata via dalla guerra, appartenesse ad un’epoca che, seppure di pochi decenni prima, fosse completamente diversa. Anche lui, probabilmente, non poteva sottrarsi al fascino sottile che quell’epoca ancora irradiava, anche se – lungi dal rievocarla con nostalgia attribuendole virtù fittizie come faranno ad esempio Roth o Von Hoffmannsthal – la richiama per distruggerne ancora una volta i fondamenti; è come se fosse troppo anziano per rivolgere i suoi strali verso la realtà che lo circondava, sicuramente non priva di contraddizioni: altri, appartenenti alle nuove generazioni, si assumeranno questo compito.
Una notazione sull’edizione. Ho letto il libro nell’edizione 'I corvi' Dall’Oglio del 1984, che però riprende integralmente (credo) quella originale del 1928. Ebbene, lo stile desueto di traduzione, l’italianizzazione dei nomi dei personaggi (il titolo diviene 'La signorina Elsa') e la prefazione di Antonio Baldini, quasi commovente nel suo ingenuo idealismo crociano, nella quale l’autore è lo Schnitzler, contribuiscono secondo me non poco al fascino sottile del libro, fascino che per me è aumentato dal fatto di trovarmi per ventura a vivere nei luoghi in cui il racconto è ambientato.
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Un puzzle difficile da ricomporre
Erik Satie è senza dubbio uno dei musicisti più importanti del periodo a cavallo tra ‘800 e ‘900, ed uno di quelli che meglio ha interpretato i profondi sconvolgimenti sociali, culturali ed artistici che hanno caratterizzato quell’epoca. Emblematico a questo proposito il fatto che due delle personalità artistiche a cui fu più legato, anche dal punto di vista personale furono da un lato Claude Debussy e dall’altro Jean Cocteau: due personalità che nel nostro immaginario appartengono a due epoche totalmente diverse, ma che trovano un loro preciso fil rouge proprio nell’eccentrico compositore normanno.
La musica di Satie prende infatti le mosse da atmosfere pienamente ottocentesche, sia pure rielaborate con una grande originalità, che potremmo definire postimpressioniste, riscontrabili nelle celeberrime Gymnopédies e Gnossiennes composte tra il 1888 e il 1897, per approdare, nelle composizioni del periodo a cavallo della prima guerra mondiale, ad essere una sorta di colonna sonora delle produzioni artistiche delle avanguardie cubiste, dada e surrealista. Satie divenne anzi una sorta di punto di riferimento musicale delle avanguardie, e la sua opera influenzò molti dei compositori del primo e secondo novecento.
Erik Satie (si firmava sempre con nome e cognome, anche nei biglietti trasmessi agli amici) è un coerente interprete dell’epoca che ha attraversato anche per quanto riguarda lo stile di vita e i comportamenti, che per certi versi lo accomunano ad un altro grande intellettuale dell’epoca, che in campo teatrale ha operato una rivoluzione anche più profonda di quella di Satie in campo musicale: Alfred Jarry.
Come il padre di Ubu e della Patafisica Satie visse in povertà, di lui si conosce una sola, breve relazione sentimentale con una donna e morì, sia pure di un ventennio più anziano, per l’abuso di alcool ed assenzio.
Da giovane fu affascinato dall’esoterismo ed aderì alla setta dei Rosacroce: poco più tardi avrebbe addirittura fondato una chiesa, l’"Église Métropolitaine d’Art de Jésus Conducteur", di cui però fu l’unico sacerdote e fedele; deluso da questa esperienza non si interessò più di affari religiosi.
Alla sua morte, gli amici che aprirono la stanza sempre chiusa a chiave del piccolo appartamento in cui Satie viveva ad Arcueil, alle porte di Parigi, (l’unica altra stanza era chiamata da Satie, per le sue dimensioni, l’armadio) trovarono tra l’altro, in un disordine indescrivibile coperto di ragnatele, una vera e propria collezione di ombrelli, mucchi di corrispondenza non aperta, oltre quattromila bigliettini illustrati e scritti da Satie e sette vestiti uguali: il musicista vestiva infatti sempre un completo in velluto grigio, e quando quello indossato era troppo logoro lo sostituiva con un altro acquistandone uno nuovo di scorta.
Se conosciamo bene la musica di Erik Satie, spesso utilizzata anche come colonna sonora di film, questo ponderoso volume di Adelphi, curato da Ornella Volta, musicologa triestina di statura internazionale che ha dedicato gran parte della sua opera al grande musicista francese, ha il grande pregio di farci conoscere la personalità di Satie attraverso la sua vasta produzione scritta. Uso questo termine non a caso, perché gli scritti di Satie raccolti in questo volume non sono, per la maggior parte, scritti redatti con ambizioni letterarie; ci vengono infatti proposti anche frammenti, appunti, testi di discorsi tenuti durante conferenze, aforismi scarabocchiati di notte sotto i lampioni di Parigi, commenti con cui accompagnava le sue composizioni, e persino – in rigoroso ordine alfabetico – i consigli di interpretazione scritti nelle sue partiture. Non viene detto se questa raccolta comprenda tutti gli scritti di Satie oggi disponibili, ma sicuramente, dalla tipologia descritta sopra emerge che la scelta è stata molto ampia.
Proprio l’ampiezza e l’eterogeneità degli scritti raccolti fa emergere quello che è secondo me il limite principale del libro: la sua pessima organizzazione. La gran parte degli scritti, infatti, non hanno, per il comune lettore, un significato in sé (si pensi ad esempio ai consigli di interpretazione delle partiture) ma devono essere commentati per poter comprendere il loro significato nell’ambito dell’opera complessiva di Satie, devono essere contestualizzati. Ora, questi commenti, queste contestualizzazioni nel libro ci sono, e sono anche molto dettagliate e puntuali, ma sono poste in coda all’insieme dei testi, in una sezione (che occupa circa la metà del volume) in cui Ornella Volta ne spiega il significato alla luce delle vicende personali ed artistiche di Satie. Ne risulta la necessità di saltare, subito dopo avere letto un testo, a leggere il suo commento molte pagine dopo, dovendo tornare spesso al testo per seguire il filo del commento. Veramente è incomprensibile che i commenti non siano stati posti in testa o in coda ad ogni singolo testo cui si riferiscono, agevolandone così la lettura critica. Oltre questa critica di tecnica editoriale, mi sento di avanzarne un’altra, più sostanziale, sempre relativa all’organizzazione del volume. La gran massa di testi è organizzata per sezioni logiche: troviamo così scritti raggruppati per ”Introduzioni alle opere”, per ”Articoli”, per ”Corrispondenza”, per ”Teatro” etc. Se a prima vista è un’organizzazione che appare logica, in realtà porta a non poche complicazioni nella lettura: infatti le introduzioni alle poche opere teatrali che Satie ha scritto da solo o in collaborazione con altri, ovviamente utili per comprendere le singole opere, si trovano prima delle opere stesse, con il risultato che leggendo le introduzioni non si capisce nulla delle opere, e quando si arriva alle opere è necessario tornare indietro per rileggere le introduzioni. Si aggiunga che, come detto, Satie ha attraversato un’epoca in perenne mutamento, durante la quale anch’egli ha cambiato ovviamente i propri interessi e le proprie sensibilità, e che quindi il dato cronologico risulta uno di quelli essenziali per farsi un’idea compiuta del pensiero del musicista e della sua evoluzione, e si comprenderà come l’organizzazione complessiva di questo volume sembri fatta apposta per confondere il lettore e tenerlo lontano da una piena comprensione del suo contenuto.
Detto questo, è indubbio che gli scritti di Satie ci regalano anche alcune piccole perle letterarie, che ci restituiscono appieno l’ironia di questo grande musicista, il suo grande sense of humor, la sua capacità di sferzare le convenzioni dell’epoca in cui visse e la sua grandezza di intellettuale a tutto tondo.
Se la prima sezione del libro (intitolata "Ai suoi interpreti") è solo un elenco di annotazioni musicali che può essere letto solo avvalendosi dei commenti di Ornella Volta, la seconda ("Agli altri") è il vero cuore di questo volume, ed in particolare gli Articoli meritano di essere letti attentamente per il loro valore letterario. Colmi di affetto e amicizia sono i due pezzi dedicati rispettivamente a Debussy e a Stravisnsky, che sono anche un’analisi puntuale della loro musica, ma anche molti altri degli articoli scritti per piccole o grandi riviste e quotidiani ci permettono di cogliere la grande ironia di Satie. Piccoli capolavori di humor ed ironia sono le trascrizioni delle conferenze, in particolare quella nella quale ridicolizza garbatamente i critici musicali, e I bambini musicisti in cui emerge – sempre con un tono garbato e sottile – la critica di Satie ai metodi accademici di insegnamento della musica.
In questa sezione sono anche compresi i testi di tre brevi opere teatrali scritte e musicate da Satie, delle quali senza dubbio la più importante a livello letterario è L’insidia di Medusa, del 1913, nella quale le analogie con il teatro di Jarry e la prefigurazione di quello che sarebbe stato chiamato il teatro dell’assurdo emergono appieno.
L’ultima sezione ("A sé stesso") comprende i testi più assurdi di Satie, che ci testimoniano una volta di più della sua capacità di essere, per certi versi suo malgrado, un precursore delle avanguardie novecentesche. Sicuramente da gustare appieno l’inventario della gerarchia sacerdotale della sua chiesa, di cui descrive particolareggiatamente le vesti di cerimonia e fornisce il numero di adepti (i Peneanti neri conversi avrebbero dovuto essere 1.600.000.000). Meravigliosi, anche se purtroppo non gustabili appieno perché mancanti dell’elaborazione grafica, gli annunci economici, che facevano parte dei 4.000 biglietti trovati nel suo appartamento.
Leggere questo volume permette quindi di conoscere molto meglio la poliedrica, eccentrica e per certi versi sconcertante personalità di questo grande musicista, ma questo avviene quasi a discapito del libro stesso, che per la sua organizzazione interna rende estremamente arduo riannodare i numerosi fili che dissemina lungo le sue 350 pagine. Sembra quasi che la curatrice si sia divertita a mescolare le carte, a richiedere al lettore uno sforzo di ricomposizione che somiglia molto a quello necessario per far combaciare le tessere di un puzzle.
Circa a metà del volume sono poste sedici tavole fuori testo, e tra queste vi sono alcune fotografie di Satie. Si fa fatica a riconoscere, in quella testa presto calva, incorniciata da un pizzetto, con occhialini pince-nez, in quel viso così ottocentesco, il grande precursore dell’assurdo in musica, che sin dai tempi della Musique d’Ameublement (à propos: da leggerne assolutamente la descrizione) aveva presumibilmente capito dove saremmo andati a parare quanto a funzione sociale della musica. C’è però una foto di lui con Debussy (scattata da Stravinsky…) in cui ci guarda con un’aria decisamente furbetta. Ecco, lì si capisce chi davvero fosse Satie e quante cose ci insegni ancora oggi.
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Un pugno allo stomaco delle nostre sicurezze
Questo splendido volume Adelphi, edito qualche decennio fa ma fortunatamente ancora in catalogo, ci permette di accostarci al teatro di questo poco conosciuto ma, a mio avviso, straordinario autore, perfetto esemplare dell’intellettuale mitteleuropeo del periodo tra le due guerre, tragico cantore della dissoluzione di ogni speranza di cambiamento seguita alla carneficina della prima guerra mondiale e dell’imbarbarimento dei rapporti umani, sociali e politici che sfocerà nell’avvento del nazismo. Ovviamente fu subito considerato dal regime un artista degenerato e le sue opere (come lui stesso) furono messe all’indice.
Horváth, che dirà di sé stesso: "Sono nato a Fiume, sono cresciuto a Belgrado, Budapest, Bratislava, Vienna e Monaco, e ho un passaporto ungherese… ma, e la patria? Non so cosa sia" e anche: "La mia generazione è notoriamente scettica e si illude di non avere illusioni… Noi siamo nella felice condizione di poter credere di vivere senza illusioni", avrà vita breve e movimentata, e morirà nel 1938, non ancora trentasettenne, schiacciato dalla caduta di un albero mentre era esule a Parigi.
Il volume Adelphi ci propone quattro testi teatrali tra i “meno ignoti” della produzione dell’autore, che fu prolifico ma che è poco tradotto in italiano: nelle più note librerie online è infatti disponibile solo un altro romanzo. I quattro testi proposti sono stati scritti tra il 1930 e il 1932, con il nazismo ormai alle porte, e riflettono, in un crescendo di cupezza e disperazione, il senso della disgregazione di ogni valore e della perdita di ogni speranza.
La prima commedia, 'Notte all’italiana', è una feroce satira delle divisioni della sinistra nella Repubblica di Weimar, della pochezza dei suoi rappresentanti e della sua incapacità di capire quello che sta avvenendo. I repubblicani che rispondono alla “Giornata tedesca” organizzata dai fascisti con una festa (la Notte all’italiana del titolo), che litigano tra di loro e sono convinti che non è proprio il caso di parlare di 'grave minaccia alle nostre istituzioni repubblicane' perché alla reazione manca una solida base ideologica, esemplificano l’ignavia di chi si cullava nell’idea che bastasse essere dalla parte giusta per vincere. Si badi bene che questa commedia, direttamente politica, fu scritta molto prima dell’effettiva ascesa al potere di Hitler. La denuncia della sottovalutazione del pericolo suona, con il senno di poi, tristemente premonitrice, ma il testo sembra ancora dirci che è possibile fermare la barbarie, purché ci si renda conto che è alle porte e ci si attrezzi adeguatamente.
Già con 'Storie del bosco viennese', considerato uno dei capolavori dell’autore, ogni barlume di speranza è scomparso. E’ una storia familiare, in cui compaiono personaggi della piccola borghesia bottegaia e squallidi profittatori, ciascuno dei quali assolutamente incapace di relazionarsi con chi gli sta accanto se non in termini del tutto utilitaristici e con un inusitato cinismo. Solo una ragazza, Marianne, è capace di sentimenti, e ne subirà le durissime conseguenze. Spietata è l’analisi dei rapporti che intercorrono all’interno della famiglia, dove dominano gli interessi personali e materiali e dove le convenzioni sociali si sostituiscono ai sentimenti e financo alla pietà umana. In questo senso la figura della nonna assurge a particolare efferata grandezza per il suo essere al contempo la più vecchia e la più crudele dei personaggi. Il tragico, apparentemente assurdo e nel contempo ironico finale merita (come l’intera “commedia popolare”) di essere collocato tra i capolavori assoluti del teatro del secolo scorso.
Apparentemente più leggera è 'Kasimir e Karoline', storia della fine di un fidanzamento durante l’Oktoberfest. Anche qui però la storia dei due protagonisti è immersa completamente e determinata dalle condizioni della società: Kasimir è stato appena licenziato, e questo fatto è centrale nella crisi che scoppia tra i due, come pure il facile appeal che i due borghesi Rauch e Speer (quest’ultimo dotato di un cognome profetico) che sembrano usciti letteralmente da un quadro di Grosz, esercitano su Karoline rappresentano appieno le possibilità di ricatto che in quel periodo chi disponeva di mezzi poteva esercitare su una piccola borghesia piombata nella più spaventosa insicurezza sociale. Anche qui la condanna di Horváth è senza appello: l’unico personaggio che sembra provare tenerezza per Karoline, il sarto Schürzinger, non esita a “venderla” a Rauch in cambio di un avanzamento di carriera.
Altro capolavoro assoluto è l’ultimo testo, 'Fede Speranza Carità', sul quale si accanirono le ire naziste. Qui c’è una vera vittima, la povera Elisabeth, che viene perseguitata dalla “giustizia” classista e non trova appoggio in alcuna delle persone che incontra e nelle quali ripone la sua fiducia e anche il suo amore, sino all’inevitabile tragica conclusione. Elisabeth è una eroina che merita di essere conosciuta, perché è uno di quei rari personaggi (e in questo sta il capolavoro) che nella propria tragedia personale riassumono e ci spiegano il senso di un’epoca. La breve scena della sua morte, e la sostanziale indifferenza che la accompagna, è una grandissima pagina di letteratura.
Il teatro di Horváth, insomma, è estremamente coinvolgente, ed in alcuni casi rappresenta un vero e proprio pugno nello stomaco delle nostre sicurezze e delle nostre certezze. Oggi, infatti, le cause profonde di quanto accadde in Germania nei primi anni ’30 sono, sia pur attenuate e con fenomenologie diverse, ancora tutte lì, e non è detto che non possano riesplodere, come alcuni segnali fanno presagire. Mentre però l’ignavia, l’acquiescenza e la connivenza politica sono molto simili, mancano un Horváth o un Brecht, intellettuali in grado di suonare, sia pure inutilmente, forti campanelli d’allarme.

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La mirabile storia di una città oggi assassinata
Recentemente mi è capitato di parlare di 'Bruges la morta' di Georges Rodenbach, e non ho potuto fare a meno di paragonare le atmosfere che l’autore ci offre, relative alla città sul finire del XIX secolo, e l’esperienza di visita odierna in una città diventata una delle mete del turismo internazionale.
Questo stridente contrasto lo si ritrova all’ennesima potenza confrontando la Venezia di oggi con le sublimi descrizioni della città decadente, della sua storia e della sua arte che ci vengono proposte da John Ruskin nella sua opera più famosa, 'Le pietre di Venezia'.
Chi oggi si rechi a Venezia e segua il percorso che dalla stazione di Santa Lucia giunge a San Marco passando per Rialto, seguendo le anacronistiche frecce, quasi commoventi nel loro minimalismo, disegnate sugli antichi muri delle case oppure sui vecchi cartelli a fondo giallo, si trova costantemente immerso in una marea umana che a stento riesce a farsi largo nelle calli invase da negozi della più orrenda paccottiglia, da fast-food e pizzerie che vendono a carissimo prezzo i cibi più scadenti che si possano trovare nel nostro Paese, da finti artisti di strada che cercano di smerciare all’estasiato turista russo o cinese copie di tremende croste pittoriche. Se ci si allontana da questo impetuoso fiume del cattivo gusto, perdendosi nelle calli di Cannaregio o di Dorsoduro, ci si trova di fronte alla città fantasma, che in pochi decenni ha più che dimezzato la sua popolazione e che da anni non esprime più un’iniziativa culturale degna di questo nome, avendo venduto tutta sé stessa nello sforzo inane di diventare l’imitazione più sporca e malconcia della sua imitazione ricostruita a Las Vegas. Un degrado inarrestabile, che neppure lo stesso Ruskin – cantore del declino della potenza veneziana – avrebbe potuto prevedere, figlio dell’insipienza e dell’ingordigia di classi dirigenti (e di una società civile che le ha espresse e le esprime) che piuttosto di immaginare lo sviluppo futuro di una città unica l’hanno lasciata sola, spendendo ingenti risorse pubbliche solo per realizzare grandi opere inutili o dannose, a patto che garantissero lauti profitti ai soliti noti e magari qualche 'extra benefit' a chi le aveva programmate.
E’ quindi con un infinito senso di nostalgia, quasi quella che si prova per una persona cara che si sa perduta per sempre, che ci si addentra nella lettura di 'Le pietre di Venezia', libro multiforme, capace di restituirci, da un punto di vista ancora oggi estremamente originale, la storia artistica di questa città e di rapportarla all’evoluzione dell’espressione architettonica europea tra medioevo ed età moderna, ma soprattutto di farci sentire il fascino perduto di Venezia, le sue peculiari atmosfere ormai dissoltesi nel nulla pneumatico del tutto compreso. Perché prima di tutto 'Le pietre di Venezia' è un libro scritto in maniera magistrale da un grande letterato romantico, che ci affascina per la sua prosa evocativa non meno che per il suo sforzo analitico e classificatorio.
Il libro ci narra la storia dell’evoluzione dell’architettura a Venezia dalle origini – i primi edifici sacri di Torcello – sino alla decadenza della potenza economica di Venezia nel XVI e XVII secolo, associando strettamente questa evoluzione ai mutamenti dello spirito, del senso etico e morale dei veneziani. Questa concezione tipicamente romantica dell’evoluzione storica è esplicitata sin dal primo capitolo, fondamentale per capire il senso dell’opera, laddove Ruskin afferma che la storia di Venezia può essere scritta indipendentemente dall’evoluzione del funzionamento del Senato e del potere del doge, che non sono né la causa né l’effetto della decadenza del suo potere, ma "… è la storia di un popolo estremamente omogeneo, discendente dai Romani, lungamente disciplinato dalle avversità, e costretto, per la sua posizione, a vivere nobilmente o a perire."
Ne deriva una concezione della storia molto originale, che per certi versi oggi potremmo definire ingenua, ma che sicuramente contiene il nucleo di un 'materialismo romantico' di grande suggestione, che ancora oggi ci permette – fatte le opportune integrazioni di metodo analitico – di comprendere molto dell’architettura e dell’arte veneziane alla luce delle sue vicende storiche.
Non è un caso che questo libro (scritto nel 1852) abbia di fatto costituito il punto di partenza per l’opera successiva di Ruskin, più centrata sulla critica agli assetti sociali della Gran Bretagna della seconda metà dell’800 da una prospettiva socialista di matrice cristiana. Che questo libro sia stato scritto da Ruskin, oltre che per il suo amore per Venezia e l’Italia, anche con una certa qual funzione didattica nei confronti della società inglese dell’epoca è chiaro infatti sin dalle prime righe, dove l’autore invita l’Inghilterra a tenere conto della lezione di Venezia se non vuole andare incontro 'ad una fine meno rimpianta.'
Il libro è organizzato per capitoli in senso cronologico, e ci porta dai resti degli insediamenti della Venezia primigenia di Torcello e Murano, attraverso lo splendore bizantino di San Marco e la descrizione dei pochi palazzi che ancora conservano tracce di quello stile, verso la magnificenza dell’architettura gotica, che rappresenta secondo Ruskin l’apice della forza culturale e sociale della città lagunare, sino alla decadenza, che per Ruskin è rappresentata dalla corruzione del rinascimento. Ogni capitolo è costruito basandosi su un’osservazione estremamente accurata, a volte quasi maniacale di materiali e particolari costruttivi, spesso corredati dai bellissimi disegni dell’autore (Ruskin fu anche un eccellente pittore). Proprio dall’osservazione e dalla descrizione dei particolari che egli ritiene più significativi per spiegare l’essenza di uno stile architettonico e quindi di un’epoca della storia veneziana Ruskin trae gli elementi per costruire il suo grande edificio teorico.
Per la nostra sensibilità di italiani la condanna senza appello dell’architettura rinascimentale (ma anche della pittura di Tiziano e di Caravaggio), associata ad una vera e propria esaltazione dell’arte gotica, suona difficile da digerire. Certo essa nasce anche dalla innata diffidenza del nordico, anglicano Ruskin verso una forma di espressione artistica tipicamente italiana e cattolica: tuttavia analizzando il testo nella citata prospettiva di 'materialismo romantico' entro la quale si muove Ruskin ci si rende conto di come questo giudizio, che costituisce il cuore del libro, sia pienamente fondato e coerente.
Ruskin, nel capitolo VII, intitolato 'La natura del gotico', giustamente celeberrimo, ci dice che la superiorità dello stile gotico è data dal fatto che alla costruzione dei suoi edifici gli artigiani e le maestranze partecipavano con la propria creatività, non vi era uno schema rigidamente predefinito né dei compiti di ciascuno né dell’aspetto finale dell’opera: secondo una logica cristiana si accettava che ognuno contribuisse con ciò che era in grado di dare quanto a competenze, così da esaltare anche le imperfezioni e le incapacità individuali, che erano intrinsecamente connaturate al progetto. Sembra di sentire riecheggiare, in queste righe che evidenziano la democraticità del modello di costruzione gotico, il marxiano da ciascuno secondo le proprie capacità. Al contrario il rinascimento, che recupera gli stilemi ma anche l’organizzazione del lavoro dell’arte classica greca, è l’arte che cerca la perfezione assoluta, nella quale l’artista predefinisce ogni aspetto costruttivo, e quindi condanna gli artigiani e le maestranze ad essere dei semplici esecutori di disegni concepiti da altri. Questa modalità autoritaria e totalmente gerarchizzata di concepire la realizzazione architettonica è un modello che, ci dice Ruskin, nel XIX secolo in Inghilterra è applicato all’insieme dei processi produttivi, che quindi riducono l’uomo, l’operaio, a semplice esecutore di piccole parti dei prodotti, privandolo della possibilità di esprimere le proprie potenzialità creative. Ancora una volta, quanta affinità con il concetto marxiano di alienazione. Ruskin dice esplicitamente che non è possibile pensare ad una produzione artistica propriamente detta che non sia un bene diffuso, alla cui realizzazione tutti contribuiscano e che possa essere fruito da tutti. Per arrivare a ciò è però necessario cambiare profondamente i rapporti sociali, e da qui nasce il suo interesse per il superamento del modo di produzione del tempo.
Il rinascimento, in particolare la sua evoluzione nel corso del XVI secolo segna anche il prevalere della forma rispetto alla sostanza, parallelamente al decadere delle antiche virtù del popolo veneziano, sostituite da una sfrenata sete di piaceri: questo progressivo degrado della coscienza collettiva è splendidamente illustrato nel capitolo 'La via delle tombe', dove Ruskin, guidandoci tra i monumenti funebri di illustri veneziani, ci mostra come essi divengano sempre più pomposi, sempre più volti a nascondere la morte e sempre più retorici nell’attribuire ai defunti virtù che essi non avevano: persino i simboli della religiosità vengono sostituiti da allegorie di stampo civile, militare e pagano.
Questo bellissimo libro può svolgere anche oggi un’altra utilissima funzione, che è quella di guida sul campo all’architettura veneziana. Le numerosissime e dettagliate descrizioni di chiese, palazzi, monumenti funebri – fra tutte la minuziosa analisi di tutti i capitelli delle colonne di Palazzo Ducale – sono talmente belle che leggendole mi è venuta voglia di portarlo con me le prossime volte che mi recherò a Venezia: leggerne le pagine nei luoghi che descrive e in cui è stato scritto, seguire Ruskin nei suoi minuziosi sguardi aggiungerà senza dubbio altro piacere a quello che ho provato leggendolo a tavolino. Purtroppo osserverò i capitelli di Palazzo Ducale avendo a poche decine di metri una grande nave: povero Ruskin, se sapesse…
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Le molteplici facce...
...del “cantore del Finis Austriae”
Probabilmente pochi scrittori hanno lasciato nella loro vita e nella loro opera tracce così sottilmente ambigue come Joseph Roth.
Ebreo, nato alla periferia dell’impero austroungarico, si trovò ad attraversare un’epoca scandita dalla prima guerra mondiale, dalla frantumazione del vecchio impero, dai convulsi anni del dopoguerra europeo, dall’avvento del nazismo. Ai ritmi drammatici della Storia egli reagì modificando il suo pensiero, o forse mostrandone in pubblico, attraverso le sue opere, le varie sfaccettature, esaltandone via via un lato piuttosto che un altro, probabilmente in funzione del necessario adattamento ad una realtà che progressivamente si andava facendo sempre più cupa e tragica, che progressivamente sfilava alla vista di questo indubbiamente acuto osservatore ogni punto di riferimento a cui di volta in volta cercava di aggrapparsi.
Esemplare di questa sua ambiguità, della difficoltà di classificare l’opera di Roth all’interno delle grandi correnti del pensiero occidentale, è secondo me l’episodio (riportato nell’ottima voce di Wikipedia dedicata all’autore) della quasi rissa cui si giunse al suo funerale a Parigi tra comunisti, legittimisti asburgici, cattolici ed ebrei ortodossi, ognuno rivendicante lo scrittore come rappresentante delle proprie idee.
Va subito detto che tale ambiguità non oltrepassò mai i limiti di un lucido e coerente antinazismo: anzi Roth fu tra i primi intellettuali ad intravedere e a descrivere in termini quasi profetici la catastrofe rappresentata dall’avvento al potere di Hitler, che pagò con un duro esilio.
Azzardo che probabilmente il drammatico finale della sua vita, l’alcolismo che lo portò alla morte emblematicamente pochi mesi prima che sull’Europa si scatenasse la tragedia bellica, sia dovuto – oltre che a vicende personali – proprio alla constatazione del proprio fallimento come intellettuale, della assoluta inadeguatezza delle proprie posizioni rispetto ad un mondo che non poteva non percepire che in continuo, inarrestabile crollo.
Questo imperdibile volume di Adelphi (editore cui si deve in gran parte la riscoperta di Roth in Italia) ha l’indubitabile pregio di mostrarci, attraverso di fatto l’intera produzione di racconti e novelle di Roth, l’evoluzione delle tematiche trattate dall’autore ed anche, per certi versi, la sua evoluzione stilistica, pur in un quadro di piena riconoscibilità di quel suo caratteristico modo di scrivere fatto di frasi brevi e – generalmente – di impersonalità quasi giornalistica (Roth fu anche un eccellente giornalista per importanti testate, soprattutto tedesche).
Dai racconti emerge un Roth sicuramente più sfaccettato dello scrittore classificato come il cantore del finis Austriae sulla base dei romanzi più famosi come 'La marcia di Radetzky' e 'La cripta dei Cappuccini', anche se come vedremo la nostalgia del perduto impero multilingue e multiculturale gioca una parte essenziale anche in questa raccolta.
Il primo racconto, 'L’allievo modello', è anche la prima opera pubblicata da Roth, all’epoca ventiduenne , nel 1916. Narra la vita di un di un ambizioso opportunista che attraverso l’ipocrisia e la capacità di saperci fare riesce ad elevarsi al di sopra delle modeste origini. Una tematica che potrebbe apparire forse banale e scontata viene però trattata da Roth con molta originalità, sia per quanto riguarda il tono sarcastico utilizzato, sia per l’angolatura dalla quale viene vista. Infatti Roth ribalta sui personaggi che circondano Andreas Wanzl, il protagonista, la colpa di non accorgersi dei suoi veri sentimenti, delle vere motivazioni del suo agire: tanto più Andreas è subdolo e financo spietato al fine di raggiungere i suoi obiettivi tanto più viene pubblicamente apprezzato e lodato. L’ipocrisia del singolo si traduce così in una feroce critica alle convenzioni sociali ed alla stupidità umana, magistralmente espressa nella agghiacciante risata di Andreas nella bara. Altro elemento di feroce critica dei valori convenzionali è dato dal fatto che Andreas esercita tutto il suo saperci fare non per raggiungere una qualche posizione di prestigio, ma per assicurarsi una tranquilla, drammaticamente piccolo-borghese esistenza di direttore di una piccola scuola di provincia.
'Lo specchio cieco' è del 1925: l’impero è crollato ormai da quasi sette anni, ma in Roth non c’è ancora traccia della nostalgia per il passato che caratterizzerà molte sue opere future. La dolente figura della piccola Fini rappresenta semmai il paradigma delle incertezze del presente, dell’emarginazione, delle diverse, magmatiche suggestioni di un’epoca caratterizzata da miseria e dalla perdita di ogni certezza. E’ a mio avviso uno dei racconti più belli della raccolta, anche perché la storia e la figura di Fini vengono delineate attraverso uno stile di scrittura quasi da apologo (stile che Roth avrebbe utilizzato anche in seguito) che tuttavia permette una profonda introspezione sia nell’animo dei protagonisti sia nello spirito dell’epoca.
Il successivo 'Aprile. La storia di un amore', sempre del 1925, è secondo me il racconto più debole del volume: piccola storia, inusualmente raccontata in prima persona, dei sentimenti di un giovane uomo durante il breve soggiorno in una città di provincia, non riesce ad elevarsi al di sopra di un vacuo intimismo, anche se alcuni personaggi secondari sono descritti mirabilmente.
Segue 'Il capostazione Fallmerayer', una delle pietre miliari di questa raccolta. Siamo già nel 1933, ed infatti il racconto sarà pubblicato ad Amsterdam. Compare per la prima volta con una sua precisa centralità nei racconti di Roth il tema della prima guerra mondiale, che in precedenza era stato solo sfiorato ne 'Lo specchio cieco'. Qui la guerra è vista come elemento in grado di sovvertire qualsiasi ordine sociale: il protagonista della storia, che in tempo di pace è un semplice capostazione, riuscirà infatti a coronare il suo impossibile sogno d’amore con la contessa Walewska solo per il fatto di essere andato in guerra, e perché la guerra ha sconvolto anche la vita della contessa. Il bellissimo, fulminante finale ci dice tuttavia che questo sovvertimento è solo temporaneo, e che il ritorno alla normalità della pace porta con sé anche l’impossibilità di procrastinare una situazione resa possibile solo dall’eccezionalità della guerra. Fallmerayer non accetta il ritorno ad un ruolo subordinato, anche se è pienamente conscio dell’impossibilità per lui di tornare alla sua vita precedente: fa quindi l’unica scelta possibile. Ricordando che 'La marcia di Radetzky' fu pubblicato l’anno precedente, si può quasi dire che questo racconto occupa un posto antitetico al romanzo nella complessa personalità artistica di Roth: non c’è qui, infatti, alcuna nostalgia organica del mondo di ieri, anzi nella vicenda del capostazione si può forse ravvisare la consapevolezza che alcuni cardini della costruzione sociale rimangono immutabili nonostante tutti gli apparenti sconvolgimenti della Storia.
'Trionfo della bellezza' (1935, significativamente l’anno del divorzio di Roth dalla moglie Friedl) è una tragicommedia molto godibile, anche se intrisa di una buona dose di misoginia, condita da un aspro sarcasmo nei confronti della mentalità borghese contrapposta a quella del vero signore. Curiosamente il protagonista (o meglio il narratore) è medico termale, come accade in uno dei romanzi di un altro grande scrittore austriaco, Arthur Schnitzler, e come in molte delle opere di Schnitzler anche qui il tema della patologia gioca un ruolo essenziale.
Con 'Il busto dell’Imperatore' ci immergiamo in pieno nel Roth nostalgico di 'kakania', del quale questo racconto rappresenta il vero e proprio manifesto, in modo persino troppo didascalico. La nostalgia per l’armonia delle culture nel vecchio impero, per la saggezza e la magnanimità del potere su cui l’impero era basato raggiunge vette francamente difficilmente conciliabili con la realtà, come pure sicuramente falso suona il paternalismo con cui Roth guarda al popolo e ai suoi bisogni. Non bisogna dimenticare tuttavia che ormai siamo in pieno nazismo, e che Roth vedeva il germe del nazionalismo che stava portando alla catastrofe l’Europa proprio nella sostituzione del concetto di popolo con quello di nazione, e quindi guarda indietro, in un’epoca in cui secondo lui i vari popoli trovavano la loro identità in uno spazio politico e sociale unitario come il defunto impero. Pur in una cornice come detto didascalica, è comunque notevole (oltre alla consueta perizia narrativa) la descrizione della volgarità dell’epoca nuova e dei suoi padroni, in particolare nelle pagine dedicate al viaggio in Svizzera del protagonista.
'La leggenda del santo bevitore', racconto famosissimo da cui Ermanno Olmi ha tratto un bel film, è a mio avviso in ogni caso, seppur suggestivo, un racconto minore, nel quale un Roth ormai preda dell’alcool si rifugia in una sorta di sogno mistico.
Chiude la raccolta 'Il Leviatano', pubblicato postumo ma scritto e parzialmente pubblicato nel 1934 con il titolo Il mercante di coralli, nel quale il tema del piccolo mondo antico è sviluppato con una profondità molto maggiore che ne Il busto dell’imperatore. Il sovvertimento della tranquilla vita del mercante ebreo Nissen Piczenik ad opera dell’irruzione della moderna tecnologia ed il suo andare incontro all’inevitabile fine nel momento in cui decide di voltare le spalle ai i suoi princìpi etici sono ancora una volta un inno all’armonia perduta, alla semplicità rinnegata per un mondo senza senso. Ancora una volta Roth si rifugia in un passato idealizzato, tuttavia il racconto è molto bello e carico al solito di suggestioni e poesia.
Un bellissimo volume, quindi, come detto imperdibile per capire meglio la complessa ed anche ambigua personalità letteraria di Joseph Roth, che non sarà forse stato uno dei più grandi interpreti della convulsa epoca in cui ha vissuto ma è senz’altro da annoverare tra gli scrittori che vale la pena conoscere a fondo per capirla meglio, quell’epoca, che tante inquietanti analogie ha con la nostra.
Indicazioni utili
Romanzi, racconti e opere teatrali di Arthur Schnitzler.

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L’opaco specchio di un'epoca
'Bruges la morta' è l’opera più celebre di Georges Rodenbach, scrittore belga di lingua francese che visse nella seconda metà del XIX secolo, oggi praticamente ignorato dalla nostra editoria ma che ha avuto una grande influenza sulla letteratura italiana (e non solo) del primo ‘900, in particolare sui crepuscolari.
Il breve romanzo è ambientato, come dice il titolo, in una delle più belle città belghe, Bruges, della quale chiunque vi sia stato ha sicuramente subito il fascino. Oggi la città fa parte dei circuiti turistici internazionali, per cui è difficilissimo coglierne quelle atmosfere raccolte ed intime che il romanzo ci consegna; tuttavia, se si ha la fortuna di visitarla fuori stagione o se (come a Venezia) si abbandonano le strade principali occupate per metà dagli ombrelloni dei bar e dei ristoranti e per l’altra metà da torme di turisti chiassosi, intenti per lo più a farsi dei 'selfie', e ci si rifugia in qualche vicolo solitario magari fiancheggiato da uno dei tanti canali, è ancora possibile immergersi nel clima di dolce ed infinita decadenza che la caratterizza. Come per tutte le città morte, questo clima ha origini estremamente concrete: nasce dalla decadenza dell’importanza economica della città; nel caso di Bruges deriva dall’insabbiamento del canale che la congiungeva al mare, avvenuto alla fine del XIV secolo, che aveva spostato l’asse dei traffici commerciali dell’area verso la vicina Anversa. Come ci dice l’esempio clamoroso di Venezia, ma in generale quello di tantissime altre città italiane, è questo il modo migliore per conservare intatto o quasi l’assetto urbanistico di una città e per conferirle un’atmosfera irreale, quasi magica, che solo l’ignoranza di un nuovo sviluppo convulso e fenomeni come il turismo di massa possono distruggere.
Al tempo di Rodenbach Bruges era davvero una città morta, ancora non sfiorata dallo sviluppo dell’economia industriale, che attraverso i suoi monumenti medievali riverberava i bagliori di uno splendore spentosi per sempre. È proprio questa atmosfera che Rodenbach ci vuole trasmettere, non come un supporto alla storia che narra, ma come elemento essenziale di questa storia, come fattore principale che la determina. Nell’Avvertenza posta all’inizio del romanzo Rodenbach dice infatti: ”In questo studio passionale, abbiamo voluto anche e soprattutto evocare una Città, la Città come un personaggio essenziale, associato agli stati d’animo, che consiglia, dissuade, decide d’agire.”. Il ruolo essenziale di Bruges è evidente sin dal titolo, significativamente riferentesi alla città: anche se la storia narrata è storia della morte di persone, l’elemento essenziale è il luogo in cui si svolge, è il fatto che questa storia si può svolgere solo in una città morta.
La storia narrata è quella di Hugues Viane, un agiato quarantenne che cinque anni prima ha perso l’amatissima moglie: allora egli decise di andare a vivere a Bruges, città in sintonia con il suo inconsolabile stato d’animo. Nella sua grande abitazione conserva come reliquie, in una stanza dove neppure la fedele domestica Barbe può entrare sola, alcuni ritratti della moglie morta e soprattutto, in una teca di cristallo, una lunga ciocca dei suoi biondi capelli.
Una sera, mentre passeggia per la città brumosa, nota una giovane donna che gli appare identica alla moglie: scopre che si tratta di una ballerina di teatro, la conosce e diviene il suo amante. Nonostante sia divenuto l’oggetto preferito dei pettegolezzi della piccola e bigotta città, egli è sereno, perché considera la sua nuova relazione come un insperato rinnovarsi del suo amore matrimoniale, e vede in Jane Scott la reincarnazione della morta. Senza parlarle del suo passato, costringe Jane a somigliare sempre più alla moglie, sino a farle portare i vestiti di lei. Quando si rende conto che Jane è un essere volgare, che tra l’altro lo tradisce, cerca di lasciarla, ma non ci riesce per l’attrazione carnale che sente verso di lei; la vicenda volgerà rapidamente in tragedia.
I cinefili avranno sicuramente ravvisato in questa breve trama le affinità della storia con quella narrata da Alfred Hitchcock in 'Vertigo', a testimonianza dell’influsso che Bruges la morta ha avuto nel ‘900 sia in letteratura, sia nella musica, sia nel cinema.
Il giudizio che mi sento di dare su questo breve romanzo è ambivalente. Senza dubbio Rodenbach possedeva una notevole maestria di scrittura, che gli permette davvero di farci percepire il silenzio dei vicoli di Bruges rotti soltanto dal suono ossessivo delle campane o dallo scalpiccio di qualche anziano che passa frettolosamente, la bruma e la pioggerellina del nord che avvolgono la città, il contrasto tra il colore plumbeo dei canali e l’abbagliante biancore dei cigni che vi nuotano. Mallarmé, amico di Rodenbach, parla in una lettera indirizzata all’autore di ”…poesia, infinita in sé ma… che si prolunga con più fierezza nella prosa”. Questa poesia in prosa è anche davvero capace di farci percepire Bruges come un personaggio, il protagonista vero della storia, paradossalmente viva del suo essere morta. Altri elementi di fascino del romanzo, sempre legati al contesto, sono costituiti dal genuino tratteggio del personaggio di Barbe, forse la figura più vera che si incontra nella storia, e il ruolo svolto dall’indistinto brusio dei pettegoli abitanti della città. I veri punti deboli sono rappresentati a mio avviso dai due protagonisti, che appaiono essere poco più che dei bozzetti. Hugues sembra essere una sorta di appendice umana dell’atmosfera di Bruges, sottolineando con la ritualità dei suoi comportamenti che il vero protagonista non è lui. Jane è poco più che uno schizzo della classica donna volgare e volta solo a sfruttare economicamente chi l’ama. Il protagonismo di Bruges deriva quindi anche dalle indubbie lacune della storia in sé, che toccano il culmine nel melodrammatico finale, che rappresenta a mio avviso una notevole caduta di tono.
Al di là di queste osservazioni sugli aspetti per così dire tecnici del romanzo, credo sia importante riflettere sulla sua collocazione rispetto al contesto culturale in cui viene concepito. Rodenbach è, se così si può dire, un decadente della seconda generazione, che ha come maestri dichiarati Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, ma a differenza di questi è un piccolo decadente: vede come unica risposta alla crisi degli ideali borghesi della fine dell’800 il rifugio in un piccolo mondo antico rappresentato dalle sue amate Fiandre, ed in particolare in questo romanzo da Bruges. Bruges è il rifiuto della modernità, è il simbolo (il romanzo è intriso del nascente simbolismo) di un mondo perduto, nel quale i ritmi sono ancora scanditi dagli elementi naturali, nel quale il tempo è sospeso. Rodenbach è cosciente che questo mondo è morto, che anche in questa atmosfera rarefatta si annidano i germi della corruzione sociale, ma quando si tratta di risolvere questa contrapposizione tra un buon passato e un malvagio presente non sa andare oltre lo stereotipo, il poco convincente melodramma. Questi elementi, provincialismo, rifugio nel particulare, accento melodrammatico, spiegano a mio avviso l’influsso che Bruges la morta esercitò in particolare sui movimenti letterari del primo novecento di un paese periferico ed arretrato come l’Italia.
Giustamente Paola Dècina Lombardi, nella bella introduzione – che però a mio avviso tralascia alcuni aspetti essenziali del rapporto tra le opere letterarie di questo periodo così importante per la cultura europea ed il contesto sociale e politico che lo ha generato – azzarda il paragone con un grande classico, scritto una ventina d’anni dopo, in cui sono protagonisti una città decadente e la morte. Ne 'La morte a Venezia' di Mann il senso del disfacimento di un’epoca è espresso al massimo livello, anche tenendo conto del fatto che qui siamo già in pieno novecento: c’è una precisa corrispondenza tra quanto Mann voleva comunicarci con quella grandiosa metafora ed i mezzi che usa per fare ciò. Questa corrispondenza, questa misura, mancano a mio avviso in Bruges la morta, ed è questo che fa la differenza tra un capolavoro ed un discreto romanzo.
Resta, dopo averlo letto, la voglia di tornare a Bruges, magari in novembre, per vedere se è ancora possibile, nonostante tutto, perdersi nella sua infinita tristezza di città 'morta'.
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La patria di un poeta senza patria
Pubblicando queste 'Due storie praghesi' nel 1899 Rilke scrive: "Questo libro non è altro che passato… Oggi non l’avrei scritto così, vale a dire che non l’avrei scritto affatto".
Quello del 1899 è già un Rilke senza patria, che vive ormai da due anni a Monaco di Baviera, ha dimenticato la tenera Vally della sua giovinezza praghese per gettarsi tra le braccia senza dubbio più energiche di Lou Andreas-Salomé, si accinge a partire per il lungo viaggio in Russia.
E’ quindi logico che due racconti scritti qualche anno prima, ambientati nella natia Praga e centrati sul tema dello scontro in atto tra la dominante élite tedesca e la nascente coscienza nazionale ceca fossero ormai lontani dall’orizzonte culturale e personale del poeta.
Eppure, con gli occhi dei posteri, possiamo dire che si tratta di due racconti estremamente importanti per comprendere l’evoluzione della poetica di Rilke, per scorgere le radici di quel cosmopolitismo che costituirà uno dei tratti più importanti , anche se non certamente l’unico, del suo pensiero. Si tratta anche, lo dico subito, di due racconti a mio avviso molto belli, anche se profondamente diversi l’uno dall’altro, dei quali consiglio caldamente la lettura.
Rilke appartiene alla minoranza tedesca di Boemia: si tratta di una vera e propria classe dominante che, come viene ben spiegato nella postfazione di Marino Freschi, guarda più al militarismo prussiano che alla paternalistica 'cacania', che dopo i moti del 1848 vede con sospetto ogni apertura alla cultura slava, sentendola come una minaccia al proprio predominio economico e sociale, che considera gli slavi poco più di un ottimo serbatoio di manodopera per le sue imprese. Il giovane poeta, tuttavia, non riconosce la propria appartenenza a questa casta, di cui percepisce tutta la carica prevaricatrice: forse questo atteggiamento deriva anche dal carattere oppressivo dei suoi rapporti familiari, stretti tra un padre che vuole instradarlo verso la carriera militare che a lui ha dato poche soddisfazioni e una madre che aspira, senza riuscirvi, alla promozione sociale nei salotti aristocratici e della grande borghesia, e che in memoria della figlia primogenita morta piccola costringe René (Rainer sarà nome datogli da Lou Andreas-Salomé) a vestirsi da bambina.
Rilke quindi si sente da subito uno straniero anche nella sua città natale, nella quale la maggior parte degli abitanti parla una lingua diversa dalla sua. Questo senso di straniazione è probabilmente accentuato anche dal carattere particolare della città, carattere gotico, oscuro, misterioso, esoterico; insomma la Praga magica ma anche matrigna, la Praga periferia dell’impero dove tre diverse culture si guardano con sospetto non riuscendo a convivere e ad esprimersi vicendevolmente appieno, che costituisce il fondamento essenziale delle mirabili cattedrali culturali erette da gente come Meyrink, Kafka, Werfel e molti altri.
E’ in questo clima sociale e culturale che lo avvolge, e che si riflette appieno nei suoi tormenti interiori, che il giovane Rilke scrive le sue 'Due storie praghesi', nelle quali da un lato – nel primo racconto – punta il dito contro gli errori e il fanatismo del nazionalismo rivoluzionario di stampo anarchico e dall’altro – nel secondo – tenta, forse maldestramente e ingenuamente dal punto di vista politico ma con un già riconoscibile grande afflato poetico, di indicare una soluzione al conflitto latente tra tedeschi e cechi.
I due racconti sono infatti idealmente l’uno la continuazione dell’altro, e questa continuità è evidenziata plasticamente dalla presenza di un personaggio in comune, lo studente nazionalista e cospiratore Rezek, che nel primo racconto svolge un ruolo da coprotagonista mentre nel secondo appare in termini solo apparentemente più sfumati. Questa continuità programmatica non si ritrova invece a livello stilistico, in quanto il secondo racconto risulta molto più elaborato e maturo del primo, apparendo decisamente diverso anche nell’approccio stilistico.
'Re Bohusch', che apre il libro, è la storia di un misero impiegato, gobbo, che vive ai margini della vacua 'intellighentsia' ceca che solo a parole e comodamente sdraiata nei caffè cittadini blatera contro le prevaricazioni dei tedeschi: un giorno entra in contatto con lo studente Rezek, al quale confida per caso che nel suo scantinato c’è una sorta di stanza segreta; Rezek cerca di ingraziarsi il povero gobbo, al solo scopo di poter usare la stanza per le riunioni clandestine del suo gruppo. Re Bohush (è il soprannome del povero gobbo) che sino ad allora era stato emarginato da tutti, si sente improvvisamente al centro di un contesto importante, sogna di divenire il leader della rivolta rivoluzionaria e di poter così riconquistare la ragazza che ama, che naturalmente l’ha sempre preso in giro. Quando il nascondiglio sarà scoperto dalla polizia esploderà, crudele, il dramma.
Il racconto, dai toni molto cupi ed in cui la figura del protagonista assume tratti quasi caricaturali, è stato sicuramente molto influenzato dalla lettura de I demoni di Dostoevskij, soprattutto per quanto concerne la fosca figura di Rezek. Come dicevo con questo racconto Rilke lancia un atto d’accusa, sia nei confronti dell’intellettualità ceca praghese, dipinta con una grande carica sarcastica come vacua e parolaia, sia nei confronti di chi vede nella cospirazione e nell’azione violenta di stampo anarchico il mezzo per sconfiggere la dominazione tedesca. Nel racconto è espresso, per bocca di Rezek, un concetto che diverrà centrale nel secondo racconto: il fatto che il popolo ceco è un popolo “ancora come un bambino pieno di desideri, nessuno dei quali è stato ancora esaudito.” A questo popolo bambino si contrappone una intellettualità nata già adulta, che non è in grado di cogliere i veri desideri del popolo ma guarda astrattamente a modelli occidentali, parigini, per sognare una società diversa.
Il secondo racconto, 'Fratello e sorella', è estremamente più complesso, e contrappone alla matrice tardo-naturalista del primo una struttura stilistica che vira decisamente verso il simbolismo.
La storia è quella di una famigliola della piccola borghesia ceca, i Wanka, composta da madre e due figli, che dopo la morte del padre si trasferisce da Kromau (la splendida Ceský Krumlov di oggi) a Praga. Per vivere la madre va a servizio da una famiglia della borghesia tedesca, che la tratta con una sdegnosa sufficienza venata di razzismo. Il figlio maggiore Zdenko, che frequenta l’università, entra in contatto con il circolo rivoluzionario di Rezek; a lui la diafana e gracile sorella diciottenne di Zdenko, Luisa, sacrifica (è proprio il caso di dirlo, vista l’indifferenza di Rezek) la sua illibatezza. Poco dopo Zdenko muore di polmonite, ed in Luisa si fa strada la consapevolezza di dover contribuire alla tenuta sia economica sia emotiva della famiglia. La stanza di Zdenko, sino ad allora una sorta di santuario, viene affittata ad un giovane impiegato tedesco. Quando, poco dopo, anche la madre di Luisa muore, questa prende ancora più coscienza del suo nuovo ruolo ed addirittura fa una velata proposta di fidanzamento al giovane pensionante.
Credo che per interpretare questo racconto sia necessario andare al di là della semplice storia familiare. Come detto, secondo me il racconto è di fatto la metafora rilkiana (del giovane Rilke) della questione ceca e la proposta di quella che il poeta vedeva come la sua unica soluzione. Luisa e Zdenko passano infatti dalla fase della presa di coscienza della propria condizione di subalternità (le umiliazioni subite dalla famiglia tedesca) alla adesione al rivoluzionarismo anarchico, che però si rivela, come nel primo racconto, essere crudele e asfitticamente chiuso nel proprio fanatismo. L’unica soluzione sta, ci dice Rilke forse con una buona dose di ottimismo ed ingenuità, nel matrimonio tra le due culture. Luisa in questa metafora complessiva è il popolo ceco, che prima di potersi sposare con la kultur tedesca deve crescere, deve smettere di essere quel bambino irresponsabile e debole evocato in Re Bohusch. E’ infatti ciò che accade a Luisa, che perde la sua verginità per mano dei fanatici cechi ma da quel momento smette davvero di essere una bambina per divenire una donna cosciente del proprio ruolo nella storia, che sa cosa deve fare.
Il volume è chiuso da tre saggi, dei quali il più importante è sicuramente quello finale di Marino Freschi che, sia pure con accenti a mio avviso troppo attenti agli aspetti di carattere esoterico della città e della poetica rilkiana, mette in luce alcuni nodi cruciali del rapporto tra Rilke e la sua città natale.
Chi ha letto le 'Elegie duinesi' o 'I quaderni di Malte Laurids Brigge', chi ama il Rilke senza patria, il poeta dell’invisibile, forse si troverà spiazzato di fronte a queste opere giovanili: io credo tuttavia che quel Rilke non possa essere compreso appieno senza prima esplorare le radici profonde di questo suo essere apolide: in questi racconti le torri e i ponti di Praga ci possono fornire alcune di tali radici.
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Werfel
Danze Macabre di Rilke

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I dolenti racconti di un emarginato
'Morfina' appartiene a quella parte della produzione letteraria di Friedrich Glauser che non è incentrata sulla figura del Sergente Studer, l’investigatore grazie al quale gode di una certa notorietà di nicchia. Si tratta in particolare di un volume che raccoglie brevi testi e racconti che ci permettono di capire la visione del mondo di Glauser e di addentrarci nella sua breve vita, fatta di emarginazione, di droga, di un disperato distacco dalla società e dai suoi conformismi. Molti dei pezzi raccolti nel libro sono di carattere autobiografico, e ci raccontano momenti della vita dell’autore, come il periodo passato rinchiuso in un manicomio, il suo rapporto con la morfina (da cui il titolo), la vita nella Legione straniera, i suoi lavori precari. Altri contengono considerazioni di carattere sociale e politico, magari ispirati da una ricorrenza o da fatti di cronaca. Altri, infine, sono veri e propri racconti, sempre ispirati alla descrizione della società piccolo borghese e proletaria della Svizzera dei primi decenni del secolo XX. Il libro si apre quasi programmaticamente con il racconto autobiografico 'Scrivere…', nel quale Glauser ci descrive il primo conflitto che, al tempo del ginnasio, si aprì tra lui, l’intellettuale – autore di un articolo di critica ad un’opera scritta da un suo professore – e la società costituita. Glauser ci dice che per lui scrivere porta inevitabilmente all’emarginazione, allo scontro con i conformismi. Molto bello e toccante è il brevissimo 'Asilo notturno', nel quale Glauser ci immerge nell’atmosfera tragica ma piena di umanità dei clochard parigini. Segue un altro piccolo saggio importante per capire come Glauser la pensasse rispetto alla società e all’autorità costituita: si tratta di 'Perturbatori dell’ordine pubblico', dove viene analizzato e criticato duramente il sistema della giustizia svizzera. E’ un saggio importante perché si riaggancia direttamente alla poetica che sottende le opere del Sergente Studer, e ci permette di capire come per Glauser il delitto, la deviazione debbano essere analizzati e compresi nel contesto sociale e culturale in cui avvengono. Un racconto secondo me centrale nel libro è 'Musica', nel quale Glauser esprime in tinte che ricordano Grosz tutto il suo disgusto per il rapporto commerciale e funzionale che esiste tra la gretta società borghese e certa produzione culturale, prefigurando con molta lucidità le degenerazioni dell’industria culturale dei nostri tempi. 'Morfina' è una sorta di crudele autoanalisi del rapporto tra l’autore e la droga, nei suoi aspetti positivi e negativi. Ci sono nel libro anche racconti più lievi, come 'La strada' e 'Un incidente d’auto', che costituiscono delle piccole pause di relax gradite dal lettore. Se le tematiche trattate dal libro sono spesso dure e disperate, non si può non notare come vengano comunque esposte con uno stile piano e distaccato, fatto di frasi brevi e di accenti quasi cronachistici anche quando riguardano direttamente le convinzioni più profonde dell’autore. E’ anche questo che contribuisce a dare un fascino particolare al libro, dopo la cui lettura si conoscerà forse meglio questo autore che, seppure ancora poco noto, merita senza dubbio un posto accanto ad altre più celebrate scoperte degli ultimi decenni.
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I ilbri del sergente Glauser

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Se la leggerezza è talmente insostenibile...
... da divenire superficialità
La casa editrice Adelphi annovera, tra i suoi indiscussi meriti, anche quello di aver fatto conoscere al pubblico italiano molti autori del primo novecento europeo, e segnatamente di area germanica, le cui opere sino agli anni ’70-’80 del secolo scorso non erano mai state tradotte nella nostra lingua. Questa attività di scoperta ha anzi rappresentato, per lunghi anni, una sorta di marchio di fabbrica dell’editore. Tuttavia anche la produzione letteraria di quell’epoca irripetibile, come ovvio, non è caratterizzata sempre da una qualità di prim’ordine, ed accanto ad autentici mostri sacri annovera scrittori mediocri ed opere che non erano destinate a lasciare un segno nella storia della letteratura. Nella sua ansia di proporre autori sconosciuti anche Adelphi è incappata talvolta nella proposta di opere non eccelse. Questo è a mio avviso il caso de 'Il complesso del denaro', di Franziska zu Reventlow, breve romanzo pubblicato originariamente nel 1916.
La personalità dell’autrice è senza dubbio intrigante: nata da una famiglia di antico lignaggio del nord della Germania (la particella zu nel mio immaginario dona al suo nome un’aura di nobiltà molto più esclusiva dell’abusato von), fuggì presto di casa per recarsi prima ad Amburgo, dove si sposò una prima volta; dopo un solo anno ruppe il matrimonio e si stabilì a Monaco, dove frequentò gli ambienti intellettuali del modernismo locale, essendo conosciuta come La contessa bohémienne di Schwabing, dal nome del quartiere dove si concentrava la vita artistica della città.
Bellissima, condusse una vita libera e per l’epoca scandalosa: tra l’altro si sposò con uno sconosciuto al solo fine di dividere una eredità cui lui aveva diritto solo se maritato.
Interessanti e non ortodosse erano anche le sue idee sul femminismo, che tra l’altro si ritrovano in alcuni passi de Il complesso del denaro: sosteneva infatti che le femministe dell’epoca tendessero a non riconoscere le naturali differenze tra uomo e donna e che la liberazione della donna andasse ricercata non tanto nella libertà economica, ma esclusivamente nella libertà sessuale e dalle convenzioni matrimoniali. Insomma, per molti versi Franziska, con la sua parabola esistenziale, ricorda alcune delle altre donne protagoniste di quella stagione culturale, come Else Lasker-Schüler e Lou Andreas-Salomé.
Purtroppo 'Il complesso del denaro', che è uno dei due soli romanzi scritti dall’autrice, non ci restituisce a mio avviso il profilo di una grande scrittrice, per cui si può forse dire che Franziska non riesce ad esprimere (almeno in questa sua opera) la complessità della sua vita ed il tormento dei tempi che ha attraversato.
Il romanzo è scopertamente autobiografico. Strutturato come romanzo epistolare, narra di una donna non più giovanissima che scrive ad un’amica in Germania da una casa di cura sulle Alpi italiane in cui si è rifugiata improvvisamente. Il motivo di questa sua fuga sono i debiti: assillata dai creditori, la protagonista ha conosciuto un medico freudiano che l’ha convinta di essere affetta da un complesso del denaro da cui potrà guarire solo con l’aiuto della psicanalisi. In effetti la protagonista attribuisce al denaro una precisa volontà di beffarla, a causa del fatto che lei, vissuta sempre nell’agiatezza, non lo ha mai né venerato né disprezzato, ma semplicemente ignorato come un dato di fatto. Nel corso della narrazione veniamo quindi a sapere che la protagonista si è sposata con uno sconosciuto ed è in attesa della sua parte di eredità, che però tarda ad arrivare per complicazioni burocratiche varie. Nel frattempo si costituisce attorno a lei un piccolo cenacolo di personaggi vari, ciascuno con un rapporto complesso con il denaro, e buona parte del romanzo se ne va nella descrizione della vita oziosa della piccola comunità e dei rapporti che si stabiliscono tra i vari personaggi.
Quando finalmente il denaro arriva (anche se è molto meno di quanto inizialmente sperato) una parte del gruppo inizia un viaggio verso … il casinò di Montecarlo, dove il riconquistato sano rapporto con il denaro (al tavolo da gioco) è spezzato dalla notizia che la banca dove l’eredità era depositata è fallita. Il romanzo si chiude con l’orgoglio della protagonista di essere per la prima volta nei panni di una creditrice.
Gli elementi autobiografici della storia sono moltissimi: dal già accennato matrimonio per interesse, al fatto che nel 1914 la Reventlow fu davvero vittima del fallimento della banca in cui aveva depositato i proventi del matrimonio, alla constatazione che il pensiero della protagonista rispetto al denaro ed alle convenzioni sociali riflette appieno quello dell’autrice.
Nella vicenda si possono sicuramente rinvenire spunti e argomenti di potenziale estremo interesse, a partire da quello che avrebbe potuto essere il tema centrale del racconto: il ruolo del denaro nella società borghese di inizio novecento. Un altro argomento interessante è sicuramente rappresentato dalla psicanalisi, che per l’epoca era indubbiamente una novità ed aveva avviato una rivoluzione nel modo stesso di percepire e definire i comportamenti umani, il che stava tra l’altro cambiando anche il modo di fare letteratura. Vi è poi il tema del contrasto di personalità all’interno del piccolo gruppo chiuso, rappresentato anche attraverso la diversa estrazione sociale e culturale dei personaggi. Infine, come accennato, si trovano nel testo anche alcuni accenni al modo di pensare dell’autrice rispetto al ruolo della donna nella società.
Il problema è che tutti questi argomenti vengono trattati in modo superficiale, per non dire frivolo, ed alla fine del romanzo di tutti gli spunti disseminati nel romanzo resta ben poco.
Il denaro è infatti un problema individuale dei singoli personaggi, abituati a non prenderlo in considerazione come ce ne fosse sempre oppure a cercarlo ossessivamente tentando di architettare affari sconclusionati: non è mai visto come un problema sociale che può portare a tragedie anche epocali. Il libro è scritto a guerra già scoppiata, ma direi che sconcerta il fatto che non ci sia la minima traccia neppure in modo subliminale, all’interno del microcosmo oggetto del racconto, di quanto sta avvenendo in Europa: il denaro, ed il rapporto con esso, è nel romanzo il problema personale di alcune persone, appartenenti alle classi agiate, che non sanno stabilire con esso il normale rapporto funzionale dato dall’usarlo con coscienza.
Anche il tema della psicanalisi è trattato con estrema superficialità, quasi come una moda stravagante che pretende di far risalire tutto a processi di rimozione ed al rapporto tra io e subconscio. Visibilmente l’autrice non coglie (e la cosa è strana, dato il milieu che frequentava) la forza eversiva della psicanalisi rispetto alle convenzioni sociali dell’epoca.
L’ambientazione del racconto, la casa di cura sulle montagne dove si raccoglie uno spaccato della società, fa pensare immediatamente al fatto che questo spunto, indubbiamente interessante, sarebbe stato raccolto pochi anni dopo da uno dei più grandi scrittori del secolo (chissà se Mann aveva letto il libro della Reventlow): le analogie finiscono però qui, perché troppa distanza c’è tra la complessità ed il respiro di un capolavoro come 'La montagna incantata' (o come viene chiamato oggi) e la leggerezza di questo breve romanzo.
Insomma, la penna leggera e pungente, gli esilaranti capitoli dell’epos di quella potenza parallela [il denaro] di cui parla la quarta di copertina di questo piccolo volume che non ha neppure una prefazione, si riducono in realtà alla superficialità di approccio di una scrittrice che sembra proporci argomenti troppo grandi rispetto a quelli che è in grado di trattare.
'Il complesso del denaro' può quindi essere visto in modo ambivalente: o come un gradevole romanzo d’intrattenimento, con alcuni spunti anche divertenti ed un tono generale che rasenta una leggerezza insostenibile, oppure come un’occasione persa, da parte di una autrice che visse in prima persona la grandezza e la tragicità di un’epoca cruciale, di trasmettercene in presa diretta alcuni elementi fondanti, che rimangono solo abbozzati, quasi dei pretesti per far risuonare una risatina un po’ sciocca. Questi giorni in cui il tema del fallimento delle banche e della perdita di denaro da parte di persone inconsapevoli dei rischi è all’ordine del giorno nel nostro paese ci ricordano che il potere del denaro è sempre più pervasivo nella nostra società e non riguarda più (se mai ha riguardato solo) alcuni vacui rappresentanti della borghesia europea.
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La grande letteratura emerge solo a tratti
Vi sono libri che, sia pure scritti in epoche e magari nell’ambito di culture molto diverse dalle nostre, mantengono intatta la loro forza emozionale e comunicativa. Sono quelli che definiamo classici, perché sanno parlarci ancora oggi, sanno descriverci situazioni e sentimenti che ancora riusciamo a decifrare, in una parola sanno ancora dirci qualcosa che ci aiuta a capire meglio la realtà, personale e sociale, in cui siamo immersi ogni giorno.
Questa è la mia definizione, forse un po’ confusa e parziale, di un classico, ed in questo senso credo di poter dire che 'L’Italiano' di Ann Radcliffe non si possa considerare un classico, a dispetto del fatto che l’editore Frassinelli, cui va comunque il grande merito di avercene proposto una nuova traduzione integrale una ventina d’anni fa, l’abbia inserito in una collana chiamata addirittura I Classici Classici.
A mio avviso, infatti, 'L’Italiano' è un romanzo strettamente legato al periodo storico ed al contesto in cui fu scritto, la fine del settecento in Gran Bretagna; riletto oggi, per essere apprezzato richiede lo sforzo di cercare di calarsi in quel contesto, ed anche quando ciò riesca non possono non emergere i difetti strutturali di quello che già ai suoi tempi probabilmente poteva essere considerato un buon romanzo d’appendice. Troppo deboli la maggior parte dei personaggi, troppo unilaterali e schematici le loro personalità e i loro modi di agire per consegnarci un romanzo che vada al di là dell’essere una testimonianza storica di come una parte della letteratura di quell’epoca si stesse attrezzando per divenire, in nuce, una forma espressiva aderente ai gusti e alle richieste di un pubblico borghese. Vi è però subito da aggiungere che in questo quadro, che fa de 'L’Italiano' un antesignano del romanzo di genere e d’appendice, non mancano alcuni tratti nei quali fa capolino la grande letteratura, o che quantomeno testimoniano la capacità della scrittrice di essere parte attiva delle grandi correnti culturali che attraversavano l’epoca in cui visse. Ma andiamo con ordine.
'L’Italiano' è un romanzo 'gotico', nel senso che costruisce la storia attorno al mistero ed alla 'suspance', e proprio la capacità di creare attesa per lo sviluppo della storia, di fare sapiente uso dei colpi di scena è il tratto per cui Ann Radcliffe fu riconosciuta anche in vita come una grande scrittrice. Le sue due opere principali, questo romanzo (del 1797) e il di poco antecedente 'I misteri di Udolpho' furono dei veri e propri best-sellers, soprattutto tra il pubblico femminile della ormai trionfante borghesia britannica.
Il primo elemento che esprime con forza, per noi quasi paradossalmente, l’atmosfera gotica del romanzo è l’ambientazione nell’Italia del centro-sud, tra Napoli, Roma e l’Abruzzo. Alla fine del settecento l’Italia per il pubblico britannico della Radcliffe era sicuramente un paese sconosciuto e, come dice anche il curatore del volume Alessandro Gallenzi nella sua pregevole postfazione, nell’immaginario collettivo un paese selvaggio, pieno di rovine antiche, abitato da gente strana, con costumi e mentalità affatto diversi rispetto a quelli britannici: se si pensa come ancora nel 1957 la BBC potesse imbastire il celeberrimo scherzo del raccolto degli spaghetti possiamo immaginare cosa sapessero dell’Italia gli inglesi di due secoli prima. La stessa Radcliffe non è mai stata nel nostro Paese, ma proprio questa Italia sconosciuta permette alla Radcliffe di ambientare una storia che narra di avvenimenti quasi contemporanei alla scrittura (i fatti narrati si svolgono nel 1758) in un contesto arcaico ed ancestrale, in cui le passioni umane si esprimono con modalità affatto diverse da quelle della fredda Inghilterra in piena prima industrializzazione. Ne derivano descrizioni di un’Italia stereotipata, dove i paesaggi napoletani sono meravigliosamente dolci e pieni di vividi colori, mentre gli Appennini sono fatti di boschi cupi e di orride gole. Naturalmente anche gli abitanti che fanno da contorno alla storia in questa Italia favolosa sono fortemente tipizzati: in genere i pescatori napoletani la sera ballano sulla spiaggia, mentre i contadini abruzzesi sono rudi ma leali. Al di là degli inevitabili stereotipi, tuttavia, ritengo che il paesaggio e le sue descrizioni, che così gran parte hanno nel determinare l’atmosfera complessiva del libro, siano uno degli elementi fondamentali che denotano il carattere preromantico del romanzo.
In questa Italia meridionale quasi medievale, dove agiscono forze oscure come la Santa Inquisizione, si snoda la storia d’amore tra Vincenzo di Vivaldi ed Elena di Rosalba. Naturalmente è una storia d’amore drammatica, osteggiata dalla famiglia di lui, piena di intrighi e che avrà lo scontato lieto fine. Come detto molti dei personaggi sono veramente troppo convenzionali (soprattutto per la nostra sensibilità di lettori contemporanei) per non far a volte sorridere delle ingenuità della scrittrice. In particolare i due protagonisti, Vincenzo – innamorato intrepido pronto ad affrontare ogni pericolo per sposare la sua amata – e Rosalba – giovane dotata di ogni virtù, apparentemente di umili condizioni ma che naturalmente si rivelerà essere la rampolla di una nobilissima famiglia – sono i due anelli più scontati e deboli della catena dei personaggi che appaiono nel romanzo. E’ invece nei coprotagonisti e nei personaggi di contorno che Ann Radcliffe rivela secondo me il meglio delle sue capacità di narratrice. Il malvagio monaco Schedoni, vero deus ex machina della vicenda, è infatti sicuramente un personaggio complesso, meno manicheo dei due innamorati, più sfaccettato nei suoi sentimenti, e per questo dotato di indubbi tratti di modernità: l’autrice ci mostra il suo animo tormentato con tratti che ancora una volta proiettano il romanzo verso l’incipiente romanticismo.
Un’altra figura notevole è secondo me la madre di Vincenzo: non perché sia un personaggio a tutto tondo come Schedoni – è malvagia sino al midollo, e si pente solo sul letto di morte – ma perché è a mio avviso strano che l’autrice abbia affidato un ruolo appunto così malvagio ad una donna, alla madre del protagonista. Si può immaginare la reazione del pubblico di Ann Radcliffe, che era prevalentemente femminile, a questo ruolo e concludere che forse questo è l’elemento più inquietante inserito dall’autrice in una trama che aveva come scopo primario quello di rassicurare sull’inevitabile trionfo del bene.
Altro personaggio topico del romanzo è Paolo, il fedele servitore di Vincenzo: non tanto per il suo essere il tipico napoletano come veniva immaginato dall’autrice, quindi furbo, salace e sempre allegro e danzante, quanto per il fatto di esprimere benissimo il ruolo che per la borghese Radcliffe dovevano giocare le classi subalterne. Paolo è letteralmente innamorato del proprio padrone, si butta costantemente ai suoi piedi per baciargli gli stivali, ed alla fine della vicenda rifiuta l’indipendenza offertagli per stare accanto a lui tutta la vita. Ah, se fossero stati così fedeli e remissivi anche gli ingrati operai delle tessiture di Manchester…
'L’Italiano' di Ann Radcliffe è quindi un libro che oggi ci può lasciare perplessi per la sua ingenuità, ma che tuttavia ci può interessare per una serie di motivi. E’ innanzitutto un libro che va letto alla luce del contesto storico in cui fu scritto, e di questo contesto, della sua percezione da parte delle classi dominanti ci dice molto. E’ anche un romanzo che scopertamente intende giocare un ruolo didattico nei confronti di un nascente pubblico di massa, se per massa si intende la piccola borghesia inglese dell’epoca. Contiene però alcuni elementi che lo proiettano verso il profondo cambiamento delle forme espressive che caratterizzerà da lì a poco il pieno affermarsi del romanticismo, nel cui ambito soprattutto nel contesto anglosassone la letteratura gotica giocherà un ruolo di primo piano. Certo, siamo ancora lontani dalle capacità espressive di una Wollstonecraft-Shelley o di un Polidori (entrambi nascevano ai tempi della scrittura de L’Italiano), ma i semi di un genere che col tempo avrebbe permesso di esprimere letterariamente le angosce di un secolo erano gettati, forse all’insaputa dell’autrice.
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Alla scoperta del padre di Studer
'Oltre il muro' potrebbe essere visto ad un primo esame come facente un tutt’uno con Morfina, l’altro libro di racconti di Glauser proposto da Sellerio intorno alla metà degli anni ’90. Si tratta invece di un volume sostanzialmente diverso, perché contiene unicamente racconti, e non vi sono quei brani di carattere autobiografico in cui l’autore racconta in prima persona pezzi della sua travagliata vita che caratterizzano Morfina.
Qui il compito di farci conoscere o approfondire la personalità e la poetica di questo poco noto autore svizzero della prima metà del ‘900 è affidata a sette blocchi temporali, ciascuno composto da uno o due racconti ed in ciascuno dei quali si riflette, mediata dalla forma-racconto, l’esperienza esistenziale e sociale dell’autore.
Dico subito che si tratta di racconti splendidi, dolenti, in cui l’apparente distacco narrativo tipico dello stile asciutto di Glauser raggiunge appieno l’obiettivo di farci partecipi, attraverso storie di una banale tragicità, dello straniamento di Glauser rispetto ai (dis)valori dell’Europa tra le due guerre.
Sapendo di rasentare la bestemmia, direi che i racconti di 'Oltre il muro' possono trovare una pietra di paragone, nella letteratura europea del ‘900, nel Joyce di 'Dubliners', pur considerando tutte le differenze stilistiche e culturali che passano tra i due.
I primi due racconti, raccolti nel blocco denominato 'Vienna 1909. Il padre' sono in fondo la stessa storia, quella di un ragazzo che tenta di ribellarsi al clima asfissiante della tranquilla famiglia borghese in cui vive, vista prima attraverso gli occhi del protagonista e poi attraverso quelli del padre di lui. Ci raccontano in pratica l’antefatto, le radici dello spirito ribelle e dell’emarginazione dell’autore.
Il successivo blocco narrativo, 'Ginevra 1913-1916. Gli ideali' ci consegna le storie di due fallimenti esistenziali, due splendidi personaggi piccolo-borghesi incapaci di comprendere i loro limiti e perciò vulnerabili nel rapporto con gli altri.
Il racconto successivo, che non a caso è solo nel blocco riguardante 'La società borghese', è a mio avviso il fulcro del libro e assurge al rango di capolavoro. Nella apparentemente banale storia di un adulterio, narrata in prima persona dal marito tradito, si intersecano tali e tanti piani interpretativi esistenziali, psicanalitici e sociali da meritare che il racconto debba essere letto con particolare attenzione, magari più di una volta.
Seguono racconti di suicidi ed omicidi ambientati nelle guarnigioni algerine della Legione straniera, in cui Glauser si arruolò veramente, oppure storie che hanno come sfondo gli ospedali e i manicomi in cui fu internato come morfinomane. Incontriamo commessi viaggiatori spettatori di drammi familiari ed ex carcerati che narrano le loro storie tragiche e paradossali ad un tempo.
Forse il blocco narrativo meno intenso è l’ultimo, in cui si perde l’intensità e l’atmosfera dolente degli altri, anche se l’ultimo racconto, paradossalmente a lieto fine e in cui fa una fugace apparizione persino il Sergente Studer, ha quasi il sapore di riaccompagnarci verso lidi più rassicuranti.
Il senso ultimo dei suoi racconti, del suo scrivere, Glauser ce lo rivela sin dal primo racconto, dove il suo alter-ego narrante dice: 'Nessuno al mondo potrà cancellare il fatto che esistono due specie di uomini: quelli che amano l’ordine e quelli che amano il disordine….' Non è difficile comprendere dove si collocasse il nostro.
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Ma Zazie non prende il metró
Recensendo 'I fiori blu' ho espresso l’opinione che il linguaggio di Queneau, così peculiare da determinare il significato che esprime, fosse una sorta di sovrastruttura volta comunque ad indirizzare il lettore verso il significato del libro. In effetti, leggendo questo autore si corre il rischio di essere eccessivamente affascinati da come Queneau scrive, piuttosto che da ciò che scrive . Nel caso de 'I fiori blu', tuttavia, il respiro storico delle vicende, il continuo alternarsi di episodi della storia di Francia con la descrizione di un’attualità (il 1964) ed il loro confronto serrato rende in qualche modo agevole al lettore avvertito individuare ciò che Queneau vuole esprimere con il suo pirotecnico linguaggio.
Leggendo 'Zazie nel metró', opera scritta qualche anno prima (1959), il rischio di fermarsi alla sovrastruttura linguistica, di cadere nella trappola, peraltro sapientemente ordita da Queneau stesso, di considerare il testo un divertentissimo esercizio di stile applicato ad un nulla narrativo, ad una serie di assurde e strampalate situazioni prive di alcun elemento che vada appunto oltre la loro assurdità, è altissimo. Ad una prima lettura potrebbe infatti sembrare che la due giorni parigina di Zazie, le situazioni in cui si trova coinvolta e le persone che incontra siano semplicemente dei pretesti che danno modo a Queneau di scatenare la sua furia demolitrice verso la lingua francese, e la sua conseguente 'ricostruzione traslata'.
Come dicevo è Queneau stesso che si diverte a depistarci, quando in una delle rare pagine del libro non dominata dai serratissimi linguaggi, fa pensare a Gabriel, lo zio di Zazie, questa sorta di confessione dell’autore: ”Parigi è solo un sogno, Gabriel è solo un’ombra, Zazie il sogno di un’ombra (o di un incubo) e tutta questa storia il sogno di un sogno, l’ombra di un’ombra, poco più di un delirio scritto a macchina da un romanziere idiota (oh! mi scusi).” Non vi è dubbio infatti che l’apparente assurdità di molte delle situazioni narrate può far pensare ad una sorta di farsa un po’ fine a sé stessa, nella quale appunto è solo il linguaggio, la struttura del testo a sorreggere un’impalcatura che ad un primo esame potrebbe essere definita fragile.
Il linguaggio è quindi anche in questo caso, direi soprattutto in questo caso, il mezzo con cui Queneau crea la storia di Zazie: sul ruolo del linguaggio in Queneau ed in particolare in Zazie l’edizione da me letta riporta un breve saggio di Roland Barthes, e di fronte a cotanto critico non posso che rinviare alla lettura. Tra l’altro, come nel caso de I fiori blu, anche qui ci troviamo di fronte alla disperata impresa di tradurre un testo che reinventa la lingua francese, ed anche in questo caso si può dire che l’impresa è riuscita grazie alle capacità di un grande intellettuale del dopoguerra, Franco Fortini.
Ma ci si può rendere conto che anche in questo caso il linguaggio, che crea la storia, non la esaurisce in sé stesso, anzi permette che la storia ci si presenti in tutta la sua forza corrosiva.
Partiamo dal personaggio di Zazie. E’ una ragazzina (9-10 anni?) di provincia che viene a passare due giorni a Parigi, affidata dalla madre (che passa due giorni d’amore con l’amante) allo zio Gabriel. Vuole assolutamente andare in metró, ma non ci riuscirà perché è in corso uno sciopero. La sua reazione alla notizia (Ah, porci,… ah, cialtroni, …. io che ero tanto felice, beata e tutto, di scarrozzarmi in metró. Eh, c…”) ci fa capire subito che non è una ragazzina compìta ma, si direbbe oggi, è un personaggio politicamente scorretto. Non solo usa spesso un linguaggio scurrile, ma questo linguaggio le serve in genere per chiosare le frasi degli adulti che le si rivolgono come si dovrebbe fare con una ragazzina della sua età: esemplare a questo proposito il dialogo tra lei e l’autista Charles che le accenna alla chiesa des Invalides: ”…se vuoi vedere davvero gli Invalidi e la tomba vera del vero Napoleone, ti ci accompagnerò. – Napoleone un c…, – replica Zazie” (nell’originale il più efficace Napoleon mon cul). Si verrà a sapere che Zazie ha subito un tentativo di violenza da parte del padre, ed in quel frangente la madre lo ha ucciso spaccandogli la testa con un’ascia. Questo antefatto potenzialmente devastante per la psiche di Zazie è però narrato dalla ragazzina con leggerezza, quasi con orgoglio per il suo ruolo e per le conseguenze giudiziarie di cui è stata protagonista, tanto da insinuare nel lettore il sospetto che sia una storia inventata per attirare l’attenzione. Questa incertezza, questa ambiguità delle situazioni narrate è, come vedremo, secondo me una delle chiavi di interpretazione del libro. Ancora, durante la sua fuga mattutina per le vie di Parigi Zazie non esita ad additare alla folla come pedofilo il buon Turandot che voleva riportarla a casa. Zazie è l’elemento disturbante, che con il suo modo di fare, con il suo porre domande dirette e chiedere sempre di vedere ciò che dicono gli adulti, con il suo servirsi dell’arma di una innocente spudoratezza smaschera le convenzioni del linguaggio e dei rapporti sociali, ridicolizza il mondo artefatto degli adulti, mettendoli a nudo per ciò che sono.
I principali personaggi adulti che appaiono nel romanzo sono infatti tutti caratterizzati da una qualche forma di ambiguità o di insufficienza rispetto al loro ruolo sociale. Lo zio Gabriel, che fa il danzatore in un locale per gay, è forse omosessuale, ma lo nega recisamente; Charles, il suo amico tassista, non conosce i principali monumenti di Parigi; Pedro / Trouscaillon (che si presenta nella storia anche con altri nomi e personalità) non si sa chi sia e cosa davvero faccia nella vita, (ad un tratto commenta disperato ”E’ me, è me che ho perduto”). La dolce Marceline, moglie di Gabriel, alla fine del libro diventerà Marcel; la vedova Mouaque è alla disperata ricerca di una purchessia storia sentimentale, e farà una assurda fine; la madre di Zazie ha forse ammazzato il marito.
Il microcosmo di relazioni costituito da Gabriel, Marceline e dai loro compari, a sua volta piccola parte del grande microcosmo umano costituito da Parigi, si regge sulla parola, ma su una parola che è codificata, artificiosa (metalinguaggio, dice Roland Barthes) che non esprime le cose, ma solamente le rappresenta, quando non rappresenta unicamente sé stesso. Le relazioni tra le persone non cercano di sciogliere le ambiguità di cui sono infarcite, ma si basano sulla chiacchiera (”Chiaccheri, chiaccheri (sic!), non sai far altro”, ripete monotono Laverdure, il pappagallo – filosofo del barista Turandot). E’ solo Zazie, che usa un altro linguaggio, che si incunea in questo microcosmo come un granellino di polvere in un ingranaggio apparentemente perfetto, che vuole sempre scoprire il significato vero delle parole, ad essere in grado (spesso con quel 'mon cul') di smascherare la convenzionalità e la superficialità della comunicazione; ne farà esplodere tutte le contraddizioni, sino all’assurdo (ma solo apparentemente) show-down finale, nel quale emerge chiaramente la repressione dell’ordine costituito rispetto ad ipotesi di sovvertimento dei codici di comunicazione. E’ infatti ad esempio solo dopo che il ciclone Zazie si è abbattuto su quel microcosmo che la dolce Marceline sarà riconosciuta per quello che è, per Marcel.
Ecco che quindi in 'Zazie nel metró' il il linguaggio, oltre che essere un modo per esprimere la storia narrata, è esso stesso oggetto della storia, mezzo attraverso cui passano i grandi enigmi che questa storia ci consegna. Queneau usa uno specifico mezzo espressivo (il suo linguaggio) per parlarci di costruzioni sociali e relazioni personali fondate sul linguaggio e sul suo uso sociale, e che attraverso un diverso uso del linguaggio possono essere analizzate e messe in discussione.
Zazie però non andrà nel metró: la messa a nudo delle ambiguità delle relazioni nel piccolo gruppo non è sufficiente per destrutturare la grande costruzione artificiale di rapporti sociali incarnata dalla grande città, che continuerà come sempre ad aggiungere artificialità ed ambiguità a sé stessa. La battuta finale di Zazie alla madre che le chiede cosa abbia fatto in quei due giorni: ”sono invecchiata”, sembra anzi volerci dire che non solo il moloch parigino ha già assorbito la sua irregolarità, ma che essa stessa sia stata inevitabilmente normalizzata da forze senza dubbio incommensurabili con la sua pur meravigliosa freschezza.
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Il significato oltre il significante
L'opera letteraria di Raymond Queneau, che pure si sviluppa prevalentemente dopo il secondo conflitto mondiale, affonda prepotentemente le sue radici nel periodo precedente, ed in particolare nella Parigi surrealista degli anni '20 e '30 del novecento. Infatti Queneau, se non fu uno dei principali protagonisti di quella stagione, non rivestì neppure il ruolo di mera comparsa, e la sua amicizia con Breton prima e con Bataille poi segna profondamente i tratti della sua poetica.
Queste radici sono evidenti anche ne 'I fiori blu', opera tarda dello scrittore (fu pubblicato nel 1965) che però mantiene la freschezza e l'originalità che caratterizza tutta la scrittura di Queneau, e che ne fanno a mio avviso uno dei grandi autori del secondo novecento europeo, in grado di regalarci opere da un lato godibilissime e dall'altro caratterizzate da una complessità strutturale e compositiva che permettono a chi vuole andare sotto la superficie del testo di trovarvi la pluralità di elementi di riflessione e di piani di interpretazione che solo la grande letteratura sa dare.
Prima di cercare di addentrarsi nella gioiosa (ma anche drammatica) sarabanda de 'I fiori blu', credo sia utile spendere qualche parola sulla sua traduzione. 'I fiori blu' è infatti il classico libro intraducibile, in cui il linguaggio non è lo strumento neutro attraverso il quale l'autore descrive le situazioni, ma è esso stesso creatore delle situazioni, latore assoluto del senso delle cose che l'autore vuole consegnarci. 'I fiori blu' è a mio avviso il classico esempio in cui il significante (la parola) non descrive il significato (il fatto, la situazione), ma lo determina. In altri termini (ed in questo si vede tra l'altro tutto il debito dell'opera con la grande letteratura del primo novecento) il linguaggio usato non determina solamente il tono dell'opera, ma 'è' l'opera stessa, che non potrebbe essere ciò che è se fosse stato usato un altro linguaggio. Questo problema, comune tra l'altro a gran parte delle opere poetiche, determina l'intraducibilità pratica di quest'opera in una lingua diversa dal francese usato da Queneau, che è un francese ricco di giochi di parole, arcaismi, neologismi, parole inventate, lessico popolare e quant'altro. La nostra fortuna è che questo libro è stato tradotto da un grande, da Italo Calvino.
In altri casi mi è capitato di scagliarmi contro le traduzioni effettuate da scrittori, che in genere tendono a soffocare lo spirito originale dell'opera sovrapponendovi il proprio ego letterario. Il caso de 'I fiori blu' tradotto da Calvino è invece completamente diverso. Due fattori concomitanti, la grandezza letteraria del traduttore e la sua vicinanza culturale (nonché la sua amicizia) con l'autore, hanno fatto sì che l'intraducibile opera venisse tradotta (per quanto ne posso capire non avendo letto l'originale) conservandone l'essenza comunicativa originaria. Certo, Calvino ha dovuto in alcuni casi italianizzare ambiti, frasi e detti, ha dovuto modificare giochi di parole, attributi e neologismi per renderli comprensibili al pubblico italiano, ma lo ha fatto a mio avviso avendo in mente con precisione quale era il ruolo che il linguaggio svolgeva nell'opera originale, e non tradendo mai questo ruolo. A questo proposito la 'Nota del traduttore' posta alla fine del libro (a proposito, quanta finezza e modestia da parte del più grande intellettuale italiano degli ultimi decenni in quel titolo di servizio) è veramente illuminante, oltre che a tratti quasi commovente per come Calvino quasi si scusa per le inevitabili manipolazioni del testo originario e per come, inevitabilmente, non gli sia stato possibile rendere appieno i calembour linguistici di cui è infarcito. Tra l'altro in questa nota Calvino non si limita agli aspetti tecnici della traduzione, ma fornisce diversi approcci all'interpretazione del testo. Credo che solo un grande letterato come lui fosse in grado di rendere in italiano un'opera così prettamente francese come 'I fiori blu'.
Il linguaggio di Queneau (mediato da Calvino) rappresenta quindi il primo strato interpretativo in cui si imbatte il lettore de 'I fiori Blu', strato che come detto determina in gran parte l'essenza stessa dell'opera. Ci si diverte molto, sin dalle prime righe, sin da quell'elenco di resti del passato che il duca d'Auge osserva dalla sua torre, da quei normanni che bevevan calvadòs.
Se il linguaggio in Queneau è un elemento essenziale della costruzione del testo, non si deve però credere che la scrittura sia fine a sé stessa: 'I fiori blu' non è un 'esercizio di stile', è linguaggio che determina una storia (meglio, due storie; meglio ancora due storie che rappresentano la Storia) la quale interagisce a sua volta con il linguaggio per formare una miscela potenzialmente esplosiva. La storia narrata, o meglio determinata dal linguaggio di Queneau, finisce così per affrancarsi dalla lingua che la esprime, e ad emergere per sé stessa: così, se pure è il significante a determinare il significato, alla fine è come se ci abituassimo al primo e ci concentrassimo sul secondo. E' questo che mi fa dire che 'I fiori blu' è grande letteratura: Queneau non vuole rappresentare, vuole esprimere, servendosi di un significante che però esprime pur sempre, determinandolo, un significato.
Le storie sono due: quella del Duca d'Auge, sorta di personaggio immortale che attraversa la storia francese dal 1264 al 1964 in 5 tappe separate ciascuna da 175 anni, e quella di Cidrolin, apatico ed anzianotto signore che vive su una chiatta sulla Senna alla periferia di Parigi appunto nel 1964. I due si sognano a vicenda, nel senso che quando uno si addormenta proseguono le vicende dell'altro: finiranno per incontrarsi nella parte finale del libro.
Auge, come detto, attraversa la storia francese toccandone alcuni momenti topici (tra l'altro i salti di 175 anni lo portano anche nel 1789). E' un feudatario, e come tale si trova spesso in contrasto con il re per difendere i suoi privilegi. E' amico e difende alcuni dei personaggi più irregolari e controversi della storia di Francia, come Gilles de Rais (di cui si occupò anche Bataille) e D.A.F. De Sade. E' violento, crapulone e opportunista, si affida ad un alchimista e maltratta ed umilia i rappresentanti della chiesa. Viaggia in compagnia di un paggio (che spesso picchia) e di due cavalli parlanti (Demostene e Stèphan). Quando scoppia la rivoluzione, fiuta la mala parata e invece di partecipare agli stati generali ripara in Spagna andando a dipingere le grotte di Altamira. Rappresenta secondo me l'uomo di potere francese, con i tratti che gli sono innati e quelli che accumula ed affina dalle vicende storiche che si susseguono: le vicende di Auge ci narrano anche per certi versi, attraverso episodi spassosi ma puntuali, l'evoluzione storica dell'intera società d'oltralpe nel corso del tempo.
L'indolente Cidrolin, che è il suo opposto (ma è anche il suo alter-ego: entrambi si chiamano Joachim), esemplifica il possibile risultato umano di tutto il grandioso movimento della Storia attraverso la quale è passato il Duca: l'emarginazione culturale ed umana di Cidrolin, il suo essere succube delle circostanze, il suo triste adattamento ai rovesci della vita tramite il bere e l'inattività sono paradigmatici dell'esclusione, in un tempo in cui le energie della storia sembrano esaurirsi, ed in cui l'unica preoccupazione sembra essere quella se avere o no la televisione. La sua drammatica emarginazione è evidenziata plasticamente dalla soluzione della vicenda delle misteriose scritte ingiuriose che appaiono nottetempo sulla sua staccionata e che egli puntualmente ogni giorno ridipinge.
Quando il duca d'Auge, con scudiero e cavalli parlanti al seguito, e Cidrolin si incontreranno, sarà il duca a disincagliare l'arca (la chiatta in cui Cidrolin vive) e a farla navigare verso un nuovo inizio della storia: sarà ancora lui, con la sua capacità di adattamento e di gestione del potere e dettare le regole. Per Cidrolin, e per tutti i Cidrolin del mondo, non ci sarà posto in questo nuovo inizio, e dovranno abbandonare l'arca e sparire. La Storia quindi si rimette in moto, apparentemente uguale a sé stessa, escludendo chi essa stessa espelle, ed il libro si chiude in modo circolare, con il duca che considera la situazione storica. L'unica differenza, che Queneau sottolinea, è che stavolta dal fango i fiori blu iniziano a germogliare: forse in questo passaggio si può scorgere l'intuizione (o la speranza) che qualcosa in realtà stesse cambiando (siamo negli anni dell'inizio della contestazione giovanile ad un modello sociale che sembrava sonnecchiare appagato del benessere che si stava diffondendo).
Molti altri personaggi si incontrano ne 'I fiori blu', e ciascuno meriterebbe una piccola descrizione, perché ciascuno gioca un preciso ruolo in questo affresco storico ironico e dissacrante. Lascio al lettore la loro scoperta, invitandolo ad entrare nel mondo fantasmagorico di Queneau, dove troverà, come nelle altre sue opere, modo di divertirsi e di riflettere.

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L’apprendistato di un grande narratore del caos
Dopo la lettura di un’opera come 'V.', la cui complessità e vastità sorprende e per certi versi sconcerta, leggere i cinque racconti contenuti in questo ottimo volume delle edizioni e/o porta a conoscere un Pynchon sostanzialmente diverso, più convenzionale (se mi si passa il termine, da intendersi comunque compreso entro più serie di virgolette). I motivi di questa convenzionalità sono a mio avviso essenzialmente due. Il primo è che si tratta di racconti giovanili: le stesse edizioni e/o, qualche anno prima hanno pubblicato un volume, identico nel contenuto ma diverso nella forma, chiamandolo 'Un lento apprendistato', titolo che a mio avviso meglio riflette il carattere preparatorio di questi racconti rispetto alle successive opere lunghe dello scrittore statunitense. Il secondo motivo della diversa densità letteraria tra questi racconti e i romanzi è di carattere per così dire strutturale: la forma-racconto, con il suo esaurirsi in poche decine di pagine, non consente a Pynchon di allestire quel caleidoscopio continuamente mutevole di storie, toni e cromatismi che caratterizza ad esempio un’opera come il citato 'V.' e che costituisce per certi versi il nucleo fondante del postmodernismo pynchoniano.
Dicevo che si tratta di una serie di racconti giovanili: quattro dei cinque racconti, infatti, sono stati scritti prima del 1963, anno di pubblicazione di 'V.' (suo primo romanzo) ed il primo della raccolta, 'Pioggerella', risale al 1958, dunque ad un autore ventunenne. Solo l’ultimo, 'L’integrazione segreta', è stato scritto nel 1964, dopo 'V.', e proprio per il suo essere posteriore al romanzo d’esordio dimostra come il racconto in quanto forma narrativa sia strutturalmente incapace di contenere gli elementi essenziali della prosa di Pynchon: non è a mio avviso un caso che in seguito l’autore abbia deciso di dedicarsi ad opere di ben altro respiro (se si esclude parzialmente 'L’incanto del lotto 49', che comunque appartiene ancora alla prima fase dell’attività letteraria dell’autore, essendo del 1966) che sole gli hanno dato la possibilità di dispiegare la sua forza corrosiva nei confronti della struttura della narrazione che è il mezzo espressivo che lo caratterizza.
I cinque racconti di 'Entropia e altri racconti', pubblicati in volume nel 1984 con una prefazione dell’autore su cui tornerò, sono comunque tasselli preziosi per comprendere l’evoluzione dello scrittore Pynchon, anche e soprattutto perché ci rivelano – proprio attraverso la loro generale convenzionalità espressiva – alcune delle tematiche di fondo della narrativa pynchoniana, che nelle opere maggiori corrono il rischio di essere in qualche modo sommerse dalla sovrastruttura narrativa, dalla brillantezza (o complessità, se si vuole) del modo di narrare.
Trovo infatti riduttivi e non rispondenti alla realtà (almeno per quella che è la mia conoscenza dell’autore) i tentativi – come quello operato da Roberto Cagliero nella postfazione a questo volume – di attribuire a Pynchon intenti narrativi in cui '…non si cela un’ambizione totalizzante, né si intravvedono intenti programmatici generali… Non vi è [in Pynchon] tentativo di produrre una letteratura-guida, semmai il progetto consiste nell’affrontare certi problemi formali….' La prova del fatto che Pynchon scrive avendo in mente la necessità di sottoporre a una critica radicale alcuni dei paradigmi fondanti la società in cui vive, e che quindi la soluzione di certi problemi formali sia ben lungi dall’essere la motivazione del suo narrare è data proprio da questi racconti ed anche, in maniera chiara, dalla prefazione che venticinque anni dopo Pynchon antepone alla loro pubblicazione. Se Pynchon giunge, con 'V.' e le opere successive, ad affrontare radicalmente problemi formali inventando in qualche modo il cosiddetto postmodernismo è perché si è reso conto che le cose che ha da dire non possono che essere dette in un modo diverso da quello usato sino ad allora: è perché narrare il caos inenarrabile di una società consumistica che vive sotto l’incubo della distruzione atomica e della progressiva automatizzazione delle funzioni e financo delle relazioni sociali richiede un nuovo paradigma narrativo, come avevano per altro verso intuito i modernisti all’epoca della crisi della società borghese ottocentesca. E’ questo a mio avviso che fa di Pynchon un grande narratore, non il fatto che si possa essere occupato in astratto di certi problemi formali. E’ quantomeno bizzarro che Cagliero non si accorga che proprio il contenuto del volume del quale sta scrivendo contraddice la sua apodittica valutazione.
Il volume propone per primo 'Pioggerella', un racconto di ambientazione militare, che molto deve nello stile alla letteratura della beat generation. L’intento di critica alla gerarchizzazione militare e sociale, alla meccanicità e alla stereotipizzazione delle relazioni umane che induce è evidente (Pynchon dirà nella prefazione del 1984 che il racconto esprime una prospettiva di classe, e che il servizio militare 'ha comunque il merito di costituire un’ottima introduzione alla struttura generale della società'), ma il racconto è certamente opera di uno scrittore immaturo, come l’autore fa notare nella citata prefazione.
Di ben altro spessore è a mio avviso il successivo 'Terre basse', dove si intravedono alcune luci che diverranno fari nelle opere maggiori. Nel racconto fa emblematicamente la sua comparsa il personaggio di Pig Bodine, marinaio anarchico e depravato che ritroveremo in 'V.', ma è soprattutto nella descrizione delle 'Terre basse', la discarica in cui si rifugia il protagonista dopo l’improvvisa rottura della sua tranquilla vita da esponente della middle class che appare per la prima volta la metafora del caos sistematico in cui è precipitata la società. Questa città alternativa e segreta, fatta di vicoli delimitati da muri di pneumatici ed elettrodomestici abbandonati, dove Dennis Flange viene risucchiato dal canto di una sirena-zingara e dove trova una nuova dimensione esistenziale nella quale immergersi almeno per un po’ la dice lunga sulla cupa visione di Pynchon rispetto alla società in cui vive.
'Entropia', il racconto giustamente più noto della raccolta, estremizza coerentemente il senso di mancanza di futuro che caratterizza il mondo di Pynchon: per il secondo principio della termodinamica, l’aumento irreversibile di entropia porterà l’universo alla morte termica, ad uno stato di temperatura uniforme in cui non sarà più possibile alcuno scambio e quindi alcuna forma di vita. Pynchon descrive il raggiungimento di questo stato di immobilità nel nostro vivere quotidiano, presentandoci ciò che avviene in due appartamenti di un palazzo americano. In uno si svolge una festa sfrenata, in cui ormai nessuno riesce più a entrare in relazione ed a comunicare con l’altro, in cui tutti sono ubriachi e fanno cose senza senso. Al piano di sopra una coppia, che si è isolata in una sorta di serra, è conscia che la morte termica dell’universo sta giungendo ma è incapace di una qualsiasi reazione: l’impotenza di Callisto (nome emblematico, come quello di Meatball, il casinaro del piano di sotto), è simboleggiata drammaticamente dalla sua incapacità di trasmettere il proprio calore corporeo ad un uccellino che vuole salvare dalla morte. Per Pynchon, quindi, né chi ostenta una vitalità fasulla né chi si ritrae nella propria superiore coscienza intellettuale è in grado di fermare il caos sociale, la degradazione dell’energia che porterà inevitabilmente alla morte della civiltà: la tardiva ed inutile rottura della parete della serra da parte della donna di Callisto non farà altro che far entrare anche in quell’ambiente la morte termica. Nella prefazione Pynchon critica fortemente il racconto, accusandosi di avere piegato le storie e i personaggi a una tesi predefinita: anche se ciò può essere in parte vero, è però indubbio che si tratta di un racconto di una forza notevolissima, di una lucidità disperante.
'Sotto la rosa' è a mio avviso il racconto più debole, sorta di anticipazione di alcune delle pagine di 'V.' che si svolgono alla fine dell’800. E’ comunque anche qui notevole come per il tramite di una sorta di spy-story Pynchon ci comunichi l’impossibilità, da parte del singolo, di interpretare e di influire sugli oscuri disegni del potere, di dipanare le inestricabili matasse del caos mondiale. L’esecuzione di Porpentine, spia gentiluomo ormai fuori tempo, rappresenta ancora una volta la degradazione barbarica della società lanciata verso l’apocalisse della prima guerra mondiale.
La raccolta termina con 'L’integrazione segreta', il racconto ad un tempo più tenero e più scopertamente di denuncia di uno dei tratti caratterizzanti la società statunitense degli anni ’60 (per la verità in buona parte anche di oggi): la discriminazione razziale, che Pynchon lucidamente attribuisce essenzialmente a fattori economici (i 'negri' trasferitisi nel quartiere ne deprezzano i valori immobiliari). La banda di ragazzini che progetta azioni rivoluzionarie, che sola cerca di confortare il disperato musicista nero che verrà brutalmente arrestato dalla polizia, che si inventa un amico nero figlio inesistente della famiglia presa di mira dai loro genitori razzisti, secondo me si ispira ad alcune delle più belle pagine di Mark Twain, e sembra dirci, per un attimo, che forse le giovani generazioni potranno cambiare le cose. L’apparentemente dolce finale, però, ci richiama ancora una volta alla ineluttabilità del ritorno alla normalità delle cose, alla loro immutabilità.
Insomma, se come detto la forma di questi racconti è inevitabilmente diversa da quella delle opere maggiori, la sostanza con cui sono costruiti è molto simile, e proprio questa differenza di forma, questo loro essere più piani, ci permette di scoprire più agevolmente tramite questi racconti il radicale approccio di critica sociale ed esistenziale di questo grande scrittore contemporaneo.
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Affresco incompiuto sul cambiamento di un mondo
**Attenzione: anticipazioni sulla trama**
'Settimio Felton ovvero l’elisir di lunga vita' è un romanzo incompiuto di Nathaniel Hawthorne: invero la storia c’è quasi tutta, ma nel testo proposto da questa bella edizione Garzanti ci sono note dell’autore che lasciano capire come egli intendesse ampliare alcune parti della narrazione e vi sono anche contraddizioni narrative: su tutte quelle riguardanti il personaggio di Rose, che nella prima parte del romanzo è fidanzata del protagonista per poi divenirne la sorella.
Questa incompiutezza non toglie quasi nulla comunque all’appeal del romanzo, che pur non avendo il fascino assoluto de La lettera scarlatta è comunque un romanzo importante per esplorare la poetica dell’autore e per comprendere meglio la letteratura statunitense dell’ottocento.
Il filo conduttore della storia è molto “europeo” e probabilmente è stato ispirato ad Hawthorne dal contatto avuto con la letteratura anglosassone romantica e tardo-romantica durante il suo lungo soggiorno europeo (dal 1853 al 1859): il giovane Settimio, studioso dal carattere ombroso e solitario, è ossessionato dal tema della morte, che interrompe la vita talmente presto che, dice all’inizio del romanzo, ”Se mi fosse stato proposto a queste condizioni e avendo facoltà di scelta dubito che avrei accettato di esistere, è una tale fatica prepararsi a vivere e poi la vita non viene concessa; se ne coglie un inizio gravoso e basta”.
Egli dunque vorrebbe vivere in eterno, ed una serie di complicate circostanze gli permetteranno di credere di avere scoperto il segreto della preparazione di un elisir che si ritene porti all’immortalità. In realtà l’elisir si rivelerà un potente veleno, per mezzo del quale Settimio doveva morire (non sto a raccontare tutta la storia, che è abbastanza contorta) ma da cui si salverà, per l’amore di quella che doveva essere la sua carnefice.
Questa trama tardo-romantica è però ambientata, ovviamente, nella Nuova Inghilterra, in un’epoca decisiva per quelle terre: la rivoluzione che porterà alla formazione degli Stati Uniti. Sullo sfondo della vicenda di Settimio ci sono quindi le battaglie per l’indipendenza che lambiscono il villaggio di Concord in cui il nostro eroe abita, e proprio l’incontro con un soldato inglese darà avvio a tutta la vicenda. Questa ambientazione secondo me non è secondaria, e ci aiuta a penetrare a fondo nell’essenza del romanzo.
L’edizione che ho letto è tradotta e commentata da Elémire Zolla, che nella prefazione, peraltro pregevole ed elegante come la traduzione, basa la sua analisi sugli elementi di esoterismo presenti nel romanzo, ricollegandoli ad analoghi elementi di vari autori europei, e propugna l’idea che il Settimio Felton sia un romanzo nel quale Hawthorne esprime 'la sua fondamentale esecrazione dell’umanesimo scientifico, della riduzione dell’uomo all’umano'. Dice ancora Zolla: 'All’uomo sempre si ripropone questo dilemma: optare per la quiete o per l’inquietudine, per la pace dell’anima o per il soddisfacimento di tutti i concepibili bisogni terrestri. Hawthorne vuole indicare dove conduca questa seconda scelta, fornire una dimostrazione per assurdo della bontà della prima.'
In sostanza, secondo Zolla, il 'Settimio Felton' è un libro costruito per dimostrare che la sete di conoscenza, l’ambizione di valicare i limiti imposti dalla natura non può che portare a lutti e disgrazie. E’ meglio quindi abbandonarsi al proprio destino e non cercare di cambiarlo. Sentiamo ancora Zolla: 'Tale è il principio del bene: tendere all’abbandono entro un proprio destino, alla quiete come supremo valore'. Questa interpretazione "esistenziale", che pure può essere una delle chiavi di lettura del libro, diviene a mio avviso da un lato profondamente reazionaria nel momento in cui Zolla la assume come elemento per definire “eccelso” il libro, e dall’altro non esaurisce certo le possibilità interpretative, proprio perché si astrae assolutamente (e in qualche modo assolutisticamente) dal contesto storico in cui il libro è stato da un lato scritto e dall’altro ambientato.
'Settimio Felton' è scritto nel 1859-60, praticamente allo scoppio della Guerra di Secessione, evento che avrebbe marcato la storia degli Stati Uniti ponendo le basi della sua potenza industriale. Gli Stati Uniti stanno cambiando pelle, ed Hawthorne ci racconta di un altro momento di cambiamento, quello delle origini, nel quale la formazione dello Stato segnò un momento di discontinuità con il passato. Partendo da questo presupposto, Settimio, discendente di un colono inglese ma anche con sangue indiano nelle vene, rappresenta un mondo che sta sparendo, quello delle colonie puritane, del legame con l’ancestralità delle foreste del nuovo mondo e del rapporto, sia pur conflittuale, con i nativi. Questo mondo pensa di poter sopravvivere per sempre, di avere la ricetta (che guarda caso viene sia dall’Inghilterra sia dallo sciamanesimo nativo) per perpetuare lo status quo. Non capisce che sta per essere spazzato via per sempre dalla nuova società, rappresentata da Robert Garfield, il baldo giovane che – a differenza di Settimio – andrà a combattere per la causa, divenendo ufficiale e sposando Rose, la sorella di Settimio (ecco perché diviene sua sorella: come fidanzata di Settimio non avrebbe avuto senso nella storia). Garfield e Rose vinceranno e costituiranno le basi per il nuovo inizio: a Settimio, sconfitto, non resterà che tornare in Inghilterra alla ricerca delle sue radici, ormai disconosciute in patria.
Non so se Hawthorne fosse un nostalgico dell’America delle colonie, della cui ristrettezza culturale ci dà peraltro un folgorante ritratto nel suo capolavoro, ma è certo che 'Settimio Felton' è l’affresco appena abbozzato del cambiamento di un mondo.
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I racconti di Hawthorne

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Le contraddittorie radici del pensiero borghese
Nel nostro immaginario collettivo il nome di D.A.F. De Sade è legato, anche grazie a numeroso cinema di serie B, alla pornografia, alle pratiche sessuali estreme. Sadismo, sadico sono entrati nel nostro vocabolario con una connotazione indubbiamente negativa.
Il pregio di questo ponderoso volume, edito molti anni fa da Mondadori ma tuttora disponibile, è di restituirci, attraverso una scelta delle sue opere, a tutto tondo il pensiero di un grande – anche se forse minore a causa della sua irregolarità – rappresentante dell’illuminismo.
Il libro contiene due dialoghi filosofici (Dialogo fra un prete e un moribondo e La filosofia nel boudoir), alcuni racconti, il romanzo Justine, dieci lettere scritte dal carcere e tre brevi saggi.
De Sade infatti trascorse buona parte della sua vita in carcere, imprigionato sia dall’ancién regime, sia dai governi rivoluzionari, sia infine da Napoleone, a testimonianza della 'pericolosità' delle sue idee (oltre che, oggettivamente, a causa di comportamenti non certo esemplari).
A mio modo di vedere le opere più significative comprese nel volume sono i due dialoghi iniziali (ed in particolare La filosofia nel boudoir) ed il romanzo Justine. Questi ultimi due furono pubblicati anonimi, mentre il primo fu pubblicato solo nel 1926. L’anonimato permette a De Sade di esporre senza autocensure le sue idee, cosa che non avviene nei racconti ufficiali. Ma quali sono queste idee?
Innanzitutto un assoluto ateismo, di cui il 'Dialogo fra un prete e un moribondo' costituisce il manifesto. L’ateismo di De Sade è un ateismo naturalistico e meccanicistico: la natura basta a sé stessa, tutto ciò che accade è necessario e non ha bisogno di altra spiegazione se non che è naturale che accada. Ciò che noi consideriamo male e bene non sono altro che strumenti indifferenti che la natura usa per perpetuare se stessa e i suoi cicli. Concepire l’esistenza di un dio che regoli tutto questo è contraddittorio (se esistesse, perché non dovrebbe permettere solo il bene?) e inutile.
La filosofia nel boudoir, con il pretesto dell’iniziazione sessuale di una giovanetta da parte di alcuni personaggi particolarmente dissoluti permette a De Sade di esporci con completezza il suo pensiero. In coerenza con quanto detto a proposito dell’ateismo, è un pensiero radicalmente libertario, razionalista ed individualista. Tutto è lecito all’individuo: il solo fatto che si possa fare una cosa significa che rientra tra le cose che la Natura esige che sia fatta per la sua perpetuazione. Tra i diritti naturali dell’individuo c’è quello al piacere, da perseguire con ogni mezzo, anche attraverso il dolore e la sofferenza altrui. Anzi, il piacere aumenta se è conseguito attraverso delle vittime: non ci si deve curare di queste ultime, perché se soffrono, se addirittura muoiono a causa del loro carnefice ciò non è altro che un processo naturale, visto che la natura usa la morte come strumento per ricombinare la materia.
Ne emerge, qui come in Justine, una sorta di radicale ''darwinismo sociale ante litteram', in cui l’uomo, il forte, ha non solo il diritto, ma anche il dovere di perseguire il suo piacere e il suo benessere a scapito dei deboli, dovendo obbedire ad una sorta di imperativo naturale. I deboli sono i poveri (De Sade auspica la eliminazione fisica dei mendicanti) e le donne, viste spesso come strumento del piacere maschile.
Il sesso libero non è quindi per De Sade uno strumento di liberazione, ma un modo per riaffermare il diritto/dovere di alcuni di servirsi di ogni mezzo per raggiungere il proprio benessere e piacere.
Insomma, il pensiero di De Sade prende sicuramente le mosse da un afflato libertario e di rivolta contro le convenzioni sociali e religiose delle epoche in cui visse, ma approda a lidi di individualismo che ricreano una nuova gerarchia dove il benessere di pochi eletti pretende la sofferenza dei molti. Siamo a mio modo di vedere alle radici di correnti di pensiero che avrebbero attraversato nei secoli successivi la cultura europea, generando visioni sociali e politiche opposte e fornendo anche basi teoretiche a regimi come quello nazista. In fondo De Sade rappresenta e sintetizza pienamente gli estremi filosofici e le contraddizioni insite nella cultura borghese che stava facendosi egemone.
Molto meno significative per capire il pensiero sadiano sono i racconti, che in quanto 'ufficiali' sono più autocensurati e si incanalano lungo un mainstream moralistico. Sono comunque una piacevole lettura.
Le lettere, scritte dal carcere alla moglie e ad altri personaggi, ci permettono di entrare nel mondo minuto di De Sade, nelle sue sofferenze umane, nel suo sentirsi (ed essere) facile vittima della morale corrente. I tre brevi saggi finali nulla aggiungono a quanto già precepito negli scritti maggiori.
Resta da avvertire il lettore che in particolare ne La filosofia nel boudoir e in Justine le descrizioni delle pratiche sessuali estreme sono molto esplicite ed a volte disturbanti: del resto disturbante le nostre certezze è l’intero pensiero del divin marchese.
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Sconsigliata a chi giudica disdicevole la pornografia e la violenza in letteratura.

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L'opera smisurata che restituisce...
... il senso del nostro nonsenso
I miei interessi letterari si fermano quasi esclusivamente al periodo anteriore alla seconda guerra mondiale. Raramente quindi mi capita di leggere opere di un periodo posteriore, che considero una sorta di piano inclinato lungo il quale la letteratura ha via via perso la sua capacità di essere una forma di espressione artistica in grado di interpretare con originalità la realtà, quando non di prevederne i cambiamenti.
Sono tuttavia consapevole che questa mia lettura è inficiata da una certa dose di grossolanità, per cui ogni tanto e per alcuni autori faccio delle eccezioni, e mi avventuro nei territori per me abbastanza inesplorati degli ultimi decenni del ‘900 alla ricerca di una specie allora rara ed oggi pressoché estinta, la buona letteratura (buona per la mia sensibilità, ovviamente).
Tra gli autori del secondo novecento che mi affascinano c’è Thomas Pynchon, perché nelle sue opere trovo tratti, sia per quanto riguarda il contenuto, sia per la caratterizzazione stilistica che ad esse attribuisce, che le avvicinano – anche se a mio avviso solo relativamente alla maggior parte dei suoi contemporanei, e non in senso assoluto – ai grandi capolavori dell’800 e del primo ‘900 letterario.
Molti anni fa lessi 'Vineland', che mi piacque molto ma di cui per la verità non ho più un ricordo preciso (dovrò rileggerlo) e più di recente mi avventurai (è proprio il caso dirlo, visto l’argomento) nella lettura di uno dei suoi ultimi romanzi, 'Mason & Dixon', di cui rimasi entusiasta (in qualche meandro della rete ci deve essere ancora la breve recensione che scrissi allora).
Adesso ho affrontato la prima opera estesa di Pynchon, che è anche uno dei suoi libri più celebrati, ovverosia V.
Una prima considerazione: la edizione in cui ho letto V. (Rizzoli, La Scala, con copertina rigida e sovracoperta) contiene un equivoco clamoroso. Proprio in sovracoperta riporta, oltre al nome dell’autore e al titolo, la dizione Romanzo. Ora, io credo che uno dei tratti essenziali di V. sia proprio quello di non essere un romanzo; non è neppure, a mio modo di vedere, un’opera letteraria figlia della distruzione del romanzo operata dai grandi narratori del primo novecento, come Joyce, Proust, Musil: V. è qualcosa di completamente diverso, è un mix di cronaca ed epica, un frullato in cui ritroviamo gli elementi tipici del romanzo ottocentesco e del primo novecento come pure- qualcuno ha fatto notare – quelli del romanzo picaresco, ma anche i meccanismi del romanzo poliziesco, la colloquialità della letteratura della beat-generation che lo precede di poco, e molto altro. Insomma, V. è un mostro letterario, condito anche, a mio avviso, da una certa dose di autocompiacimento da parte dell’autore, che è complicato definire, ma che certamente non può essere definito semplicemente un romanzo. Sarà banale e scontato, ma a mio modo di vedere ancora oggi la definizione più azzeccata di V. è quella di opera che ha inaugurato la postmodernità. Cercherò di spiegare perché.
Se il romanzo moderno è stato lo strumento letterario dell’egemonia economica, politica e culturale della borghesia, la sua distruzione nei primi decenni del ‘900 ad opera dei grandi narratori europei è coincisa con (è stata figlia de) la grande crisi di questa egemonia. Il movimento operaio, la guerra mondiale, la rivoluzione d’ottobre avevano spazzato vie per sempre le sicurezze dei valori del positivismo; analogamente la letteratura aveva progressivamente spazzato via le proprie antecedenti modalità espressive, gli oggetti stessi di cui fino ad allora aveva trattato.
Negli anni ’30 e ’40 l’avanzata del totalitarismo fascista e la guerra che ne consegue spingono ad una necessità di serrare i ranghi culturali in difesa dei valori di democrazia, ancorché squisitamente borghesi, nei confronti della barbarie: sono gli anni della forzata fine delle avanguardie.
Nel secondo dopoguerra, per citare o quasi un grande classico italiano, tutto cambia perché tutto resti uguale: la società dell’affluenza e dei consumi, come antidoto al pericolo comunista si sviluppa nel mondo occidentale che vive sotto l’incubo nucleare. La letteratura in questa nuova situazione perde il proprio ruolo di arma principe di interpretazione e critica della realtà, soppiantata in questo da altre forme espressive più al passo con i tempi (cinema, musica…): da un lato diviene mero strumento di veicolazione del consenso al servizio della nascente industria culturale e dall’altro si rifugia in una serie di "neoqualcosa" che non testimoniano altro che l’incapacità di una espressione originale nel nuovo contesto sociale.
Ci sono però delle eccezioni, dei tentativi di mantenere alla letteratura quel ruolo di grande crogiuolo della coscienza critica di un’epoca che aveva da sempre esercitato: queste eccezioni, per riuscire, dovranno riprendere, in forme nuove, quella capacità totalizzante che ha da sempre contraddistinto la grande opera letteraria. Nella bella prefazione a V. di Guido Almansi è riportata una frase di Italo Calvino, tratta dalle Lezioni americane che è illuminante al proposito: 'La letteratura sopravvive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là di ogni possibilità di realizzazione.'
E’ proprio questo il tentativo che Pynchon a mio avviso compie, quale diretto discendente della grande letteratura antecedente, scrivendo V.: quello di comporre un’opera smisurata ed inusitata che dia il senso complessivo dell’epoca in cui è stata scritta. Siccome però per Pynchon quell’epoca non ha un senso univoco ed a prevalere è l’assurdo, siccome non si può capire questo non-senso se non raccontando anche i non-sensi che lo hanno preceduto, siccome non c’è più alcuna possibilità di comprendere quello che sta accadendo se non per piccole parti, ecco che V. non può narrare una sola storia, ma tante piccole sconclusionate storie, alcune individuali, altre corali, ciascuna imbastita con il sottile filo dell’assurdità e con grandi dosi di ironia e dissacrazione, storie con legami tra di loro apparentemente deboli ma tenute insieme dalla presenza (o dalla non-presenza) di V., il misterioso e multiforme collante sul cui significato si sono esercitate schiere di critici e lettori. Queste storie, poi, non possono svolgersi in un tempo univoco, ma saltare continuamente da un tempo all’altro (sempre comunque tempi di guerra e di rivolta, tranne – anche qui apparentemente – il 1956 della crisi di Suez in cui si muovono Benny Profane e la Banda dei morbosi). Infine, il non-senso della Storia e delle piccole storie narrate non può che riflettersi nell’acquisito non-senso della letteratura, che diviene quindi parodia di sé stessa, citazione dei suoi generi (questo per la verità era già stato fatto da Joyce).
In questo apparente caos narrativo, che lascia aperti infiniti piani d’interpretazione che a loro volta si possono disperdere in mille rivoli, quanti sono gli spunti allegorici, metaforici o semplicemente di riflessione che l’autore ci trasmette (come detto a volte con un certo autocompiacimento), mi è sembrato tuttavia di percepire un forte elemento ordinatore, un messaggio cifrato univoco che secondo me è il senso del non-senso di V. La vita di Benny Profane, il suo essere 'schlemihl e un po’ yo-yo', costretto a lavori assurdi per tirare avanti, la vita di Esther, che vuole il naso perfetto, la vita sconclusionata della Banda dei morbosi, oltre che essere la faccia triste della beat generation e, come detto, della’infanzia della società dell’affluenza e dei consumi, ha i suoi antefatti logici nelle vicende del colonialismo, della prima guerra mondiale, del nazismo, tutti pezzi di Storia apparentemente assurdi ma guidati da una logica ferrea, quella della conquista e della gestione del potere, che (e qui troviamo anche accenti che anticipano in qualche modo Philip K. Dick) condurrà ad una società sempre più spersonalizzata, se il grande olocausto globale non interverrà prima. Il caos, il non-senso sono da sempre assolutamente funzionali a nascondere ai più l’esistenza di un ordine imperscrutabile, che ci conduce incoscienti verso mete precise.
Termino non sottraendomi all’esercizio principale di chi legge il libro. Chi (o cosa) è V.? Perché nel corso del libro assume le sembianze di donne, di quadri famosi, di località vere o inventate? Quale è il loro comun denominatore, che ce ne spieghi l’essenza? Secondo me V. è il più atroce scherzo che Pynchon ci gioca: V. non è una cosa o un posto, non è un archetipo o una grande metafora. E’ semplicemente ciò che è in ogni parte del libro, è un diversivo che ci distrae da quello che sta realmente accadendo, è Pynchon che ci dice di guardare in una sua mano mentre con l’altra ci nasconde il trucco del suo gioco di prestigio. Se deve essere una metafora, V. rappresenta le armi di distrazione di massa che tanta parte hanno nella nostra società. Concentrandoci su V. e sulla sua ricerca, come Stencil, non capiremo i segreti giochi di potere che ogni storia ci narra, la barbarie che ha generato la barbarie ed il caos in cui viviamo. Penseremo che basti scoprire chi è V. per risolvere l’enigma del libro, ma V. non esiste proprio perché l’enigma del libro non è risolvibile.
Indicazioni utili
La letteratura della beat-generation

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Il lato rassicurante del maestro del terrore
'Il mistero di Marie Rogêt' è il secondo racconto scritto da Poe che vede come protagonista Auguste Dupin, l’investigatore che è considerato il padre spirituale di Sherlock Holmes (come il personaggio di Conan Doyle è accompagnato da un aiutante spalla che ne narra le gesta) e degli altri personaggi che via via arricchiranno il genere poliziesco.
Poe come noto fu personaggio poliedrico: oltre che autore di racconti e romanzi (lo splendido 'Le avventure di Gordon Pym') fu giornalista e poeta; spirito tormentato, rappresenta uno degli archetipi – anche se eccentrico in quanto americano – dell’artista maledetto, che sarà il marchio di fabbrica del primo decadentismo europeo.
La figura di Auguste Dupin, e i racconti ad essa legati, sono estremamente interessanti, oltre che essere naturalmente avvincenti, perché rappresentano a mio modo di vedere l’altra faccia della poetica di Poe, quella che cerca di recuperare la razionalità ed il suo ruolo rassicurante rispetto al debordare dell’inconscio e dell’irrazionale che caratterizza i suoi racconti del terrore. E’ come se Poe cercasse, attraverso questi racconti e attraverso la cristallina razionalità di Dupin e del suo metodo deduttivo, di fornirci una possibilità per districarci dalle paure e dalle ossessioni generate dall’irrompere dell’inconscio nella vita quotidiana.
Prendiamo quello che è forse il più noto racconto dell’orrore di Poe: 'Il pozzo e il pendolo'. Il salvataggio finale del protagonista da parte dei francesi, pochi secondi prima della caduta nel pozzo, è chiaramente una postilla, tra l’altro risolta in poche righe, rispetto alla essenza del racconto, data dall’ineluttabilità e dalla assurdità del destino che lo attende. Tutto il racconto sta nella descrizione ossessiva della discesa del pendolo, nel suo sinistro fendere l’aria, nell’impossibilità di spiegare quello che sta accadendo.
Anche nei racconti di Dupin l’irrazionale gioca una parte fondamentale: nel primo, celeberrimo, in cui fa la sua comparsa il detective, 'I delitti della Rue Morgue', l’assassinio delle due donne è intriso di irrazionalità: non c’è movente, ci sono segni e tracce incomprensibili. Si tratta però di una irrazionalità fittizia, che se sottoposta all’analisi di chi è in grado di decrittarne i segni e di ricondurli sul terreno della logica lascia il posto a una assoluta razionalità, e quindi alla soluzione di un mistero che non è tale. Analogo meccanismo ritroviamo in un altro celeberrimo racconto di Dupin: 'La lettera rubata': la lettera è lì, nell’unico posto in cui potrebbe essere, ma solo chi è in grado di ricostruire razionalmente la vicenda la vede. Sta proprio nel ruolo che Poe fa giocare all’elemento irrazionale la grande differenza tra i Racconti del terrore e i Racconti polizieschi di Poe: nei primi l’irrazionale è reale, è l’oggetto stesso del racconto, è il disordine che accompagna la nostra vita, e non può essere spiegato. Nei secondi è un pretesto, una falsa irrazionalità che attende solo di essere sottoposta ad una rigorosa analisi per divenire perfettamente razionale e comprensibile. Questo secondo approccio verrà sviluppato in particolare dal genere poliziesco dell’800 e del 900, che accentuerà spesso il suo carattere rassicurante, per cui ad uno stato di disordine iniziale pone rimedio colui che sa, riportando la tranquillità nella comunità.
'Il mistero di Marie Rogêt' aggiunge all’indubbio fascino di poter esplorare questa polarità della poetica di Poe anche quelli legati alla particolarità del racconto. In esso non si esercita infatti soltanto il Poe narratore, ma, verrebbe da dire soprattutto, il Poe giornalista. Infatti il racconto traspone a Parigi un fatto di sangue, l’assassinio dopo violenza di una giovane donna, in realtà accaduto a New York, che stava appassionando l’opinione pubblica locale per la sua irresolubilità. Poe ci avverte esplicitamente di ciò nella nota dell’autore posta all’inizio del racconto, ed affida a Dupin la soluzione del caso. La cosa davvero notevole è che fu risolto proprio nel senso indicato dalle indagini di Auguste Dupin / Edgar Allan Poe, a testimonianza di come l’autore avesse realmente affidato al racconto una serie di considerazioni da lui fatte in merito all’episodio.
Altra particolarità del racconto, che deriva direttamente da quanto detto sopra, è il fatto che il caso viene risolto da Dupin senza che egli si alzi dalla sua poltrona di casa, semplicemente avvalendosi delle notizie riportate dai quotidiani e di quelle che raccoglie il suo aiutante. Anche questo è una sorta di archetipo creato da Poe, che avrà molti epigoni, tra cui il più estremo, anche se non il più noto (ingiustamente) sarà forse il detective eteronimo di Fernando Pessoa, Abilio Quaresma, che non si reca mai sulla scena del delitto perché la realtà può inquinare le sue deduzioni logiche.
Nel caso di Marie Rogêt, la passività di Dupin è giustificata essenzialmente dal fatto che egli riflette il metodo che Poe ha usato per fornire indicazioni sull’assassinio newyorkese, ma è indubbio che così facendo utilizza una tecnica narrativa inusitata e straordinaria. Infatti tutto il racconto, a parte il prologo in cui vengono sommariamente descritti i fatti, è costituito da un dialogo tra Dupin e il suo aiutante, preceduto dalla lettura degli articoli di maggior interesse scritti dai quotidiani sul caso. Dupin prende le mosse da questi, ne analizza le contraddizioni, desume pezzi di verità da fatti apparentemente insignificanti, fa ricercare dal suo aiutante altre notizie ed alla fine, smontando ipotesi, costruendone di nuove e sottoponendole ad un rigoroso vaglio di coerenza, propone una sua soluzione: indica in chi cercare l’assassino. Il racconto si chiude qui: non ci sono arresti, non c’è processo, c’è solo un suggerimento all’autorità, che è ciò che voleva dare Poe. Come detto tale suggerimento si rivelerà esatto.
Un piccolo grande racconto, quindi, che in una cinquantina di pagine ci permette di andare bene al di là della pur avvincente storia in esso narrata, e di addentrarci nella poliedrica poetica di uno dei più importanti autori dell’800. Purtroppo l’edizione Demetra da me letta, peraltro oggi non reperibile, non facilita questo percorso, scarna com’è di apporti critici e ricca invece di errori di stampa. E’ comunque agevole reperire 'Il mistero di Marie Rogêt' in una delle numerosissime edizioni che ci propongono i racconti di questo maestro della narrativa di tutti i tempi.
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Arthur Conan Doyle

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E se fosse Simenon il Glauser belga?
Friedrich Glauser, il “Simenon svizzero”, come spesso viene descritto, è uno scrittore poco conosciuto di cui a suo tempo l’editore Sellerio ha avuto il merito di pubblicare gran parte dell’opera.
L’accostamento al più celebre scrittore belga deriva essenzialmente dall’avere entrambi dato vita, guarda caso negli anni ’30 del secolo scorso, a personaggi di detective che hanno in comune il fatto di essere persone “normali”, con una famiglia borghese alle spalle, che sono in grado di risolvere i casi di cui si occupano perché sanno capire le ragioni che hanno spinto al delitto.
Ovviamente nel caso di Simenon questo personaggio è Maigret, mentre Glauser è il padre del Sergente Studer, della polizia di Ginevra.
Le analogie tra i due scrittori però finiscono qui. Tanto lunga, agiata e ufficiale fu la vita di Simenon quanto breve, estrema e marginale quella di Glauser, che morì a 42 anni nel 1938, dopo anni di riformatorio, legione straniera, internamento in manicomio e abuso di morfina. Anche la mole della produzione letteraria è agli antipodi tra i due: alle centinaia di romanzi scritti da Simenon si contrappongono una decina di romanzi con protagonista Studer e pochi altri volumi.
Eppure, come detto, Maigret e Studer si somigliano molto, ed io credo che il fatto di essere stati concepiti – sia pure da due personalità così diverse – nella stessa epoca e nello stesso contesto culturale aiuti a capire il perché.
Come viene detto spesso a proposito di Maigret, ma lo stesso vale per Studer, la ricerca che si svolge in questi romanzi gialli non mira tanto a capire chi ha compiuto un delitto, ma perché il delitto è stato compiuto. I colpevoli sono in genere persone normali, che in qualche modo si sono trovate costrette ad agire come hanno agito.
E’ chiaro che in entrambi gli autori la detective story è uno strumento, probabilmente il più potente che hanno a disposizione, per descrivere drammi umani e sociali, per raccontare attraverso piccole storie una società borghese che si stava tragicamente avviando, attraverso convulsioni e contorcimenti sociali e culturali, verso la catastrofe della seconda guerra mondiale.
Da questo punto di vista forse Glauser aggiunge qualche elemento ulteriore, che gli deriva dalla sua condizione esistenziale ed umana: la conoscenza in prima persona della marginalità gli permette di aggiungere ai suoi romanzi una dolorosa partecipazione alle vicende dei suoi personaggi che in Simenon è solo mediata. Studer è infatti esso stesso un emarginato, che si ritrova sergente a causa di un errore commesso in passato, per il quale è stato degradato. Lavora praticamente da solo, senza il supporto – anzi, tra una certa diffidenza – di colleghi e superiori.
Glauser, come detto, inserisce nei suoi romanzi del Sergente Studer anche elementi autobiografici, e questo rende realistici anche passi che potrebbero essere scivolosi, quale quello in cui, ne 'Il grafico della febbre', Studer si reca per l’indagine in Algeria, negli avamposti della Legione Straniera. Glauser vi aveva vissuto davvero, in quei luoghi, e quindi è in grado di descriverceli in tutta la loro assurdità e sciatteria, e di regalarci anche straordinari ritratti dei tipi umani che vi si ritrovano.
Non entro ovviamente nella trama de 'Il grafico della febbre', che ritengo uno dei più belli tra i romanzi del Sergente Studer, ma invito a leggere questo autore, che ha saputo usare un genere per descrivere atmosfere vissute dolorosamente sulla propria pelle.
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L'arte contro la morte
Théophile Gautier è in qualche modo considerato un autore minore rispetto al pantheon della letteratura francese del XIX secolo. Di lui si ricorda soprattutto il romanzo 'Capitan Fracassa', anche se quasi derubricato nell’immaginario collettivo a romanzo per ragazzi. Eppure egli fu uno dei protagonisti della vita intellettuale della Francia che, dal 1830 al 1870, vide tempi tumultuosi e innumerevoli rivolgimenti politici e sociali. Fu uno dei primi propugnatori del romanticismo in Francia, amico di Hugo e di molti altri, e Baudelaire lo considerò suo maestro, dedicandogli 'Les Fleurs du Mal'. Fu soprattutto poeta e giornalista, ma scrisse anche alcuni romanzi e molti racconti.
Questo volume di Garzanti ha l’indubbio pregio di permetterci di scoprire il Gautier scrittore di racconti. Sono, come dice il titolo, racconti fantastici, di cui il tema del soprannaturale, dell’inspiegabile è il filo conduttore, come si addice a un autore romantico. Il volume ci presenta una dozzina di racconti scritti durante l’intero arco della vita letteraria dello scrittore, e questo ci permette di gustarne l’evoluzione stilistica e di ispirazione.
I primi racconti risentono fortemente di una influenza Hoffmanniana: Gautier era (giustamente) un grande ammiratore del maestro del romanticismo fantastico tedesco, e le sue prime prove letterarie ne ricalcano dichiaratamente le orme, tanto che il sottotitolo di quello che ritengo il più bello e il più importante di questa produzione giovanile, 'Onuphrius', è le fantastiche vessazioni di un ammiratore di Hoffmann. Secondo me è il più importante dei racconti di questa fase per la tematica trattata. Il protagonista, 'Onuphrius', è l’artista romantico, che cerca di esprimere la sua arte al mondo, ma viene travisato e deriso dalla società sino a non avere altra strada che rifugiarsi nella pazzia. Il racconto è chiaramente una metafora della difficoltà che i giovani intellettuali romantici, e ancora di più quelli radicali come Gautier, incontravano ad imporsi nel panorama dell’intellettualità parigina dell’epoca.
Un altro racconto molto bello è 'Arria Marcella', che narra il viaggio di un giovane francese a Napoli e Pompei. Colpito dall’impronta del seno di Arria Marcella, conservatasi nella cenere del Vesuvio e vista al museo archeologico partenopeo, il giovane Octavien (nome romano), visitando da solo all’alba la città sepolta viene proiettato, in una sorta di viaggio nel tempo, nel 79 d.C., pochi giorni prima dell’eruzione, ed incontra la bella Arria, che rivive perché lui l’ha ricordata. E’ un racconto molto struggente, che tocca con maestrìa il tema della morte e della memoria. In questo periodo della sua vita Gautier – seguendo lo spirito dell’epoca – consuma oppio ed hascisc, e il racconto 'Il club dei mangiatori di hascisc' descrive con efficacia gli effetti della droga.
Il volume si chiude con due lunghi racconti, 'Avatar' e 'Iettatura', che il curatore del volume Lanfranco Binni liquida come tendenti …ad assumere i modi del convenzionale racconto d’appendice. Io non sarei così sbrigativo, perché soprattutto 'Avatar' esplora le praterie di un tema, quello dello sdoppiamento della personalità, della spersonalizzazione, che verranno ampiamente pascolate, anche se con ben altri mezzi a disposizione, per tutto il novecento.
In definitiva un bel libro, che ci permette di scoprire questo autore quasi negletto ma che invece ha scritto pagine importanti ed ha contribuito ad aprire porte alle quali si sono affacciati gli autori delle generazioni successive. Come scrive Lanfranco Binni nella lunga e bella introduzione, 'L’Arte contro la morte: un conflitto e una possibilità, senza illusioni. E’ questo tema, centrale nella poetica di Gautier, a vivere in forme diverse anche nei suoi racconti fantastici'. Mi sembra un tema che innerva una parte significativa della letteratura che giunge sino ai nostri giorni.
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Un tono inatteso....
... ma sotto la superficie è sempre Fëdor Michajlovic
Grazie a questo breve romanzo, la galleria dei personaggi Dostoevskijani si arricchisce di una nuova perla. Si tratta di Pavel Pavlovic Trusockij, l’eterno marito del titolo, personaggio grottesco, quasi gogoliano, la cui tragicità ed umanità deriva in buona parte, come spesso nei personaggi del nostro autore, dalla contraddittorietà del suo agire.
Segnalo innanzitutto il tono del romanzo, che differisce da quello dei più noti capolavori del nostro per la leggerezza e l’ironia che lo pervade. Non mancano certo momenti tragici e di forte tensione emotiva, ma l’impressione è che per questo romanzo Dostoevskij abbia preso a modello quella parte della letteratura russa della generazione a lui antecedente, il cui massimo esponente è stato appunto Gogol’, che ha utilizzato l’arma dell’ironia e della satira per descrivere l’animo umano e i tratti della società russa. Anche l’uso della terza persona nel narrare, non così comune nel nostro autore, accentua il senso di distacco satirico dai personaggi.
La storia è molto semplice: durante un’estate a Pietroburgo, Vel’càninov, ex viveur affetto da ipocondria, reincontra Pavel Pavlovic Trusockij, che si viene a sapere essere stato il marito di una signora disinvolta, di cui Vel’càninov era stato anni prima, in una città di provincia, l’amante, frequentando la famiglia come amico. La signora ora è morta, e leggendo si comprende che Trusockij è venuto a Pietroburgo proprio per incontrare Vel’càninov, in compagnia della giovane figlia lasciatagli dalla moglie defunta.
Tutto il romanzo è giocato sul pregresso non detto tra i due: nella prima parte Vel’?àninov cerca di capire se Pavel Pavlovic sa. Naturalmente Pavel Pavlovic sa, e nutre per Vel’càninov un complesso rapporto di amore-odio che lo spinge da un lato a cercare ossessivamente la sua compagnia, dall’altro a cercare addirittura di ucciderlo. La storia si dipana sino all’ultimo incontro tra i due alcuni anni dopo le vicende principali.
Dostoevskij, avvalendosi della più classica delle situazioni familiari – il triangolo – fa di Pavel Pavlovic Trusockij un archetipo dell’animo russo dei suoi tempi, e lo rappresenta come colui che conosce la realtà ma si rifiuta di affrontarla di petto, non sa come rapportarsi rispetto ad essa, oscilla irresolutamente tra una sua passiva accettazione ed un velleitario ribellismo, che non porterà a nulla. E’ il classico tema dostoevskijano, trattato però, come detto, in chiave ironica e satirica.
Bellissimo e conseguente il finale: come detto, i due si reincontrano per caso dopo alcuni anni in una stazione ferroviaria: Pavel Pavlovic si è risposato, ed anche questa volta, ci suggerisce velatamente l’autore, la moglie lo tradisce. Vel’càninov, da uomo di mondo, intuisce la situazione, che è ancora una volta accettata passivamente da Pavel Pavlovic, vero eterno marito, per usare l’eufemismo dostoevskijano.
La grande metafora giunge quindi a conclusione stilando il suo ultimo verdetto: all’uomo russo, al popolo russo non rimane che lasciarsi soverchiare dalla realtà, per quanto sgradevole e ingiusta possa essere, perché è troppo gretto e meschino per poterla cambiare.
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Un drammatico gioco di specchi...
... che non può annientare la realtà
'Il marinaio' è un breve testo scritto da Fernando Pessoa nel 1913 e rielaborato due anni dopo, per la pubblicazione su Orpheu, una delle riviste dalla vita effimera (ne uscirono solo due numeri) ma dalle profonde conseguenze culturali che Pessoa fondò o contribuì a pubblicare. Nonostante la brevità (poche decine di pagine compreso il testo a fronte) è un testo che sorprende e affascina per complessità e per potere evocativo.
Le due date sopra indicate non sono prive di significato: il testo nasce infatti prima che l’autore – l’8 marzo 1914, il giorno trionfale come risulta da una sua lettera – desse vita al primo dei suoi eternonimi (Alberto Caeiro), ma viene rielaborato dopo questo spartiacque della vita artistica di Pessoa.
E’ quindi un testo giovanile di Pessoa (che nel 1913 ha 25 anni) che l’autore riprende in una fase che, sia pure a distanza di pochissimi anni, lo vede totalmente mutato quanto a interessi artistici ed anche a modalità espressive.
Possiamo quindi immaginare, seguendo Antonio Tabucchi nella sua postfazione, che ad un impianto primitivo e giovanile, in cui prevalessero accenti ed umori tipicamente simbolisti, Pessoa abbia aggiunto, in vista della pubblicazione su una rivista modernista come Orpheu, successivi strati poetici derivanti da ciò che Pessoa era diventato, come intellettuale, nel 1915.
Questo dramma statico è infatti indubbiamente intriso di elementi simbolisti, e la sua ambientazione credo sia a questo proposito esplicativa. Di notte, in una stanza circolare di un antico castello nella quale si apre una sola finestra dalla quale si intravede in lontananza, fra due monti, il mare, tre fanciulle vestite di bianco vegliano la bara di una quarta fanciulla morta. Sono sedute, e l’unico movimento percettibile è quello delle fiamme delle quattro candele accese ai lati del catafalco. Proviamo ad immaginarci la scena e avremo di fronte a noi un’immagine che potrebbe essere benissimo una variante di quello che è probabilmente il più famoso dei quadri simbolisti, 'L’isola dei morti' di Arnold Böcklin. Sappiamo che il giovane Pessoa mosse i suoi primi passi poetici proprio dal simbolismo, come testimoniano poemi quali 'Chuva Oblíqua'. Tuttavia veniamo avvertiti dallo stesso Tabucchi (i cui interventi non saranno mai a sufficienza lodati, stante la intrinseca complessità dell’opera di Pessoa), che una lettura meramente simbolista de Il marinaio è largamente insufficiente, stante il contenuto del breve dramma.
Le tre fanciulle, di cui non sappiano il nome, iniziano infatti a parlare del passato (come accade spesso davanti ai morti), a raccontarsi non ciò che sono state ('No, non ne parliamo. E poi, siamo state qualcosa?' protesta una di esse), ma di un passato che potrebbero non avere mai avuto. E’ la stura, l’inizio della più sommessa ma più tremenda ed assoluta messa in discussione per mezzo letterario non solo della realtà (il che sarebbe tutto sommato 'banalmente' simbolista), ma anche della nostra possibilità di elaborarla ed appropriarcene attraverso i meccanismi del ricordo, della memoria e del sogno. Comincia un gioco di specchi, di negazioni e di negazioni delle negazioni che ci stordisce e ci restituisce la circolarità del nostro non-essere, come circolare e senza ore è la stanza in cui il dramma si svolge. Si può dire che mentre la cornice in cui si svolge il dramma è ancora in qualche modo tardo-ottocentesca, il suo contenuto ci catapulta all’improvviso, sia pure con un tono dolente ed indolente, in pieno novecento, in quel novecento in cui nulla sembra più avere senso all’occhio dell’artista, se non la sua stessa capacità di raccontare ciò che non è. Così, le tre vegliatrici si raccontano nelle prime pagine del dramma quelli che apparentemente sono felici e innocenti ricordi della loro infanzia: bucolici paesaggi, passeggiate in riva al mare… ma mentre raccontano e si raccontano, si rendono conto che non solo quelle cose non esistono più, ma forse non sono mai esistite, forse si tratta solo di sogni che esse sognano vedendosi sognare… non c’è stato un passato felice, tuttalpiù (come dice una delle fanciulle) si comincia in questo momento ad essere state un tempo felici: è chiaro anche in questo passaggio, a mio avviso, il ruolo che Pessoa attribuisce all’arte: solo l’immaginazione e la parola, grandi taumaturghe, possono restituirci l’essenza di ciò che non è stato ma avrebbe potuto essere; di ciò che è stato – sembra dirci – è inutile discorrere.
Al centro del dramma sta la storia, l’enigma – come lo chiama Tabucchi – del marinaio, che dà il titolo al racconto, e che di quanto detto sopra è in qualche modo una parabola esplicativa.
Una delle tre vegliatrici racconta infatti di aver sognato un tempo di un marinaio che, naufrago su un’isola deserta, ha nostalgia della sua patria e della sua vita precedente. La nostalgia è così forte che egli, per combatterla, inizia a sognare un’altra vita vissuta, un’altra realtà anteriore. Negli anni costruisce con tale precisione questa sua nuova vita passata, piena di paesaggi, città, persone che ha visitato e conosciuto, che un giorno si accorge di non ricordarsi più della sua vera vita precedente, si accorge che essa non esiste più. Un giorno sull’isola approda una nave, ma il marinaio non c’è più. Il racconto non ci dice dove sia andato.
La storia del marinaio – splendida di per sé ancorché semplicemente abbozzata – non è a mio avviso un enigma, come ci suggerisce Tabucchi che ci fornisce una soluzione nella quale il marinaio evade dall’isola: è come detto una parabola.
Il marinaio infatti non evade dall’isola: prosaicamente non avrebbe potuto farlo, visto che la nave che non lo trova è la prima che approda a quei lidi. Semplicemente, e drammaticamente, il marinaio soccombe alla realtà che ha sognato e creato. Muore ucciso dalla acquisita coscienza che la sua realtà, la sua vita anteriore non esistono più in tanto in quanto egli è stato capace di ricrearne una qualsiasi, che si è potuta interamente sostituire ad essa. E’ questa la grande scoperta che Pessoa ci consegna: l’artista, colui che sa sognare ed immaginare, può costruire una realtà altra, può esplorare mondi che non sono mai esistiti, che non esistono se non nella sua mente, rendendoli reali, e allo stesso modo può rendere irreale il reale. E’ questo tuttavia un potere tremendo, che può annientare con la sua forza dirompente l’artista stesso, come il povero marinaio di cui non si hanno più tracce. Stessa sorte, del resto, è riservata alle tre vegliatrici, che vivono solo di notte, accanto ad una di loro già morta, la quale ha sognato il sogno più bello di tutti e '…forse, sa già a cosa servono i sogni', che sanno di doversi dissolvere non appena spunterà l’alba e che alla fine sospettano di essere esse stesse un sogno, forse un sogno dello stesso marinaio. La loro è una lenta agonia che si trasforma in terrore al primo albeggiare, quando nella stanza potrebbe entrare una sconosciuta quinta persona che 'stende il braccio e ci interrompe ogni volta che stiamo per sentirla' (l’incoscienza della vita).
Qui a mio avviso c’è un grande colpo di scena, che tra l’altro allontana definitivamente Il marinaio da una dimensione esclusivamente simbolista, perché il dissolvimento delle fanciulle, il loro finale restare catatoniche, senza parlare e senza guardarsi, è causato dai primi rumori del giorno, dalla banalità di un gallo che canta (reminiscenza evangelica dell’ateo Pessoa?) e dall’incerto stridore delle ruote di una carrozza: la realtà, gretta e banale, si prende la sua amara rivincita, e alle fanciulle sognanti non resta che trasformarsi in esseri amorfi. Del resto era stata la stessa realtà a presentarsi sotto forma di nave sull’isola del marinaio, senza trovarlo. Da un lato quindi Pessoa è cosciente del tremendo potere dell’arte, e sembra per un po’ dirci che attraverso il gesto artistico è possibile vivere in un mondo proprio e diverso, sia pure a costo di un peso intellettuale insopportabile, da cui cercherà di alleggerirsi distribuendone buona parte ad altri-da-lui, i suoi eteronimi. Alla fine tuttavia anche l’intellettuale è costretto ad arrendersi (come molti anni più tardi si arrenderà il più celebre dei suoi eteronimi, il modernista Álvaro De Campos in 'Tabaccheria') e a confessare che neppure il sogno, neppure i mondi interiori sognati dagli artisti possono resistere alla forza corrosiva della realtà. Del resto, da qualche mese, in quel 1915, le classi dirigenti dell’Europa intera si stavano dando da fare per dimostrare con tutta la diabolica capacità di cui erano capaci quanto fosse vera questa intuizione di un oscuro impiegato di concetto di Lisbona.
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Ecco i nostri occhiali
Per chi, come me, è affascinato dalla letteratura del primo novecento, quella che dovette fare i conti con la grande crisi dei valori borghesi ottocenteschi, che si trovò nel bel mezzo della più grande tragedia che l’umanità avesse mai vissuto (sino ad allora), che nel giro di un trentennio rivoluzionò per sempre il modo di scrivere, questo volume Adelphi rappresenta una lettura imprescindibile, una pietra miliare, che permette di scoprire e di approfondire una delle più grandi personalità letterarie di quel periodo che, a lungo sconosciuta o sottovalutata, merita sicuramente di stare a fianco di Musil, Kafka, Proust, Joyce.
Oggi molti sono i volumi che ci presentano scritti di Pessoa, ma 'Una sola moltitudine', che si compone di due volumi, ha una funzione oserei dire didattica rispetto alla complessità della figura di Pessoa, perché – anche grazie allo splendido saggio di Antonio Tabucchi posto in prefazione – entra nel vivo di quello che è il tratto peculiare della letteratura di Pessoa, ovvero il fatto che lo scrittore si è avvalso, nei suoi scritti, di una serie di eteronimi. Per chi non conoscesse questo autore è necessario spiegare: sia nelle (relativamente poche) opere pubblicate in vita, sia nella miriade di scritti trovati nel baule dello scrittore dopo la sua morte, e pubblicati a partire dal 1942, egli spesso non si è avvalso del suo nome, ma di quello di molti altri letterati da lui inventati. Non si tratta però, come solitamente accade, di pseudonimi volti per qualche motivo a celare l’identità dell’autore, ma di vere e proprie diverse personalità del Pessoa scrittore, dotate ciascuna di una precisa personalità letteraria nonché (almeno i più importanti) di una precisa biografia: sono quindi degli eteronimi, delle vere e proprie altre personalità attraverso le quali Pessoa è riuscito ad esprimere non solo tutte le sfaccettature della sua scrittura, ma anche ad enfatizzare ed a moltiplicare quasi all’infinito, a far divenire corale il suo aristocratico disgusto per la quotidianità e la sua coscienza di vivere in un mondo in disfacimento. Gli eteronimi sono infatti a mio avviso necessari a Pessoa per poter sopportare – attribuendoli ad altri – i messaggi disperati che le loro poesie e i loro scritti lanciano, per delimitare entro ambiti psicologicamente accettabili – quelli gestiti dal Pessoa ortonimo – la coscienza della propria inutilità di uomo ed intellettuale nei confronti delle dinamiche, spesso assurde e stupide, del reale. E’ in questo senso che – secondo me – si devono interpretare alcuni tratti del rapporto tra Pessoa e i suoi eteronimi apparentemente assurdi, quali la lettera che Pessoa scrive e spedisce ad uno di essi o le polemiche culturali tra i diversi eteronimi (ovviamente scritte da lui): Pessoa ha bisogno che l’"Ultimatum" sia scritto da Álvaro de Campos, che il "Libro dell’inquietudine" sia di Bernardo Soares, perché il peso delle cose che ha da dire non è sopportabile da una persona sola.
Può sembrare paradossale che uno dei più radicali innovatori della letteratura del ‘900, uno dei più lucidi analisti della crisi epocale in cui il mondo si trovava si sia incarnato in uno dei paesi più arretrati e culturalmente isolati d’Europa nella figura di un impiegato di concetto, di tendenze politiche nettamente reazionarie, che sino alla morte ha tradotto in inglese lettere commerciali passando giornate scandite da una monotonia e uno squallore drammaticamente esposti nelle pagine di diario che Una sola moltitudine ci regala. Eppure questo paradosso è solo apparente. Innanzitutto l’impiegato Pessoa conosce almeno tre lingue, è fortemente impregnato di cultura anglosassone, è in contatto con alcune delle figure chiave delle avanguardie europee delle quali è profondo conoscitore, è un animatore culturale cui si devono la fondazione di riviste letterarie (che in genere non andavano oltre i due numeri) il cui ruolo era comunque in parte già riconosciuto lui vivente. Il suo è un reazionarismo non gretto, ma l’approdo (sbagliato, a mio avviso) di una coscienza intellettuale profondamente aristocratica (nel senso della coscienza della propria superiorità) rispetto alla banalità, alla grettezza (quella sì) della società borghese portoghese, che (quante analogie con l’Italia…) non ha mai fatto una vera rivoluzione, limitandosi ad assumere il potere per compromesso, e ad esprimere culturalmente valori ormai altrove già superati dalla storia. In superficie si potrebbero trovare analogie tra l’atteggiamento politico di Pessoa e quello di D’Annunzio ma, come accennato anche da Tabucchi, gli esiti culturali del primo sono ben diversi dall’estetismo fanfarone e francamente provinciale del 'vate de noantri'.
Anche il fatto che il fiore di Pessoa sbocci in un angolo appartato di Europa come il Portogallo non deve stupire: a parte il fatto che comunque questo angolo appartato è stato storicamente uno dei fulcri del contraddittorio sviluppo della civiltà occidentale, è forse proprio da qui, da una terra dove persino la tragedia della guerra giunge in seconda battuta, che una personalità come quella di Pessoa ha avuto modo di esercitare con distacco il suo scandaglio analitico ed a tratti irridente (sì, ci sono anche tratti ironici e sarcastici nella poetica di Pessoa e dei suoi compari) sul tumultuoso mondo delle avanguardie europee e di raccontarci con modi del tutto originali una crisi che nel suo paese assumeva tratti peculiari ma che era di un intero modello sociale e culturale.
'Una sola moltitudine' ci permette di affrontare questa complessa personalità umana e letteraria presentandoci una molteplicità di scritti, suddivisi in base all’autore. Questo primo volume, in particolare, riporta scritti di Fernando Pessoa ortonimo e di due tra gli eteronimi più importanti, Bernardo Soares e Álvaro de Campos.
Mentre di questi ultimi (ovviamente…) sono presentati solo testi letterari, del Pessoa ortonimo troviamo anche appunti sparsi, pagine di diario e lettere.
Le pagine di diario, relative a poche giornate dell’inizio del 1913 (Pessoa è venticinquenne), testimoniano in maniera spietata la solitudine di questo giovane, la sua disperata capacità di esprimere, con notazioni quasi stenografiche, lo squallore del suo lavoro quotidiano ma anche il distacco con cui guarda ai rapporti umani e finanche alla sua attività letteraria: Pessoa annota, quasi mai commenta, mai esprime un sentimento o un’emozione.
Molto importanti per addentrarci nella personalità dell’autore sono le lettere: il volume ne riporta parecchie, alcune del tutto private: tra queste molto divertenti quelle indirizzate a Ophélia Queiroz, la sola donna con cui abbia avuto una relazione sentimentale, peraltro breve, ed in cui si scopre un Pessoa scherzoso, che non rinuncia neppure con l’amata a servirsi dei suoi eteronimi, ma che ripiomba nella fredda capacità analitica, in funzione visibilmente difensiva, nel momento in cui la relazione sta per finire.
Sicuramente le lettere più importanti nell’economia del volume sono le due indirizzate ad Adolfo Casais Monteiro, un critico letterario cui Pessoa spiega la genesi e le motivazioni dell’eteronimia. Anche gli appunti sparsi, che contengono piccole annotazioni personali, frammenti di testi non pubblicati, aforismi e pensieri, e che in gran parte sono riferiti agli anni di gioventù dell’autore, ci permettono di addentrarci nella personalità di questo grande solitario e nella sua coscienza della propria inadeguatezza.
L’ampia selezione di poesie che segue è esplicativa del percorso intellettuale del Pessoa ortonimo, dai sentori simbolisti di 'Chuva Oblíqua' all’esoterismo di 'Sulla tomba di Christian Rosencreutz'. Sono poesie, alcune brevissime, da leggere e rileggere con attenzione, perché aprono mondi di riflessione. Accanto a temi di carattere intensamente intimista ci sono veri e propri manifesti intellettuali ed anche poesie crudamente realiste come la splendida 'Prendemmo la città dopo un intenso bombardamento'.
Seguono alcune pagine scelte dal Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, l’eteronimo più simile a Pessoa, che egli incontra in una trattoria del Rossio e che gli consegna questo manoscritto. Essendo il Libro dell’inquietudine disponibile come edizione singola, rimando a recensioni di quell’opera.
Quasi metà del volume è dedicata ad Álvaro de Campos, l’eteronimo più utilizzato da Pessoa, quello cui affida il compito di essere rappresentante ed inventore di avanguardie letterarie. La sezione è aperta dalle note che altri eteronimi scrivono sulla poesia di Campos, tra le quali quella critica e riduttiva di Ricardo Reis, eteronimo classicista, seguite da una nota e due lettere scritte da Campos stesso (quanto si divertiva Pessoa a fare queste cose?).
Seguono una serie di poesie di Campos, dalla vigorosa e futurista 'Ode marittima' alla splendida 'Tabaccheria', nella quale anche il vitalissimo Campos si arrende (come dice Tabucchi) al fallimento del ruolo dell’intellettuale rispetto alle dinamiche storico-sociali, fallimento condensato negli splendidi versi
'Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione'.
Bellissimo e sferzante lo sberleffo dell’artista pseudorivoluzionario che si acconcia alla carriera, espresso da 'Marinetti accademico', significativamente, a mio avviso, rivolto ad un intellettuale italiano.
Stranamente Tabucchi sceglie di porre il manifesto del vitalismo avanguardistico di Campos, attraverso il quale Pessoa/Campos lancia strali feroci, e a volte ingiusti, verso la cultura ufficiale e la politica del tempo (siamo nel 1917), in fondo al volume, quando secondo me sarebbe stato meglio anteporlo alle poesie di Campos, visto il suo contenuto programmatico.
Chiudo tessendo l’elogio del saggio 'Un baule pieno di gente' di Antonio Tabucchi, che esalta il carattere didattico del volume fornendoci, oltre che un quadro generale della personalità poetica e umana di Pessoa, un atlante degli eteronimi, dei movimenti intellettuali del Portogallo dell’epoca (molti inventati da Pessoa stesso) e delle riviste alle quali collaborò o che animò in prima persona.
Sembra che Pessoa morente abbia chiesto 'datemi i miei occhiali': questo libro ci fornisce una lente potentissima per affinare la nostra coscienza interiore e del mondo che ci circonda.
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Un mondo interiore che anticipa il ‘900
Recensendo 'La venere d’Ille' di Prosper Mérimée avevo identificato l’opera di questo scrittore come uno dei termini di passaggio tra il romanticismo francese di inizio ‘800 e il decadentismo, in cui si trasformerà come grande contenitore intellettuale, all’interno del quale per la verità si ritrovano esperienze artistiche ed intellettuali affatto diverse, accomunate tuttavia dal rappresentare la risposta (le risposte) in termini di produzione artistica alle grandi crisi degli ideali borghesi che si succederanno nel corso della seconda metà dell’800 e per tutto il primo ‘900.
La figura e l’opera di Gérard de Nerval rappresentano ancora più plasticamente questo passaggio epocale, tanto che oggi egli è unanimemente riconosciuto come uno dei precursori di una corrente letteraria che da Baudelarie a Verlaine, da Proust ai surrealisti scorrerà impetuosa per decenni attraverso la cultura francese ed europea.
Nerval può essere in qualche modo considerato l’archetipo anche della figura dell’intellettuale maledetto che in larga parte viene associata al decadentismo, soprattutto francese: ebbe infatti un’esistenza tormentata, caratterizzata da subito dall’assenza della madre, da ristrettezze finanziarie, da una solitudine accentuata dal suo irrisolto rapporto con l’altro sesso, da frequenti crisi di follia e infine dal drammatico suicidio a meno di 47 anni. Come spesso è capitato a chi si è trovato ad anticipare le tendenze artistiche, la grandezza della sua opera è stata riconosciuta solo dopo la sua morte, anche se per la verità ad attenuare il suo isolamento esistenziale ed artistico c’è stata l’amicizia con alcuni dei più grandi letterati dei suoi tempi, da Théophile Gautier ad Alexandre Dumas a Victor Hugo. Mentre però questi suoi amici avevano trovato il modo di raggiungere un equilibrio tra le aspirazioni intellettuali e le necessità del vivere quotidiano, in alcuni casi anche attraverso il compromesso di piegare la produzione artistica alle richieste del pubblico, Nerval rimane il grande escluso, e riversa nelle sue liriche e nei suoi racconti tutte le insicurezze e le allucinazioni di uno spirito che non si riconcilierà mai con la realtà che lo circonda.
Si tratta indubbiamente di una realtà quanto meno complicata, sia dal punto di vista personale sia da quello dei tempi in cui si è trovato a vivere. Come detto, la madre è la grande assente nella vita di Nerval: morirà infatti quando il figlio aveva solo 2 anni in Polonia, dove si trovava al seguito del marito, medico napoleonico, ed a Gérard rimarrà solo una non-memoria idealizzata, che cercherà costantemente di trasferire nella sua concezione della donna, che per lui sarà sempre contemporaneaente sposa, amica, sorella e madre. Trascorse un’infanzia solitaria ma tutto sommato felice nei villaggi e nei boschi del Valois, con la cui natura incantata stabilì un legame fortissimo che ritornerà nelle opere della maturità: lì entrò a contatto con l’illuminismo, l’esoterismo e la cabala, altre componenti essenziali della sua opera. Con questo bagaglio di sensibilità attraversò un’epoca che va dal sogno napoleonico, ancora intriso di razionalità post-rivoluzionaria, al trionfo della reazione di Luigi Napoleone, passando per la restaurazione e gli scossoni rivoluzionari del 1830 e del 1848. Nerval cita in alcune sue pagine questi cambiamenti di prospettiva sociale e politica, che indubbiamente contribuirono non poco a determinarne la fragilità anche politica.
Il volume Garzanti che ho letto, purtroppo attualmente fuori catalogo, contiene i testi più significativi della produzione in prosa di Nerval, e ci permette di scoprire gli elementi fondamentali della poetica di questo grande scrittore.
'Le figlie del fuoco' è una raccolta di sei testi che Nerval pubblicò alla fine del 1853 recuperando anche brani scritti molto tempo prima. Sicuramente tra questi il più emblematico della sensibilità di Nerval è 'Silvia' (Sylvie, disponibile singolarmente in altra edizione) nel quale l’autore ci introduce nel suo mondo interiore, fatto di ricordi d’infanzia, di idealizzazione della donna, di rapporto incantato con la natura (la natura dell’amatissimo Valois), attraverso una tecnica narrativa nella quale si è sempre sospesi tra realtà e sogno, tra passato e presente, in un gioco di rimandi che stordisce. E’ sicuramente un racconto che rompe gli schemi narrativi dell’epoca in cui è stato scritto per proiettarsi molto in avanti, sino alle soglie del ‘900, per l’importanza assoluta che assumono la memoria e la sua rielaborazione interiore: leggendo 'Sylvie' si capisce appieno perché Proust amasse tanto Nerval, che a mio avviso con questo racconto assume il ruolo di suo vero padre spirituale.
Più decisamente immerso in un clima romantico è invece a mio avviso 'Angelica', il lungo racconto che apre la raccolta (scritto da Nerval anni prima di Sylvie), dove viene narrato, sotto forma di lettere inviate dall’autore all’editore, il tormentato amore della protagonista per un avventuriero che la trascinerà per mezza Europa. Anche in questo caso, tuttavia, pur se in una forma più elementare che in 'Sylvie' è da rimarcare il ricorso di Nerval a piani paralleli, temporalmente distanti, che si intersecano e comunicano grazie all’intervento diretto del narratore, che chiude il racconto con il diario di un suo viaggio nel Valois alla ricerca dei luoghi nei quali si è svolta la storia narrata.
In 'Ottavia' compare uno dei luoghi tipici del romanticismo francese e di Nerval: l’esotismo incarnato dall’Italia ed in particolare da Pompei ed Ercolano. La breve novella è ancora una volta la storia di un impalpabile ed impossibile amore con una donna, che (al pari di Silvia) verrà rivista ormai sposata con un altro: anche qui l’ambiguità del rapporto è accentuato dalla comparsa di una seconda figura femminile, una popolana che farà vivere il narratore in una dimensione quasi onirica.
Meno interessanti sono a mio avviso gli altri tre testi, che svolgono quasi la funzione di riempitivo: 'Canzoni e leggende del Valois' raccoglie appunto testi popolari di quella regione, e testimonia l’attenzione che Nerval aveva per il romanticismo tedesco (a soli 18 anni Nerval tradusse in modo mirabile il Faust di Goethe). 'Iside' è una sorta di racconto-saggio, ambientato anch’esso a Pompei, nel quale Nerval rileva il legame stretto che esiste tra le figure della dea (uno dei suoi miti orientaleggianti), la Maria cristiana e la sua personale idealizzazione della figura femminile. Infine 'Corilla', sotto forma di breve pièce teatrale, è una godibile commedia degli equivoci nella quale ancora una volta è protagonista la donna, che attraverso un sottile gioco di scambi rivela l’inadeguatezza dei sentimenti di due suoi spasimanti.
Il volume ci dona altri due testi di Nerval. Il primo, 'La Pandora', è costituito da due capitoli, dei quali solo il primo fu pubblicato vivente Nerval. E’ la storia dell’amore del narratore con una donna inaccessibile, capricciosa e demoniaca, nella quale è trasfigurata la figura di Jenny Colon, l’attrice amata da Nerval e morta nel 1842. Il racconto, che nasce in modo abbastanza convenzionale, si sviluppa nel secondo capitolo in una sarabanda di visioni ed allucinazioni, trasformandosi in un brano fantastico, molto Hoffmanniano (significativamente l’autore tedesco viene citato in un passo). 'Aurelia' rappresenta il momento della completa irruzione del mondo dei sogni nella letteratura di Nerval. Il sogno è una seconda vita, ci dice l’autore all’inizio, e le due parti del racconto (delle quali solo la prima pubblicata poco prima del suicidio) sono una rievocazione delle visioni e dei sogni che accompagnavano l’autore durante le sue crisi, strettamente intrecciate con la memoria di Jenny Colon (trasfigurata in Aurelia) e con i sensi di colpa di Nerval nei suoi confronti. L’ambiguità del rapporto tra sogno e realtà, come il primo condizioni la seconda, è da Nerval esplorata su sé stesso con precisione cronachistica, direi crudelmente. Si tratta di un testo che ancora più esplicitamente degli altri apre le porta ad una nuova epoca della letteratura, anticipando di oltre mezzo secolo gli scrittori che hanno avuto a disposizione gli strumenti della psicanalisi.
La lettura di Nerval non è agevole, anche per una intrinseca tendenza dell’autore al disordine, ma una volta entrati nel suo mondo si comprende come questo ancora poco conosciuto autore (a cui l’asfittica editoria italiana guarda oggi distrattamente) possa davvero essere considerato uno dei padri nobili della migliore letteratura europea del ‘900.
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Ma Kafka e Hašek sono un’altra cosa
La nota sull’autore che si trova alla fine di questa edizione economica del romanzo dice che Hrabal è 'Erede spirituale di altri due grandi praghesi, Kafka e Hašcek' (sic!). Ora, con tutto il rispetto e l’ammirazione per questo irregolare, per la sua vita travagliata e per il suo essersi trovato a vivere in Cecoslovacchia durante la guerra prima e sotto il regime “comunista” poi, non credo proprio che il suo nome possa essere accostato a quello dei due grandi immortali sopra citati, se non per il luogo di nascita. Cercherò di spiegare perché ne sono convinto.
'Ho servito il re d’Inghilterra' è la storia, narrata in prima persona, della vita di un uomo che, iniziando come apprendista cameriere in un grande albergo ceco nel primo dopoguerra, attraversa le travagliate vicende belliche e post belliche con una sua speciale leggerezza, accumulando “mestiere” e denaro, quest’ultimo anche con mezzi furbeschi, sino a poter aprire un suo albergo, che gli viene però confiscato dal regime. Essendo milionario (quindi nemico di classe nella Cecoslovacchia post 1948) chiede e ottiene di essere internato, quindi viene mandato nella Selva Boema ad occuparsi della manutenzione di una strada. Una certa importanza nella storia narrata assume la componente erotica, con la descrizione dell’iniziazione sessuale del nostro in un bordello e l’amore per Líza: è un erotismo gioioso, leggero, e come detto la leggerezza è la cifra con la quale il protagonista affronta tutti i fatti, a volte anche tragici, che gli accadono.
Fondamentale nel romanzo, per accompagnare questa leggerezza intrinseca, è lo stile di scrittura: come detto la narrazione è in prima persona, fatta di lunghi capitoli quasi senza punteggiatura, una sorta di 'stream of cosciousness' etilico: è il protagonista che racconta in stile colloquiale, a suoi amici, sicuramente dall’interno di una birreria praghese, iniziando ogni capitolo con la frase "Fate attenzione a quello che ora vi racconto" e terminando con "Con questo per oggi termino". Il libro assume così il tono di una narrazione orale monocorde, e piano piano ci si lascia avvolgere, sembra di essere anche noi in una fumosa birreria, e che la mente ci si annebbi man mano che Lui parla e che le birre bevute aumentano.
Indubbiamente quindi il romanzo rivela uno scrittore dotato di una grande capacità di affabulazione, come testimoniano anche altri suoi scritti. Perché quindi Hrabal non può essere considerato l’erede di Kafka e di Hašek?
Nel caso di questo 'Ho servito il re d’Inghilterra', essenzialmente per il contenuto, per il rapporto che la narrazione stabilisce tra le vicende del protagonista ed il contesto in cui si svolgono.
Kafka è l’enorme narratore dell’impossibilità di comprendere, dell’esclusione e dell’alienazione del singolo rispetto ai meccanismi perversi della società, descritti attraverso metafore tanto più rivelatrici quanto più apparentemente assurde. Il buon soldato Sc’vèik, per mezzo del buon senso contadino del protagonista, della sua innocenza, mette alla berlina la stupidità e la crudeltà della società militarizzata. I due grandi autori, pur con mezzi diversi, mirano quindi ad un obiettivo comune: presentarci e disvelare i meccanismi che nella società industriale di inzio ‘900 portano all’annientamento delle coscienze, alla alienazione dell’individuo e delle masse.
Nulla di tutto questo nel Hrabal di 'Ho servito il re d’Inghilterra', il cui assunto principale sembra essere: qualunque cosa capiti intorno a te, se la prendi dal verso giusto ne trarrai vantaggio e ti arricchirà (non solo in senso materiale). Il protagonista ha infatti un atteggiamento sempre positivo nei confronti della vita, più volte per lui l’incredibile diviene realtà, i terribili fatti che segnano la storia boema lo sfiorano appena, anzi: serve gerarchi e donne ingravidate per migliorare la razza ariana, sposa una nazista che sarà la fonte della sua fortuna materiale, (ne ritroverà il corpo senza testa dopo un bombardamento e la seppellirà solo dopo avere recuperato una preziosa valigetta contenente la sua fortuna), non reagisce mai neppure quando gli spaccano la faccia scambiandolo per un esponente della resistenza, accetta o addirittura richiede di essere trattato come nemico di classe dal nuovo regime.
Il protagonista è quindi secondo me portatore di una ideologia consolatoria, la sua leggerezza non è mai, come avviene per Sc’vèik, contrapposta ai meccanismi del potere al fine di mostrare la loro assurdità: li accompagna, questi meccanismi, vi si adatta, senza mai metterli in discussione neppure implicitamente: il potere c’è, il male c’è, e l’unica cosa che puoi fare è volgerlo al tuo bene, accettando tutto quello che viene e aderendovi come un’ameba, togliendoti il cappello davanti a tutti.
Non è un caso secondo me che il simbolo primo della sua personalità sia quella decorazione che attesta che ha servito l’imperatore d’Etiopia, (è un suo collega che ha servito il re d’Inghilterra) che cita, tira fuori ed indossa nelle occasioni in cui vuole comunicare di essere qualcuno. Lui è un servitore, e nella servitù trova la sua gratificazione.
Viste le caratteristiche del libro sembra di poter dire che solo l’ottusità di un regime come quello cecoslovacco seguito alla Primavera di Praga poteva considerare questo romanzo pericoloso: un inno a rinchiudersi in sé stessi, nella propria piccolezza (che nel romanzo è anche fisica), a lasciare agli altri i giochi di potere avrebbe potuto essere considerato come perfettamente consono agli obiettivi del regime. Probabilmente anche in questo caso prevalse una lettura formalmente marxista, da parte di un potere che di marxista aveva ormai solo i simboli.
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I racconti del maestro del Grand Guignol...
...che a tratti si elevano oltre il genere
Gaston Leroux, singolare figura di giornalista e scrittore francese a cavallo tra XIX e XX secolo, è famoso per essere l’autore de Il fantasma dell’Opera, romanzo da cui sono stati tratti un fortunato musical e numerosissimi film, e per Il mistero della camera gialla, che è considerato uno dei capostipiti dei gialli della stanza chiusa.
Questo volumetto della Newton, oggi fuori catalogo, ha il pregio di presentarci alcuni dei racconti di questo autore, considerato uno dei maestri del Grand Guignol, racconti poco noti al pubblico italiano, ma che non mancano di motivi d’interesse, pur potendo essere confinati sicuramente entro gli angusti confini della letteratura di genere. Vorrei al proposito spezzare qui una lancia a favore di queste edizioni. Non è il primo libro di queste collane economiche Newton che leggo, e sempre ho trovato, al di là dell’aspetto da mass market paperback e di una pagina con margini troppo stretti, il che va a scapito della sua eleganza, edizioni curate quanto a traduzione e a note introduttive. Se a questo si aggiunge che spesso si trovano titoli ed autori snobbati da altri editori più blasonati, credo che si debba fare un plauso a questa casa editrice, che sa (o sapeva) spesso coniugare economicità e qualità delle proposte.
Come dicevo, questo volume ci propone, in meno di cento pagine, sei racconti di Leroux. Quattro fanno parte di una serie i cui narratori sono un gruppo di amici marinai che si raccontano le avventure di vita più drammatiche in una locanda di Tolone, mentre gli altri due sono storie a sé stanti. Tutti, come dice il titolo del volume, sono accomunati dall’essere macabri e in alcuni casi truculenti, come si addice ai generi frequentati dall’autore. Anche se con questo tratto comune, a mio avviso i racconti si differenziano molto quanto a qualità, e mentre alcuni sono veramente molto belli, presentando tratti di indubbia originalità, altri sembrano essere stati scritti solo per mere finalità commerciali.
Tra i primi emerge a mio avviso il racconto di apertura del volume, 'Una storia terribile', che narra di come uno degli amici marinai di Tolone abbia perso un braccio. Il tratto che lo distingue è come l’autore sia stato in grado di associare ad una storia francamente inverosimile nel suo essere raccapricciante una notevole dose di ironia, tanto che alla fine quasi prevale il lato comico della vicenda. E’ un racconto molto gustoso, di cui non dirò nulla per non rovinare la sorpresa al lettore, se non che gustoso mi sembra un termine molto appropriato per descriverlo sinteticamente. Chi lo leggerà capirà perché.
Seguono i due racconti secondo me più deboli, 'Il mistero dei quattro mariti' e 'La locanda del terrore', nei quali Leroux non riesce a districarsi dai cliché un po’ triti – considerando che li scrive già negli anni venti del novecento – del genere del terrore e del mistero. Sono due storie che non catturano – anche se la prima parte da uno spunto senza dubbio interessante – perché è unicamente agli aspetti di mistero in un caso e di terrore nell’altro cui è affidata la loro attrattività: essendo però tali aspetti anche in questo caso talmente inverosimili da apparire artificiosi, e non essendovi l’ironia a sostenerli, il risultato è a mio avviso deludente.
Il racconto successivo, 'La donna con il collare di velluto' è senza dubbio più interessante, innanzitutto per essere una sorta di "Cavalleria rusticana" ambientata in Corsica, il che conferisce al racconto un’aura di esotismo che sicuramente era ancora maggiore nella Francia di inizio XX secolo, e poi per la capacità dell’autore di creare un’atmosfera di ambiguità attorno alla vicenda pur esponendone, nel finale, la spiegazione razionale. E’ questo un tratto che secondo me contraddistingue i racconti del mistero più affascinanti: fornire spiegazioni plausibili alle vicende narrate, senza però che queste siano del tutto convincenti, lasciando nel lettore la sensazione che la verità sia diversa, e che non sia esplicabile. Per far ciò, per raggiungere questo risultato, bisogna esercitare nella scrittura un’arte sottile, fatta di detto e non detto, e credo che in questo caso Leroux ci sia riuscito, pur senza raggiungere le vette di altri più celebrati autori.
'Scritto in lettere di fuoco', il racconto successivo, è più convenzionale, essendo la classica storia di un patto con il demonio, ma a mio avviso contiene un elemento importante, per questo autore indubbiamente borghese che si rivolgeva ad un pubblico piccolo- borghese e probabilmente in parte popolare: il tema del rapporto con il denaro non onestamente guadagnato. La vicenda è quella di un viveur che per recuperare la fortuna perduta stringe un patto con il diavolo, e in base a quello vince sempre alle carte. La storia è quindi abbastanza banale e stereotipata, ma a mio avviso di un certo interesse è il finale, che ci indica come non solo egli sia dannato, ma anche il denaro che ha guadagnato grazie a satana sia maledetto. Una precisazione di carattere edificante volta ad indicare ai suoi lettori che le vie dell’arricchimento “facile” sono destinate a portare sciagure anche in chi ne beneficia indirettamente.
Sicuramente di un livello superiore è l’ultimo racconto della raccolta, 'Il museo delle cere', nel quale, con il pretesto di una scommessa tra amici, vengono esplorati i meccanismi che generano la paura. E’ a mio avviso il più moderno, dei racconti, quello in cui la psicologia, i meandri insondabili dell’animo umano e le sue reazioni di fronte agli stimoli dell’irrazionale sono decisamente più importanti delle situazioni oggettivamente macabre. In quest’unico racconto, infatti, la tensione e il dramma non scaturiscono dalla situazione, dall’oggettiva tragicità degli avvenimenti, ma questi ultimi divengono tragici per la percezione soggettiva del protagonista. Siamo così, per la prima volta, approdati in pieno novecento, sia pure in un novecento d’appendice.
Come detto, questo libro non è più in catalogo, ma è facilmente reperibile sui siti e nelle librerie specializzati in libri vecchi e usati, ed io consiglio di acquistarlo, perché ci permette di conoscere meglio un autore che oggi è frequentato praticamente solo grazie ad un paio di romanzi. I suoi racconti non sono certo dei capolavori assoluti, sono scritti d’evasione, destinati alle riviste di feuilleton, ad un pubblico che chiedeva avventure e brividi a buon mercato. Tuttavia Leroux è sicuramente uno scrittore capace di immaginare situazioni, avvenimenti ed intrecci avvincenti, come anche i suoi romanzi maggiori dimostrano, e di introdurre in alcuni di questi racconti anche elementi non scontati e non convenzionali, il che li eleva non poco rispetto agli stereotipi del genere.
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Inferno e paradiso...
...nelle visioni di un grande precursore
Anagraficamente Jean Paul, che è vissuto ed ha scritto tra il tardo XVIII e il primo XIX secolo, è considerato un preromantico, una sorta di anello di congiunzione tra il neoclassicismo e il romanticismo tedeschi. Leggendo questo prezioso volumetto, tuttavia, si ha l’impressione che questo autore fosse già proiettato in una dimensione posteriore che, superando di slancio le tematiche prettamente romantiche, o meglio innervandole di apporti che avrebbero trovato la loro definitiva consacrazione solo nella seconda metà dell’800, lo potrebbero far apparire come già approdato a lidi simbolisti.
Il filo conduttore stesso dei brevi racconti che compongono questa raccolta è in qualche modo inusitato e anticipatore rispetto all’epoca in cui vengono scritti: si tratta infatti di sogni, di quadri fantastici con i quali Jean Paul ci introduce in quella che era una delle tematiche chiave della sua letteratura, almeno di quella più alta e celebrata, nonché della sua stessa vita: quella del rapporto con la morte e del suo superamento attraverso la capacità di pre-vederla, di percepirla come un passaggio ad una forma di realtà diversa ed armoniosa rispetto alla crudeltà ed alla bassezza della vita.
C’è un episodio della vita di Jean Paul, riportato nei suoi diari, che Albert Béguin pone al centro della evoluzione del pensiero dell’autore tedesco nel lungo, bel saggio che segue i racconti de 'Il discorso del Cristo morto e altri sogni': una mattina, ancora fanciullo, sulla soglia di casa, egli si rende conto all’improvviso di essere un io: ”Il mio io aveva visto sé stesso per la prima volta e per sempre”. Ci troviamo quindi di fronte ad un soggettivismo estremo, che ricerca nel proprio io la possibilità di comprendere e superare la condizione umana, attraverso però uno sforzo di oggettivizzazione della percezione di un io visto per così dire dall’esterno. A differenza di un altro grande visionario a lui contemporaneo, William Blake, in Jean Paul l’aspetto allegorico del sogno e della visione sono più attenuati, anche se non manca in quelli che secondo me sono i sogni più significativi della raccolta: per Jean Paul non è centrale la denuncia in forma mediata delle basi del vivere sociale; in lui la visione è (quasi) sempre foriera di una armonia con la natura e con il cosmo che non può essere raggiunta se non attraverso la propria consapevole autodistruzione.
Questa coscienza di sé, questa necessità/capacità di essere doppio, di essere un io in grado di contemplare sé stesso è alla base della scrittura di Jean Paul, e spiega anche l’importanza del sogno nei suoi scritti: è nel sogno, infatti, che spesso noi ci osserviamo, osserviamo noi stessi agire spesso – come ci insegnerà la psicanalisi ma come lo stesso Jean Paul aveva intuito – liberi delle convenzione sociali e facendo emergere quanto di più profondo e istintivo vi è in noi: è nel sogno che noi ci vediamo per quello che siamo e per quello che diverremo, che percepiamo una realtà depurata delle forme con le quali l’abitudine e la società la ammantano. Jean Paul era tanto convinto dell’importanza della funzione del sogno da fare uso di eccitanti per avere visioni (anche qui, quanta anticipazione di interi filoni culturali ed esistenziali posteriori) e da utilizzare la musica come medium delle sue capacità percettive.
I sogni di Jean Paul che questo piccolo volume ci presenta (quantomeno i maggiori) sono accomunati da essere relativi alla visione di un mondo altro, e possono essere divisi in sogni che ci presentano l’armonia e sogni che ci presentano le tenebre e il terrore. I primi sono ovviamente i più idillici, anche se descrivono idilli forti, in cui sono in gioco le forze primordiali della natura, che sovvertono la nostra usuale percezione del tempo (il tempo viene schiacciato, distrutto per far posto all’eternità) e dello spazio: gli oggetti e gli esseri si trasmutano in cieli pieni di luce e di musiche, dove i soli e gli arcobaleni si rincorrono, in una prosa ricchissima e musicale che all’orecchio del lettore moderno può apparire anche ampollosa ma che non è mai banale e retorica. Questi mondi di armonia, comunque, sorgono in genere dopo la morte, dopo la coscienza e l’osservazione della morte.
In due racconti in particolare, che per il mio gusto considero i più belli, il rapporto tra sofferenza/morte e successivo accesso all’armonia ed alla pace è ribaltato: non più la morte come premessa della descrizione dell’armonia, ma la descrizione della morte, della sofferenza come perno centrale del racconto che poi, quasi come compensazione dovuta, sfocia in una appendice di quiete ed armonia.
Il primo di questi racconti dà il titolo al volume ed è intitolato per esteso "Dall’alto dell’edificio del mondo il Cristo morto proclama che dio non esiste". Scritto in un periodo della vita di Jean Paul in cui erano morte molte persone a lui care (alcuni amici ed in particolare il fratello, che si suicidò) e di gravi ristrettezze economiche, il racconto è un atto di disperata accusa verso l’inanità della prospettiva religiosa rispetto alle vicende dell’esistenza concreta: Jean Paul non era ateo, ma in questo racconto getta tutta la sua forza espressiva per gridare che non è possibile che dio esista se la sofferenza può essere tanta: affidare questo messaggio a Cristo, che dopo morto risponde alle anime che lo implorano: ”Ho percorso i mondi, sono salito sui soli e ho volato con le vie lattee per i deserti del cielo: ma non esiste alcun Dio" è il segno di un assoluto (anche se temporaneo) rigetto della consolazione religiosa, rafforzato dall’altra, celebre affermazione: ”…se ciascun Io è padre e creatore di sé stesso, perché non dovrebbe essere anche il proprio angelo sterminatore?” La forza di questo messaggio non è per niente scalfita dal successivo risveglio del protagonista, che si ritrova in un idillico paesaggio agreste da cui può ”nuovamente adorare Dio”.
Ancora più forti, se possibile, le immagini che ci presenta il Sogno del campo di battaglia, sorta di discesa all’inferno del poeta, accompagnato da un mostruoso essere (come non vedere un richiamo grottesco a Dante e Virgilio?) che gli mostra terrificanti visioni del dolore causato dalla guerra, intonando un 'Te deum' blasfemo e sarcastico che chiaramente rimanda al ruolo della religione nelle guerre. E’ forse il racconto più politico tra quelli della raccolta, nel quale non mancano l’ironia e il sarcasmo che caratterizzano la prosa dei romanzi di Jean Paul (oltre che nel citato 'Te deum' note di lucidissima ironia sono ravvisabili nella descrizione dei borghi composti di ossari, ricoperti con tegole sanguigne in ottemperanza alle norme di polizia, e nel pascolo dei lupi guardati dalle pecore). Era l’epoca delle guerre napoleoniche, ed indubbiamente un racconto come questo non può che essere letto anche in termini di denuncia dell’orrore e della capacità di sovvertimento di valori che la guerra porta sempre con sé. Pure in questo caso la successiva ascesa del poeta ad un mondo di armonia e di luce in cui ha la visione di Dio (anche qui Dante è ravvisabile nella eterea creatura che lo accompagna) ha il sapore di una compensazione che risulta molto meno efficace della parte infernale del racconto.
Il volume ci presenta anche piccoli frammenti, sempre inerenti il tema del sogno, tutti da gustare e da meditare. Emerge in definitiva da questa lettura un Jean Paul dalla personalità ulteriormente sfaccettata rispetto a quella che a mio avviso si ravvisa nella profonda differenza riscontrabile tra le opere maggiori (i romanzi) ed i piccoli idilli nei quali canta la semplicità della vita nelle piccole comunità tedesche: un Jean Paul potente creatore di visioni, consegnate a generazioni di scrittori che verranno dopo di lui, aventi a disposizione strumenti analitici ben più sofisticati per scandagliare le profondità dell’animo umano e delle sue dicotomie.
Come detto, il volume è accompagnato da un lungo saggio di Albert Béguin, scritto nel 1939, che ha l’indubbio merito di legare la tematica del sogno alla produzione letteraria di Jean Paul e alla sua vicenda umana, ma a mio avviso risente di un eccesso di lettura soggettivistica di questi sogni, che a mio avviso deve essere accompagna invece dal riconoscimento della presenza anche di elementi legati alla condizione oggettiva dell’autore e dell’epoca in cui viveva, che sia pure in forma a volte mediata appare sullo sfondo di molti dei racconti.
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Un antenato di Jim Morrison
Questo volume raccoglie alcuni dei più conosciuti saggi di De Quincey. Accanto a "Confessioni di un oppiomane", sicuramente il testo più famoso e celebrato dell’autore, sono infatti presentati "Suspiria de profundis", che non è la storia di una parente meno nota di Crudelia Demon ma una sorta di continuazione del saggio precedente, e "La diligenza inglese", altrove tradotto come "Il postale inglese", ritratto del viaggiatore in diligenza nell’Inghilterra del primo ottocento.
La lettura ci dà modo di penetrare nel mondo del romanticismo britannico attraverso gli occhi del suo rappresentante più eccentrico che, avendo fatto dell’uso dell’oppio una condizione esistenziale, traguarda le tematiche romantiche da una prospettiva distorta e allucinata. Non a caso De Quincey sarebbe divenuto uno dei maestri riconosciuti del decadentismo ottocentesco: in particolare Baudelaire ne era un fervente ammiratore.
Ne "Le confessioni di un oppiomane" De Quincey ci racconta le sensazioni e gli effetti (piaceri e pene) derivanti dalla sua dipendenza dall’oppio, anticipando tematiche che nei decenni successivi sarebbero divenute oggetto di indagine scientifica, psicologica e letteraria, quali il rapporto tra sogno e realtà o la percezione della realtà sotto l’effetto della droga. La prosa di De Quincey è sempre molto articolata e a tratti (anche a detta del curatore del volume) un po’ pedante, piena di digressioni: tuttavia il saggio si legge con piacere e, anche se certo noi lo leggiamo dopo che la letteratura e l’arte in genere ottocentesca e novecentesca ci hanno abituati a ben altra intensità rispetto a questi temi, non può sfuggire la carica eversiva e innovatrice che questo saggio ha avuto rispetto ai tempi in cui è stato scritto. I capitoli sull’uso dell’oppio, e sulla sua sostanziale esaltazione come mezzo per sentirsi bene e aumentare le capacità percettive, sono tra l’altro preceduti da pagine che ci descrivono la triste giovinezza dell’autore, che ribelle alle convenzioni si rifugiò a Londra e visse praticamente da clochard per un lungo periodo, avendo come amica del cuore una giovane prostituta. E’ un capitolo bellissimo, più vivido anche di molte ambientazioni dickensiane nella sua descrizione della Londra dei bassifondi del primo ottocento.
"Suspiria de profundis" amplia l’orizzonte delle tematiche trattate nel saggio precedente e si addentra in ambiti d’indagine quasi psicanalitici, di una sorprendente modernità. Nei brevi capitoli riprende la tematica del sogno e del suo rapporto con la realtà, quella della memoria individuale e collettiva (si può forse dire che il capitolo intitolato Il palinsesto del cervello umano anticipa tematiche proustiane), quella del dolore.
Riporto la conclusione del breve capitolo intitolato Visione della vita:
'Ma è con lo svolgersi della vita, specialmente le lotte che ci assediano, lotte per opinioni, situazioni, passioni, interessi contrastanti, che si forma e si deposita il funebre strato da cui si sprigiona il cupo rilucente splendore del gioiello della vita, che altrimenti emana solo un pallido e superficiale luccichio. O l’essere umano deve soffrire e lottare come prezzo di una più penetrante visione, o il suo sguardo sarà vuoto e senza rivelazione intellettuale.'
Credo sia esemplificativo sia dello stile dell’autore sia della grande forza anticipatrice delle tematiche che tocca: questo passo potrebbe tranquillamente essere l’incipit di grandi capolavori letterari della fine dell’800 e del primo ‘900 (ad esempio "La linea d’ombra" di Conrad).
"La diligenza inglese" è infine un saggio eterogeneo, con un primo godibilissimo capitolo in cui l’autore esprime la sua nostalgia per un modo di viaggiare, sul tetto delle diligenze postali, che ormai si sta perdendo nell’Inghilterra della ferrovia, che aveva il fascino della scoperta e permetteva incontri ed esperienze peculiari. Seguono due capitoli che a partire da un episodio realmente accadutogli mentre era in viaggio permettono a De Quincey di tornare su uno dei suoi temi preferiti, quello della morte.
In definitiva, se pure non si tratta di una lettura agevole, quella di questo volume di De Quincey ci permette di scoprire un mondo, il romanticismo inglese, venato di coloriture affatto diverse, tra le quali il nostro spicca per originalità e modernità: da lui in poi il contributo dato alla creazione artistica dall’uso di droghe sarebbe stato un oggettivo ambito della nostra cultura, giungendo sino a noi attraverso le grandi correnti delle culture alternative del secondo dopoguerra.
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Il fantastico come realtà aumentata
Questo bellissimo volumetto della Marsilio, oggi di difficile reperibilità, ci permette di scoprire l’opera di uno dei più importanti rappresentanti del romanticismo russo, Vladimir Odoevskij.
Come detto ampiamente nella bella prefazione di Emilia Magnanini, Odoevskij, pur essendo uno degli autori del primo ottocento che più ha influenzato la letteratura russa posteriore, è poi caduto in una sorta di oblio, da cui – almeno in Italia – non è ancora uscito, se è vero che attualmente nella grande distribuzione è reperibile solo una novella di Odoevskij e che la sua opera più importante, Notti russe, non è mai stata tradotta integralmente in italiano.
Eppure, come detto, Odoevskij non è certo un autore minore nel panorama letterario russo: scrive nella prima metà dell’800, è contemporaneo quindi di Puškin e Gogol’ – e il fatto di doversi confrontare con tali giganti può sicuramente aver rappresentato un limite alla diffusione della sua opera – ed introduce nella letteratura russa – nella quale in quei decenni si stanno innestando le tematiche romantiche – l’elemento fantastico, in particolare nelle Fiabe variopinte. In un ipotetico e forse insensato raffronto tra la letteratura romantica russa e quella tedesca, se Puškin, per la sua ufficialità e la sua universalità poetica, sta a Goethe, allora si può certamente affermare che Odoevskij sta a E. T. A. Hoffmann.
Le Fiabe variopinte sono un ciclo di sette fiabe pubblicato nel 1833, introdotte da un antefatto, e narrate da un personaggio, Irinej Modestovi? Gomozejko, che l’autore utilizzerà anche in altre sue opere.
Non si tratta di fiabe raccolte dalla tradizione popolare e rielaborate letterariamente, come ad esempio le opere dei fratelli Grimm, ma di veri e propri racconti fantastici, nei quali – come giustamente fa osservare Emilia Magnanini nella prefazione, il fantastico ha la funzione, in analogia con Hoffmann, di suggerirci l’esistenza di una realtà altra, diversa e più elevata rispetto a quella quotidiana, i cui cardini non possono essere rivelati se non attraverso l’uso della metafora e dell’inverosimile.
Sempre Magnanini si affanna quasi a negare all’opera di Odoevskij una funzione di critica sociale, o perlomeno a marginalizzare questa funzione rispetto a quella di pura espressione attraverso la forma artistica della concezione filosofica di fondo di Odoevskij, legata all’incompatibilità tra la vita materiale e quella spirituale, al disagio dell’essere spirituale rispetto alla grettezza del vivere quotidiano. Ora, a mio avviso, se è indubbio che la matrice romantico-schellinghiana è quella che informa l’opera di Odoevskij, è altrettanto innegabile che l’espressione poetica concreta cui, almeno nelle Fiabe variopinte tale matrice approda, è quello di un genuino "realismo magico" che – con indubbia analogia rispetto all’opera di Hoffmann – usa il fantastico anche per riportarci solidamente con i piedi sulla terra della società, delle sue grettezze, delle sue convenzioni. Oggi si potrebbe classificare questa modalità espressiva (che innerva come noto una parte consistente della letteratura del XX secolo) come una sorta di "realtà aumentata" ante litteram. Certo, sia nell’opera di Hoffmann sia in quella di Odoevskij molti altri sono i livelli interpretativi cui si può accedere durante la lettura, ma a mio giudizio la riduzione ai minimi termini dell’aspetto critico delle Fiabe variopinte fa parte di una tendenza in qualche modo neoidealista della critica letteraria italiana che pur di validare le proprie ipotesi giunge a negare l’evidenza.
L’elemento di critica sociale che caratterizza le Fiabe variopinte emerge sin dall’antefatto, intitolato L’alambicco, nel quale il protagonista-narratore, trovandosi ad un ballo in società, dove si chiacchiera, si mangia e si gioca a carte, si rende conto a un certo punto che l’intero palazzo è stato rinchiuso in un alambicco da un diavoletto (non un diavolo importante, ma un principiante…) al fine di distillarne il contenuto. Da questa distillazione però ottiene solo '…fuliggine e acqua, acqua e fuliggine, roba da far nausea.' Nulla di utile si può distillare quindi da una società vuota, che vive di riti e di esteriorità. Il primo capitolo di questo antefatto, che ha una forte connotazione teorica, la funzione di creare la cornice entro cui leggere le successive fiabe, è una sorta di manifesto contro la specializzazione della scienza, per il recupero di un rapporto diverso tra l’uomo e la natura rappresentato dall’alchimia.
La prima fiaba vera e propria del ciclo, intitolata Fiaba del cadavere di ignota provenienza, ha accenti quasi Gogoliani (giustamente la prefazione ne fa quasi un’anticipazione de Le anime morte) nel modo in cui vengono descritti l’aridità della burocrazia, la corruzione dei suoi rappresentanti: ciò che la differenzia da Gogol’ è l’introduzione del fantastico come elemento scatenante la vicenda. Emerge appieno a mio avviso in questo breve racconto la funzione del fantastico sopra accennata: alla fine, il lettore non è più in grado di capire se sia più assurdo il fatto che un uomo si sia separato dal proprio corpo o il comportamento delle autorità.
Il racconto successivo è una critica feroce e dolente da un lato allo scientismo antropocentrico, dall’altro alle relazioni di potere che si instaurano tra gli individui, che li spingono a comportamenti estremi. E’ un racconto disperato, nel quale emerge uno degli aspetti peculiari del romanticismo filosofico di Odoevskij, vale a dire la mancanza di soluzione, di eroi positivi in grado di indicare la via d’uscita rispetto alle meschinità e alle restrizioni che caratterizzano i rapporti umani e sociali: è questo un elemento a mio avviso di estrema modernità di Odoevskij, che prelude indubbiamente alla grande letteratura posteriore.
Nel terzo racconto, dall’emblematicamente burocratico titolo 'Fiaba delle ragioni per cui il consigliere collegiale Ivan Bogdanovi? Otnošen’e non riuscì a porgere gli auguri ai superiori nella domenica di Pasqua' gli elementi di critica sociale sono palesemente al centro della narrazione. Il consigliere collegiale e i suoi colleghi non sono uomini: sono ridotti quasi ad automi dal loro ruolo nella società, tanto che anche quando si ritrovano fuori dall’ufficio non fanno altro che comportarsi da automi, sino ad essere in balia delle cose (le carte da gioco), a divenire essi stessi cose. Sembra quasi di poter reperire in questo racconto il concetto di alienazione come verrà sviluppato di lì a pochi anni dal giovane Marx.
'Igoša' è l’unico racconto in cui vengono ripresi elementi della tradizione popolare, sotto forma di uno spiritello dispettoso che semina lo scompiglio in una tranquilla famiglia borghese, introducendovi l’irrazionale che naturalmente gli adulti non saranno in grado di gestire.
'Solo una fiaba' è una metafora dell’ideologia, dell’acritica accettazione di modelli culturali imposti, che non può che portare alla perdita della propria capacità di giudizio. Emerge anche qui la visione disperata di Odoevskij rispetto ad una società che indica falsi miti di progresso (il positivismo borghese) rispetto ai quali non c’è salvezza, il cui potere attrattivo nei confronti degli spiritualmente deboli porta comunque alla distruzione.
Chiudono il ciclo i due racconti più complessi: in realtà si tratta dello stesso racconto, narrato la seconda volta all’incontrario, con un breve intermezzo didattico del narratore. La fiaba della ragazza russa trasformata in bambolina dal negromante occidentale (anche qui quante reminiscenza Hoffmanniane!), che non è più in grado di provare sentimenti veri piacque molto agli slavofili, ma va molto al di là della polemica culturale su base nazionalista: ne è prova il fatto che nella seconda parte la situazione si ribalta, ed è la fanciulla, rinsavita, a cercare di instillare l’amore per le cose belle e vere in Kivakel’, semiautoma metafora della mentalità dell’uomo russo medio. L’ironia che pervade il racconto (al proposito consiglio di leggere attentamente le note sull’ironia nella prefazione) in ogni pagina, a cominciare dall’irresistibile corteo delle fanciulle scortate dalle madri lungo i viali di San Piteroburgo, e il suo stesso svolgimento – capovolgimento ne fanno ancora una volta un esempio mirabile della disperazione di Odoevskij rispetto alla possibilità di un riscatto culturale della società russa, sia che provenisse da modelli occidentali sia che affondasse le radici in una pretesa arcaicità slava.
Questa disperazione diverrà manifesta pochi anni dopo, quando Odoevskij deciderà di abbandonare la letteratura, probabilmente percepita ormai come strumento inutile rispetto all’immutabilità della situazione sociale russa: si dedicherà a studi giuridici e ad opere di bene, avendoci lasciato un patrimonio letterario tutto da scoprire, che tuttavia la sempre più provinciale editoria italiana si ostina pervicacemente a nasconderci.
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Ognuno di noi l'ha scorta
**Attenzione: spoiler**
'La linea d’ombra' è, con 'Cuore di tenebra', il più noto e il più acclamato romanzo di Conrad.
Si tratta in effetti di un testo che in poco più di 100 pagine presenta una varietà ed una stratificazione tematica straordinarie. A partire dal titolo, scelto non a caso da Conrad dopo avere scartato l’iniziale Primo comando, sono molti gli interrogativi che ci pone questo libro.
Cosa è la Linea d’ombra? La risposta immediata, ma non la più scontata, ce la dà lo stesso Conrad nella prima pagina del libro: la linea d’ombra è quel momento nella vita in cui ci si pongono i primi interrogativi, si avvertono le prime insoddisfazioni esistenziali, non si è più certi riguardo alla strada da seguire, forse perché per la prima volta davanti a noi si trovano strade diverse. Conrad ci dice subito, quindi, che il suo romanzo è una metafora della vita, ovvero di un particolare periodo della nostra vita.
Il contesto scelto per raccontarci l’avventura esistenziale di un giovane che si trova davanti alle prime scelte vere da compiere è quello marinaresco ed esotico che tanto gli sono cari. Quel giovane, che narra in prima persona, è lui, o meglio è Conrad alcuni decenni prima, quando ebbe il primo (e unico) comando di una nave. Quel giovane, però, siamo anche tutti noi, quando con tanto entusiasmo ci siamo buttati nella vita, con la voglia di cambiare il mondo, e ci siamo accorti dopo poco che non ce l’avremmo fatta, che troppi erano i condizionamenti, che per andare avanti occorreva scendere a compromessi ed adeguarsi.
Il giovane capitano assume il comando della nave con una forza ed una convinzione assoluti, lasciandosi subito alle spalle le paure dettate dall’inesperienza: vedendola per la prima volta, eleva un vero e proprio inno d’amore alla sua nave, la descrive come una donna, come fosse la donna di cui è innamorato. E’ il suo momento magico, quello che di fatto attendeva dopo avere abbandonato senza ragione il precedente anonimo imbarco.
Subito, però, si rende conto che quella nave non è sua: sedendosi nella poltrona della sua cabina si rende conto che lì si sono seduti molti altri capitani prima di lui: la nave, l’equipaggio con cui dovrà affrontare il mare sono il risultato di quella storia. Emblematico in questo senso l’atteggiamento del primo ufficiale Burns, che crede fermamente in una sorta di maledizione lanciata alla nave dal defunto precedente capitano, il che di fatto ne farà un avversario passivo del giovane capitano. Tutto infatti andrà male sin dall’inizio, e di fatto il capitano non riuscirà a far navigare la nave. La bonaccia, le febbri che colpiscono l’equipaggio ed anche alcuni errori d’inesperienza del capitano rendono la situazione disperata. Solo un marinaio, Ransome, ancorché malato di cuore, asseconda il capitano nei suoi sforzi per uscire dallo stallo in cui è piombata la nave.
Riusciranno ad entrare in un porto vicino, ma non a solcare l’oceano. Tuttavia, la dura esperienza ha cambiato il giovane, che ora si sente vecchio, anche se pronto a riprendere il mare. Probabilmente lo spirito con cui lo riprenderà sarà completamente diverso rispetto alla prima volta.
Mi sembra utile sottolineare come l’oceano, il microcosmo sociale rappresentato dall’equipaggio, l’attenzione al ruolo simbolico del capitano accomunino due romanzi così diversi come mole ma così simili quanto a spunti di riflessione esistenziale: questo 'La linea d’ombra' e 'Moby Dick' di Melville. Credo che questo sostrato simbolico comune derivi, oltre che dalle storie personali dei due autori, dal fatto che il mare, elemento primigenio da cui veniamo tutti, è l’unico luogo dove l’orizzonte è sempre sgombro, l’unico luogo dove è possibile scorgere in lontananza la nostra linea d’ombra e il soffio dei nostri mostri interiori.
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Gli altri libri di Conrad

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Piccoli tesori nascosti sotto la superficie
Flann O’Brien è un autore irlandese di culto, che ha scritto pochi romanzi, essendo innanzitutto giornalista, ma che ha lasciato un segno indelebile nella letteratura del ‘900 con opere come At Swim-Two-Birds (titolo intraducibile, ma che probabilmente poteva essere interpretato meglio dell’orribile Un pinta di inchiostro irlandese con cui Adelphi ce lo propone) e Il terzo poliziotto.
Questi due romanzi furono scritti da O’Brien prima della seconda guerra mondiale (anche se il secondo fu pubblicato postumo), mentre L’archivio di Dalkey è uno dei due romanzi della sua ripresa letteraria dopo una ventennale stasi, e venne pubblicato nel 1964, due anni prima della morte dell’autore.
Mentre i primi due romanzi possono essere considerati dei piccoli capolavori, per il loro inconfondibile humor, per la brillantezza della scrittura – che soprattutto nel primo romanzo (1939) raggiunge apici di sperimentalismo quasi Joyceiano – e per l’impiego, sempre in At Swim-Two-Birds, della metanarrazione nella quale i personaggi interagiscono con il loro autore (analogamente a quanto avviene in un altro grande romanzo del primo ‘900, Nebbia di Miguel de Unamuno), L’archivio di Dalkey, pur riprendendo i temi cari al primo O’Brien, o forse proprio per questo, è sicuramente il prodotto di un periodo di stanchezza creativa dell’autore. Egli aveva infatti smesso di scrivere romanzi dopo la mancata pubblicazione nel 1940 de Il terzo poliziotto (che vedrà la luce solo due anni dopo la sua morte) e i due ultimi romanzi scritti negli anni ’60 sono sicuramente caratterizzati da una maggiore convenzionalità espressiva rispetto alle ardite opere d’anteguerra.
L’archivio di Dalkey è comunque sicuramente una storia piacevole, giocata come al solito in questo autore sul filo dell’assurdo, di un assurdo tuttavia che ci rivela abissi di torpore quotidiano, che diventa quotidianità in un’Irlanda fatta di pub, di whiskey e di birra, di chiacchiere inconcludenti, di un paese, sembra dirci O’Brien, in cui lo stereotipo corrisponde ad una immutabile realtà. Tuttavia, soprattutto chi ha letto le due opere precedenti avverte come questo romanzo risenta della impossibilità di rinnovare, nel clima del dopoguerra, la vivacità e la vitalità sperimentalista dei primi romanzi, indissolubilmente legata a quel periodo storico, e si risolve in buona parte nella riproposizione di atmosfere e anche di personaggi e brani de Il terzo poliziotto. Quest’ultimo romanzo, infatti, non era come detto ancora stato pubblicato (anzi, O’Brien disse di averne distrutto il manoscritto), per cui l’autore poté tranquillamente saccheggiarne alcuni contenuti, senza che nessuno all’epoca se ne accorgesse.
La trama è ovviamente apparentemente sconclusionata e complicata: due giovani amici (tra i quali il protagonista, Mick) incontrano a Dalkey – sobborgo a sud di Dublino – uno strano personaggio, De Selby, che confida loro di essere in grado, grazie ad una misteriosa sostanza da lui sintetizzata (la PMD), di eliminare dall’atmosfera l’ossigeno a quindi di distruggere il mondo, cosa che intende fare, perché considera l’umanità definitivamente depravata e perduta. Accidentalmente, De Selby ha anche scoperto che in piccole quantità la sostanza è in grado di annullare il tempo (offre infatti ai due un whiskey invecchiato di anni che ha prodotto in una settimana): insieme si recheranno in una grotta sottomarina dove, grazie ad una piccola dose di PMD incontreranno lo spirito di Sant’Agostino, con il quale De Selby intrattiene una dotta conversazione di stampo teologico.
Mick decide di impedire a De Selby, che pure ammira, di mettere in atto il suo catastrofico disegno, e chiede l’aiuto del sergente Fottrell. Questi è uno stupefacente personaggio (preso in prestito, al pari di De Selby, da Il terzo poliziotto) sostenitore della teoria dello scambio molecolare secondo cui chi passa molto tempo in sella ad una bicicletta lungo le sconnesse strade della Contea diviene a lungo andare in parte crescente bicicletta, mentre le sue molecole si trasferiscono analogamente nel mezzo meccanico, determinando comportamenti cicleschi nell’uomo ed umani nel ciclo (anche questa teoria è ripresa da Il terzo poliziotto).
La storia si complica ulteriormente quando Mick viene a sapere che James Joyce non è morto nel 1941 ma vive, sotto falso nome, nei dintorni di Dublino: lo incontra e discutono della sua (di Joyce) opera letteraria.
Questi sono solo alcuni elementi del romanzo, che ci permettono tuttavia di assaporare il mondo di O’Brien, la sua fantasia sfrenata, il suo modo peculiare di innestare l’assurdo nella quotidianità. L’assurdo di O’Brien, a guardar bene, non è mai comunque fine a sé stesso, semmai è volto a sottolineare come la vera assurdità stia nella quotidianità stessa della periferica Irlanda, in quel vivere di pub in pub che caratterizza Mick e i suoi amici, quasi fossero dei Vitelloni della verde Eire, per i quali la Guinness e il whiskey al Colza hotel rappresentano la meta ultima di ogni giornata. Tutto ruota attorno al pub ed all’alcool: praticamente ogni incontro avviene davanti ad uno (o più) bicchieri, e significativamente quando Mick decide di dare una svolta drastica alla sua vita la prima cosa che fa è passare all’acqua minerale. L’assurdo, ci dice O’Brien, è già qui in mezzo a noi, nella nostra vita quotidiana, in questa Irlanda culturalmente isolata, nella quale persino un Joyce redivivo (non dimentichiamoci che nel 1964 l’Ulisse non era ancora stato pubblicato in Irlanda, con l’accusa di oscenità) non può fare altro che il cameriere in un pub ed aspirare ad entrare nella Compagnia di Gesù con l’assurdo intento di riformare la chiesa.
Proprio l’incontro con Joyce e le discussioni sulla sua opera tra lui e Mick sono tra le pagine più interessanti del libro. O’Brien ammirava profondamente l’autore dell’Ulisse e ne era ricambiato (Joyce si espresse in maniera entusiastica a proposito di At Swim-Two-Birds): facendo tornare Joyce in Irlanda egli lo fa diventare irlandese nel senso più provinciale del termine, tanto che Joyce rinnega le sue opere maggiori (Oltre all’Ulisse anche Finnegan’s wake) definendole porcherie, sconcezze, ed attribuendosi solo, oltre a Dubliners, gli opuscoli scritti per l’Associazione cattolici d’Irlanda al servizio della verità e un pezzo biografico su San Cirillo. E’, nella sua assurdità, un’accusa pesante alla cultura irlandese, ed alla cappa di oscurantismo di stampo cattolico che la avvolgeva in quegli anni: del resto la critica alla chiesa cattolica ed ai suoi dogmi si rintraccia in tutto il libro, principalmente nella figura ambigua del gesuita (e gesuitico) padre Cobble, ma anche nel colloquio tra De Selby e Sant’Agostino e nelle disquisizioni sulla figura di Giuda.
Il tremendo e brusco happy end del libro ci sorprende ancora una volta per la sua ineluttabilità, perché ci dice che l’assurdo continuerà, che il pub sarà sostituito dalla famiglia come centro del mondo di Nick, ma che nulla cambierà. E’ magistrale, a mio avviso, come ancora una volta O’Brien riesca a rovesciare il tavolo, facendoci sentire tutta l’assurdità della normalità nelle poche frasi finali del libro.
Come già detto sopra, chi come me ha letto le precedenti opere di Flann O’Brien non potrà non rilevare una certa stanchezza dell’autore: chi non ha ancora affrontato O’Brien potrà viceversa entrare nel suo mondo, e se saprà immergersi, come Mick andando ad incontrare Sant’Agostino, sotto la superficie della leggerezza narrativa troverà molti spunti sui quali riflettere. Non credo che O’Brien si possa accostare a Joyce quanto a complessità di produzione letteraria, come alcuni fanno, ma è indubbio che la sua scarna opera si innesta con originalità nel solco di una tradizione artistica in grado di produrre opere fortemente irlandesi e capaci al tempo stesso di parlare al mondo intero.
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Il terzo poliziotto

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La memoria è la grande medicina...
...rispetto alla nostra inadeguatezza esistenziale
Recensendo l’altro libro di Machado de Assis da me recentemente letto, 'Memorie dall’aldilà', avevo azzardato la possibilità di un confronto fra tale romanzo e La coscienza di Zeno.
La lettura di questo 'Don Casmurro' mi ha convinto ancora di più del fatto che esistano strane analogie tra lo scrittore brasiliano e Italo Svevo, fatte ovviamente salve tutte le differenze di contesto culturale esistenti tra i due scrittori.
Si è soliti infatti considerare i tre romanzi dello scrittore triestino come un’unica opera, quasi che Senilità e Una vita fossero una sorta di preparazione al capolavoro della maturità, che scaturisce dopo le prove generali rappresentate dagli altri due romanzi.
Analogamente tra ''Don Casmurro' e 'Memorie dall’aldilà' esistono una tale serie di affinità strutturali e tematiche da farli ritenere quasi l’uno la rivisitazione dell’altro, la riproposizione di idee ed argomenti che evidentemente l’autore considerava centrali rispetto alla sua concezione dell’uomo e della vita.
Entrambi i romanzi sono memorie di un uomo, un borghese di Rio de Janeiro, che vicino al termine della sua vita – per la verità nel caso di 'Memorie dall’aldilà' una volta oltrepassato tale termine – ripercorre in prima persona le tappe del proprio fallimento esistenziale, narrandoci i fatti salienti che hanno portato a tale fallimento. In entrambi i romanzi l’elemento centrale, ma non esaustivo di tale fallimento è dato dal rapporto dell’io narrante con una donna, da una storia d’amore che il protagonista non è in grado di gestire, assillato da dubbi e da inadeguatezze del pensiero e dell’azione.
Vi sono poi nei due romanzi delle evidenti affinità strutturali, date dalla suddivisione in brevi capitoli (in 'Don Casmurro' sono 148 lungo poco più di 250 pagine) nei quali si alternano narrazioni dei fatti con considerazioni dell’autore, spesso sotto forma di una chiamata in causa diretta del lettore.
'Don Casmurro', tuttavia, è stato pubblicato da Machado de Assis nel 1899, quando l’autore era sessantenne, a ben 18 anni di distanza da Memorie dall’aldilà, e questa differenza di età e di prospettiva emerge sicuramente nel romanzo, laddove la cifra dell’ironia – che pur nel quadro della narrazione di un fallimento esistenziale caratterizzava le Memorie, è molto più attenuata in 'Don Casmurro', nel quale prevale un’amarezza di fondo rintracciabile sin dal titolo: nel primo capitolo l’autore stesso ci spiega che Casmurro, nomignolo del protagonista e termine che in portoghese ha vari significati, va inteso come uomo taciturno e chiuso in se stesso.
Mentre 'Memorie dall’aldilà' si apre con la descrizione quasi giocosa della morte del protagonista da egli stesso narrata, il primo episodio di 'Don Casmurro', apparentemente marginale, ci informa subito dell’isolamento e della solitudine di Bento Santiago, il protagonista. Come detto, Bento e il Braz Cubas di Memorie dall’aldilà sono entrambi degli ipocondriaci che hanno fallito l’obiettivo più importante della loro esistenza, ma mentre Braz osserva la sua vita dall’aldilà, con una leggerezza che gli è data dalla distanza acquisita grazie alla sua nuova condizione di morto, Bento Santiago è ancora immerso nel suo fallimento, e non può che narrarlo con maggiore partecipazione emotiva. Credo che a questa diversa prospettiva, a questo diverso taglio visuale abbia contribuito non poco, come detto, la differenza di età dell’autore tra i due romanzi: il quarantaduenne Machado/Braz poteva guardare alla fine della vita, al tirare le somme con un distacco che il sessantenne Machado/Bento non poteva più permettersi.
Anche dal punto di vista della scrittura emergono differenze – peraltro secondo me accentuate dalla traduzione di questa edizione Fazi che non ho trovato eccellente – laddove alcuni elementi di sperimentalismo presenti in 'Memorie dall’aldilà' (su tutti i due capitoli costituiti da puntini sospensivi) sono del tutto assenti nel più maturo e probabilmente posato Machado del Don Casmurro.
La storia è dunque quella della vita di Bento (Bentinho da piccolo) e del suo amore per Capitu, compagna di giochi sin dall’infanzia ed alla quale lo lega un affetto assoluto che si trasforma in amore già nell’adolescenza. I due si sposano – adempiendo ad un giuramento adolescenziale -, nonostante inizialmente la madre avesse previsto per Bentinho la carriera ecclesiastica, e tutto sembra andare per il meglio anche grazie alla nascita di un figlio: Bento diviene uno stimato avvocato e la famigliola vive, circondata dagli amici più cari, in una bella casa. L’inadeguatezza caratteriale di Bento, già emersa in vari episodi della gioventù, fa però sorgere nella sua mente un terribile sospetto, che in breve tempo distruggerà completamente l’edificio affettivo su cui si basa la sua esistenza.
Un accorgimento narrativo di Machado è quello di non svelarci se il sospetto di Bento sia reale – del resto, essendo il narratore lo stesso Bento non può essere altrimenti – quindi ognuno di noi può farsi al riguardo l’opinione che crede. Non è questo, peraltro – come ci dice Léa Nachbin nella bella postfazione – lo snodo centrale, il punto focale del racconto, perché qualunque sia la verità ciò che conta sono le conseguenze dell’agire di Bento, la sua capacità autodistruttiva, conseguenza della sua incapacità di confrontarsi a tu per tu con il suo sospetto, per appurarne la eventuale veridicità.
Dopo avere distrutto la propria felicità, Bento cerca di recuperarne la porzione che ritiene più pura ed assoluta facendosi costruire una casa identica a quella nella quale aveva vissuto durante l’infanzia. Non torna a vivere nell’originale, perché lì tutto è cambiato, anche se i muri sono quelli di allora. Cerca allora in tutta evidenza di ricostruirsi la casa della sua infanzia, come se la ricorda lui, per poter vagheggiare che vi risuoni ancora la voce della madre (una figura importante, nel romanzo) e vi possa incontrare la Capitu bambina. La ricostruzione dello spazio però è chiaramente inadeguata a riproporre un’esistenza, e quindi Bento ricorre all’unica possibilità reale di ripercorrere la propria vita: ricostruire il tempo, affidandosi alla memoria, al recupero attraverso l’arte della scrittura di ciò che è stato. Da qui potrà ripartire, solo dopo avere fatto i conti con quanto è avvenuto potrà esserci qualcosa di nuovo per Bento. E questo ruolo della narrazione, questa sua capacità di liberarci dei nostri fantasmi, anche a prescindere – sembra dirci Machado – da una impossibile oggettività nei confronti di sé stessi – è esemplarmente espressa nell’ultimo breve capitolo, dove troviamo Bento che si accinge a iniziare la scrittura di una neutra Storia dei sobborghi.
Nel 'Don Casmurro' ho quindi ritrovato gli elementi di modernità di Machado che avevo già evidenziato commentando le Memorie dall’aldilà, e credo che a questo punto si possa senza dubbio ascrivere l’autore tra i precursori del novecento letterario europeo: ciò è tanto più sorprendente se si pensa alla distanza culturale che, soprattutto in quei tempi, ci pare separasse l’Europa dal Sudamerica: evidentemente tale distanza non era poi così incolmabile se un autore che non si è mai allontanato da Rio de Janeiro ci ha saputo regalare romanzi che avrebbero potuto tranquillamente essere scritti – almeno per quanto riguarda le tematiche trattate – a Vienna o a Parigi.
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Memorie dell'Aldilà di Machado De Assis

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Il manifesto dell’identità intellettuale....
... di Nabokov (e molto altro)
"Il dono" segna la fine della prima fase della produzione letteraria di Nabokov, e la storia della sua pubblicazione è abbastanza contorta. Fu infatti scritto in russo nell’ultimo periodo della permanenza dell’autore a Berlino, tra il 1935 e il 1937, ed apparve a puntate negli anni successivi, su una rivista dell’emigrazione russa a Parigi, in una edizione non integrale. Solo nel 1952 vide la luce integralmente a New York, essendosi l’autore ormai da tempo trasferito prima in Gran Bretagna e poi negli USA, e nel 1963 fu tradotto in inglese (con revisione dello stesso Nabokov). Questa edizione Adelphi è condotta sul testo originale russo. Le peripezie editoriali del libro ben si adattano alla complessità del testo: Il dono è infatti una sorta di autobiografia romanzata dei primi anni berlinesi dell’autore, nella quale sono comprese altre due storie, quella del padre del protagonista e un “libro” su Nikolaj Cernyševskij, lo scrittore e pensatore rivoluzionario dell’ottocento russo autore di Che fare?, scritto dal protagonista de Il dono. Queste due storie, che occupano rispettivamente quasi tutto il secondo e l’intero quarto capitolo dei cinque in cui è suddiviso Il dono, sono le colonne su cui si fondano due delle tematiche fondamentali sviluppate nel libro (tematiche peraltro sempre presenti nell’opera di Nabokov, almeno del Nabokov russo: la nostalgia per la Russia prerivoluzionaria – associata ad un profondo disprezzo per la Russia sovietica – e la polemica (che anche in questo caso sfocia nel disprezzo) nei confronti dell’arte utilitaristica, realista, volta all’impegno civile, rappresentata in sommo grado – nell’immaginario dell’intelligentsia russa di inizio ‘900, proprio dall’opera di Cernyševskij. Accanto a questi due temi portanti, che Nabokov sviluppa lungo tutto il libro, Il dono contiene anche una sferzante satira sull’ambiente dell’immigrazione intellettuale russa a Berlino, ci mostra il disprezzo (ancora!) di Nabokov per la città e la mentalità tedesca in genere, ci fa conoscere nuclei familiari gretti e meschini o sconvolti da tragedie personali, ci narra della nascita dell’amore del protagonista per una giovane russa e ci espone la sua completa dedizione all’opera dei grandi poeti russi romantici e simbolisti, Puškin e Blok sopra tutti. Il tributo a Puškin emerge sin dal nome scelto da Nabokov per il protagonista, Fëdor Kostantinovic Godunov-Cerdincev: egli è da poco giunto a Berlino, all’inizio degli anni ’20, ed ha pubblicato un primo volume di poesie dedicate alla sua agiata e serena infanzia russa, che ha tuttavia venduto poche decine di copie. A Berlino frequenta, oltre ai circoli letterari degli emigranti, anche la casa dei Cernyševskij (significativamente una famiglia con il cognome dello scrittore ottocentesco), il cui unico figlio, Jaša, aspirante poeta, si è da poco suicidato. Il secondo capitolo del libro è in gran parte dedicato alla rievocazione del padre, famoso entomologo ed esploratore, che non è più tornato da un viaggio in Asia nel periodo della rivoluzione, sulla cui figura Fëdor vuole scrivere un libro (che non scriverà). Fëdor Kostantinovic quindi si innamora, corrisposto, di Zina, la figlia dei suoi nuovi padroni di casa, gretti borghesi antisemiti a loro volta emigrati dalla Russia. Progetta e scrive un libro sulla vita di Nikolaj Cernyševskij, il cui risultato è il contenuto del quarto capitolo. Il libro, tuttavia, mettendo decisamente alla berlina un intellettuale considerato un po’ da tutti uno dei massimi rappresentanti della letteratura russa dell’800, prima trova difficoltà ad essere edito, quindi riceve molte critiche negative. Nelle ultime pagine, Fëdor Kostantinovic prima partecipa ad una seduta dell’associazione degli scrittori emigrati, nella quale si scontrano diverse correnti la cui unica finalità è gestire la cassa, poi ha un divertente incidente mentre fa il bagno al Grünewald, infine, approfittando della partenza dei genitori di Zina per Copenhagen, si appresta ad andare a vivere con lei e progetta un nuovo libro, magari da scrivere tra alcuni anni, in cui raccontare la sua vita a Berlino. Questa a grandi linee la trama, che sicuramente non è l’elemento essenziale del libro: facendo i dovuti distinguo, ritengo che Il dono, come struttura, possa essere accostato ad un capolavoro assoluto scritto un decennio prima: L’Ulisse di Joyce. Così come nella insignificante giornata di Leopold Bloom si dispiega il viaggio esistenziale dell’uomo novecentesco, la sua ricerca di identità di fronte al venir meno di ogni certezza, sublimata nel bisogno di paternità, negli anni berlinesi di Fëdor Kostantinovic ci viene mostrato il viaggio intellettuale dell’emigrato Nabokov, la ricerca di una nuova identità fondata sulla nostalgia del paradiso perduto russo e sul recupero di quella parte della sua cultura antecedente alla grande rottura che non ne costituisse il presagio o l’humus letterario. Tra l’altro sembra (anche se nella traduzione di Serena Vitale è a mio avviso difficile trovarne traccia) che ciascuno dei cinque capitoli de Il dono sia stato scritto nello stile di diversi autori russi (Puškin, Gogol’, Saltikov – Šcedrin), il che aumenterebbe il tasso delle inquietanti assonanze con il capolavoro di Joyce. Il dono, l’esaltazione di Puškin, il disprezzo per Cernyševskij, certamente quantomeno ingeneroso e in buona parte secondo me dettato dall’ammirazione espressa apertamente da Lenin, non possono quindi a mio avviso essere compresi appieno se non si tiene presente il sostrato di viscerale antibolscevismo che animava Nabokov, già emerso appieno nei primi racconti, raccolti da Adelphi ne “La veneziana”. Sarebbe interessante indagare se la posizione rigidamente individualistica e la sua concezione dell’arte per l’arte, il suo rifiuto di qualsiasi ruolo sociale dell’intellettuale e del suo prodotto siano stati la causa o la conseguenza del suo assoluto rifiuto di comprendere ciò che stava avvenendo nel suo Paese. Al netto di questi presupposti ideologici è indubbio che Il dono sia un libro estremamente affascinate, per la complessità dei temi trattati, per l’efficacia satirica del ritratto impietoso degli intellettuali russi emigrati, per la prosa di Nabokov che sta raggiungendo le vette espressive della maturità, per la forza quasi picaresca di alcuni episodi (su tutti quello del bagno al Grünewald). Il libro tra l’altro ha un andamento quasi circolare, e questo è un ulteriore indubbio motivo di fascino, nel senso che la sua fine è anche l’inizio dell’idea del suo racconto da parte di Fëdor Kostantinovic. Questa circolarità è espressa anche in alcuni episodi apparentemente secondari: Nelle prime pagine l’osservazione di un trasloco fa pensare a Fëdor che quello 'Sarebbe un buon inizio per un bel romanzo lungo, di quelli che si scrivevano una volta'; sia nel primo sia nell’ultimo capitolo vi è una storia di chiavi dimenticate da Fëdor, che gli impediscono di entrare in casa; due (e simmetrici) sono gli incontri che Fëdor immagina di avere con il poeta Konceev. Vi sono poi alcuni episodi anticipatori di Lolita, a testimonianza del fatto che Nabokov 'sapeva' di dover scrivere il suo capolavoro: il colloquio con il patrigno di Zina in cui questo esprime l’idea di scrivere un romanzo su un vecchio che si innamora di una giovanissima, e il modo in cui Fëdor Kostantinovic decide di prendere in affitto la stanza offertagli dai genitori di lei. Si è discusso molto del fatto se nel personaggio di Fëdor Kostantinovic si rispecchi totalmente il giovane Nabokov: l’autore stesso, nella prefazione all’edizione statunitense, nega recisamente l’identità con il suo personaggio. Io credo che la questione non sia importante: è Il dono nel suo complesso che è Nabokov, un Nabokov ormai pronto per traghettare la sua opera al di là dell’oceano ma che non si è ancora liberato completamente (se mai lo farà) di alcuni retaggi della sua aristocratica origine.
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L’altro caposaldo...
...dell’opera di un grande pensatore europeo
"Il dialogo della salute" rappresenta l’altro caposaldo dell’opera di Carlo Michelstaedter, insieme a "La persuasione e la rettorica", da me recentemente recensita.
Questo volume di Adelphi, curato dall’ottimo Sergio Campailla, ce lo presenta insieme ad altri dialoghi scritti da Michelstaedter, alcuni dei quali molto frammentari, ed indubbiamente la loro lettura, accanto a quella dell’opera maggiore, contribuisce ad ampliare l’orizzonte di comprensione del pensiero di questo piccolo, grande intellettuale del novecento europeo.
La forma del dialogo, scelta da Michelstaedter per esporci in prosa il suo pensiero, rimanda direttamente a due degli autori più amati dal nostro: Platone e Giacomo Leopardi. Il dialogo permette infatti, attraverso il meccanismo di interlocuzione e di domanda e risposta tra due personaggi, di esporre ed argomentare tesi in modo diretto ed incalzante: per questo motivo, pur essendo la lettura non del tutto agevole sia per lo stile di scrittura dell’autore sia per i temi trattati, essa è sicuramente più facile rispetto a quella de "La persuasione e la rettorica". Questa differenza è sicuramente anche dovuta alla diversa funzione che i dialoghi avrebbero dovuto svolgere rispetto all’opera maggiore: mentre questa era una tesi di laurea, destinata quindi ad un pubblico molto ristretto e specialistico, quelli sono stati scritti, ancorché in alcuni casi solo abbozzati, con intento divulgativo, presupponevano un pubblico generalista, e quindi il loro stile di scrittura tiene conto anche di ciò.
Come detto, Il dialogo della salute è sicuramente di gran lunga il frammento più importante presentato da questo volume. Esso fu terminato il 7 ottobre 1910, appena 10 giorni prima il suicidio di Michelstaedter, e la sua stesura si intreccia con quella della tesi di laurea.
Attori del dialogo sono Nino e Rico, nei quali è palese il richiamo a due cari amici di Michelstaedter, che una sera all’uscita da un cimitero vengono apostrofati dal custode con ”Dio vi dia la salute”. I due iniziano a discutere di salute e di malattia e del concetto di male, con Nino nel ruolo del discente incerto e contradditotrio e Rico in quello del docente, e nel corso del dialogo vengono esposti, sia pure in forma e con terminologie diverse, i concetti filosofici sviluppati ne La persuasione e la rettorica, in particolare nella sua prima parte.
Qui l’uomo 'persuaso' e quello 'rettorico' divengono rispettivamente il sano e l’ammalato, ma la sostanza del ragionamento michelstaedteriano non cambia: l’uomo ammalato non vive, in quanto cerca continuamente nel futuro, in ciò che la società e la volontà del piacere gli fanno balenare di volta in volta come desiderabile il suo appagamento, il suo vivere. Egli non cerca le cose e le relazioni con gli altri uomini in quanto tali, ma in quanto appaganti: cerca l’appagamento di sé nelle cose e negli altri. Ma se l’uomo ricerca ciò che non ha, appena raggiuntolo già non l’ha più, come colui che si volta per vedere l’ombra del proprio profilo, per cui è costretto a ricercare nuovi appagamenti, in un gioco crudele che ha fine solo con la morte. L’uomo sano, persuaso, all’opposto, non si affanna continuamente: egli consiste, sta fermo nella sua coscienza, ”Non ha niente da difendere dagli altri e nulla da chiedere loro poiché per lui non c’è futuro, che nulla aspetta… E la morte come la vita di fronte a lui è senz’armi… non puoi parlare di lui che nel punto della salute consistendo ha vissuto la bella morte". Il concetto della bella morte è stato in questi decenni strumentalizzato dal pensiero di destra, seguendo una visione individualistica e quasi mistica del pensiero di Michelstaedter: in realtà credo che proprio una attenta lettura di questo dialogo, del modo in cui Michelstaedter giunge a teorizzare la bella morte, nonché degli altri elementi polemici contenuti nel dialogo, quali la critica all’arte di facciata e all’artista che ricerca la creazione per convenienza, alla rettorica dell’autorità e all’ambizione della potenza, alla società (quella in cui viveva) come trionfo della rettorica e della malattia, permetta di riaffermare il carattere politico e civile del pensiero di Michelstaedter, che già era emerso prepotentemente soprattutto nella seconda parte de La persuasione e la rettorica.
Come detto gli altri dialoghi sono da considerarsi opere minori. Vale comunque la pena analizzarne alcuni, perché ci permettono di ampliare ulteriormente l’analisi della personalità di questo grande, disperato autore.
Comincerei dal Dialogo tra Carlo e Nadia, breve frammento che tuttavia ci permette di introdurre una figura essenziale nella breve vita di Michelstaedter: quello di Nadia Baraden, giovane esule anarchica russa di cui Michelstaedter si innamora negli anni fiorentini e che si suiciderà pubblicamente nel 1907 (per chi volesse saperne di più segnalo il volume di Sergio Campailla Il segreto di Nadia B. – Marsilio, 2010). Nel dialogo lo spirito dell’amica morta rimprovera a Carlo di non averla mai amata veramente, ma di avere amato sé stesso in lei. E’ forse la più lancinante autoaccusa di non essere persuaso, di inadeguatezza, che Michelstaedter si rivolge rispetto ad un sentimento che ha segnato profondamente la sua vita.
Altro frammento interessante è quello tra Diogene e Napoleone, nel quale prevale il tema della rettorica della potenza e della sua inanità. L’anima di Napoleone, morto, s’annoia, ma Diogene le dimostra che quando agiva, agiva sempre in previsione di un futuro, che l’aver conquistato la Francia prima, l’Europa poi non erano, ancora una volta, che una incessante proiezione verso il futuro, che non avrebbe mai trovato sosta pena la morte. Purtroppo il dialogo si interrompe bruscamente e non sviluppa compiutamente i concetti accennati.
Il breve Dialogo tra la cometa e la terra, composto in occasione del passaggio della cometa di Halley (1910) che tante paure apocalittiche aveva suscitato, contrappone una terra borghese, rettorica, il cui movimento è predeterminato e sempre uguale a sé stesso, ad una cometa anarchica e persuasa, che giunge inaspettata e seguendo orbite eccentriche, ed è forse il dialogo in cui i due concetti cardine del pensiero michelstaedteriano si avvicinano di più ad una dimensione politica e quasi sociologica: dice la cometa, dopo aver rimproverato la terra di fare tutto in nome del sole e di brillare solo di luce riflessa: ”… però poserò mai ad astro costituito e [mai] mi crederò in diritto di chiamar mio dovere senza mia luce dell’altrui luce vivere”. Nel finale, la terra chiede alla cometa di raddrizzarle l’asse, ma il rifiuto della cometa è fulminante: ”Eccoli i borghesi! Tutti uguali! Vorreste e non potete – e perché non potete – questo è il vostro dovere! Ma poi al caso ogni appoggio v’è buono…”.
Gli altri brevi dialoghi, in genere molto godibili, li lascio alla scoperta del lettore.
Non mi resta che ribadire che la lettura delle due opere di Michelstaedter mi hanno permesso di scoprire il pensiero di un grande intellettuale, che a mio avviso ha lasciato un’impronta nella cultura italiana ed europea la cui profondità è inversamente proporzionale alla brevità della sua vita. Un autore da leggere assolutamente per capire meglio i suoi tempi ed i nostri.
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nascita di uno scrittore
Questo volume Adelphi ci offre la possibilità di scoprire la produzione letteraria del giovane Nabokov. Infatti contiene tredici racconti, scritti tra il 1920 e il 1928, ovvero quando l’autore non è ancora trentenne. Alcuni dei racconti vennero pubblicati su riviste dell’emigrazione russa edite a Berlino, mentre altri restarono inediti. Nabokov, infatti, figlio di un noto politico russo, lasciò la Russia con la famiglia dopo la guerra civile (il padre si era schierato con i Bianchi), dapprima in Gran Bretagna, quindi a Berlino e poi ancora a Parigi.
A differenza dei grandi romanzi della maturità (tra cui Lolita), scritti in inglese, questi racconti furono scritti in russo, lingua che Nabokov utilizzò per le sue opere sino alla fine degli anni ’30.
Anche per questo si tratta indubbiamente di un Nabokov molto diverso dallo scrittore americano del secondo dopoguerra, oserei dire di un Nabokov minore. In alcuni racconti, in particolare nei primi due ("Lo spirito dei boschi" e "Suoni", che sono anche le prime prove letterarie dell’autore) affiora a mio avviso una certa ingenuità sia tematica sia stilistica. Entrambi i brevi racconti, pur molto diversi tra di loro, sono intrisi dalla nostalgia per la Russia perduta: nel primo uno Spirito dei boschi viene a trovare lo scrittore nella sua stanza solitaria, e gli narra che anche lui è dovuto scappare dalla Russia, perché i boschi sono stati tagliati o bruciati, e la violenza regna nella grande patria. Il secondo, dai toni più idilliaci, prende lo spunto dal racconto di una relazione amorosa che sta per finire per descrivere l’atmosfera sospesa del settembre 1914, gli ultimi giorni di un mondo cui Nabokov si ricollega nostalgicamente e che verrà inesorabilmente spazzato via dalla guerra e dalla Rivoluzione. E’ veramente un Nabokov alle prime armi, dai toni lirici, intimistici e come detto a volte ingenui, nel quale compare tuttavia uno dei temi ricorrenti della sua produzione letteraria giovanile: il senso di vuoto dato dalla condizione di espatriato e dalla coscienza dell’impossibilità del ritorno alla situazione (e agli agi) perduti.
L’atmosfera cambia bruscamente con il successivo racconto: "Si parla russo". Emerge qui esplicitamente per la prima volta nella prosa di Nabokov il suo viscerale anticomunismo, il suo considerare, da buon nobile che ha subito con la Rivoluzione la perdita di tutto ciò che aveva, i bolscevichi dei rozzi usurpatori. Il racconto, un quasi noir, è comunque, al di là della connotazione ideologica, molto godibile, ed anche la prosa di Nabokov, più essenziale, meno ispirata a modelli tardoromantici, contribuisce alla qualità del breve racconto.
"Un colpo d’ala" è un racconto piuttosto lungo, nel quale l’atmosfera fatua di una stazione turistica svizzera (Zermatt) agli albori dello sci, frequentata da vacui personaggi, viene sommersa dall’improvvisa irruzione del dramma, sotto forma di un evento che va al di là della comprensione umana. E’ forse il racconto che ho apprezzato di più, perché lo scintillio della prosa di Nabokov, che qui emerge già appieno, ci narra, con accenti quasi kafkiani, del freddo distacco dell’autore da una superficialità esistenziale con cui aveva probabilmente dovuto fare i conti. E’ un racconto che, sia pure con i suoi limiti strutturali, ci descrive un mondo che per Nabokov probabilmente era altrettanto insopportabile quanto la Russia sovietica.
I toni lirici e più fortemente intimistici riaffiorano nel breve "Gli dei", dove tuttavia la fantasia Nabokoviana trova piena espressione nella storia nella storia che contiene. Il successivo racconto, La vendetta, è poco più di un piccolo noir, anche se magistralmente scritto e carico di una sottile ambiguità.
Ne "La grazia" un piccolo, marginale episodio di cui è testimone il narratore ci dà la possibilità di gustare la fredda atmosfera della Berlino nella quale Nabokov vive in quegli anni, e nella quale non si riconosce: in questo senso è quasi un’anticipazione del romanzo autobiografico "Il dono", scritto oltre dieci anni dopo. Le atmosfere cittadine, questa volta di Marsiglia, predominano anche nel successivo "Il porto", mescolate ancora una volta alla nostalgia per la terra russa e al senso di perdita d’identità da cui era affetta l’emigrazione. In questi brevi racconti Nabokov scatta delle fotografie di città, nelle quali troviamo anche attimi della vita di qualche personaggio, che vengono fissati per quello che sono in quell’istante, senza che questo ci porti in nessun passato o verso nessun avvenire. Sono squarci che, nella loro brevità, sanno comunque restituirci un mondo intero, e in questo sta la maestria di Nabokov.
Il racconto che dà il nome al volume è il più lungo, ma secondo me non il più significativo. Compare, tramite il rapporto tra Frank e il padre, il tema del contrasto tra l’artista e la vita pratica, ma tutto il racconto è pervaso, a mio avviso, da un ché di artificioso e bozzettistico: i personaggi sono quasi caricaturali, nella loro netta caratterizzazione, ed anche lo spunto dell’opera d’arte che condiziona il sentire dei personaggi e ne cambia la vita non è affatto nuovo in letteratura (si pensi al "Ritratto di Dorian Gray", tanto per fare un esempio).
"Il drago" è un racconto secondo me splendido, per la grande ironia che lo pervade, anche se a ben vedere pure qui non mancano gli ascendenti wildeiani (penso a "Il fantasma di Canterville") nel tema del drago che uscendo dalla sua caverna deve fare i conti con un gretto mondo borghese. E’ forse il racconto nel quale Nabokov si allontana di più dall’intimismo che ne caratterizza l’opera giovanile per entrare, sia pure sporadicamente, nel mondo della satira sociale, venata da un coerente pessimismo.
"La rissa" è un piccolo racconto, nel quale Nabokov fa professione di un estetismo assoluto e quasi paranoico, che trova anche nei movimenti di due persone che si stanno menando la bellezza dell’attimo e del corpo umano.
Con "Il rasoio" sembra di fare un salto indietro, tanto simile è la situazione a quella de "Si parla russo": forse Nabokov pensava di aver trovato un buon filone narrativo, quello dell’immigrato che si può vendicare dei torti subiti dal bolscevismo.
Più complesso è sicuramente l’ultimo brano, "Racconto di natale": oggetto degli strali di Nabokov è in questo caso la letteratura della Russia sovietica, il suo realismo che risulta del tutto convenzionale. E’ una lettura senza dubbio semplicistica, se si pensa alla ricchezza culturale che caratterizzò la letteratura sovietica negli anni precedenti lo stalinismo, come a mio avviso semplicistici e dettati dall’ascendenza di classe sono il complessivo giudizio di Nabokov sulla rivoluzione e la nostalgia per la felicità perduta che formano l’oggetto di molti dei racconti di questo volume.
Ciò non toglie che "La veneziana" ci permetta di scoprire la nascita di uno scrittore che nel corso della sua non breve vita avrebbe cambiato pelle e financo la lingua con la quale si esprimeva letterariamente. Alcuni racconti sono sicuramente propagandistici, e avevano a mio avviso lo scopo di rispondere alle aspettative più epidermiche dell’emigrazione berlinese; altri però sono piccoli capolavori, nei quali si può rintracciare l’humus sul quale sarebbe spuntato, decenni dopo, il fantasmagorico tappeto fiorito di "Lolita".
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Come una tesi di laurea può divenire...
... un testo fondamentale del pensiero novecentesco.
Carlo Michelstaedter si suicidò con un colpo di pistola nell’ottobre 1910, a ventitrè anni. Questo terribile dato anagrafico sembra quasi incompatibile con la profondità di pensiero e di visione, a tratti quasi profetica, che emerge dalla lettura della sua opera più importante, "La persuasione e la rettorica", che altro non era se non la sua tesi di laurea, mai discussa. Un’opera come questa basta, a mio avviso, a fare di Michelstaedter uno dei più importanti pensatori europei di inizio novecento. Europeo lo è, Michelstaedter, anche per essere nato alla fine dell’800 a Gorizia, in quella terra dove venivano a contatto almeno tre culture profondamente diverse (ma a queste va senza dubbio aggiunto l’essere lui ebreo, per quanto di una famiglia non praticante), terra che nello stesso periodo esprime – non a caso – anche altre personalità culturali di primo piano, quali Umberto Saba e Italo Svevo.
In questo scritto, non pensato per essere pubblicato, Michelstaedter ci consegna una ampia elaborazione del suo pensiero filosofico, che si riallaccia alla filosofia greca presocratica e a Socrate, per giungere sino a Schopenhauer e a Nietzsche, in aperta polemica con l’idealismo e il razionalismo che da Aristotele portano a Hegel ed ancora di più con il positivismo ottocentesco, e in campo artistico prende a modelli Petrarca, Leopardi, Beethoven ed Ibsen. E’ lo stesso Michelstaedter che si dice esplicitamente nell’introduzione del libro quali siano le sue radici e quali sia stata la capacità del pensiero occidentale di svilire ed adattare alle necessità della società gli insegnamenti che ne derivavano:
“Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti: lo disse Socrate ma ci fabbricarono su quattro sistemi… lo disse Cristo e ci fabbricarono su la Chiesa… agli Italiani lo proclamò Petrarca trionfalmente, lo ripeté con dolore Leopardi – ma gli uomini furono loro grati dei bei versi, e se ne fecero generi letterari.”
E’ una filosofia improntata ad un profondo pessimismo, derivante però non tanto dalla natura stessa dell’uomo (che può essere persuaso, cioè autocosciente della propria individualità e della fatica del vivere), quanto dal trionfo della rettorica, vale a dire – si direbbe marxianamente – della sovrastruttura ideologica che maschera e legittima a un tempo l’essenza violenta della società organizzata e che garantisce la sicurezza all’individuo al costo della rinuncia ad una vita vera e dell’eterno inseguimento di un futuro che non potrà mai essere raggiunto. La metafora del peso, all’inizio del libro, esemplifica molto bene lo status dell’uomo sociale, rettorico: come un peso pende, tende sempre verso il basso, e nel momento in cui smettesse di scendere cesserebbe pure di essere un peso, così la vita non è mai sazia di vivere in alcun presente, e tende continuamente al futuro, realizzandosi solo con la morte, cioè negandosi.
Nella prima parte del volume (Della persuasione) la condizione umana di ricerca di un perenne movimento verso un impossibile futuro appagamento viene posta come un dato di fatto, seppure illusorio, dell’umanità, e lo sforzo dell’autore è volto a dimostrarne la veridicità filosofica, in contrapposizione all’ottimismo della ragione propalato dalla rettorica, il pensiero occidentale di derivazione aristotelica. E’ la parte di più difficile lettura di un testo comunque complesso, nel quale abbondano citazioni in greco antico (fortunatamente tradotte in nota) e nel quale lo stesso Michelstaedter, la cui prosa è tutt’altro che scorrevole, fa ricorso spesso a frasi in greco per esporre correttamente concetti che solo in quella lingua assumono un significato univoco.
E’ nella seconda parte del testo (Della rettorica) che a mio avviso Michelstaedter dispiega tutta la forza e la coerenza intrinseca del suo pensiero. Dopo poche pagine l’autore ci narra un bellissimo apologo (Un esempio storico) relativo al tentativo di Platone di superare la gravità, intesa come limitatezza dell’uomo, con la costruzione di un meccanismo, un aerostato che sollevasse i corpi verso il sole, ma di come Aristotele riuscì, con abilità retorica, a riportare sulla terra l’aerostato, che di per sé non aveva superato la gravità, ma era servito solo a mascherarla. E’ l’inizio di un attacco profondo alla società, che non risparmierà nulla, e che assumerà, come accennerò, anche toni profetici. Il primo, potentissimo affondo Michelstaedter lo riserva alla scienza e agli scienziati moderni, che hanno il solo compito di propalare false visioni oggettive della realtà, funzionali in realtà al solo perpetuarsi della società organizzata che rende l’uomo schiavo. L’autore critica tra l’altro fortemente la specializzazione, che riduce l’oggetto di ricerca a relazioni elementari e indipendenti e perde di vista la complessità degli organismi complessi.
Nel capitolo successivo oggetto della critica di Michelstaedter sono gli stessi elementi cardine della società borghese, l’illusoria sicurezza individuale socialmente garantita dal sistema dei diritti e dei doveri sociali, il dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura attraverso la proprietà privata, lucidamente vista come appropriazione del lavoro altrui (il nostro leggeva Marx in tedesco), il mito del progresso tecnico come portatore di benessere, che invece ha come finalità ultima perpetuare la schiavitù e ottundere le capacità critiche e di discernimento dell’uomo. Riporto una considerazione sul denaro, che secondo me rende bene l’idea della disperata capacità analitica di Michelstaedter: “Il danaro, il mezzo attuale di comunicazione della violenza sociale per cui ognuno è signore del lavoro altrui… sarà come divinità assunto in cielo, diventerà del tutto nominale, un’astrazione, quando le ruote [della macchina sociale] saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell’altra senza bisogno di trasmissione”. Beh, direi che ci siamo.
E’ comunque la parte riservata al linguaggio ed alla parola che secondo me è la più sorprendente e che basterebbe a fare de La persuasione e la rettorica un testo di valore assoluto. Con grande lucidità a preveggenza Michelstaedter ci dice che la società e il progresso ci porteranno inevitabilmente verso un futuro in cui le parole perderanno la loro valenza comunicativa, dove “Tutte le parole saranno termini tecnici quando l’oscurità sarà per tutti allo stesso modo velata, essendo gli uomini tutti allo stesso modo addomesticati. Le parole si riferiranno a relazioni per tutti allo stesso modo determinate… Gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera”. Come non vedere in queste frasi la lucidissima anticipazione di quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi, nell’epoca dei Jobs act, della lingua dei post e dei Like di Facebook? L’ultimo, splendido capitolo è destinato all’educazione, come strumento per preparare i giovani alla vita futura, per irreggimentarli separando il dovere dal piacere, promettendo loro ricompense in cambio dello studio prima e del lavoro poi.
Michelstaedter con questa seconda parte della sua opera si rivela secondo me un grandissimo pensatore, che partendo da una posizione radicalmente individualistica, antiidealistica e da un pessimismo cosmico di stampo leopardiano è lungi dal suggerire soluzioni di tipo superoministico o di darwinismo sociale, come fa molto del pensiero che prese le mosse in quel periodo da analoghi lidi, ma è in grado di analizzare – secondo me con una lucidità esemplare – le cause strutturali di tale pessimismo, non pretendendo di offrire soluzioni. Può rappresentare quindi un anello importante della sintesi, secondo me oggi necessaria più che mai, tra la critica sociale marxiana sfociata nel materialismo storico e l’analisi delle conseguenza della struttura sociale sull’individuo: è questa una delle poche strade che ci sono rimaste – a mio avviso – per costruire una nuova teoria della liberazione dell’umanità ed evitare il sicuro disastro verso cui il sistema ci sta portando. Ma il tempo stringe per davvero, ed il pessimismo di Michelstaedter è probabilmente fondato su solide basi!
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Opera emblematica del rapporto tra arte e poter
"Il Tartuffo", insieme a "L’avaro" e a "Il malato immaginario" rappresenta il vertice dell’opera di Molière, almeno in termini di odierna notorietà e rappresentazione a teatro. E’ uno dei classici teatrali di tutti i tempi, e risulta quindi difficile scriverne qualcosa senza cadere nel banale e nel già detto. Non essendo comunque, a mio avviso, finalità di una recensione qui pubblicata aggiungere elementi di conoscenza critica in senso specialistico (tra l’altro non ne avrei le competenze), quanto piuttosto stimolare i pochi che giungeranno sin qui alla lettura dell’opera, credo sia utile scrivere qualcosa su questo testo immortale, cercando di mettere in evidenza alcuni dei mille motivi per cui Il Tartuffo va assolutamente letto e/o visto a teatro.
Comincio dal motivo più immediato: Il Tartuffo è innanzitutto una commedia vivace e divertente, nella quale si ride di gusto del carattere dei singoli personaggi, dell’ipocrisia di Tartuffo, della stupidità di Orgone, della sagacia di Dorina, della pomposa retorica di Cleante. Il riso è anche provocato (qui la semplice lettura ovviamente non aiuta) della perfezione dei tempi scenici e dal ritmo complessivo della commedia, nella quale sono frequenti raffiche di dialoghi serratissimi. Molière è ovviamente uno degli inventori del teatro moderno, e se si pensa che la commedia è stata scritta nel XVII secolo ci si sorprende ogni volta per la sua strepitosa modernità, tanto che potrebbe benissimo essere stato il soggetto per una commedia cinematografica interpretata da Alberto Sordi.
Ecco: la modernità è secondo me la cifra di Molière e in particolare di questo suo capolavoro: su cosa poggia questa modernità? Solo sulla tecnica teatrale e sulla brillantezza delle battute? Ovviamente no, mi viene da rispondere. Anzi, ritengo che queste componenti siano il necessario risultato (senza dubbio impensabile senza il genio dell’autore) dell’impostazione stessa del teatro maggiore di Molière, che è teatro realista, che trova i suoi spunti nei vizi e nelle convenzioni della società in cui l’autore vive, nelle contraddizioni che l’epoca del Re Sole assommava tra i lasciti di un medioevo feudale e teocratico ormai tramontato, che ancora comunque riverberava di sé le istituzioni secolari ed ecclesiastiche, e la nascente società borghese, che in Francia ci avrebbe messo ancora poco più di un secolo a rivendicare e conquistare un dominio assoluto.
Noi ci divertiamo con il Tartuffo perché lo sentiamo moderno, e lo sentiamo moderno perché percepiamo che ha le sue radici nella capacità di descriverci un mondo che, pur appartenendo ai tempi del Re Sole, ha portato sino a noi molte delle maschere che ci presenta, non essendo cambiati poi troppo i meccanismi del potere, le convenzioni sociali e le contraddizioni che le contraddistinguono (altri direbbero che l’animo umano non cambia nel tempo: io non sono d’accordo, ma questo è un discorso troppo lungo).
Brevemente la storia: in una famiglia parigina è stato accolto un personaggio, Tartuffo, che con atteggiamenti fintamente pii e devoti esercita la sua nefasta influenza sul padrone di casa, Orgone, e sulla madre di questi. La moglie, i due figli ed il cognato di Orgone vorrebbero aprirgli gli occhi, ma abilmente Tartuffo riesce a farsi promettere in sposa la giovane Marianna ed a farsi intestare tutti i beni di famiglia: contemporaneamente tenta di sedurre Elmira, moglie di Orgone. Quando finalmente quest’ultimo si rende conto della meschinità del personaggio, tutto sembra ormai perduto: Tartuffo, ormai padrone di casa, intima alla famiglia di andarsene. Solo l’intervento di un ufficiale mandato direttamente dal Re farà arrestare Tartuffo, che si rivelerà essere un noto truffatore.
La commedia è quindi un attacco diretto alle convenzioni religiose, dietro le quali si mascherano spesso sete di potere e ricchezza e comportamenti privati antitetici a quelli pubblicamente professati: Molière, per bocca di Cleonte, non manca di avvisare lo spettatore di distinguere tra i falsi ed i veri devoti, ma la carica eversiva del testo fu talmente compresa dalle autorità ecclesiastiche dell’epoca che la rappresentazione della commedia fu vietata per lunghi anni.
Per comprendere meglio il clima culturale e politico in cui Il Tartuffo fu scritto, i tentennamenti del Re Sole rispetto alla rappresentabilità dell’opera e le traversie che questa dovette affrontare, è illuminante il bel saggio di Luigi Lunari posto a prefazione dell’ottima edizione BUR (con testo a fronte) che ho letto. In questo saggio viene posto un problema che effettivamente salta agli occhi del lettore: Perché quel finale? Perché in una commedia che fa del realismo la sua cifra, un epilogo talmente irrealistico?
Già il fatto che il Re mandi un ufficiale ad arrestare Tartuffo, avendo compreso l’ingiustizia che questi stava commettendo nei confronti di Orgone e famiglia, suona male: che poi questo momento sia accompagnato da una paginata di lodi sperticate al Re, alla sua saggezza, giustizia e capacità di discernimento sembra introdurre una nota stonata in una partitura pressoché perfetta.
Questo finale, al di là del giudizio di merito che gli si può attribuire, è comunque illuminante del rapporto che esisteva tra l’artista, il teatrante in questo caso, ed il potere assoluto del Re. Molière non avrebbe probabilmente potuto scrivere e rappresentare una commedia nella quale attaccava una parte dell’ordine costituito se non appoggiandosi e dichiarando la sua fedeltà assoluta al potere del sovrano: il finale è quindi il prezzo che l’autore deve pagare per poter dire le cose che dice nelle pagine precedenti, una tattica, ci suggerisce Lunari, che Molière usa per poter portare sino in fondo la sua strategia dissacrante. Lunari, nel saggio citato, va più in là, attribuendo a Molière una sia pure involontaria volontà sarcastica nei confronti del sovrano: in sostanza il finale sarebbe così inverosimile da descrivere in maniera caricaturale lo stesso potere reale. Non so se questo sia plausibile, e lo stesso Lunari avanza questa ipotesi con molti dubbi: quello che è certo è che la Troupe du Roi, la compagnia teatrale ufficiale del Re Sole non poteva permettersi di scrivere una commedia completamente realistica nella quale inevitabilmente avrebbe potuto scorgersi una critica al potere tout-court: era necessario che il potere buono e saggio del Re fosse scisso da quello dei Tartuffi.
Affascinante, a questo proposito, è la vicenda della commedia, che nella sua prima versione – quella di cui fu proibita la pubblicazione – si componeva di tre atti invece dei cinque definitivi: questa prima versione non ci è pervenuta, per cui non sappiamo se in essa il finale lieto fosse già presente, se si trattasse di un testo incompleto (gli attuali primi tre atti) o di un testo che si concludeva con il trionfo di Tartuffo: tutte le ipotesi sono possibili e sono state fatte, ma l’enigma non ha soluzioni certe, anche se Luigi Lunari propende nettamente per l’ipotesi del testo incompleto.
Chiudo con un fatto che mi ha colpito. Durante i quasi cinque anni di divieto di rappresentazione, Il Tartuffo sarà da Molière letto al Cardinale Chigi, rappresentato in privato nel palazzo della Principessa Palatina, rappresentato davanti a Filippo d’Orléans, per due volte davanti al Principe di Condè e richiesto da Cristina di Svezia. Tutti questi aristocratici, che godevano di uno spettacolo che negavano al pubblico, si saranno quanto meno un po’ immedesimati? Io non credo.
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Quanti spunti avrebbe da noi, oggi
"L’ispettore generale" è la più conosciuta opera teatrale di Gogol’ – autore che per inciso noi consideriamo russo, ma che in realtà era ucraino, a dimostrazione della relatività e della inconsistenza di un “ordine mondiale” odierno che per certi versi ci sta riportando al medioevo – e in quanto tale è complicata da recensire senza abbandonarsi a sterili soggettività o cadere nel già detto.
Eppure la forza del testo è tale da lasciare (come per la gran parte dell’opera di questo grandissimo autore) nel lettore sensazioni indelebili, e da rappresentare un paradigma di critica sociale talmente universale da essere attualissimo, tanto più in una società decadente come quella italiana di questo inizio di millennio. Per questo ritengo giusto, anche attraverso queste mie poche ed indegne righe, richiamare l’attenzione sulla necessità di leggere questo testo o di andare a vederne una rappresentazione teatrale.
La storia è semplicissima. In una città di provincia dell’impero zarista si viene a sapere che sta per giungere un ispettore da Pietroburgo per controllare l’andamento della cosa pubblica. Subito il Sindaco e gli altri maggiorenti si riuniscono per decidere come parare il colpo, visto che naturalmente tutto va male a causa della loro corruzione e ingordigia. Quando poco dopo apprendono che in un albergo è sceso un giovane proveniente dalla capitale, nessuno dubita che sia il temuto ispettore, per cui lo vanno a trovare in delegazione per blandirlo e per ingraziarselo; il giovane, che in realtà è un funzionario di infimo livello che sta tornando dai suoi dopo avere perso tutti i soldi al gioco, all’inizio non capisce come mai venga così riverito, ma subito decide di trarre vantaggio dalla situazione. Conferma quindi le opinioni dei provinciali sul suo potere, sulla bella vita condotta a Pietroburgo, fa la corte alla moglie e alla figlia del sindaco, gli promette di farlo diventare generale, si fa prestare denaro da tutti. Naturalmente tutti esaudiscono i suoi desideri senza fiatare. Quando il gioco è portato troppo avanti e rischia di essere scoperto il giovane scappa con una scusa; mentre il Sindaco si vede già generale a Pietroburgo e comincia ad attirarsi l’invidia degli altri notabili della cittadina giunge la notizia che è arrivato il vero Ispettore generale. Con un colpo di genio teatrale Gogol’ chiude la commedia con una scena muta, sorta di crocifissione laica che immortala gli astanti nella loro sorpresa per essere stati gabbati.
La critica alla corruzione della società zarista dell’800 è tanto più feroce in quanto deriva dalla descrizione di un episodio marginale, perfettamente verosimile. L’autore stesso è pienamente consapevole che l’effetto comico e la capacità di far riflettere il pubblico sarà tanto più grande quanto meno si eccederà in atteggiamenti caricaturali: l’ottima edizione Garzanti che ho letto riporta parecchie appendici, tra cui l’"Avvertenza per coloro che desiderano recitare come si deve L’ispettore generale”, che Gogol’ apre proprio così: ”Soprattutto è necessario evitare di cadere nella caricatura. Non ci deve essere nulla di esagerato o di triviale. Neppure nei ruoli meno importanti”. Questa avvertenza mi induce a riflettere su come, invece, molte delle rappresentazioni teatrali che ho potuto vedere dal vivo (una) o in video puntino proprio sulla caricatura dei personaggi, dando al testo un sentore di farsa che non solo tradisce i dettami dell’autore, ma ne sminuisce la forza corrosiva.
Un elemento fondamentale del testo, che non a caso costituì una delle cause principali dell’accoglienza tiepida che ebbe al debutto, è che non ci sono personaggi positivi. Tutti i notabili della città operano solo per nascondere le loro malefatte, per passare indenni l’ispezione e continuare ad arricchirsi come prima: anzi, nella famiglia del Sindaco si coltiva l’illusione che proprio grazie alla capacità di corrompere il supposto ispettore il loro status sociale possa grandemente elevarsi. Chlestakov, il falso ispettore, a sua volta è un approfittatore di bassa lega, che non esita a sparare le panzane più grosse (tra l’altro si attribuisce la paternità de "Le nozze di Figaro") non appena si rende conto dell’ingenuità e del provincialismo di chi ha davanti.
Nella commedia ci sono ovviamente molti autentici colpi di genio, tra i quali mi piace citare i personaggi di Dobcinskij e Bobcinskij, che come dice la similitudine del nome sono uguali, rappresentando quindi la serialità anche corporea del piccolo possidente russo avido e pavido.
Dopo aver letto questa opera immortale mi sono domandato quanti spunti avrebbe un Gogol’ nella nostra Italia odierna, e quanto a questa nostra derelitta società manchi un autore della sua forza. Quindi, ho acceso la televisione.
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Eros e Thanatos tra romanticismo e decadenza
Prosper Mérimée è un autore oggi forse un po’ dimenticato, sovente ricordato solo per il racconto da cui Bizet trasse la sua 'Carmen'. Eppure è a mio avviso un autore cruciale se si vuole comprendere uno dei grandi passaggi epocali della letteratura francese ed europea, quello dal romanticismo del primo ottocento, intriso dell’adesione – sia pure a volte critica – agli ideali borghesi che si andavano affermando, al primo decadentismo francese, che preannuncia la grande crisi di fine ottocento ed inizio novecento traendo le conseguenze del fallimento delle rivoluzioni del 1848.
Mérimée, che visse tra il 1803 e il 1870 ma concentrò la massima parte della sua produzione artistica nella prima metà del secolo, può essere infatti a mio avviso in qualche modo accostato ad un autore a lui di poco precedente, di lui sicuramente più grande e di altra estrazione culturale, ma con il quale condivide almeno due tratti essenziali: il gusto per il racconto fantastico e uno stile di scrittura impersonale e realistico: E.T.A. Hoffmann.
Questo è almeno quello che emerge dalla lettura di 'La Venere d’Ille', piccolo volume edito parecchi anni fa da Passigli che ci propone due dei racconti che – insieme a 'Carmen' e a 'Colomba' – sono considerati tra i più noti e preziosi della non abbondante produzione dell’autore. Segnalo, per chi volesse leggere Mérimée, che è disponibile un volume, edito da Donzelli, che ne propone tutti i racconti, e che l’Editore SE ha in catalogo un volume ('Carmen e altri racconti') che si avvale della traduzione di Sandro Penna.
I due racconti presentati dal volumetto di Passigli sono quello che gli dà il titolo e Il vaso etrusco: si tratta come detto, pur nella loro brevità, di due racconti significativi per comprendere Mérimée, ed in particolare il primo si può considerare una summa delle tematiche care all’autore.
In breve la trama: un archeologo parigino (che narra in prima persona) giunge nel Roussillon per visitarne i siti, ospite di un ricco antiquario locale. Questi ha appena fatto una scoperta eccezionale: una statua bronzea di Venere, che egli attribuisce a Mirone, dall’espressione ambigua e che reca sul piedistallo una misteriosa iscrizione; negli stessi giorni il figlio dell’antiquario, rozzo e volgare, sposa una ricca fanciulla del luogo, e l’ospite parigino assiste alle nozze. La festa si tramuta però subito in tragedia, perché il ragazzo verrà misteriosamente ucciso la prima notte di nozze.
Mérimée, oltre e prima che scrittore, è stato storico ed archeologo, e dal 1834 al 1860 ricoprì l’incarico di Ispettore Generale dei monumenti storici ed avviò il sistematico censimento dei beni culturali e archeologici di Francia: l’ambientazione archeologica del racconto riflette quindi una profonda conoscenza di questi temi da parte dell’autore, che si ritrova nella descrizione minuziosa del contesto ambientale in cui la vicenda si svolge e nella precisione con cui la statua protagonista viene descritta. E’ questo stile cronachistico, che descrive i fatti puri e semplici, lasciando al lettore la loro interpretazione che costituisce il tratto essenziale della scrittura di Mérimée, che gli è stato molto spesso rimproverato (celebre il verso di una poesia di Victor Hugo: 'Le paysage étant plat comme Mérimée') che a mio avviso costituisce uno degli elementi che proietta questo autore oltre il periodo in cui visse e scrisse.
Altro elemento caratterizzante l’intera produzione letteraria di Mérimée, che l’autore prende direttamente dal mondo classico per traghettarlo verso gli sviluppi psicanalitici che giungeranno di lì a poco più di mezzo secolo, è la compresenza di pulsioni erotiche e pulsioni di morte quali cause ultime degli avvenimenti. Ne 'La Venere d’Ille' Eros e Thanatos sono magistralmente riassunti dalla magnifica ed enigmatica statua, che con il suo solo essere greca ci rimanda ad una classicità tragica in cui le forze primordiali che guidano il comportamento umano erano riconosciute in quanto tali. Lo stupido e rozzo giovane, che si sposa per convenienza, che profana queste forze non potrà che esserne la vittima sacrificale.
Come detto, l’ambientazione fantastica è uno degli elementi che avvicina Mérimée ad E.T.A. Hoffmann: In questo senso 'La Venere d’Ille' può essere facilmente associata ad alcuni racconti di Hoffmann quali 'L’uomo della sabbia' e 'L’automa': non si può non notare, tuttavia, che i trent’anni di distanza tra i due autori si sentono tutti, laddove in Mérimée, in luogo della critica al razionalismo illuministico insita nei racconti di Hoffmann, prevale la contrapposizione della purezza classica di sentimenti che giunge sino alle estreme conseguenze rispetto alla volgarità, che pare già nettamente percepita, di un atteggiamento borghese il cui fine ultimo è l’accumulazione.
Anche nel secondo racconto di questo volume, 'Il vaso etrusco', le pulsioni erotiche e quelle di morte, strettamente interconnesse, costituiscono la cifra essenziale della vicenda. Il giovane Auguste Saint-Clair, dall’animo inquieto e non conformista, ama appassionatamente, riamato, la graziosa Mathilde de Coursy, giovane ed irreprensibile vedova. In lui sorge tuttavia il sospetto che Mathilde abbia avuto una precedente relazione, ed anche se ella riuscirà a dimostrargliene l’infondatezza, Auguste non potrà sfuggire al destino che tale sospetto aveva intessuto.
'Il vaso etrusco' è un racconto bellissimo, nel quale come detto il tema del rapporto tra amore e morte è trattato magistralmente nella figura di Auguste, che tuttavia, rispetto alla 'Venere d’Ille', si dipana a mio avviso entro una cornice ancora prettamente romantica: il racconto è infatti del 1830, mentre 'La Venere d’Ille' sarà scritta sette anni più tardi.
Detto questo non si può non rimarcare come Mérimée sappia tratteggiare con una precisione quasi chirurgica, nelle pagine iniziali del breve racconto, la figura di Auguste, che 'non era amato in quella che si suol chiamare società', perché 'non cercava di piacere se non alle persone che piacevano a lui.' C’è in queste poche parole, e nelle righe che seguono, una critica radicale all’ipocrisia regnante nei salotti parigini, e molti commentatori hanno visto in Saint-Clair una trasposizione dello stesso Mérimée, che se da un lato sarà uomo di mondo, frequentatore di salotti, amante di nobildonne ed attrici e perfettamente integrato nel clima sociale del secondo impero, dall’altro nei suoi scritti manifesta inquietudini e insofferenze che, come detto, in certo qual modo anticipano quelle tipiche della decadenza.
Mérimée è quindi un autore che merita di essere letto ancora oggi, sia perché il suo stile di scrittura, tanto criticato ai suoi tempi, si rivela molto moderno, precursore di grandi filoni letterari, sia perché le tematiche che tratta, lungi dall’essere uno sterile retaggio dell’epoca della sua vita, sono tematiche che attraversano tutta la storia della produzione artistica occidentale, partendo dalla Grecia classica per giungere, rivisitate e rivitalizzate dai mutati contesti sociali e culturali, sino a noi.
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I racconti ottocenteschi in genere

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Sotto il vestito niente
"Lettera a Berlino" è secondo me un libro che nasce male sin dal titolo. Infatti il titolo originale, “The innocent”, sicuramente più rappresentativo della storia e del suo protagonista, è stato cambiato nell’edizione italiana, presumibilmente per l’esistenza de "L’innocente" di D’Annunzio, con il risultato di un titolo che sembra messo lì un po’ a caso. (Per curiosità sono andato a cercare come se la sono cavata in Gran Bretagna rispetto alla questione: lì il libro di D’Annunzio è stato tradotto, nel titolo, come "The intruder").
A parte la questione del titolo, non mi pare che questo romanzo possa essere considerato un capolavoro del tardo novecento, neppure rispetto ad altra produzione letteraria di McEwan, del quale peraltro ho una conoscenza molto parziale, avendo letto solo "Il giardino di cemento" e "Cani neri". Per quanto mi riguarda, infatti, "Il giardino di cemento" è da considerarsi uno dei romanzi icona di un periodo, quello del crollo degli equilibri sociali ed anche psicologici costruiti nel secondo dopoguerra, che ne esplora più in profondità le conseguenze, attraverso una storia disturbante e disturbata che non esita a mettere in discussione alcune delle basi apparentemente più intangibili del nostro ordinamento sociale.
Confrontando la potenza di quel romanzo con il contenuto di "Lettera a Berlino" non si può che classificare quest’ultimo come un’opera minore, in cui il genere prende decisamente il sopravvento rispetto alla capacità di gestire con originalità il pur intrigante spunto di partenza.
Il libro è del 1989, ed ambientare un romanzo di spionaggio nella Berlino degli anni ’50 proprio nell’anno della caduta del muro è sicuramente il segno di una grande capacità di contestualizzazione delle storie narrate, peraltro narrate con grande maestria letteraria. McEwan però, come detto non sfrutta appieno questa intuizione, e ci consegna un romanzo fortemente stereotipato.
La storia è quella di Leonard Marnham, giovane tecnico inglese che viene mandato nel 1955 a Berlino per collaborare ad un progetto congiunto anglo-americano di intercettazione delle comunicazioni telefoniche sovietiche (progetto storicamente documentato). Marnham è l’innocente del titolo originale: non è animato da spinte ideologiche o patriottiche per il lavoro che fa e, pur avendo superato da un po’ i vent’anni, non ha ancora avuto esperienze sessuali.
Si ritrova in una Berlino ancora distrutta dalla guerra, che in effetti McEwan è in grado di restituirci sia con precisione cartografica sia attraverso atmosfere che ricordano la Vienna in Bianco e nero de Il terzo uomo: qui entrerà in contatto con americani gioviali e sbruffoni che, consci di essere i nuovi padroni dell’occidente mal sopportano la partecipazione inglese al “loro” progetto, con tedeschi rozzi e diffidenti nei confronti dei loro nuovi padroni, ma soprattutto troverà l’amore, incarnato da Maria, una donna tedesca, divorziata. Tra i due si inserisce l’ex marito di lei, ubriacone e violento, e qui il romanzo assume i toni cupi e quasi grandguignoleschi tipici di McEwan, che in ogni caso secondo me sono talmente forzati da spingere al macabro sorriso il lettore.
La storia si conclude con la inevitabile separazione tra i due e, nell’ultimo capitolo, Leonard torna a Berlino nel 1987, in piena perestroika, va a rivedere i luoghi dove ha vissuto e lavorato oltre trent’anni prima e rilegge una lettera ricevuta da Maria (ecco svelato il significato del titolo italiano) – emigrata in America – che gli spiega come veramente sono andate le cose.
Ho cercato di raccontare il meno possibile di una storia nella quale – trattandosi di un noir – la trama e la successione degli avvenimenti costituiscono un elemento essenziale del piacere della lettura. Parto proprio da qui per cercare di delineare quello che secondo me è il tratto essenziale di questo libro: la evidente dissociazione tra la sua forma – la indubbia maestria con cui McEwan scrive – e il suo contenuto, come detto a mio avviso del tutto di genere e stereotipato.
Stereotipata e stanca, secondo me, è la storia in sé: quanti romanzi sono stati scritti sullo spionaggio tra est ed ovest nel dopoguerra, sull’iniziazione amorosa di un giovane innocente. Stereotipati sono molti personaggi, che si dividono per cultura etnica: gli americani – gioviali e sbruffoni – gli inglesi – formali e un po’ tristi – i tedeschi – rozzi, ubriaconi e ostili nei confronti delle potenze occupanti. Stereotipato è il finale, con il nostro eroe che torna ormai vecchio nei luoghi della sua vicenda giovanile e capisce.
Oltre a questi stereotipi non c’è nulla, ed anche l’elemento macabro che McEwan introduce nella parte centrale del libro è fine a sé stesso, non è (come invece era ne "Il giardino di cemento") elemento essenziale della narrazione, senza il quale l’intero libro non sarebbe stato quello che è, non avrebbe detto ciò che dice: è elemento posticcio, appiccicato dall’autore come marchio di fabbrica e forse – azzardo – per rinvigorire una storia che egli stesso percepiva come troppo debole.
Insomma, mi sono trovato di fronte ad un McEwan da spiaggia, da lettura sotto l’ombrellone, che lungi dal tentare– come ne Il giardino di cemento – di scardinare le convenzioni sulle quali sono basati i rapporti umani, vi si appoggia e vi si adagia, costruendo dei personaggi a loro modo tutti positivi (con l’eccezione dell’ex marito di Maria, sorta di caricaturale Mr. Hide): anche se tra Maria e Leonard gli equivoci e le incomprensioni non permetteranno l’happy end classico, ci penserà comunque il tempo a ricostruire gli equilibri esistenziali, ed i due protagonisti potranno comunque vivere una loro appagante esistenza piccolo-borghese (McEwan si premura di farci sapere che Maria è presidentessa del club femminile parrocchiale “Le Donne e la Chiesa”).
Considerando che per l’edizione italiana è stato necessario cambiare il titolo, se mi avessero chiesto di formulare una proposta in merito avrei suggerito "Sotto il vestito niente".

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JTC è esistito davvero, anzi è ancora vivo!
Biografia di un mai esistito pittore catalano amico di Picasso, che con lui condivise quella grande rivoluzione della pittura che è stato il cubismo, "Jusep Torres Campalans" è a mio avviso un piccolo capolavoro.
Il libro è suddiviso in quattro sezioni oltre a un prologo: una descrizione degli avvenimenti storici ed artistici avvenuti tra il 1886 (anno della nascita di JTC) e il 1914 (anno della sua fuga in Messico), la biografia vera e propria dell’artista, la trascrizione dei suoi appunti parigini scritti tra il 1906 e il 1914 (il Quaderno verde) e il resoconto dell’incotro tra Aub e JTC nel Chiapas nel 1955, un anno prima della morta dell’artista. Chiude il libro la riproduzione di nove quadri di JTC. Ogni sezione è accompagnata da un ricco corredo di note. Tutto inventato, tutto frutto della grandissima fantasia di Aub ma nello stesso tempo tutto terribilmente vero, tanto che prima che l’autore rivelasse tutto in molti avevano creduto alla riscoperta di questo autore sconosciuto ma fondamentale.
La figura e la vita di JTC permettono ad Aub di farci conoscere l’atmosfera culturale della Parigi degli anni prima della prima guerra mondiale, le utopie anarchiche di cui erano portatori in particolare gli emigrati catalani, le discussioni sull’arte e sulla pittura che innervavano la metropoli, le ragioni che spinsero un gruppo di giovani artisti a sovvertire i canoni della pittura, il rapporto tra arte, società e mercato.
JTC, anarchico e religioso, pur senza apparentemente credere al ruolo politico e sociale dell’arte, tanto da non esporre né vendere mai un suo quadro, getta le basi – insieme all’amico Picasso – della grande rivoluzione, ma quando scoppia la prima guerra mondiale e si rende conto che nulla è cambiato e cambierà nei rapporti umani e sociali abbandona tutto, distrugge le sue opere e si ritira nel Chiapas, a fare figli con le donne di una tribù india e a guardare le stelle nella notte senza luci artificiali. Lì lo ritroverà Aub, a metà degli anni ’50.
La vita di JTC è quindi la metafora delle grandi speranze di cambiamento che nel primo decennio del ‘900 facevano pensare all’imminenza di un mondo migliore, di come le avanguardie artistiche dell’epoca accompagnassero queste speranza e, soprattutto, narra della grande crisi dell’arte e del suo ruolo immediatamente seguita. Aub ci fa notare come molti artisti seppero adattarsi perfettamente alla nuova realtà e continuarono a proporre il loro lavoro a fini meramente commerciali. Se la risposta di JTC, sorta di Kurz artistico, è ritirarsi nella natura, il solo Picasso cerca di reinventare ancora la pittura, dopo il grande fallimento.
Bellissimi, assolutamente da non perdere, i due colloqui finali tra JTC e Aub: sono di una attualità sconvolgente e portano alla conclusione, perfettamente condivisibile, che ormai non ha più senso fare arte.
Indicazioni utili
I capolavori del surrealismo
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