Opinione scritta da Vincenzo1972
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La paura ha una casa in cui abitare.
C'è una grande differenza tra paura e fobia: la paura è un'emozione primaria, imprevedibile perchè spesso generata da eventi casuali o da situazioni di pericolo inattese e generalmente induce ad una reazione immediata ed attiva, un tentativo di difesa o di fuga per esempio.
La fobia invece è una paura profonda, radicata nell'inconscio, una paura spesso malata perchè originata da sensazioni e visioni distorte della realtà più che da circostanze evidenti.
E mentre la paura, così come la gioia, ci accompagna sin da bambini essendo un'emozione che impariamo a conoscere dai primi anni di vita - chi tra noi non ha mai controllato nell'armadio o sotto il letto prima di addormentarsi? - la fobia si manifesta generalmente in età più adulta perchè ha bisogno di sedimentare, si nutre con le esperienze di vita più dolorose e negative amplificandone gli effetti collaterali sulla nostra coscienza che le percepisce così con timore, con l'ansia crescente che possano ripresentarsi e che non si abbia la capacità di affrontarle: è quella che generalmente si manifesta come 'paura di fallire'.
Questa è la fobia di Sarah Bridgewater: nonostante fosse una donna di successo e molto apprezzata per il suo lavoro tanto da meritare una promozione ed una posizione di prestigio in ambito lavorativo, inspiegabilmente ed improvvisamente perde fiducia in se stessa a tal punto da temere i suoi stessi collaboratori, persino una semplice riunione diventa per lei causa di panico.
Sarah ha paura di non essere all'altezza del suo compito e delle aspettative che gli altri hanno di lei.
"Ad un certo punto, però, qualcosa era cambiato. A poco a poco, e senza che lei all'inizio se ne rendesse conto. Una paura inesprimibile, un terrore orribile era risalito dagli abissi del suo subconscio affiorando in superficie. La prima volta risaliva a più di un anno addietro. Da allora era diventata il suo fedele compagno, compariva ogni volta che lei era sola.
Il medico aveva definito questa sua paura irrazionale un disturbo fobico e le aveva consigliato un terapeuta con cui approfondire le cause. La terapia, però, non aveva sortito gli effetti sperati, e Sarah si ritrovava sempre più spesso a ripensare ad una frase che aveva letto in un romanzo di Shirley Jackson: Qualunque cosa voglia frullarti lì dentro, lo fa e basta."
Ma non solo in ufficio, anche a casa: Sarah ha paura di parlarne col marito perchè teme la sua reazione dinanzi alla sua debolezza, teme il suo dispiacere e la sua delusione e per questo si isola dal marito e lo allontana da se stessa.
Ha paura anche di non saper proteggere adeguatamente il figlio dalle insidie di un mondo sempre più violento, una società sempre più cattiva: e quando una notte il figlio la chiama impaurito dopo aver udito dei rumori e visto un'ombra alla finestra, lei deve sforzarsi per apparire sicura di sè, nessuna titubanza dinanzi al figlio per convincerlo che si tratta solo di rumori causati dai rami dell'albero, divenuti troppo lunghi tanto da urtare la finestra.
E' una paura infondata quella del figlio, non c'è nessuno oltre la finestra e nessuno potrà mai fargli del male.
E' stata brava Sarah; nonostante, fosse sola in casa col figlio Harvey visto che il marito sempre più spesso trascorre la notte fuori per lavoro, è riuscita a tranquillizzarlo placando i suoi incubi.
"E' questa la differenza tra la paura di un bambino e quella di un adulto, pensò mentre ascoltava ancora insonne il vento che soffiava. I bambini hanno paura di cose irrazionali, di uomini spaventosi capaci di volare, di mostri nell'armadio, poi però si riaddormentano perchè credono che mamma e papà li proteggeranno dai mali del mondo. I bambini non sanno ancora molto delle vere creature dell'orrore che sono in agguato oltre i vetri scuri della finestra. Delle paure ben più complesse di qualsiasi baubau o di qualsiasi mostro orribile, perchè non hanno un volto, non hanno una forma, per quanto ci si sforzi di dar loro un nome."
Ora è lei però che sente dei rumori, a piano terra. Rumori ben distinti, inequivocabili. Sono i rumori volontariamente attenuati che fa suo marito quando torna tardi a casa nel tentativo di non svegliare la moglie ed il bambino.
Ma perchè non l'ha avvisata? Come mai Stephen è rientrato in anticipo senza dirle niente, neanche una telefonata.
Lo capirà ben presto, quando prenderà coscienza che l'ombra di quell'uomo nella cucina della sua casa, il volto a malapena illuminato dalla luce del frigorifero aperto, le cicatrici che ne deturpavano l'aspetto.. quell'uomo non era Stephen, non era suo marito.
Ma aveva i suoi vestiti, aveva le sue chiavi.. e la chiamava per nome, la chiamava Sarah, con dolcezza, le aveva persino portato un mazzo bellissimo dei suoi fiori preferiti e un regalo per Harvey, la playstation che desiderava da sempre.
Non era suo marito, ma sapeva tutto di lei e della sua famiglia.. ma soprattutto conosceva bene la sua paura.
E la paura, in tutte le sue forme, regna sovrana in questo romanzo al cardiopalmo di Wulf Dorn e
chi cerca emozioni forti non ne rimarrà certo deluso.
Non vi nascondo, però, un mio personale giudizio non del tutto positivo che ha preso forma dopo i primi capitoli del libro, sicuramente i più interessanti, trovando poi conferma durante il prosieguo della lettura sino all'epilogo finale.
Ho avuto infatti l'impressione di una trama confusionaria, in cui gli eventi che si intrecciano contribuiscono solo a renderla più caotica (e spesso inutilmente prolissa) ma non apportano alcun valore aggiunto alla storia anzi rimangono spesso eventi isolati, citati ma non adeguatamente sviluppati.
Lo stesso personaggio di Mark Behrendt, amico di infanzia di Sarah e psicologo di successo caduto in crisi dopo la morte (accidentale?) della moglie, mi sembra una forzatura nel senso che la storia avrebbe potuto evolversi allo stesso modo anche senza il suo contributo; solo alla fine si intuisce il suo ruolo di congiunzione con un probabile sequel del romanzo.
L'accostamento del personaggio di Mark a Sarah, pur tralasciando la banalità della circostanza del loro incontro, avrebbe avuto più senso se fosse stata curata ed approfondita la storia di Mark, le cause che hanno portato alla morte della moglie determinando così in lui una fobia simile a quella di Sarah: paura degli uomini, paura di fallire, paura di non poter proteggere le persone più care.
E ritengo poco convincente anche l'uomo cattivo, la misteriosa figura che si intromette nella vita della famiglia Bridgewater sconvolgendo l'esistenza di Sarah e del marito Stephen: ho trovato alquanto semplicistica la motivazione del suo comportamento oltre che, lasciatemelo dire, una forte analogia col protagonista della fortunata serie horror cinematografica "Saw".
In definitiva, nonostante l'ottima premessa, Phobia non ha soddisfatto pienamente le mie aspettative: la paura, la fobia, sarebbe stata ottima protagonista di questo thriller psicologico ma rimane relegata solo nel titolo, accennata nei primi capitoli per poi essere abbandonata e perdersi così tra le righe di una storia dai connotati moralistici, inneggiante il valore della vita e della famiglia.
"Ma voglio svelarti un segreto, Mark, che in fondo conosci da tempo. La paura ha una casa in cui abitare". Picchiettò la tempia. "Quassù. E allo stesso tempo questo è l'unico posto in cui possiamo affrontarla. Mark, il tempo a nostra disposizione è limitato, e sarebbe uno spreco trascorrerlo in compagnia della paura".
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La radice quadrata di due non esiste
Tutto è nato da un tatuaggio: mia figlia tredicenne mi racconta (con un velato desiderio di emulazione che ho fatto finta di non scorgere) che una sua amica le ha mostrato orgogliosa il suo primo, fighissimo, tatuaggio raffigurante il simbolo matematicamente ed universalmente riconosciuto dell'infinito.
Dubitando fortemente che mia figlia o la sua amica si siano mai interrogate sul significato di quel simbolo, ho azzardato la fatidica domanda:
"Figlia, ma cosa rappresenta per te l'infinito?"
Dopo un interminabile minuto di silezio con vari intermezzi di uhm, ehm, mmm.. ecco la risposta illuminante:
"Facile papà, l'infinito siamo noi!"
"Ah!" - dico - "interessante, spiegami meglio."
"Beh sì, l'infinito siamo noi, lo dice pure Bernabei."
"Chi?"
"Bernabei, Alessio Bernabei."
"E chi sarebbe?"
"Papà!! Alessio, quello dei Dear Jack"
"E chi sarebbero?"
Vi risparmio la serie quasi .. infinita.. di domande che si sono susseguite prima che emergesse la tragica verità: la conoscenza che mia figlia ha del concetto di infinito è paragonabile a quella che io ho verso Alessio Bernabei dei Dear Jack.
Demoralizzato, non mi sono dato per vinto e ho deciso di rispolverare dalla biblioteca questo libro dell'insigne scienziato e fisico Antonino Zichichi, libro che avevo già letto durante i miei studi universitari e che mi aveva lasciato un'idea estremamente chiara e precisa dell'infinito.
Zichichi infatti ha un grande pregio: riesce a ridurre ai minimi termini la complessità teorica di un fenomeno fisico e riesce a spiegarlo a noi, comuni mortali, senza ricorrere ad incomprensibili formule matematiche, bensì traducendo quelle formule in un linguaggio chiaro e direi quasi rassicurante, Zichichi in pratica ci spiega la fisica con la stessa facilità e scioltezza con cui Piero Angela e figlio ci portano per le strade di Roma antica.
Credo che un testo di divulgazione scientifica non possa prescindere da questo aspetto a mio parere fondamentale: l'unico modo per avvicinare il lettore ad argomenti tanto ostici e poco fruibili senza un adeguato background culturale è quello di stimolare il suo interesse e la sua curiosità.
E gli spunti certo non mancano in questo libro incentrato su una delle più grandi sfide per l'intelletto umano: la compresione dell'inifinito. Con una ricostruzione sintetica ma efficace dei principali progressi compiuti dall'uomo nel corso della sua storia per avvicinarsi il più possibile ad una definizione rigorosa, completa e coerente dell'infinito, Zichichi ci guida verso l'unica innegabile verità: l'infinito non esiste nel nostro mondo, non c'è traccia di infinito nella realtà che ci circonda.
Persino il cosmo, per quanto immenso sia, rimane sempre finito:
"L'attuale raggio dell'immensa sfera nella quale viviamo è grande, enorme, ma non Infinito".
Così come non è infinito il tempo di cui è fatto l'universo o la sua massa: tutti numeri esprimibili con potenze elevatissime ma comunque finite.
Ecco perchè l'unico modo per la mente umana di avvicinarsi all'infinito è quello di astrarsi dal mondo reale, dall'immanente.
L'infinito è unn concetto puramente teorico, matematico, un formidabile tentativo della mente umana di superare i limiti di tutto ciò che è misurabile, reale, per scoprire una dimensione nuova di cui ne avverte la presenza seppur sfuggevole.
Questo è il grande fascino e mistero dell'infinito: esiste ed è dimostrato dal punto di vista logico e teorico ma non può essere misurato, conquistato e dominato dall'uomo. Basti pensare all'infinito più semplice, quello dei numeri naturali: è facile per ciascuno di noi immaginare la crescita progressiva dei numeri interi sino all'infinito ma nulla nel mondo reale può essere espresso e misurato con l'infinito.
Allo stesso modo, se da un punto di vista puramente teorico, riusciamo a comprendere la grande intuizione di Pitagora e la sua scoperta dei numeri irrazionali che apre le porte ad un nuovo livello di infinito, più 'potente' di quello dei numeri naturali, d'altro canto nella realtà rimane pur vero che il rapporto tra la diagonale di un quadrato ed il suo lato sarà sempre misurabile e quindi esprimibile con un numero 'razionale': detto in altri termini, la radice quadrata di 2 e tutti gli altri numeri irrazionali, pur rientrando nell'insieme cosiddetto dei numeri reali, sono semplici astrazioni che di reale hanno ben poco.
Ora, inutile dire che il viaggio proposto da Zichichi nei meandri della logica, della matematica degli insiemi sino al noto 'Paradiso di Cantor', dal nome del matematico che per primo nel 1873 cercò di di teorizzare in modo rigoroso il concetto di infinito, richiede una certa predisposizione ed interesse personale nell'approfondire tematiche di questo tipo. Altrimenti sarà inevitabile abbandonare la lettura di questo testo dopo il primo capitolo, se non prima visto che l'autore, come ogni bravo professore che si rispetti, tende a ripetere lo stesso concetto più volte, quasi in modo ossessivo, al fine di imprimerlo meglio nella mente di chi legge.
Peccato però che citando spesso esempi a base di numeri, decine, migliaia, milioni, miliardi ed oltre ancora, la loro ripetizione potrebbe avere lo stesso effetto soporifero delle pecorelle che saltano il recinto prima della buonanotte; sconsiglio, quindi, vivamente la lettura notturna di questo libro, a meno che non sia fatto di proposito con lo scopo di conciliare un Morfeo riluttante.
Detto ciò, forte dell'appoggio scientifico di Zichichi, non mi rimane altro che convincere mia figlia sulla non esistenza dell'infinito e, di conseguenza, sull'inutilità di quel tatuaggio..
Se solo sapessi cantare come Bernabei dei Dear Jack forse sarebbe più facile...
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Papà, stasera prendiamo la pizza?
Matteo Bussola, che trascorre notti in bianco e riceve baci a colazione, è uno scrittore in erba, ma prima di tutto è un disegnatore di fumetti, ma prima ancora è un papà.
Un bravo papà direi. Molto più bravo di me, devo ammettere, perchè io di figlia ne ho una, lui tre, e ha anche due cani che io invece non ho; entrambi però abbiamo una moglie/compagna non casalinga.
E a pensarci bene forse è proprio questo che ci rende simili, perchè se la donna lavora 8 e più ore al giorno inevitabilmente i figli sono costretti a subire la compagnia prolungata dei papà, con una catastrofica conseguenza - a sentir loro, le madri intendo: i figli prendono coscienza che non sono gli unici bambini in famiglia, le femminucce soprattutto acquisiscono consapevolezza che sia la madre l'unica figura adulta in grado di poter salvare la famiglia dal declino, l'unica in grado di preparare piatti diversi da pizze al taglio o happy meal, di scegliere l'abbigliamento con un minimo di coerenza cromatica, di realizzare in pochi minuti trecce impeccabili senza tirare neanche un capello (nè alla figlia nè alle barbie usate come cavie) e senza far uso di video tutorial su youtube, del tipo "come fare una treccia impeccabile in 10 secondi".
Impossibile quindi non riconoscere nel libro di Matteo Bussola scene della propria vita di papà, aneddoti rubati alla routine di tutti i giorni e descritti in modo vivace, ironico e mai sdolcinato, seppure fosse facile cadere nella banalità e nello stereotipo della famiglia mulino bianco.
Una sorta di diario personale che mette in risalto come la vita di un uomo cambi radicalmente nel momento in cui l'uomo diventa padre, lo si nota dalle pagine stesse del diario che non hanno più come protagonista il padre ma le figlie, perchè la vita di un padre si consuma nella loro, cambiano le priorità ed i punti di vista, la prospettiva con cui si guarda al futuro assume un nuovo punto di fuga che non è l'io ma è loro.
"Lei mi rideva dal vetro ed io pensavo solo: 'Ti prego, resta sempre così', perchè a me quello che piace di più al mondo è accompagnarla all'asilo in auto e vederla saltare dietro quella finestra e ridermi con quei dentini piccoli, come se quell'immagine fosse davvero l'unica cosa in grado di salvarmi dal diventare un adulto triste e senza speranza."
E poi, disseminati tra feste di compleanno, cartoni animati, spese al supermercato e notti in bianco, ci sono anche riflessioni sul lavoro, sulla morte, su Bukowski, Tex Miller e sull'amore:
"Una volta ho letto che una coppia muore se non cresce insieme. Non è vero. Insieme non è fondamentale. Muore quando uno dei due non riconosce la crescita dell'altro. Le sue pause ed i suoi tempi. Una coppia si fonda principalmente sulle attese, che è il motivo per cui molte persone si lasciano. Accettare che ci sia solo quel che c'è, certi giorni è devastante. Vorresti di più, proprio in quel momento lì."
Un caleidoscopico susseguirsi di pensieri, dialoghi, immagini e ricordi catturati dalla mente e trascritti su carta con fine arguzia, simile a quella che ho ritrovato in LMVDM (La mia vita disegnata male) di Gipi, un altro grande fumettista.
Una piacevole sorpresa, quindi, questo libro di Matteo Bussola, leggerlo mette di buon umore e fa bene al cuore.
Consigliato vivamente a tutti i papà, e relative mogli che potrebbero così rassegnarsi all'idea che per un papà il frontino per capelli sia molto più glamour delle trecce ed un pantalone molto meno complicato di una minigonna jeans uniformemente colorata tanto da rendere impossibile distinguere il davanti dal didietro.
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Dentro il tunnel dell'adolescenza
Il tema dell'adolescenza è da sempre oggetto di molteplici discussioni dalle tinte più disparate, psicologiche ma anche sociali con inclinazioni politiche, filosofiche e immancabilmente religiose.
Argomento focale di diverse opere, siano esse romanzi, film o trattati di carattere scientifico-formativo, desta un interesse mai calante nelle varie generazioni forse in virtù della sua immutabilità, come se le sue peculiarità fossero immuni al passare del tempo, al progresso tecnologico e all'evolversi della società.
L'adolescenza rimane lì, sempre al suo posto, un tunnel nel percorso di vita individuale che tutti dovranno percorrere, chi magari imboccando l'uscita agevolmente, chi invece smarrendosi nei suoi mille anfratti, nelle deviazioni improvvise che conducono in una spirale labirintica di autodistruzione.
"Come se le cose potessero andare in una direzione sola, e gli anni ti conducessero fino alla stanza in fondo al corridoio in cui ti aspetta la tua inevitabile identità: embrionale, pronta a rivelartisi. Che tristezza rendersi conto che a volte laggiù non ci si arriva proprio. Che a volte si vive tutta la vita svolazzando qua e là a pelo d'acqua mentre gli anni passano, senza essere baciati da quella fortuna."
E non vi nascondo che leggere questo libro ora, a 44 anni, è stato molto utile perchè mi ha offerto una possibilità unica: ha rallentato le lancette del mio orologio, mi ha aiutato a svincolarmi dal ritmo frenetico con cui ci muoviamo ogni giorno, presi da mille impegni e mille difficoltà, concedendomi la possibilità di riflettere su quella che è stata la mia adolescenza e, soprattutto, quella che sarà ora l'adolescenza di mia figlia. Un ritorno al passato per poter meglio affrontare l'immediato futuro.
Credo sia proprio questo il punto di forza del romanzo di Emma Cline, non la trama, non la scabrosità della vicenda descritta, peraltro ispirata ad un fatto realmente accaduto, ma i pensieri che passano per la testa di Evie, la protagonista quattordicenne, e che non muoiono tra le pagine del libro nell'indifferenza di chi legge ma, al contrario, contagiano e scuotono il lettore inducendolo alla riflessione.
Complice una pregiata opera di traduzione, questo libro sembra un bluff ma nell'accezione positiva del termine: nonostante il titolo e la copertina ammiccante, che riporta alla memoria i pruriti adolescenziali della birbantella Melissa P., nonostante sia la prima esperienza letteraria dell'autrice, peraltro giovanissima, il romanzo di Emma Cline si distingue per la qualità della prosa e dei contenuti, espressi con uno stile di scrittura maturo, arricchito da metafore originali ed estremamente efficaci nella rappresentazione della realtà emotiva della protagonista.
Durante la lettura, ho più volte temuto che l'adolescenza di Evie si riducesse e degenerasse in una descrizione dalle sfumature erotiche dei sogni, dei turbamenti tipici della sua età.
Timore che si è rivelato infondato perchè l'autrice è stata ben attenta nel riportare, quasi come in un diario personale, le sensazioni vissute giorno per giorno dalla protagonista ed elaborate dal suo inconscio, dandoci poi evidenza delle loro conseguenze sulla personalità di Evie, come hanno influenzato le sue scelte ed il suo comportamento.
E il sesso, la scoperta del sesso, è sicuramente uno degli aspetti importanti ed imprescindibili del periodo adolescenziale, sarebbe sciocco volerlo ignorare; ma i primi, incerti, confusi, improvvisi impulsi sessuali di Evie non si assoggettano alle regole dettate dal dio commercio alimentando pagine di esplicito erotismo.
Bensì il sesso viene trattato con la stessa lucida profondità di analisi adottata per passare al setaccio, sotto una lente di ingrandimento, gli altri scompigli tipici di una ragazza nel pieno del trambusto adolescenziale: la sensazione di inadeguatezza, di inferiorità, di invisibilità sociale, come se si diventasse trasparenti agli occhi del mondo, e dei ragazzi soprattutto, la cui attenzione è desiderata più per una sorta di egoistica rivalsa che per reale bisogno affettivo:
"A quell'età, il desiderio era spesso un atto di volontà. Uno sforzo tremendo per smussare gli spigoli più ruvidi e deludenti dei ragazzi dandogli la forma di persone che potevamo amare. A distanza di anni avrei capito questo: quant'era impersonale e disorientato il nostro amore, che mandava segnali in tutto l'universo sperando di trovare qualcuno che desse accoglienza e forma ai nostri desideri."
E cresce così il disagio interiore, un vuoto dell'anima che si allarga progressivamente e che non trova argini in ciò che sino a qualche anno prima era stato un punto fermo, una certezza: la famiglia, la serenità della casa, sgretolata dopo il divorzio dei genitori e la madre troppo impegnata nel tentativo di ricostruirsi una propria vita per accorgersi dei cambiamenti nella vita della figlia, e l'amicizia con Connie, che sembrava eterna, immortale, sempre presente, giorni interi trascorsi insieme, nottate accovacciate sotto le coperte, crollando poi rovinosamente alla notizia del trasferimento in un'altra città per proseguire gli studi.
Si sente sola Evie, e non trova rifugio neanche in se stessa, perchè lei non sopporta quella situazione, non vuole essere emarginata, vuole sentirsi viva, vuole essere amata, non vuole soccombere alla monotonia e all'anonimato di un'esistenza ai confini del mondo che conta, gente che ha successo, ricchezza e fama, quello stesso mondo in cui anche sua nonna era riuscita a conquistarsi un posto riservato grazie alla sua carriera di attrice.
"Mia madre sarebbe stata via tutto il giorno, l'alcol mi aiutava a stenografare la mia solitudine. Era strano che ci volesse così poco per provare sensazioni diverse, che ci fosse un metodo per ammorbidire la massa incrostata della mia tristezza."
E quando un giorno per caso intravede lei, Suzanne, alla guida del suo branco di ragazze, ne rimane subito affascinata: il suo carisma, il suo incedere spavaldo e sbarazzino, quasi ferino, trasuda sicurezza, ansia di distruggere ciò che sembra permanente, e disprezzo verso i comuni mortali, essere insignificanti uniformati da una vita piatta e inutile, pura sopravvivenza.
L'attrazione è gravitazionale, Suzanne è il sole che avvolge Evie nella sua orbita trascinandola via dal buco nero in cui si sentiva imprigionata.
Suzanne è la risposta a tutte le sue domande, è il suo modello, è la prova vivente che il suo sogno di donna non sia solo utopia.
Tutto il resto non conta: poco importa se Suzanne vive insieme ad altri ragazzi e ragazze in un ranch ai margini della città sotto la guida di un certo Russell, aspirante cantante; poco importa se si nutrono con gli avanzi recuperati dalla spazzatura o da quanto riescono a rubare nei supermercati, se dormono ammucchiati in stanze fatiscenti o sul prato intorno alla baracca dopo essersi riempiti di alcol e droghe.
Poco importa se Russell costringerà Evie ad una sorta di iniziazione sessuale, poco importa se verrà donata da Russell come fosse un giocattolo all'amico Mitch in cambio di un favore, un contratto con una casa discografica.
E poco importa se Russell, in preda alla rabbia per il favore non ricevuto, diventerà il mandante dell'omicidio di Mitch nella sua residenza che si concluderà invece con lo sterminio assurdo e sanguinario di persone innocenti.
Tutto ciò non conta agli occhi di Evie, ormai incapaci di distinguere il bene dal male; gli stessi concetti di bene e male perdono significato nel suo mondo il cui nucleo è divenuto Suzanne.
"Suzanne e le altre ragazze non erano più in grado di elaborare certi giudizi, il muscolo inutilizzato del loro ego era diventato flaccido ed inutile. Era passato un sacco di tempo dall'ultima volta che avevano occupato un mondo in cui il bene ed il male esistevano in senso reale. Qualunque istinto avessero mai avuto - una debole fitta allo stomaco, un rodimento di ansia - era diventato impossibile da ascoltare. Non che stessero cadendo da chissà quali altezze: sapevo che il semplice fatto di essere una ragazza a questo mondo ti riduceva la capacità di credere in te stessa. I sentimenti sembravano qualcosa di totalmente inaffidabile, come balbettii sconnessi ricavati da una tavoletta per le sedute spiritiche."
Ho volontariamente omesso di specificare che Evie ha 14 anni nel 1969 e vive in California: il luogo ed il tempo sono ininfluenti, a mio parere.
Evie potrebbe avere 14 anni ora, e potrebbe essere mia figlia; è una ragazza che rivive in tutte "Le ragazze", come si evince dalla scelta appropriata del plurale nel titolo del libro.
Tanto più in una società come quella attuale, globalizzata ed esposta nella vetrina di Facebook, in cui l'apparire, l'emergere e il prevaricare sugli altri diventa un'esigenza, come se fosse l'unico modo per acquisire una propria individualità.
Quante Suzanne ci sono oggi in giro? Quanti elementi catalizzatori, devianti per i ragazzi?
E noi, genitori, abbiamo mai preso coscienza di ciò? Trainati dalla frenesia della vita quotidiana, sollevati dalla rapida e progressiva indipendenza acquisita dai nostri ragazzi, ci siamo mai preoccupati di avvicinarci al loro mondo? Li vediamo cambiare, giorno dopo giorno, ma fino a che punto siamo certi che la nostra Evie non sia sotto la scia di una Suzanne?
Adolescenza: un problema dei ragazzi, e dei genitori dei ragazzi.
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MacGyver su Marte
Quanti di voi ricordano MacGyver? Una famosa serie televisiva americana che spopolava durante i mitici anni 80 con protagonista un giovanotto dal fisico atletico, agente governativo e spesso impegnato in missioni ai limiti dell'impossibile contro truffatori e pazzi criminali.
Ed Angus MacGyver si distingueva dagli altri paladini della giustizia per il suo assoluto rifiuto verso qualsiasi forma di violenza, incluse le armi da fuoco; l'unica arma di cui disponeva era l'ingegno, arguto ed affilato come una lama (o meglio come il coltellino svizzero che portava sempre con sè), in grado di tirarlo fuori da qualsiasi situazione ostile sfruttando a proprio favore tutto ciò che l'ambiente esterno gli metteva a disposizione.
Vi chiederete forse cosa c'entri MacGyver col "Sopravvissuto" di Andy Weir. Presto detto: quando Mark Watney durante una missione esplorativa su Marte rimane colpito da un'antenna di trasmissione volata via dal suo sostegno a causa di un'improvvisa tempesta di sabbia, perdendo di vista i suoi compagni di missione, si ritrova solo sul pianeta rosso mentre il resto del gruppo, credendolo morto, inizia il viaggio di ritorno verso la Terra.
Non vi nascondo che il solo pensiero di immedesimarmi in una situazione simile mi mette i brividi: provate ad immaginare cosa significhi prendere coscienza di essere l'unico uomo vivente su un pianeta immenso e sconosciuto come Marte, senza alcuna possibilità di comunicazione verso la Terra a causa dei danni provocati dalla tempesta e con speranze praticamente nulle di sopravvivere sino alla prossima missione verso Marte che la NASA avrebbe organizzato.
Anche per un astronauta esperto ed addestrato come Mark non è stato semplice resistere alla tentazione di disattivare i sistemi di emergenza della tuta spaziale ed avvicinarsi il più rapidamente possibile al suo inevitabile destino di morte sul pianeta rosso.
E' qui però che entra in gioco il MacGyver che è in Mark: accantonati timori e paure, Mark darà sfoggio a tutto il suo ingegno ed inventiva per impiegare le poche risorse recuperate all'interno dello Hab (base artificiale) al fine di ripristinare il corretto funzionamento di tutti i sistemi vitali (ossigenatori, camere di equilibrio, depuratori, ecc.), riuscendo anche a creare un piccolo orto artificiale con annessa coltivazione di patate marziane, sino a pianificare una personale missione di salvataggio, estremamente pericolosa ma l'unica possibile.
Solo fantascienza? Non del tutto: Mark è un ingegnere meccanico con la passione della botanica, quindi ogni sua 'invenzione' viene descritta con dovizia di particolari, forse un pò ostici per chi ha poca familiarità con reazioni chimiche o circuiti elettrici ed effetti gravitazionali, ma ogni 'magia' che Mark tira fuori dal cappello viene sempre svelata tramite una dettagliata spiegazione scientifica.
Ovviamente fisica e chimica non sono gli unici ingredienti di questo romanzo; per quanto abbondanti, l'autore riesce ad amalgamarli con una buona dose di adrenalina in puro stile americano, della serie "Houston! Abbiamo un problema!", onde evitare che il lettore possa assopirsi prima del finale 'galvanizzante'.
Un romanzo d'avventura che certo non deluderà gli amanti del genere; inevitabile la trasposizione cinematografica considerato il successo di film 'gemelli' dal plot interplanetario, come Apollo 13 o Mission to Mars solo per citarne alcuni.
Non manca nemmeno nel finale il tipico messaggio hollywoodiano pregno di buonismo ed ottimismo che, stavolta, sento di condividere pensando alla straordinaria partecipazione umanitaria durante le recenti tragedie che hanno colpito l'Italia (che sembrano quasi presagite, lo scontro tra treni in Puglia e terremoto ad Amatrice):
"Ogni essere umano possiede l'istinto innato di aiutare il suo prossimo. Certe volte può non sembrare che sia così, ma è vero. Se un'escursionista si perde in montagna, ci sono altre persone che coordinano una spedizione di ricerca. Se un treno deraglia, c'è gente che si mette in fila per donare il sangue. Se un terremoto rade al suolo una città, c'è gente che da tutto il mondo invia rifornimenti. Tutto questo è così fondamentalmente umano che si riscontra senza eccezioni in tutte le culture. Sì, ci sono le teste di cazzo a cui non frega niente, ma sono una minuscola minoranza in confronto a tutti quelli a cui frega moltissimo. E per questo motivo io ho avuto dalla mia parte miliardi di persone".
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Chi predica bene, razzola male...
E' proprio il caso di dire: 'chi predica bene, razzola male'.
Siamo a Fjällbacka, una ridente e coloratissima cittadina sulla costa ovest della Svezia animata da centinaia di turisti che la prediligono come meta per le vacanze estive.
E sembra sia consuetudine degli svedesi quella di approfittare della cortesia e gentilezza di parenti ed amici che abitano a Fjällbacka per intrufolarsi nelle loro case evitando così il soggiorno negli hotel sicuramente più costosi.
Ed è proprio quello che accade ad Erica e Patrik Hedström che improvvisamente si ritrovano il loro piccolo appartamento invaso prima da cugini di Erica, con terribili pargoli al seguito, e poi da amici di Patrick affetti da logorrea acuta; insomma, non certo piacevoli e gradite sorprese per i due padroni di casa, tanto più che Erica è incinta ormai da 8 mesi e prossima al parto mentre Patrick è a capo delle indagini per l'omicidio di una giovane ragazza tedesca, trovata morta e completamente nuda nei pressi di Fjällbacka in compagnia di due scheletri.
Un particolare interessante è che il cadavere della ragazza presenta numerose fratture ossee, analoghe a quelle riscontrate sugli scheletri che le analisi hanno dimostrato appartenere a due ragazze scomparse circa vent'anni prima.
Un caso alquanto complicato per Patrick su cui pesa anche il fattore tempo e la tensione dovuta alla scomparsa recente di un'altra ragazza che potrebbe subire la stessa tragica sorte se l'identità del killer non fosse individuata subito con certezza.
L'unica informazione nelle mani di Patrick è Johannes Hult, il nome di colui che vent'anni prima era stato sospettato del rapimento delle due ragazze e trovato morto poco dopo nella fattoria di famiglia, probabilmente suicidatosi per il peso della vergogna ed incoraggiando con tale gesto il sospetto sulla sua colpevolezza.
Per questo motivo le indagini proseguono nell'unica direzione possibile, quella cioè che parte da Johannes Hult e coinvolge poco alla volta tutti i componenti della famiglia Hult viventi e defunti, sino al capostipite Ephraim Hult, noto come il 'predicatore' per la sua straordinaria facondia e capacità dialettica, tale da infiammare gli animi di molti suoi concittadini divenuti poi seguaci in una comunità non conformista.
Inutile dire, come ben potrete immaginare, che diversi segreti e misfatti emergeranno scavando nella storia di questa famiglia.
E per chi, come me, ha amato la trilogia Millennium di Larsson il confronto è inevitabile: molte sono le somiglianze tra la famiglia Hult e la famiglia Vanger in "Uomini che odiano le donne".
Famiglie rispettabili, in apparenza, ricche e potenti: ma non è sempre oro ciò che luccica.
Larsson, però, mette a nudo le debolezze ed i peccati della famiglia Vanger calandoli in una trama fitta di vicende e ricca di personaggi magistralmente costruita tanto da mantenere sempre viva l'attenzione e la curiosità di chi legge: basti pensare all'ineccepibile colpo di scena finale o al personaggio di Lisbeth la cui 'tragedia personale' diventa quasi un romanzo nel romanzo, appassionando tanto quanto gli intrighi della famiglia Vanger.
Camilla Lackberg ci prova allo stesso modo con risultati apprezzabili ma, a mio parere, non comparabili con quelli raggiunti da Larsson.
In questo romanzo, l'autrice mostra sicuramente maggiore attenzione e cura nella costruzione della trama poliziesca, calibrando adeguatamente i tempi con cui si evolvono le indagini evitando così di lasciar trapelare con eccessivo anticipo il finale; e la parte poliziesca è sicuramente quella meglio riuscita, soprattutto se paragonata al primo romanzo della Lackberg “La principessa di ghiaccio” che ho portato a termine con grande difficoltà, per quanto scialbo e noioso.
E' il resto che fa la differenza con Larsson: decine di pagine in cui vengono descritte le sopra citate 'invasioni' estive di parenti e amici, completamente inutili ai fini della storia e difficilmente giustificabili se non dettate dall'esigenza di aumentare il volume del libro; oppure il personaggio di Anna, sorella di Erika, che compare improvvisamente nel romanzo ed altrettanto improvvisamente scompare lasciando insoluti e sospesi i suoi problemi sentimentali.
Insomma, non credo di sbagliarmi molto definendo "Il predicatore" come la brutta copia di "Uomini che odiano le donne".
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Le relazioni pericolose
Hanno appena fatto l'amore, lei rimane sdraiata sul letto, il corpo ancora caldo, sudato, l'afa esterna non mitiga il calore che l'avvampa da dentro, che ancora le brucia tra le gambe, anzi peggio, quasi le toglie il respiro, già carente per quanto speso affannosamente poco prima, prima che lui si staccasse da lei.
Lui è in bagno, davanti allo specchio, intento a curarsi e tamponare la ferita sul labbro provocata da un suo morso; ha la mente ancora intorpidita ma non può fare a meno di guardarla con la coda dell'occhio, tra le gambe divaricate porta ancora traccia del suo orgasmo e questo lo eccita.
Lei parla, gli rivolge delle domande, 'Tua moglie ti chiederà spiegazioni?', 'Non credo' risponde lui.
- 'Mi ami, Tony?'
- 'Penso di sì'
- 'Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?'
- 'Certo'
- 'Davvero potresti vivere con me tutta la vita? Sul serio, non avresti un pò paura?'
Domande che sembrano innocue, innocenti e dolci pretese di una conferma d'amore che non sia solo sesso, non sia confinato tra le quattro pareti azzurre di quella camera, la camera azzurra dell'hotel in cui Tony e la signora Andree Despierre sono soliti incontrarsi per consumare la loro passione al riparo da occhi indiscreti, soprattutto quelli dei rispettivi coniugi.
Come poteva immaginare Tony che sarebbe stato costretto da lì a pochi mesi a dover ricordare esattamente per filo e per segno quelle parole, quelle frasi scambiate quasi per gioco con la sua amante, sotto la pressione continua degli interrogatori a cui si trova ora sottoposto come principale indiziato della morte per avvelenamento della moglie Gisele.
E signori, lasciatemi dire, la maestria di questo pregevole autore è innegabile, inconfutabile: Simenon ci regala un piccolo capolavoro che cattura il lettore sin dalla prima pagina, il coinvolgimento è totale, è come se fossimo chiamati a far parte della giuria e tenuti ad ascoltare attentamente la deposizione di Tony, la sua ricostruzione dei fatti, per poter poi esprimere il nostro giudizio.
Un giudizio peraltro non semplice, perché l'uomo condannato non è un assassino pluriomicida, non è un serial killer, ma è un uomo come tanti, con un lavoro onesto e ben remunerato, padre affettuoso e marito premuroso, forse poco fedele, forse incapace di resistere alle avances spregiudicate ed inequivocabili di una bella donna, forse travolto da una passione inaspettata ed improvvisa che ha vanificato ogni seppur esiguo tentativo razionale di opposizione; ma quanti uomini al suo posto avrebbero agito diversamente?
Una passione degenerata in follia, quelle domande avrebbero dovuto metterlo in allerta ma come poteva prevederne le conseguenze?
E quando Tony è chiamato a raccontare la sua versione dei fatti non vuole avvocati con lui, il primo a desiderare la verità è lui stesso perché ora è la sua coscienza a metterlo sotto accusa: era realmente ignaro delle intenzioni della sua amante o consapevolmente ha lasciato evolvere quel rapporto torbido sino alle estreme conseguenze?
Il processo pubblico, in tribunale, passa così in secondo piano rispetto a quello interiore dell'uomo che giudica se stesso.
E il lettore non può esimersi dall'esprimere un proprio personale verdetto: innocente o colpevole?
Quando un romanzo riesce a sottrarre il lettore dal suo mondo catapultandolo nello spazio e nel tempo in cui vive il protagonista, quando chi legge si sente talmente immischiato nella trama da preferire non interromperne la lettura sino all'epilogo finale, quel romanzo per me merita di essere considerato un capolavoro.
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E' la gente dura che rende i tempi duri
Culla e Rinthy Holme, rispettivamente fratello e sorella, vivono soli in una baracca putrida e fatiscente circondata da boschi e paludi, una zona acquitrinosa pregna di umidità, avvolta da una perenne foschia in cui i raggi del sole si disperdono cedendo tutto il loro calore, già abbondantemente filtrato dagli alberi secolari della foresta.
Non c'è vita intorno a loro, se non quella animale, selvaggia; sembrano naufraghi su un'isola sperduta, nessuna traccia dei loro genitori, l'unica orma umana è quella del calderaio che sporadicamente attraversa quel territorio trainando il suo carretto stracolmo di cianfrusaglie di ogni genere. E poi c'è quel bimbo che Rinthy è in procinto di partorire.
Un bimbo che rimarrà senza nome perché questo è il suo destino, quello di non esistere, frutto di un errore, di un rapporto sbagliato, contro natura, tra un fratello ed una sorella.
Non c'è futuro, non c'è speranza, non c'è luce là fuori per quel bambino, ha varcato una porta che per lui doveva rimanere chiusa, spinto in un mondo che non può essere il suo; ma è inutile opporsi, inutile sperare di sopraffare l'ineluttabilità della sorte.
Quando Culla, padre sbagliato, riporterà il bambino al suo giusto padre, la natura, abbandonandolo appena nato nel mezzo della palude sperando che da essa sia risucchiato, quando il calderaio passando lì per caso lo sottrarrà ancora una volta al suo destino affidandolo ad una balia, quando Rinthy animata dal legame di sangue e dalla certezza che il figlio sia ancora vivo deciderà di fuggire dal fratello e partire alla ricerca del bambino, inizierà un viaggio che metaforicamente rappresenta un tentativo di riscatto, di ribellione, il desiderio di ritrovare la luce, la propria luce, nell'oscurità dilagante.
Un viaggio attraverso terre senza tempo, hanno un nome che le localizza nel Wyoming ma potrebbero essere ovunque, terre impervie, desolate, dominate dalla natura ed abitate da uomini e donne che sembrano privi di anima, di sentimenti, vuoti dentro, aridi e polverosi come la terra che li circonda, quasi disumani nella loro abulia.
Abbandonate ogni speranza voi che leggete: il viaggio nell'inferno di McCarthy è una discesa senza freni nel baratro più profondo, senza possibilità di risalita; non c'è purgatorio né paradiso, ma ci sono le tre fiere, tre belve feroci, tre uomini che seminano morte ovunque passino, senza pietà, perché non c'è pietà in questo mondo e non c'è un Dio interessato alla sorte degli uomini.
Il mondo di McCarthy è avvolto in una cortina di pessimismo e di implacabilità, la descrizione del paesaggio ne è intrisa ed abbonda di similitudini cupe e sempre più angoscianti:
"La strada proseguiva insinuandosi nel folto della foresta e in un'umidità perenne, e la casa era coperta da una spessa coltre vellutata di muschio e lichene ed avvolta da un palpabile miasma di decomposizione. I polli avevano grattato via la terra dal cortile, al punto che nodosità e sporgenze delle radici degli alberi spuntavano ovunque dal suolo in grottesche configurazioni, simili ad una congrega di folli improvvisamente denudati in tutti i loro contorti atteggiamenti di dolore."
Il finale è inevitabile, come inevitabile sarà la fine del mondo, vana è la lotta contro l'oscurità di chi cerca di procurarsi da solo la propria luce, di costruirsi un proprio destino: tutto prima o poi viene riavvolto nel buio, là fuori:
"Perché non pregate per riavere i vostri occhi?
Credo che sarebbe un peccato. Quei poveri occhi possono solo farvi vedere ciò che accadrebbe comunque. Se un cieco avesse bisogno degli occhi, avrebbe gli occhi.
Eppure sono convinto che vi piacerebbe vedere dove state andando.
Che bisogno ha un uomo di vedere dove sta andando, se verrà comunque mandato là ?"
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Chi ha paura del buio?
L'uomo nero nato dalla fantasia del giovane scrittore pugliese Luigi Sorrenti, ormai trapiantato in Roma da diversi anni, non è certo il leggendario fantasma che si nasconde nell'armadio o sotto il letto dei bambini come da antica tradizione popolare bensì è un uomo in carne ed ossa che si muove tra le strade della città eterna, con la stessa leggendaria ed inquietante capacità di mimetizzarsi nel buio, di rendersi invisibile nell'oscurità.
Proprio per questo motivo il violento serial killer che miete le sue vittime agendo indisturbato presso le fermate metropolitane di Roma viene subito additato dalla stampa con lo spaventoso appellativo dell'uomo nero.
Pur essendo doveroso ammettere, e da residente capitolino potrei confermarlo, che la ferrovia metropolitana di Roma non si distingue certo per la sicurezza ed i sistemi di sorveglianza, rimane pur vero che se un uomo riesce a portare a termine decine di delitti efferati senza lasciare la minima traccia o possiede effettivamente poteri soprannaturali oppure la trama del romanzo architettata dall'autore si poggia su pilastri traballanti.
Tanto più che, come ogni serial killer che si rispetti, anche l'uomo nero ha una sua peculiarità, la sua firma inconfondibile: dopo aver portato alla morte il povero malcapitato di turno con un cappio di canapa, ne recide tante dita dalle mani in numero pari all'ordine di esecuzione della vittima; quindi per la prima vittima un dito in meno, per la secoda vittima due dita in meno, e così via sino all'ultima vittima che si ritroverà, ahimè, senza alcun dito.
E se la polizia necessita di 4 vittime per intuire questa curiosa progressione aritmetica (sarà forse il caso di introdurla nei test psico-attitudinali di ammissione al corpo ?!?), non c'è da meravigliarsi che occorrerà completare il conteggio delle dita su entrambe le mani prima che la polizia catturi questo fantomatico serial killer.
Anzi riteniamoci fortunati che l'assassino non abbia avuto modo di continuare con le dita dei piedi.
Se perdonate il tono un pò faceto di questo mio commento, giusto contrappeso ai cruenti dettagli della trama sopra riportati che potrebbero infastidire i più impressionabili, vorrei comunque assicurare che nel romanzo i dettagli truculenti sono ridotti al minimo indispensabile previsto dal genere thriller in cui esso ricade.
Tuttavia, seppure apprezzabile il tentativo di dar vita su carta ad un nuovo mostro, il mostro di Roma, più spietato e micidiale di quelli che hanno realmente occupato le prime pagine della cronaca italiana, in primis il mostro di Firenze, il giovane Sorrenti manca in questo libro di quella maturità ed esperienza letteraria tale da poter raggiungere l'obiettivo senza cadere nella banalità e nel paradosso.
E' un'impresa troppo ardua la costruzione di una trama 'poliziesca' di tal portata che si dipani tra le strade di Roma senza buchi e falle.
Anche lo stile di narrazione mi sembra alquanto 'acerbo', giovane: alcune volte quasi affettato, altre eccessivamente didascalico con scelte linguistiche più adatte ad una testata giornalistica:
"un feroce serial killer si aggirava indisturbato per le vie di Roma e le forze dell'ordine, lontanissime dal clamore mediatico che il caso stava suscitando, lottavano strenuamente per interrompere la tragica scia di sangue e di morte".
Difetti ampiamente corretti dall'autore nell'opera successiva, 'Immagina i corvi', che reputo di gran lunga più piacevole rispetto a questo primo romanzo.
La cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra
Eccola la vera protagonista di questo romanzo, una Torino 'da bere' direi, echeggiando il più famoso slogan milanese, ma a piccoli sorsi, come se fosse un caffè, nero, caldo, intenso, assaporato e gustato con aristocratica eleganza, 'col mignolo alzato'.
Non siamo troppo lontani dalla Milano alla moda degli anni '80, dalla voracità arrivista dei nuovi ceti emergenti, i nuovi ricchi, alimentati dal senso di ottimismo e benessere diffuso che non esclude nessuno, che non è un privilegio per pochi.
Siamo nei primi anni '70, Torino capitale industriale d'Italia, la ricchezza passa dalle case e dalle proprietà dei nobili di un tempo, eredi della gloria sabauda, nelle tasche dei grandi imprenditori Fiat e Olivetti conferendo loro anche quella patina di austera e distaccata sontuosità.
Ma quanto stride, quanto è forte il contrasto tra questa nuova nobiltà e la secolare, immutabile, regale imponenza della città; sembrano invasori, spuntati dal nulla, che incancreniscono ogni palazzo, i portici millenari, le colline, ogni singola arteria della città con le loro contraddizioni, ipocrisie, la vacuità morale ed intellettuale.
Non c'è da meravigliarsi, quindi, se la ricca signora Anna Carla Dosio (moglie poco appagata e molto annoiata di un famoso industriale) ed il suo altrettanto ricco amico di salotto e di chiacchiere Massimo Campi (omosessuale naturalmente) si ritrovano sospettati per l'omicidio del losco architetto Garrone solo perchè costui avrebbe potuto confermare la corretta pronuncia della parola Boston.
Sì, proprio la capitale del Massachusetts, sulla cui pronuncia Anna Carla e Massimo hanno discusso animatamente, litigando persino.
Anzi, ad essere più preciso, la motivazione del diverbio è molto più profonda (...si fa per dire) perchè non si mette in dubbio la corretta pronuncia del termine quanto piuttosto l'atteggiamento intollerabile di chi non lo pronuncia all'italiana, 'Boston', bensì “Baaast’n”:
“Qualsiasi commesso d’abbigliamento, qualsiasi annunciatore della Rai, sa che si dice “Baaast’n”, è fiero di saperlo e lo sfoggia tutte le volte che può” ma “In italiano si dice Boston con tutt’e due gli o, ben rotondi. Fare lo sforzo di mettere insieme il suono “Baaast’n” è un’affettazione ridicola e tu lo sai benissimo”.
E rimane quasi incredulo il commissario Santamaria di fronte a tanta 'frivolezza', persino lui scelto volutamente dai superiori per la sua esperienza nell'ambiente della Torino 'bene', per la conoscenza acquisita negli anni dei loro vizi e stranezze, oltre che ovviamente per la sua riservatezza, fondamentale per evitare uno scandalo.
Ma non mi sembra il caso di aggiungere ulteriori riferimenti alla trama: come già detto, questo romanzo va assaporato come un buon caffè, a piccoli sorsi.
E' un gioiellino, un vero bijou, un capolavoro della narrativa giallistica italiana, sia per l'impostazione 'classica' in cui la trama, seppur rimanendo molto lineare, si ramifica progressivamente con l'introduzione di nuovi personaggi ed indizi che fanno tremare l'indice accusatore del lettore rendendo dubbia l'identità del possibile colpevole, sia per l'impeccabile caratterizzazione dei singoli personaggi.
E definirlo un giallo è estremamente riduttivo, tanto più che alcuni (compreso me) potrebbero anche considerare troppo azzardata la scelta di abbinare la chiave di svolta nelle indagini ad un proverbio in dialetto torinese.
Ma è un dettaglio di poco conto, perchè non è l'assassino che lascia il segno in questo romanzo, non è l'indagine poliziesca, è il mondo che fa da sottofondo, la stupenda carrellata di uomini e donne che vengono ritratti sin nei minimi dettagli, con grande arguzia ed ironia ma soprattutto con stretta aderenza alla realtà di quegli anni; questo romanzo è uno spaccato veritiero e fedele della società torinese a cavallo degli anni 70, peraltro esposto con una scrittura elegante, pulita, mai pomposa o ridondante: di meglio solo il teatro avrebbe potuto fare, o il cinema con la fedele trasposizione diretta dal grande Comencini, il cui successo è stato pari a quello del romanzo.
Da non perdere, assolutamente.
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Un libro al testosterone...
Eh già.. questo romanzo sprizza testosterone da ogni pagina, un concentrato di virilità nella sua forma più rude, più violenta e più bastarda.
Un libro maschio certamente, ma non per soli maschi, nel senso che anche una gentil donzella potrebbe apprezzarne la lettura se di stomaco sufficientemente forte e di carattere non troppo gentile.. non lasciatevi ingannare dalla copertina, forse eccessivamente languida e trasognata, perchè il contenuto è per donne coriacee.
Come la protagonista principale del romanzo, una donna.. e che donna!!
Sunset Jones, sunset-tramonto per via dei suoi capelli rosso fuoco a corredo di un corpo capace di incendiare persino un ghiacciolo. Niente a che vedere con la donna rappresentata in copertina poco in linea, a mio parere, con la descrizione del personaggio; personalmente, preferisco immaginarla con le fattezze di Nicole Kidman di Cuori ribelli e lo sguardo di Uma Thurman in Kill Bill.. non so se rendo l'idea.
Ma non divaghiamo, chi già conosce Lansdale può ben immaginare cosa troverà in questo romanzo e per chi non lo conosce vi lascio un avvertimento: questo libro è sporco, puzza di sudore ed alcol, come gli uomini di Camp Rapture che quando non si ubriacano vanno a prostitute o picchiano le mogli, è impregnato di polvere e petrolio come l'aria e la terra intorno a questa cittadina sperduta nel Texas orientale nei primi anni 30 a cavallo della Grande Depressione.
Non è semplice sopravvivere in un posto del genere, tanto più se sei donna o se sei negro; e lo sa bene Sunset, moglie dello sceriffo del posto, che durante l'ennesimo tentativo di stupro da parte del marito decide di rompere definitivamente il suo rapporto con lui anzi, uccidendolo con un colpo di pistola estratta dal suo cinturone mentre lui era intento a governare i suoi colpi di bacino, interrompe definitivamente qualsiasi rapporto del marito col resto dell'umanità.
E il suo gesto risveglia anche l'orgoglio calpestato di un'altra donna, sua suocera Marilyn, come lei soggetta ai soprusi del marito, nonchè padre del defunto sceriffo e da cui il figlio ha evidentemente ereditato quell'atteggiamento poco romantico ed amorevole nei confronti delle donne di casa; Marilyn però non uccide il marito, si limita a legarlo al letto per poi risvegliarlo dolcemente con decine di randellate cacciandolo infine da casa, cornuto e mazziato come si suol dire. Troppa vergogna per un uomo come lui, prima la nuora e poi la moglie, un affronto troppo grande da parte di due donne che hanno sollevato la gonna e mostrato 'attributi' ben più consistenti dei suoi; per questo motivo preferisce lasciarsi tagliare in due nella segheria di sua proprietà e raggiungere il figlio all'inferno.
E con lo sceriffo crivellato ed il capo del villaggio seghettato, Sunset diventa la nuova tutrice della legge contro la volontà di tutti gli altri abitanti, poco propensi a vedere in giro una donna con distintivo e pistola, e con l'unico appoggio della suocera Marilyn, sufficiente però a vincere qualsiasi remora essendo divenuta unica titolare della segheria dopo la morte del marito e quindi unica fonte di guadagno per quella marmaglia di gente.
Com'è facile immaginare, però, i guai non mancheranno per Sunset... e tra omicidi efferati, linciaggi di neri, afa soffocante, invasione di cavallette, amori focosi e amori traditi, c'è di che divertirsi e tutto nel più puro stile Lansdale, diretto e pungente, con un elevato dosaggio di umorismo, politicamente scorretto ma schietto e senza censure, soprattutto quando c'è da denunciare l'ingiustizia, il sopruso verso i più deboli, gli atteggiamenti di razzismo più esasperati, temi che ritornano frequentemente in diversi suoi romanzi.
In conclusione, un libro che tutti gli amanti di Lansdale apprezzeranno, sia quelli che si sono lasciati trascinare nelle avventure della folle e strampalata coppia di investigatori Hap&Leonard sia quelli che lo hanno conosciuto in romanzi di maggior spessore emotivo, come 'La sottile linea scura' o 'In fondo alla palude'.
Per tutti gli altri: leggere attentamente le avvertenze sopra riportate.
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Se tieni per te le cose,non sembrano poi così vere
Curiosa coincidenza: solo qualche settimana fa mi è capitato tra le mani "La vita perfetta" di Renée Knight, ora "La vita felice" di Elena Varvello.
Due storie diverse sicuramente, due stili altrettanto differenti, il primo ricade nel genere thriller psicologico il secondo ha i connotati tipici del noir italiano; ciò che mi ha incuriosito, però, è l'assonanza nel titolo, un titolo che è un desiderio, un anelito e forse un'utopia.
In entrambi i romanzi, infatti, vengono raccontate due vite, storie di famiglie felici, apparentemente perfette, che inaspettatamente vengono travolte da un destino beffardo e spietato, tanto radicale è il cambiamento che porta, trasformando un clima di serenità familiare in un'atmosfera densa di angoscia, paura e disperazione.
Elia è un ragazzo di 16 anni, vive con la sua famiglia a Ponte, un paesino sperduto tra i monti e circondato da boschi che sembrano quasi averlo isolato dal resto del mondo:
'La valle stretta, una miniera di pirite abbandonata, un fiume serpeggiante, torrenti, un vecchio ponte in pietra in una gola, un altro a due corsie sopra le rapide del fiume e boschi tutt'intorno. E lo stabilimento cinto da un muro di mattoni, il fumo delle ciminiere.'
Non certo il posto migliore in cui un ragazzo di 16 anni potrebbe veder realizzate le proprie aspirazioni, quali prospettive potrebbe offrire per il suo futuro un posto del genere?
Ma è il luogo in cui Elia è nato e cresciuto, non ha tanti amici ma non è un problema per lui, è sempre stato un tipo introverso e solitario, i suoi coetanei spesso gli sembrano infantili.
Poi ci sono suo padre e sua madre, lo adorano e non gli hanno mai fatto mancare niente. Insomma una famiglia felice, una vita come tante altre.
Sino a quel giorno, il giorno in cui lo stabilimento chiude e tutti coloro che vi lavorano vengono licenziati in tronco: tra questi il padre di Elia, Ettore Furenti, il pilastro della sua famiglia.
Tutto inizia da quel giorno ed Elia, ora adulto, a distanza di anni ripercorre il ricordo di quel periodo della sua vita, tramutatasi repentinamente in una vita tormentata, sgretolata da un destino che sembrava essersi accanito contro loro.
In questo viaggio a ritroso nella sua memoria lo accompagna il senso di colpa, la convinzione che se fosse stato solo più coraggioso avrebbe potuto evitare il peggio, avrebbe potuto salvare il padre dal baratro della follia e la famiglia dalla rovina. Ma ha preferito rimanere in silenzio, così come la madre ha preferito non vedere: entrambi hanno scelto di ingannare se stessi di fronte all'evidenza pur di non perdere quella felicità divenuta ormai solo illusione, sperando che fosse solo un senso di disagio momentaneo e non una voragine profonda quella creatasi nella mente di Ettore Furenti.
'Se tieni per te le cose, non sembrano poi così vere'.
La madre di Elia non riesce e non vuole guardare in faccia la realtà, piuttosto si convince che l'uomo a lei accanto sia sempre lo stesso, l'uomo da sempre amato e con cui avrebbe voluto trascorrere il resto della sua vita; ma Elia sa, Elia ha notato che suo padre ora è un uomo diverso.
'A volte penso che avrei dovuto dirle di mio padre ma cosa avrebbe detto lei, mia madre, la donna che ci amava? Che cosa avrebbe fatto? Avevo già provato ed era stato inutile.
Non ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l'amore può manifestarsi, nè della forza con cui può spingerci in un angolo e toglierci il respiro'.
Ecco, il silenzio: il silenzio è zavorra per l'anima.
Ogni qualvolta manteniamo nascosti i nostri sentimenti e soffochiamo la voce dell'anima lasciando che le nostre emozioni muoiano all'interno le impediamo di innalzarsi verso nuovi orizzonti, preferiamo mantenerci bassi evitando pericoli, scansando novità e cambiamenti piuttosto che prendere il volo, rischiando anche di cadere, ma con la certezza che una vita nuova, vera, vale molto più di una vita apparentemente felice, perchè ormai compromessa, ormai contagiata profondamente dalla menzogna, dall'inganno e dalla disperazione.
Elena Varvallo è un'autrice per me nuova ma è stata una piacevole sorpresa: ho ritrovato in lei la parte migliore di Ammaniti, quella che ho apprezzato tantissimo nei suoi primi romanzi "Ti prendo e ti porto via" e "Come Dio comanda", soprattutto per l'impeccabile descrizione degli stati d'animo dell'adolescente Elia, quasi tangibili per quanto ben esposti.
I "silenzi" di Elia si percepiscono chiaramente, così come si avverte forte il suo rimorso per non aver dato voce alle sue sensazioni, ai suoi timori.
E le emozioni sono soffocate quasi come le parole usate dall'autrice che nel suo romanzo adotta uno stile asciutto, essenziale ma non per questo meno efficace: periodi poco dispersivi e termini sapientemente calibrati per raggiungere il lettore al primo impatto, senza necessità di ulteriori chiarimenti o divagazioni.
Uno stile, devo ammettere, perfettamente in sintonia con la storia ed adeguato a rappresentarne la tragicità senza inutili digressioni in modo che colpisca il lettore nel breve spazio di circa 200 pagine, lasciandogli poi il tempo per riflettere, metabolizzare.
'La vita felice. La vita che ci resta, è solo questo, e che non va sprecata.'
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Era meglio non fosse tornato...
Per quanto abbia apprezzato Mankell in altri suoi romanzi senza assassini ed ambientati in luoghi ben distanti dalla sua terra natia svedese, non posso nascondervi quanto questo suo thriller mi abbia deluso.
Era da tempo, infatti, che desideravo avvicinarmi ad uno dei suoi romanzi gialli più apprezzati dal pubblico, come gli stessi lettori che mi hanno preceduto in questo commento, ma l'incontro non è stato affatto appagante.
E' un pò come quando nasce un'attrazione 'virtuale' tra due persone che non si conoscono minimamente, lui magari vede una sua foto-copertina, si lascia adescare, guarda in giro i commenti sul suo conto, legge la sua storia e pensa che possa funzionare tra loro e l'immaginazione alimenta questa sua convinzione, magari pensa 'è proprio ciò che cerco da tempo'..
Ma, giunto il momento in cui l'incontro diventa reale, il palazzo di sogni così eretto si sgretola progressivamente trasformandosi in una doccia fredda che si abbatte con tutta la sua intensità sul capo del malcapitato sognatore, ponendolo di fronte ad una realtà ben diversa da quella sospirata.. e sebbene sappia inconsciamente quanto sia inutile insistere - perchè è sempre la prima impressione quella che conta, quella veritiera - lui non demorde, si sforza di trovare nell'altro anche solo un dettaglio, un appiglio per non naufragare nella più totale delusione per aver preso un abbaglio così grande.. ed invece niente, nessuna sorpresa, nessuna attrazione magica.. anzi più approfondisce la sua conoscenza, parola dopo parola, più resta infastidito dalla sua banalità.
Ecco, spero di aver reso l'idea, perchè non me ne voglia il buon caro Mankell, pace all'anima sua, ma la mia esperienza con questo romanzo è molto simile a quella appena descritta.
Mankell non è certo un novellino quando porta alla luce questo romanzo, anzi è reduce dalla fortunata serie noir legata alle vicende del commissario Wallander con un ottimo successo di critica.
E nelle prime pagine del libro ci sono tutti i presupposti per intravedere nel Ritorno del maestro di danza le fattezze di buon thriller: incipit intrigante ambientato nel passato, durante la seconda guerra mondiale; ritorno al presente con omicidio efferato di un ex poliziotto, Herbert Molin, ormai in pensione nella casa in cui da anni l'anziano ufficiale conduceva una vita in appartata solitudine nel bel mezzo della foresta svedese; strani indizi che la polizia locale non riesce ad interpretare per collegarli ad un possibile movente di un omicidio tanto spietato quanto insolito in una regione come questa del nord della Svezia, fredda, isolata, inospitale.. come i pochi abitanti che vi dimorano.
Interviene sul caso anche l'ispettore Stefan Lindman, in forza nella città svedese di Boras, amico ed ex collega del defunto, che decide di rinunciare ad una vacanza rilassante al mare recandosi invece nel bosco dello Härjedalen, con l'intenzione di aiutare la polizia locale nelle indagini su quella strana morte.
Non per eccessivo spirito filantropico, direi: se una dottoressa non gli avesse diagnosticato un cancro ed ancor più se non gli avesse prescritto di tornare in ospedale dopo due settimane per ritirare l'esito definitivo degli esami, probabilmente il nostro ispettore avrebbe deciso di trascorrere la sua vacanza al mare.
Ma l'atmosfera solare e vivace di una località balneare non sarebbe stata in sintonia col suo stato d'animo e la sua improvvisa paura di morire, talmente forte da annullare un qualsiasi barlume di speranza di poter resistere alla malattia.
Per questo decide di indagare sulla morte del suo collega, convincendosi che quella strana morte potesse tener lontana la sua mente dal pensiero ricorrente ed assillante della propria morte.
I presupposti per un buon thriller quindi non mancano, peccato però che proseguendo la lettura del romanzo si scopre che essi rimangono solo 'presupposti', non evolvono e non si confermano, ed il lettore non può fare a meno di sentirsi ingannato constatando la pochezza di una trama che sembra quasi improvvisata per quanto banale e superficiale sia la costruzione degli eventi che porta alla svolta nelle indagini. E' proprio questa, infatti, la caratteristica che rende un thriller un capolavoro, la capacità cioè dell'autore di progettare una catena di cause-effetti che sia plausibile seppur ben celata nella trama.
Caratteristica, a mio parere, del tutto assente in questo romanzo: alcuni particolari che sembrano rilevanti muoiono nel corso della storia senza alcun legame con gli eventi successivi, altri particolari invece portano a conclusioni del tutto scontate o facilmente prevedibili.
Ed ecco che compaiono personaggi che puzzano di marcio lontano un miglio, ecco che intervengono poliziotti paragonabili per arguzia ai carabinieri delle nostre barzellette che discutono sull'evolversi delle indagini negli uffici del piano terra della stazione di polizia e con le finestre aperte (anche in Svezia a volte fa caldo) senza tener conto che qualcuno potrebbe avvicinarsi ed origliare, abitudine tra l'altro molto diffusa nei villaggi svedesi; e mi fermo qui per non screditare lo stesso ispettore Lindman-Clouseau, la cui ingenuità sfiora spesso il ridicolo.
E come se non bastasse, forse mosso dalla convinzione che un romanzo possa definirsi tale solo se diluito in circa 500 pagine, l'autore cerca di colmare le lacune di una trama inconsistente con una descrizione accurata e profonda dello stato d'animo del protagonista, in bilico tra la vita e la morte annunciata, che diventa ben presto ripetitiva e snervante.
Un tema tra l'altro, quello della morte, che l'autore riprenderà diversi anni dopo col suo ultimo libro, autobiografico, "Sabbie mobili", affrontandolo però in modo molto più intimo e liberatorio, anche perchè colpito da un cancro non più finto ma reale, così come reali e tragici sono stati i suoi effetti.
Chi è perfetto.. scagli la prima pietra!
Catherine è una donna di successo; carriera promettente, una nuova casa, un marito premuroso, un figlio poco più che ventenne che sembra aver finalmente superato un momento di crisi adolescenziale tanto da esser riuscito anche a trovare un impiego fisso; certo non il lavoro che lei e suo marito Robert avrebbero desiderato per il proprio figlio, ma non importa.
Catherine ha tutte le carte in regola per essere una donna felice, soddisfatta della sua vita, una vita perfetta. O almeno così sembrerebbe, questo è quello che gli altri vedono, l'immagine della vita di Catherine riflessa negli occhi di chi crede di conoscerla.
Ma non è un'immagine reale, è come se ci fosse uno specchio tra Catherine e gli altri che produce un'immagine distorta, una perfezione apparente.
E quel libro misterioso che capita tra le sue mani, finito chissà come tra i pacchi ammucchiati in casa dopo il trasloco, è come un sasso che colpisce in pieno centro lo specchio magico di Catherine, creando un crepa che progressivamente si allarga sgretolandolo in frantumi e mostrando la vera immagine di Catherine, e della sua vita mascherata di perfezione.
Quel libro non può essere una semplice coincidenza, il titolo 'Un perfetto sconosciuto', la storia, la protagonista seppure con un altro nome, tutto lascia supporre che l'autore conosca il suo segreto, un segreto che sino ad allora lei credeva relegato nella sua memoria, mai condiviso con nessuno, nemmeno con Robert, suo marito, impeccabile ed amorevole compagno.
Chi può volerle così male mostrando il chiaro intento di ferirla ed umiliarla agli occhi di tutti, agli occhi di chi l'ha sempre considerata una donna perfetta.
Ma nessuno è perfetto, nessuno ha una coscienza perfettamente linda, nemmeno chi si arroga il diritto di accusare e giudicare.
Siamo lontani dalla perfezione ma certamente non annoia e non risulta sgradevole la lettura di questo romanzo di esordio di Renee Knight: autrice inglese, segue la scia già tracciata da diversi altri autori che recentemente tentano la fortuna intraprendendo la strada incerta e tortuosa del thriller psicologico; genere fin troppo abusato, in cui non è facile emergere sia perchè è alto il rischio di imbattersi in trame già tessute che inevitabilmente suscitano un senso di deja vu nel lettore sia perchè, quand'anche la storia spicchi per originalità, manca talvolta di spessore la caratterizzazione dei personaggi e la costruzione dei dialoghi, elementi fondamentali in un romanzo che fa dell'introspezione psicologica il suo punto di forza.
Ma se entrambi questi elementi vengono curati ed adeguatamente sviluppati nel romanzo, il successo editoriale è praticamente certo; e non solo editoriale direi, visto che romanzi di questo tipo diventano spesso soggetti ottimali per essere trasposti su celluloide.
A mio parere, quindi, La vita perfetta non è un inganno, e questo è già tanto: quante volte, infatti, ci imbattiamo in romanzi osannati come capolavori sulle fascette editoriali o in quarta di copertina da scrittori o giornalisti vip e che si rivelano poi per quello che sono realmente: spazzatura con velleità letteraria.
Ecco, non è il caso di questo libro e, tanto per riportarne una, la citazione del New York Journal of Books in quarta di copertina "Un libro che vi farà girare le pagine vorticosamente, lo divorete" questa volta è veritiera: questa volta non mi sono sentito in obbligo, come per altri romanzi che promettevano la stessa sensazione, di correggere il termine 'pagine' con un attributo anatomico maschile facilmente intuibile.
E ritengo sia stata molto brava l'autrice a districarsi su un terreno minato, perchè il tema dell'apparente perfezione, del male che si nasconde dietro una parvenza di perbenismo, è stato affrontato già da diversi autori; anche l'idea del 'libro nel libro', del romanzo maledetto, mi ha portato alla mente il recente romanzo di Dicker 'La verità sul caso Harry Quebert'.
Ma 'La vita perfetta' mi è parso molto più avvincente, con uno stile narrativo che non perde colpi sino all'epilogo finale e con una trama che coinvolge il lettore per la sua drammaticità e per l'intensa rappresentazione dei personaggi, con cui è facile entrare in empatia... perchè ognuno di noi, uno più uno meno, ha uno scheletro nell'armadio.
"Ci vuole coraggio, non vi pare? A calare la maschera e a vederci per ciò che siamo realmente."
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Guagliò, che brutta carogna è 'a guerra...
Nicola è un ragazzo di 16 anni, terminato l'anno scolastico trascorre i mesi estivi presso l'abitazione degli zii che vivono in una piccola isola vicino Capri.
E' una fuga dalla città, un'evasione tanto agognata da Nicola che trova su quell'isola il suo habitat naturale, la terra da calpestare a piedi nudi per non perderne mai il contatto, per sentirne sempre il calore se non quando la si abbandona per salpare in mare, con la barca dello zio, capostipite di una famiglia di pescatori, uomini che vivono il mare e lo rispettano, ne conoscono le insidie ma anche la suprema bellezza.
"Si ottiene dal mare quello che ci offre, non quello che vogliamo. Le nostre reti, coffe, nasse, sono una domanda. La risposta non dipende da noi, dai pescatori. Chi va sotto a prendersela con le sue mani la risposta, fa il prepotente col mare. A noi spetta solo la superficie, quello che ci sta sotto è roba sua, vita sua."
Nicola, nel pieno della sua adolescenza, non si riconosce negli altri ragazzi della sua età, spesso non ne condivide gli interessi e soprattutto l'atteggiamento di spensieratezza e baldoria che li contraddistingue: sono ragazzi degli anni '50, ragazzi che hanno ancora negli occhi il riflesso delle fiamme, la polvere delle macerie e nelle orecchie il sibilo dei proiettili e la sirena che preannuncia l'attacco aereo.
Loro vogliono dimenticare, vogliono convincersi che sia tutto finito, così come gli adulti che preferiscono cambiare discorso piuttosto che spiegare, perchè spiegare significa ricordare, riportare in vita quei momenti.
"Dopo la guerra i vivi avevano indurito il silenzio, un callo sopra la pelle morta della guerra. Volevano abitare in un mondo nuovo."
Ma Nicola vuole sapere, non gli basta quello che è scritto sui libri, perchè non è la vera storia quella:
"Pure se parlo fino a domani, tu di com'è stata la guerra che ho visto non puoi sapere niente. Si deve sapere con gli occhi, con la paura, con la pancia vuota, non con le orecchie, coi libri."
Nicola conoscerà la guerra strappandola parola dopo parola dalla bocca del cugino maggiore, mentre sono occupati con la rete da pesca e la mente non ha appigli per trattenere i ricordi ed il cuore ha bisogno di parlare, di raccontare l'odio e la rabbia per l'incapacità di opporsi ad ordini disumani, parole di morte urlate in tedesco, una lingua sconosciuta ma dal suono inconfondibile, impossibile non riconoscerlo nelle voci dei turisti che ora girano per l'isola, anche loro spensierati, anche loro immemori della violenza perpetrata.
E poi quella ragazza, l'unica tra le tante sull'isola che incontra lo sguardo di Nicola e lo cattura; diceva di chiamarsi Caia, ma 'lei non era Caia, un nome, lei era una persona che si chiamava così'.
Ed ancora una volta la guerra ritorna prepotente, nascosta nel segreto di quel nome Caia, un segreto ben custodito dalla ragazza, sotterrato nel profondo del suo cuore perchè farebbe male se riaffiorasse.
E' un dolore che chi ha vissuto la guerra in prima persona non vuole condividere, per difesa propria e degli altri, per non soffrire ricordando e per non turbare chi ascolta, incredulo di fronte a tali atrocità, per non generare altro odio, altra violenza, altra guerra.
Nicola, però, non può non sapere, in quel segreto scoprirà anche l'amore:
"Ci s'innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci s'innamora da vicino, ma non troppo, ci s'innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto in un giardino dove gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto."
E Nicola diventerà adulto, e diventerà un soldato, perchè la guerra non è solo in trincea, è nel cuore degli uomini.
Per chi ha già amato De Luca in 'Non ora, non qui' oppure 'I pesci non chiudono gli occhi', non rimarrà deluso da questo piccolo capolavoro.
Lo stile dell'autore è unico, inconfondibile: la narrazione segue uno spartito musicale, le frasi non si leggono ma si sentono, non ci sono rime ma quei periodi vibrano con un'intensità e con una magia che solo la poesia sa creare.
E' una questione di feeling sicuramente.. sono vibrazioni che non tutte le corde potrebbero percepire, molti potrebbero rimanerne del tutto indifferenti.
Ma per gli altri: prendete De Luca, prendete il mare... e lasciatevi trascinare..
"Era una notte ferma. Il mare a riva non riusciva a muoversi di un passo. Quand'è così non è nemmeno mare, pare cielo. Sul crocchio delle nostre teste stavano fitte a gragnuola le stelle, senza fiato nei pini."
"Sentivo il parlottio quieto mischiato allo sciacquo del remo, smozzichi di parole, perchè a mare s'intendevano tra loro solo con la sillaba principale, l'accentata, stenografia insegnata dal vento che porta via il resto."
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I pesci non chiudono gli occhi
Chisti su mali iurnati, ascuta a mia...
Portella della Ginestra è una località in provincia di Palermo; poche anime ancora la popolano, suddivise nei paesi di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello. Gente povera, in gran parte contadini, gente che ama la propria terra e la lavora, dieci, dodici ore al giorno, dall'alba al tramonto, perché la terra offre loro il minimo indispensabile per vivere e crescere una famiglia, dignitosamente.
"Non ho memoria di aver vissuto bene. Né l'aveva mio padre e, prima, suo padre e il padre di suo padre. Per mangiare abbiamo rubato erba a pecore non nostre; per bere, raccolto, pagato e trasportato acqua da sorgenti che, chissà per quale volontà o potere, non ci appartenevano. Sempre abbiamo vissuto con dignità, anche se il poco pane l'abbiamo strappato ai sassi e dovevamo condividerlo coi padroni dei sassi."
Il libro di Loriano Macchiavelli è anzitutto un encomio a questa gente che è la parte sana e nobile della Sicilia ma è anche il racconto di un tremendo atto di violenza perpetrato nei loro confronti, un vero e proprio eccidio, che fu consumato in questa zona il Primo maggio del 1947: una carneficina talmente efferata ed implacabile da essere considerata la prima tragica strage della Repubblica, inaugurando la cosiddetta strategia della tensione degli 'anni di piombo'.
Su questo episodio tante sono state le ipotesi, i depistaggi, le testimonianze ma i veri responsabili, i veri mandanti che ordinarono il massacro al bandito Salvatore Giuliano restano tuttora impuniti e la strage di Portella della Ginestra rimane ancora un segreto di Stato.
L'opera di Macchiavelli non vuole indicare un colpevole o incriminare qualcuno, sia esso lo Stato o la mafia, o entrambi visto che un accordo segreto, un compromesso tra mafia e Stato che avrebbe salvaguardato gli interessi di ambo le parti è del tutto plausibile in quel periodo storico.
Questo romanzo vuole solo smuovere la memoria affinché il ricordo di quel giorno non si perda nel tempo, non si dissolva al vento.
Perché le undici persone falcidiate dal mitra di Salvatore Giuliano e dei suoi compari erano tutti innocenti, uomini, donne e bambini che si erano riuniti con tanti altri paesani nella vallata circoscritta dai monti Kumeta e Maja per un giorno di festa, l'unico in cui era consentito loro sollevare la schiena dai campi per onorare quello stesso lavoro con cui dignitosamente vivevano; ed era un giorno di festa non solo per i lavoratori ma anche per le loro famiglie, che a quel lavoro e a quella terra dovevano tutto.
Per loro, soprattutto per loro, non bisogna dimenticare; perché sono ancora lì che gridano, che urlano il loro dolore per essere stati strappati alla vita in un modo così ingiusto, così vigliacco, colpiti alle spalle da assassini nascosti tra i massi di Portella.
Quegli stessi massi su cui tutto il sangue versato non dovrà mai essere cancellato:
"Hanno fiori rossi le nostre ginestre e rossa è la ferita che le raffiche della mitraglia hanno scavato nella terra di Portella. Vedi lassù quelle rocce? Di là è partito il piombo rovente che si è conficcato nella carne dei nostri bambini."
Sono pagine molto toccanti quelle in cui l'anziano Omero rievoca al suo interlocutore gli eventi di quel drammatico Primo maggio; straziante il ricordo della gioia e dell'entusiasmo nei cuori dei ragazzi mentre salivano il monte, trepidanti per quel giorno di festa tanto atteso, e subito oscurato dal ricordo della pioggia di proiettili, del rumore assordante delle raffiche di fuoco che per quindici lunghissimi minuti portarono morte e sangue ovunque.
Altrettanto efficaci e degne di menzione sono le descrizioni del paesaggio siciliano, veri e propri affreschi dipinti tra le pagine del libro:
"Cattedrali di roccia dai pinnacoli aguzzi e figure, pure di roccia, che vento e pioggia e sole hanno modellato con lo scalpello del tempo. Qua e là, e improvviso, il mare chiuso da gole e montagne e infinito. Nuvole immobili impigliate nelle cime di monti aridi, e fra le nuvole brandelli di cielo."
Ad onor del vero, il libro intreccia gli eventi purtroppo reali di Portella della Ginestra con una storia dai connotati tipicamente polizieschi, un intrigo che vede coinvolti personaggi immaginari della mafia e della politica italiana.
Ma per quanto Loriano Macchiavelli sia un autore di spicco del 'giallo' italiano, e quest'opera non ne sminuisce certo la sua reputazione rispetto ai romanzi precedenti, ciò che rimane impresso nel lettore è altro.
E' la Sicilia, e la gente di Portella, i morti di Portella, il cui pianto dolente ancora risuona tra quei sassi in cerca di giustizia, solo giustizia:
'A 'ddu jornu, fu a Portedda,
cu ci va doppu tant'anni,
vidi morti 'n carni e ossa,
testa, facci, corpa e jammi,
vivi ancora, ancora vivi
e 'na vuci 'n celu e 'n terra:
O justizia, quannu arrivi?
O giustizia, quannu arrivi?
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Omaggio all'umanità
E' devastante leggere quest'opera di Houellebecq senza conoscere l'autore, senza una minima idea della sua formazione letteraria e del suo pensiero.
E' illuminante, invece, rileggere l'opera dopo aver compreso la corrente ideologica a cui l'autore aderisce, severamente censoria verso la società contemporanea; con un atteggiamento solo apparentemente nichilistico bensì, a mio parere, istigatore e sobillatore, Houellebecq non vuole distruggere ma correggere, rimediare, svegliare gli animi prima che sia troppo tardi: egli anela ad una nuova rivoluzione del pensiero e della società che induca una radicale metamorfosi, paragonabile come entità all'avvento del cristianesimo nell'era medievale o della scienza moderna successivamente.
Invogliato nella scelta del libro dai vari commenti entusiasti, ho affrontato però la lettura di quest'opera del tutto impreparato, incosciente della sua levatura, e per questo motivo le mie aspettative si sono trasformate in delusione, crescente di pagina in pagina.
Ma, seppure più volte tentato di abbandonare il libro al suo destino, ne ho continuato ostinatamente la lettura mosso soprattutto da un interrogativo: ma dove vuole andare a parare questo qui? Cosa sta cercando di dirmi?
Perché si intuisce sin da subito che c'è un messaggio nel testo, molto più di un messaggio anzi, qualcosa di più grande, più complesso, una teoria direi.. ma, perdiana, Houellebecq è stato veramente abile nel celare tutto ciò sotto forma di romanzo per poi svelare la vera natura della sua opera solo nell'epilogo finale.
Naturalmente mi rivolgo a chi, come me, prima d'ora non ha mai letto niente di quest'autore di fama mondiale, esponente di spicco della letteratura francese contemporanea.
Gli altri probabilmente avranno già avuto modo di conoscerlo nelle altre opere che lo hanno reso celebre ed avranno anche acquisito una certa familiarità col suo stile letterario, preciso, freddo, di un rigore quasi scientifico, accademico.
Per me, invece, è stato veramente arduo entrare in sintonia con questo testo, sin dai primi capitoli, quando quello che sembrava il racconto delle vicende che hanno prima separato e poi intrecciato nuovamente la vita di due fratelli, Michel e Bruno, si è rivelato tutt'altro, come se dissolta la sua parvenza romanzesca il testo avesse poco alla volta iniziato a mostrarsi in accordo con ciò che realmente l'autore voleva comunicarci.
Ecco perché se l'incipit recita 'Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo secolo', si scopre invece nell'ultimo capoverso che quanto raccontato nel libro vuol essere un omaggio all'intera umanità, 'omaggio che, anch'esso, finirà cancellato e perso nelle sabbie del tempo; è tuttavia necessario che tale omaggio, una volta almeno, venga reso. Questo libro è dedicato all'uomo'.
Michel e Bruno sono fratelli, o meglio fratellastri, generati dalla stessa madre che li ha poi abbandonati alle cure delle rispettive nonne paterne. I ragazzi crescono quindi in ambienti diversi, Michel mostra sin da subito uno spiccato interesse per la scienza ed il suo talento non tarda a manifestarsi già dai primi anni di scuola, Bruno invece subisce la perdita della nonna che lo accudiva ed è costretto a vivere la sua prima adolescenza in un collegio, patendo soprusi e forti violenze psicologiche.
Due personalità diverse, e sole, isolate dal resto del mondo, per propria volontà o per quella altrui.
Michel, che amplifica la sua visione scientifica e razionale del mondo tanto da porsi nei confronti del mondo stesso come un osservatore, lucido e rigoroso, estraniandosi da qualsiasi forma di rapporto sociale, incluso amore ed amicizia:
'La sua visione del mondo aveva un che di meccanico e spietato. Una volta date le condizioni originarie, pensava, e parametrizzata la rete delle interazioni iniziali, gli avvenimenti si sviluppano in uno spazio disincantato e spoglio; il loro determinismo è ineluttabile. Ciò che era accaduto doveva accadere, non poteva essere altrimenti; nessuno poteva esserne ritenuto responsabile.'
Bruno, che invece vorrebbe integrarsi nel mondo che lo circonda, vorrebbe essere accettato dal mondo in cui vive, si sente escluso da esso, perennemente a disagio, invaso da un senso di inferiorità ed inadeguatezza che si porterà avanti per il resto della sua vita.
Le loro esistenze tuttavia si incroceranno, per caso i due fratelli si ritroveranno a frequentare lo stesso liceo, e da questo momento diventeranno l'uno il sostegno dell'altro, l'uno il complemento dell'altro. Uno il braccio, l'altro la mente, entrambi strumenti nelle mani dell'autore per raggiungere il suo scopo: un attacco incisivo e diretto verso la società del fine millennio, una critica sempre più pungente e provocatoria contro lo stato di degenerazione in cui la società sta progressivamente scivolando, senza attrito, senza possibilità di frenare la caduta, una condizione in cui il materialismo incontrollato prevarica ogni religione, sminuendo di conseguenza i valori morali, l'individualismo sfocia nell'edonismo, la lotta per il dominio e per il sopravvento sugli altri diventa inevitabile e si diffonde dappertutto, negli uffici, a scuola e nei rapporti di coppia.
Attraverso Bruno, Houellebecq descrive il male, il virus da debellare: il racconto della sua vita segue l'evolversi del declino della società, gli effetti della liberalizzazione sessuale iniziata negli anni 70 con i primi movimenti hippy e New Age, la degenerazione del sesso in violenza e crudeltà, deriva ineluttabile di una ricerca rivolta ad un piacere sempre più intenso, egoistico, individuale. Non c'è più spazio per l'amore, esso è rimasto un ricordo, destinato a scomparire per sempre, sconfitto dal cancro che ha ammorbato la società, parimenti a quello che uccide Christiane, l'unica donna con cui Bruno vivrà la breve illusione di una relazione stabile e felice.
Michel invece è la cura di Houellebecq: un biologo molecolare che grazie al suo distacco, all'osservazione metodica e sperimentale della realtà, può evitare il contagio, può vedere il male, studiarlo e sconfiggerlo nell'unico modo possibile: non una nuova filosofia, nessuna nuova mutazione metafisica sarebbe sufficiente, solo una mutazione genetica potrebbe salvare il genere umano, un radicale cambiamento nel dna dell'essere umano tale da renderlo immortale e, quindi, puro, perfetto, un angelo o un dio, non più tormentato dal soccombere della morte e di conseguenza scevro dal desiderio di un piacere smisurato ed immediato o da pretese mistico-religiose.
Si tratta di un'opera che va assimilata a piccole dosi, non è una lettura semplice ma alla fine è impossibile non rimanerne affascinati, rendendosi conto di come ogni cosa sia al suo posto.
A fine lettura, ho provato infatti la stessa sensazione che avvertivo ai tempi degli studi universitari, di fronte ad un problema matematico o un esercizio di fisica particolarmente complesso: quando sul punto di gettare la spugna, prima di arrendersi di fronte ad una soluzione non evidente, apparentemente impossibile da determinare, si scorge quella traccia, quel filo che si dipana lentamente sino a svelare la trama nascosta; e la soddisfazione che ne deriva è tanta.
Perciò, non lasciatevi scoraggiare dai frequenti excursus di carattere scientifico, dalle nozioni di biologia, fisica quantistica ed antropologia tramite le quali Michel osserva e spiega il mondo che lo circonda. Né tantomeno lasciatevi turbare dal linguaggio volgare, schietto che l'autore esibisce nella descrizione delle avventure sessuali di Bruno, rappresentative ed esemplari del sudiciume generalizzato di tutta la società.
Sono scelte stilistiche e narrative perfettamente coerenti col contenuto provocatorio del libro, tutto è funzionale per il fine ultimo dell'autore, l'invettiva prima ed il monito dopo.
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C'è posta per te 2.0
La Corrispondenza è l'ultimo film di Giuseppe Tornatore, pluripremiato regista italiano (ricorderanno tutti l'Oscar per Nuovo Cinema Paradiso), in programmazione nelle sale italiane proprio in questi giorni (febbraio 2016 per i posteri che leggeranno).
E' anche un libro scritto dallo stesso regista ma, differentemente da quanto accade spesso, in questo caso non è il film che trae ispirazione dal libro e ne diventa la sua trasposizione su celluloide.
In questo caso il libro esce contemporaneamente al film e, lasciatemi dire, anche per le sue dimensioni contenute, potrebbe essere definito un libretto, simile a quello che consegnano in teatro prima di un'opera preannunciandone la trama.
E non voglio nascondervi che un cattivo pensiero mi sia passato per la mente, un'insinuazione quasi da pettegolo direi: che forse il libro, o libretto che dir si voglia, nasca solo da un'esigenza puramente commerciale, dalla speranza di poter sfruttare l'eventuale successo della sua versione cinematografica (bissando magari il trionfo de La migliore offerta)?
E' lo stesso regista/scrittore a smentire questo mio dubbio:
"Ciò che vi accingete a leggere è il romanzo La corrispondenza, tratto dall'omonimo film. Un'originale e formidabile opportunità per restituire alla parola scritta la supremazia usurpata dall'immagine. Una ragionevole occasione per riscattare tutto ciò che lo schermo cinematografico deve o preferisce sottintendere".
E allora perchè dubitare di tale spiegazione, più che plausibile?
Metto da parte, quindi, la veste di pettegolo e provo ad esprimere un giudizio personale ma sincero.
Premetto anzitutto che sono costretto ad essere un pò vago sulla trama perchè altrimenti rischierei di svelare l'unico 'colpo di scena' presente nel romanzo, tuttavia ben calibrato, nel senso che si manifesta inaspettamente con effetto sorpresa garantito e generando quindi la dovuta reazione di sconcerto nel lettore (ovvio, si sconsiglia vivamente la visione del film prima del libro).
E direi che tale evento rappresenta quasi un taglio netto nel romanzo, lo divide in due parti di cui solo la prima riesce a mantener vivo l'interesse del lettore, evitando che la noia abbia il sopravvento.
La prima parte del romanzo, infatti, racconta in modo equilibrato, senza cioè sfociare in un romanticismo melenso e sdolcinato, il rapporto clandestino tra Ed Phoerum, noto astrofisico di fama internazionale, e Amy Ryan, una studentessa delle stelle che, pur essendo fuoricorso di alcuni anni, rimane comunque molto più giovane del suo professore.
Una storia d'amore sbocciata nel più classico dei modi, uno sguardo di troppo durante una conferenza dell'esimio professore, che si concretizza e si alimenta, però, sfruttando le tecnologie più recenti, quelle dell'era 2.0, Skype, video-messaggi, mail, chat e diavolerie simili.
D'altronde è facile intuire che il rapporto tra codesti amanti non possa svolgersi in modo differente, Ed Phoerum infatti è anche sposato con figli e le leggi etiche e morali della nostra galassia reputano quanto meno sconveniente per un uomo come lui rendere pubblica una relazione extraconiugale con una donna quasi coetanea di sua figlia.
"La prossima volta. Un'espressione bollente, difficile, scomoda da maneggiare. Non è mai facile incontrarsi, non per loro due. Ci riescono una volta al mese, un paio al massimo quando va bene. Ogni volta devono chiudersi alle spalle la porta di una stanza d'albergo, prima che possano guardarsi come desiderano, prima che ogni abbraccio conquisti la libertà di realizzarsi.
Sono tanti quelli che comprimono l'amore nel letto di un hotel, o nella fretta clandestina di un messaggio sul cellulare."
Poi, però, il colpo di scena, inatteso anche per me: e quello che speravo fosse il racconto di un amore epistolare, seppure in forma digitale, assume un'altra connotazione.
Speravo, forse ingannato anche dal titolo, che il romanzo affrontasse temi legati alla solidità di un rapporto 'virtuale', alle complicazioni che ne derivano, al rischio di perdere contatto con la realtà, di lasciarsi trasportare da emozioni sicuramente intense ma illusorie, ingannevoli.
Invece nulla di tutto ciò, quel colpo di scena ha frantumato in un secondo tutte le mie migliori aspettative su questo romanzo.
E, forse per questo senso di delusione, ho trovato la seconda parte del romanzo noiosa, stucchevolmente adolescenziale e persino poco realistica, anche per quelli della generazione 2.0
Vi dirò di più: prima della lettura del romanzo ero certo di voler vedere il film, essendoci Jeremy Irons come protagonista nei panni del professore Phoerum, attore che considero molto bravo e perfetto nelle interpretazioni di storie tormentate, complesse, amori illeciti ma vissuti intensamente (si pensi per esempio a Il danno, Lolita, Casanova, tanto per citarne alcuni).
Ora però devo ricredermi: se il libro è tratto dal film e ne ricalca fedelmente la storia, come precisato dal regista, preferirei quasi la corrispondenza 1.0 di Maria De Filippi in C'è posta per te.
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9 sfumature di donna
9 libri rilegati insieme da uno stesso filo conduttore, l'animo femminile, che l'autrice delinea con la sua penna conferendo ad esso il contorno delle sue donne, della loro personalità forte e desiderosa di libertà, di passione, di un amore che travolge e riempie in un attimo una mente ed un cuore intorpiditi dalla pacata ripetitività della vita.
Trovo riduttivo definirli 9 racconti, perchè pur nella loro brevità condensano una tale ricchezza narrativa ed una profondità nella caratterizzazione della donna, quasi uno svisceramento introspettivo, che il lettore ne risulta abbondantemente appagato. E' come se l'autrice avesse convogliato tutta la sua energia, la sua potenza descrittiva in 9 piccoli universi, 9 dimensioni che si muovono avanti e indietro nel tempo con salti che non creano disorientamento al lettore perchè tutto ruota intorno ad un punto ben preciso, una donna, che finisce per diventare essa stessa l'universo, il centro di tutto, è contemporaneamente causa ed effetto, il suo stato d'animo riflette e determina le sue azioni, le sue scelte, una donna che non si piega al destino ma è lei che lo forgia.
9 storie, 9 vite, come quelle dei gatti verrebbe da dire, perchè è lo stesso esemplare di donna che scompare alla fine di un racconto e si ripresenta in quello successivo, come se risorgesse nei personaggi protagonisti delle singole storie.
Ecco così Johanna, nel primo racconto che dà il titolo al libro, vittima dello scherzo crudele di due ragazzine, che riesce comunque a coronare il suo sogno/bisogno di amore;
e Jinny, ne 'Il ponte galleggiante', vittima del crudele destino che la condanna nel pieno della giovinezza ad una convivenza forzata con un tumore maligno, ma non rifiuta il bacio improvviso, delicato e disinvolto di un ragazzo conosciuto quasi per caso, che con la sua innocente spregiudicatezza - "non aveva mai baciato una donna sposata" - le restituisce una "specie di leggerezza indulgente, quasi una voglia di ridere. Un fremito di affettuosa ilarità, che ebbe la meglio su tutto il dolore ed il senso di vuoto".
Oppure Nina, che in "Conforto" trova rifugio e fuga dalla personalità autoritaria ed intransigente del marito, nell'amico-amante Ed, anche lui sposato: ma il loro rapporto trae forza proprio dai rispettivi matrimoni, "dipendeva dai matrimoni, ne ricavava dolcezza, la promessa di un conforto. Era improbabile che si trattasse di qualcosa di autonomo, anche se entrambi fossero stati liberi. Un amore che non rischia niente, ma che si mantiene vivo come una goccia di miele, una risorsa sotterranea."
Infine Meriel, in 'Quello che si ricorda', sposata con Pierre, due bambini ed una vita ordinaria in cui persino il funerale di un amico di famiglia diventa un'occasione di evasione, senza nessuna pretesa in particolare, semplicemente un evento che interrompe la quotidianità; e ciò che accade inaspettatamente a Meriel dopo quel funerale non può che rimanere un ricordo, un ricordo indelebile certo, ma a cui Meriel non avrebbe mai permesso di sfociare oltre nella sua esistenza, di pregiudicare in modo permanente l'equilibrio statico della sua vita; ricorderà per sempre le parole di quell'uomo, i suoi gesti premeditati, il senso di totale abbandono, di folle desiderio che invase il suo corpo, ma rimarrà tutto conservato nella sua mente:
"Portami da un'altra parte", - disse.
Lui la guardò dritta negli occhi. Disse: -Sì.
Sul marciapiede, davanti a tutti. A baciarsi come matti.
"Portami", aveva detto così. "Portami da un'altra parte", e non "Andiamo da un'altra parte". Questo è importante per lei. Il rischio, il trasferimento di potere. Rischio assoluto e totale trasferimento di potere. 'Andiamo' avrebbe contenuto il rischio ma non l'abdicazione che per lei - ogni volta che riviveva quel momento - coincideva con l'inizio della fase erotica.
E "Quello che si ricorda" rimarrà anche per me il migliore tra questi nove modi di raccontare una donna, tra queste nove sfumature di donna: la più audace forse, la più istintiva e passionale, quella appunto che non si scorda mai.
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La Conoscenza è potere
Soho, anni '70. In questo quartiere di Londra che sembra l'anticamera del secondo cerchio dantesco, quello dei lussuriosi, si respira sesso e depravazione ad ogni angolo di strada.
Cinema a luci rosse, riviste porno in bella mostra, peep show, locali di strip tease aperti ad ogni ora del giorno e della notte, prostitute per tutti i gusti e tutte le esigenze.. insomma, un vero paese dei balocchi per gli uomini della Londra perbene e non, che giungono qui per soddisfare il loro desiderio di sesso senza inibizioni e complicazioni di sorta, in un'epoca in cui il permissivismo regna sovrano ed i divieti imposti dalla legge sono solo formali, un'epoca in cui la polizia corrotta sino al midollo protegge ed alimenta il mercato del sesso e la parola aids non significa nulla non essendosi ancora trasformata nella principale causa di declino di quel florido commercio.
Questo è il mondo in cui vive Duffy e, per carità, nessuno pensi che gli dispiaccia o che non si senta a suo agio. Questo è il suo habitat naturale, anche perchè - meglio precisare sin da subito - a Duffy piace sia la carne sia il pesce, come si suol dire, 'piace fare sia da spina che da presa. E non aveva bisogno di un trasformatore'; ed il quartiere di Soho è sicuramente l'unico in tutta Londra con la più ampia vetrina di esposizione adatta alle sue particolari esigenze.
La bisessualità di Duffy si riflette anche nella sua personalità, Duffy è uno che cerca sempre il miglior compromesso, tra bianco e nero lui sceglie grigio, tra bene e male sceglie il suo interesse e si schiera di conseguenza.
Non che non abbia mai tentato una presa di posizione nella sua vita: ha provato con Carol, la sua donna, ma l'entusiasmo iniziale si è spento, o dovrei dire afflosciato, ben presto. E' stato anche un poliziotto, tra i più validi persino, tanto da infastidire un pò troppo le persone sbagliate e qualcuno decide di incastrarlo.
E' costretto ad abbandonare il corpo della polizia perchè scoperto dai suo colleghi a letto con un corpo meno 'prestigioso', ossia quello di un ragazzone di colore dalle sembianze di un ragazzino, scelto con cura dalla persona a cui Duffy ha pestato i piedi per poterlo così allontanare definitivamente dalla piazza con l'accusa più infamante per un poliziotto, quella di essere gay e per giunta pedofilo.
Da allora Duffy sbarca il lunario (perdonate codesto gergo tipicamente poliziesco ma questo libro s'insinua sin nelle budella) come esperto di sistemi di sicurezza e, all'occasione, detective privato; e l'occasione giusta per rimpinguare il suo portafoglio gli si presenta quando il signor McKechnie, un rispettabile imprenditore che commercia in maschere di carnevale e giocattoli vari, torna a casa dal lavoro e trova la rispettabile moglie imbavagliata e tagliuzzata delicatamente lungo la spalla e, per giunta, il rispettabile gatto di casa infilzato con lo spiedino del girarrosto a mò di kebab; alquanto spaventato, McKechnie ritiene saggiamente che tutto ciò non sia una ripicca di gelosia della sua rispettabile amante-segretaria e decide di rivolgersi al nostro Duffy, considerato lo scarso interesse della polizia locale al suo caso.
E il resto? Il resto si sviluppa tra le pagine di questo romanzo dando vita ad una storia 'sporca', nera, ma condita dal tipico umorismo britannico che alleggerisce i toni cupi privilegiando ad esempio i dialoghi spassosissimi e ben costruiti tra Duffy ed il suo antagonista, Big (pur essendo magrolino) Eddy Martoff, il boss emergente del quartiere, tanto spregiudicato e violento nelle sue azioni quanto impeccabilmente british nella parlantina; oppure deliziando il lettore con uno stralcio esilarante dei locali peccaminosi che pullulano tra le strade di Soho, cinema a luci rosse in cui si proiettano film con un sonoro talmente scadente che l'orgasmo della donna può benissimo confondersi col verso di una papera, senza ovviamente tralasciare una parodistica descrizione dei loro frequentatori, delle loro abitudini e di come fosse evidente, dallo sguardo sempre basso e dall'incedere, la paura e l'imbarazzo di essere scoperti in flagrante mentre entrano in quei locali.
Non mancano quindi gli elementi tipici del genere hard-boiled, sesso, violenza, ma con moderazione, nella giusta misura, quasi in ossequio ad un puritanesimo ormai dissolto nel libertinaggio dilagante di quei tempi. Si avverte invece in modo più distinto lo sdegno verso la corruzione e lo squallore sociale che ne deriva di conseguenza, con criminali e poliziotti avvolti in una spirale di ricatti e favori reciproci.
Un finale forse troppo frettoloso ma la scrittura fluida e diretta dell'autore celano questa lacuna.
Ecco, l'autore: Dan Kavanagh è lo pseudonimo di Julian Barnes, scrittore inglese di romanzi di successo ma di tutt'altro genere: Duffy è quasi un gioco, una follia forse, un libro che non avrebbe mai potuto scrivere col suo vero nome, perchè poco consono al suo stile.. si sa come sono gli inglesi, il decoro e la dignità prima di tutto.
Dieci e lode per la copertina 'vintage' ma elegante, con un'illustrazione di Jacono che riporta alla mente i gialli di un'epoca ormai lontana.
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Le imperfezioni permanenti..
A volte, leggendo certi romanzi e tenendo conto dell'enorme successo che hanno riscontrato, rifletto: 'forse sono ancora in tempo per dare una svolta alla mia vita, prendo spunto da una delle tante vicende di cronaca recenti, la scomparsa misteriosa ed insoluta di ragazze adolescenti, aggiungo qualche elemento nuovo generato dalla mia fervida fantasia, una spruzzatina di sesso qua e là, neanche troppo spinto, un pò di autocritica che non fa mai male, costruendo un'immagine di me tra l'idiota, con l'aria da intelligente, ed il figo con la tendenza alla sfiga.. giusto così per confondere le idee e coprire l'intero ventaglio dei gusti in fatto di uomini delle mie future lettrici.. ed il gioco è fatto.
Da domani sono anche io un grande scrittore...'
Forse Carofiglio gode del successo e dei premi ricevuti per i romanzi pubblicati precedentemente, è un bell'uomo, fascinoso, di grande prestigio, magistrato, ma basta tutto ciò per fare di un libro un capolavoro, come molti hanno giudicato 'Le perfezioni provvisorie'?
Personalmente ho notato una mediocrità imperante e costante in tutto il libro, sia per la trama, scontata, prevedibile, da fiction televisiva, sia per lo stile di scrittura, arido, monocorde.
Mi chiedo: uno scrittore di tal calibro può iniziare un libro con 'Tutto cominciò...' ???
quando l'ho letto ho dovuto fare uno sforzo notevole per proseguire oltre, avrei fatto meglio a lasciar perdere subito... ci mancava solo che terminasse con '.. e vissero felici e contenti.'
Tempo fa avevo letto un altro romanzo di Carofiglio, 'Nè qui, nè altrove. Una notte a Bari'; non mi era dispiaciuto, certo non un capolavoro, ma i personaggi erano caratterizzati con più cura, con maggiore profondità; e poi c'era sullo sfondo Bari, la città dove ho vissuto gli anni più intensi della mia vita,
quelli degli studi universitari, e quindi ritrovare tra le pagine del libro luoghi ed immagini del capoluogo pugliese ha sicuramente contribuito a farmi apprezzare quel romanzo.
Ed è forse questo il motivo che mi ha indotto a leggere 'Le perfezioni provvisorie' ma ne sono rimasto deluso anche da questo punto di vista perchè la città barese qui fa solo da sfondo, peraltro descritto in modo superficiale e sciatto; e nella città di Bari non mancano certo angoli, quartieri, locali più o meno conosciuti che sarebbero stati ben adatti per fare da cornice ad un vero romanzo dalle tinte noir, senza nulla da invidiare per esempio alla Marsiglia di Izzo.. ma, ahimè, Carofiglio non è Izzo.
E poi, ma questa è una sensazione del tutto soggettiva, ho avvertito un'antipatia 'a pelle' verso l'autore: sarà forse per le innumerevoli citazioni, spesso 'gratuite', che dissemina un pò ovunque, non so, ma se è vero che i libri riflettono l'anima dell'autore, questa è assolutamente insopportabile.
Vi pare plausibile che, seduto sul letto in una camera d'albergo e sottoposto alle avances esplicite e disinibite di una ventenne tentatrice, il protagonista, quarantenne avvocato Guerrieri, cosa pensa prima di cadere nel vortice del peccato?
'Prima di sparire sentii risuonarmi nella testa dei versi:
Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?'
Ma mi faccia il piacere, Carofiglio!!!
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Cosa siamo se non la somma dei nostri ricordi?
In un film diventato ormai un cult del genere horror, Nightmare di Wes Craven, l'elemento che forse angoscia e terrorizza più del famigerato protagonista Freddy Kruger non è la ferocia con cui egli uccide le sue vittime nè l'aspetto macabro del suo volto deturpato dal fuoco: bensì è la consapevolezza che tale mostro si materializzi nel sonno delle sue vittime ad inquietare e creare tensione nello spettatore, l'idea cioè che il sonno, ossia un momento di riposo ed incosciente serenità, possa trasformarsi in un incubo per giunta mortale e senza via di scampo per l'ignaro dormiente.
Unica via di salvezza: non addormentarsi. Ovviamente impossibile. E questo amplifica l'ansia, lo sgomento.
Adesso immaginate che il sonno sia foriero non di un mostro seriale con artigli di ferro al posto delle dita che potrebbe lasciare del tutto indifferente (se non addirittura divertire) coloro tra noi con i piedi ben saldi per terra, quelli insomma che anche da piccoli prima di andare a letto non mettevano a soqquadro la cameretta per esser certi che l'uomo nero non fosse nascosto in qualche angolo buio o peggio ancora sotto il letto...
Immaginate piuttosto che il sonno possa annullare la vostra memoria, resettarla completamente, lasciando solo alcune immagini sparse, nebbiose, che vagano nella vostra mente come spiriti al vento, senza ancorarsi, senza punti fermi e quindi sfuggono con la stessa rapidità con cui si presentano.
Immaginate quindi Christine, una donna di 50 anni circa, che ogni mattina appena sveglia si ritrova in un corpo che non ricorda essere il suo, con accanto un uomo perfettamente sconosciuto in un letto, in una casa che non ha mai visto.
Ogni mattina il suo risveglio diventa un incubo, reale e spaventoso più di qualsiasi mostro che la fantasia possa inventare... e lo stesso incubo si ripete metodicamente ogni giorno perchè il sonno le annulla il ricordo del giorno prima.
E poco servono le foto attaccate sullo specchio del bagno che la ritraggono con un uomo, lo stesso che dorme nel suo letto e che afferma di essere suo marito Ben; a poco servono le telefonate quotidiane del suo medico, il dottor Nash, che ha seguito il suo caso e le ha consigliato di annotare su un diario tutto ciò che pensa e vive ogni giorno, in modo che rileggendolo Christine possa riavvicinarsi più velocemente al suo mondo, alla realtà che la circonda: purtroppo tutto ciò di cui acquisisce consapevolezza ha la durata di un giorno, la sua memoria funziona e mantiene stabili i ricordi fintanto che lei rimane sveglia.
"Un altro giorno stava per finire. Presto mi sarei addormentata, e il mio cervello avrebbe cominciato a cancellare ogni cosa. E domani dovrò affrontare tutto daccapo. Mi sono resa conto di non avere ambizioni. Non posso averne. Tutto ciò che voglio è essere normale. Vivere come chiunque altro, accumulando esperienze, una vita in cui ogni giornata dà forma alla successiva. Voglio crescere, imparare cose, farne tesoro. Lì, in bagno, ho pensato alla mia vecchiaia. Ho cercato di immaginare come sarà. Continuerò a svegliarmi, a settanta, ottant'anni, pensando di essere all'inizio della mia esistenza? Aprirò gli occhi senza sapere che le mie ossa sono vecchie, le mie articolazioni rigide e pesanti? Non riesco ad immaginare come potrò reagire quando scoprirò che la mia vita appartiene al passato, che è già accaduta senza che io abbia nulla per dimostrare di averla vissuta. Nessuna miniera di ricordi, nessun patrimonio di esperienze, nessun accumulo di saggezza da trasmettere. E cosa siamo noi esseri umani, se non la somma dei nostri ricordi?"
Quel diario rimane per Christine l'unico modo in suo possesso per recuperare poco alla volta i brandelli della sua vita passata e costruire pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, la sua vita futura. Ma non basta, perchè quello che Christine scopre progressivamente e trascrive sul suo diario sono piccoli pezzi di un puzzle che lei non riesce ad incastrare completamente nel reticolo della sua mente in quanto avverte forte la sensazione che non le appartengano, che non siano pezzi della sua vita.
E poi non può fidarsi di nessuno, neanche dell'uomo che dice di essere suo marito o dello stesso dottor Nash. Perchè le nascondono alcuni episodi della sua vita? Perchè non le raccontano la verità su chi fosse Christine, sulla sua maternità, sul figlio Adam e soprattutto su quel giorno? Il giorno in cui tutto è iniziato.
E se fosse la sua mente a creare una realtà alternativa? Se in assenza di ricordi stabili la sua mente iniziasse a crearne alcuni alimentati esclusivamente dalla sua fantasia perchè mai realmente vissuti? In tal caso, anche il suo diario sarebbe la trascrizione delle sue fantasticherie e non della realtà.
Con queste premesse è facile intuire che il romanzo di S.J. Watson abbia tutte le carte in regola per magnetizzare l'attenzione e la curiosità del lettore sin dalle prime pagine; il ritmo aumenta progressivamente di pari passo con le quotidiane rivelazioni che la memoria di Christine le concede e che saranno sempre più sconcertanti sino all'epilogo finale.
Un finale che non posso certo definire inatteso ma la sua prevedibilità non è così scontata, nel senso che l'autore riesce a mascherarla tramite dialoghi e situazioni che possono fuorviare il lettore inducendolo ad ipotesi alternative sulla possibile conclusione.
Si avverte in alcuni passaggi la mancanza di esperienza, di maturità letteraria di un autore al suo romanzo di esordio, ma S.J. Watson riesce comunque a dosare sapientemente la carica emotiva tanto che neppure i frequenti 'riassunti' degli episodi cruciali della vita di Christine, per lei sempre 'nuovi' a causa della sua amnesia ma ovviamente noti al lettore perchè esposti più volte durante il prosieguo della trama, non risultano noiosi riuscendo l'autore a descriverli in modo sempre diverso e riducendo così la sensazione di ripetitività.
In definitiva, è il caso di dire che questo romanzo manterrà fede al titolo e di sicuro non vi farà addormentare durante la sua lettura.
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Il mondo da una grata
"Come sei stupida! Pensi di contare qualcosa per lui, di essere gradita in casa sua? Pensi che ti consideri una figlia? Che ti accoglierà in famiglia? Ascolta bene. Il cuore dell'uomo è spregevole, spregevole, Mariam. Non è come il ventre di una madre. Non sanguinerà, non si dilaterà pre farti posto. Solo io ti voglio bene. Non hai altri che me al mondo, Mariam, e quando io non ci sarò più, tu non avrai più niente. Più niente. Tu non sei niente!"
Chi pronuncia queste parole è Nana, madre di Mariam: entrambe vivono in una kolba, una casa di campagna potremmo definirla, alla periferia di Herat in Afghanistan, gentilmente concessa loro da Jalil, il padre di Mariam, uomo ricco e potente, uno dei più influenti nella città di Herat e che proprio per tale motivo deve nascondere agli occhi degli altri i suoi peccati, la sua colpa, il disonorevole frutto del suo rapporto carnale con una serva, la sua serva Nana.
Così Mariam sin da piccola cresce con la consapevolezza di essere una harami, una figlia illegittima, uno sbaglio, una nullità, "Tu sei niente" le ripete continuamente la madre.
Ma Mariam è una ragazzina e lei vede il mondo con gli occhi ingenui della sua età, il suo cuore è ancora intatto, non conosce odio, vendetta, ipocrisia, è solo un ricettacolo di amore e speranza.
E svaniscono alle orecchie di Mariam le dure parole della madre quando ogni giovedì vede il padre Jalil che la raggiunge alla kolba per trascorrere con lei qualche ora del suo tempo, giocano insieme, ridono, parlano e a Mariam sono sufficienti quelle poche ore di felicità per convincersi che il mondo non sia così ostile come lo descrive Nana.
Forse ha ragione suo padre, Nana è malata, è stata colpita da uno jinn, uno spirito maligno, per questo dice tutte quelle cattiverie, per questo c'è tanto risentimento nel suo cuore.
Un giorno però Mariam, spinta dal desiderio troppe volte represso di conoscere il resto della sua famiglia, i fratelli e le sorelle nate del matrimonio di Jalil con altre tre mogli, decide di superare i confini della kolba, guadare il torrente per giungere così a Herat, una città tanto vicina alla kolba quanto sconosciuta ai suoi occhi, spingendosi sino alla casa del padre Jalil: una casa enorme, favolosa, come mai avrebbe neanche potuto immaginare, ma con un portone chiuso, chiuso su ordine del padre che lei intravede dietro la tenda di una finestra mentre cerca di nascondersi dal suo sguardo implorevole, che chiede solo di entrare per salutarlo e conoscere la sua famiglia.
Solo in quel preciso momento, Mariam capisce: capisce che quella non è la sua famiglia, che la madre aveva ragione, ha sempre avuto ragione, lei è una nullità, è niente agli occhi del mondo.
E questa dolorosa constatazione si palesa nella vita di Mariam con un impatto devastante come quello di un meteorite, sgretolando in una reazione a catena tutti i suoi sogni, le sue ambizioni per il futuro: avrebbe voluto proseguire gli studi, frequentare una scuola e poi viaggiare, esplorare il mondo intero, quanti luoghi avrebbe voluto visitare.
Invece, tornata a casa, trova la madre appesa ad un albero e ne subisce i sensi di colpa per averla indotta al suicidio col suo comportamento ostile e ribelle; poco dopo, neanche quindicenne, viene data in moglie ad un calzolaio di Kabul, Rashid, un uomo irascibile, violento, ai cui occhi una donna è un essere indegno di qualsiasi forma di rispetto, un corpo su cui soddisfare i propri istinti sessuali, un corpo da preservare dagli sguardi altrui non perchè prezioso bensì perchè proprietà esclusiva del marito, un corpo che deve dedicarsi esclusivamente alle faccende domestiche e alla preghiera.. un corpo che perde valore e merita di essere sostituito non appena si scopre incapace di generare un erede maschio o non appena diventa 'vecchio' e ci sia un corpo più giovane da sposare, come quello di Laila.
Laila, scampata miracolosamente all'esplosione di un razzo che ha distrutto la sua casa a Kabul, uccidendo i suoi genitori, si ritrova sola e gravemente ferita dopo essere stata estratta dalle macerie proprio da Rashid che la porta a casa sua per curarla; ma non c'è compassione ed altruismo nel suo atto, non c'è amore, solo un crudele opportunismo e viscido cinismo. Rashid gode nell'umiliare Mariam dinanzi alla giovane e bella Laila:
"Se fosse una macchina, sarebbe una Volga. Tu invece sei una Mercedes. Una Mercedes nuova di zecca."
E' sconcertante la violenza psicologica e fisica che Mariam prima e Laila dopo saranno costrette a subire; tanto più sconcertante se si pensa che le vicende narrate nel romanzo non sono reali solo perchè fanno riferimento a personaggi inventati, ma potrebbero esserlo in quanto riflettono esattamente quella che è la condizione della donna nella società afghana.
E da uomo provo vergogna e sdegno: la violenza sulla donna è un atto deprecabile a priori, come qualsiasi atto di violenza, indipendentemente dalla società o religione di appartenenza.
Ma quello che trovo assurdo è che questa violenza venga tutelata e quasi imposta come diritto dell'uomo attraverso leggi e regole dettate in nome di un dio che invece dovrebbe esaltare la vita ed il rispetto della vita.
E' assurdo che non un uomo, due, tre, ma un intero popolo, una società di persone nel secondo millennio siano testimoni passivi di una tale ingiustizia basata su una follia di fondo, su un inconcepibile diritto di supremazia dell'uomo ed annullamento della donna che trova un paragone solo nello sterminio degli ebrei da parte del regime nazista, anch'esso alimentato da una folle pretesa, la purezza genetica.
"Imparalo adesso ed imparalo bene, figlia mia. Come l'ago della bussola segna il nord, così il dito accusatore dell'uomo trova sempre una donna cui dare la colpa. Sempre. Ricordalo, Mariam."
E in tutto ciò c'è solo da ammirare la forza di sopportazione, la strenua resistenza delle donne che subiscono un tale sopruso, la negazione assoluta della propria libertà personale e dignità umana e nonostante tutto non voltano mai le spalle alla vita, non cedono alla disperazione anche quando la guerra, i bombardamenti, la fame rendono ancora più buia e precaria la loro esistenza.
Se mi capitasse di incontrare per strada una donna col burqa non potrò fare a meno di pensare a Mariam e Laila e alle migliaia di donne afgane costrette a spiare il mondo da quella grata senza mai alzare lo sguardo; ma a cui nessun burqa, nessun uomo, nessun assurdo precetto religioso potrà mai nascondere la luce di quei mille splendidi soli che accendono una speranza nel futuro, che rendono la vita degna di esser vissuta.
Un romanzo bellissimo, una lettura che consiglio vivamente: anche per l'ottimismo, il messaggio di speranza che lo stesso titolo trasmette e che fa bene a chi legge.
Per questo motivo preferisco non associare a tale messaggio un'implicazione politica, preferisco non accostare tale ottimismo alla fine del potere talebano dopo l'arrivo delle Nazioni Unite in Afghanistan, una conseguenza facilmente ipotizzabile essendo l'autore uno scrittore statunitense di origini afgane, inviato in Afghanistan dell'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Forse questo romanzo avrebbe avuto un epilogo diverso se a scriverlo fosse stato un afgano non trapiantato in USA, forse alcune considerazioni sulla guerra e sulle cause che l'hanno determinata sarebbero state esposte in modo diverso; ma non importa perchè non è la guerra la protagonista di questo romanzo: è la donna.
"Una volta Nana le aveva detto che ogni fiocco di neve era il sospiro di una donna infelice da qualche parte del mondo. Che tutti i sospiri si elevavano al cielo, si raccoglievano a formare le nubi e poi si spezzavano in minuscoli frantumi, cadendo silenziosamente sulla gente. "A ricordo di come soffrono le donne come noi" aveva detto. "Di come sopportiamo in silenzio tutto ciò che ci cade addosso".
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Esser morti è ritrovarsi circondati dal silenzio.
Non ce l'ha fatta Henning Mankell... alla fine le sabbie mobili l'hanno ingurgitato.
Non c'è stata quella mano salvifica scesa dal cielo a cui lui abbia potuto aggrapparsi prima di essere inghiottito dalla sabbia, prima di soccombere nelle tenebre.
E' morto Henning Mankell pochi giorni dopo la pubblicazione in Italia di questo suo ultimo libro, una sorta di testamento spirituale, iniziato quando le sabbie mobili - un cancro ai polmoni e alla nuca - non lo avevano ancora avvolto del tutto, quando ancora la speranza di divincolarsi da quella presa mortale non si era dissolta.
Una lotta iniziata diversi anni prima, sin dal 2014, anno in cui lo scrittore aveva annunciato al mondo quanto gli era stato diagnosticato.
"L'arte di sopravvivere" è il sottotitolo del libro, sopravvivere alla morte che si annuncia, si presenta inaspettatamente alla porta di casa e ne diventa un nuovo inquilino, un compagno asfissiante, angoscioso per la sua costante presenza, giorno, notte, in qualsiasi momento lei è sempre lì, che attende.
Mankell raccoglie nel suo libro i pensieri, le riflessioni che gli hanno invaso la mente in questo tragico periodo della sua vita.
Riflessioni di ogni tipo, sul presente e sul futuro, sull'ambiente, su Dio, sulla donna amata, sulla musica, sui libri, su tutto ciò che lo aiutasse a non pensare a quel compagno indesiderato, odiato per la prepotenza con cui si è imposto nella sua vita.
Riflessioni alternate a ricordi anche lontani della sua adolescenza, dei suoi numerosi viaggi in giro per il mondo, in Africa soprattutto, un continente così diverso dalla sua terra natìa, la Svezia, ma che ha imparato a conoscere ed amare come se fosse la sua terra; ed è sufficiente leggere i romanzi del ciclo 'africano' per rendersene conto, per ultimo 'L'occhio del leopardo'.
Seppure nella loro eterogeneità c'è un filo conduttore che accomuna questi pensieri: è la paura della morte, celata, solo poche volte ammessa, ma si avverte, è palpabile in ogni parola; anche in quelle pagine in cui l'autore racconta i primi mesi della sua malattia e la speranza che le terapie avessero successo, s'avverte comunque la sensazione che quella speranza sia vana, che l'uomo abbia già coscienza dell'inesorabilità del suo destino.
E percepisco tanta paura di morire anche nell'insistenza e nella ripetitività con cui in più punti del libro l'autore rimarca lo stesso concetto, ossia l'assurdità del progetto approvato dal governo svedese di scavare una 'tomba' di rame nel cuore di una montagna in cui depositare le scorie radioattive prodotte dalla nazione e che impiegheranno circa centomila anni per perdere il loro effetto nocivo.
Inizialmente ho immaginato che l'autore volesse in tal modo associare la sua malattia (così come la maggiore incidenza dei casi di cancro negli ultimi decenni) al problema delle scorie radioattive in Svezia, nazione che da tempo fa dell'energia nucleare una delle sue principali fonti di energia; ora, invece, credo che l'esigenza di riproporre quel concetto sia sempre determinato dalla necessità da parte dell'autore di distogliere il suo pensiero dalle sabbie mobili, di aggrapparsi a qualsiasi cosa gli consenta di sollevarsi, anche se di pochi millimetri, dal baratro.
Ed ecco così che il problema delle scorie radioattive sfocia, per esempio, nelle varie ipotesi su come comunicare all'uomo di un futuro tanto lontano ciò che nasconde quella montagna, in quale lingua esprimersi? esiste un simbolo o un'immagine o addirittura un suono che sia interpretabile anche tra centomila anni? o è forse meglio tacere, nascondere il segreto e sperare che nessuno apra quel 'sarcofago' prima che l'effetto radioattivo sia svanito del tutto? è forse meglio in questo caso sperare nell'oblio da parte delle generazioni future di ciò che l'uomo sta nascondendo ora nella montagna?
Sarà per questo, immagino, che ho avvertito un profondo senso di compassione leggendo queste pagine, compassione verso un uomo che cerca disperatamente di non soccombere, dignitosamente cerca di resistere al pensiero della morte imminente evitando di cadere nelle tenebre prima ancora che il momento sia giunto, è Davide che lotta contro Golia ma questa volta nessun dio sarà dalla parte del più debole.
E premesso ciò, capirete benissimo quanto non sia semplice esprimere un giudizio su quest'opera: perchè occorre entrare in sintonia con l'autore, occorre immedesimarsi con lui, sentire il suo stato d'animo per diventare partecipe dei suoi pensieri ed ascoltarli in silenzio, come farebbe un buon amico seduto accanto al suo letto in ospedale.
Mankell ha scritto numerosi romanzi che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, in Svezia è secondo solo a Stieg Larsson e alla sua fortunata trilogia Millennium; forse quest'ultimo suo romanzo passerà inosservato per molti, soprattutto in Italia. Ma non per me.
In 'Sabbie Mobili' non c'è il commissario Kurt Wallander, con le sue indagini poliziesche; non c'è il fascino del continente africano.. c'è un uomo solo che gioca la sua ultima partita a scacchi con la morte, trascinando lentamente le sue pedine sulla scacchiera, meditando ogni mossa al fine di proteggere il suo re dallo scacco definitivo.
E forse sarà un caso che questo libro mi sia capitato tra le mani proprio ora, ora che anche mia madre è in ospedale in attesa di capire, di sapere.
Perchè una cosa è certa: le sabbie mobili attirano nel loro vortice di dolore anche chi vorrebbe aiutare, incoraggiare, offrire quella mano che non arriva dal cielo.. ma nulla si può contro quella forza che tira giù, nulla se non ascoltare in silenzio.
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Inspirare.. Espirare..
Ed eccomi giunto finalmente alla conclusione del mio personale percorso di evoluzione psicologica, supportato dalle opere di Giacobbe, verso l'apice della piramide della personalità umana che passa dalla forma di 'bambino' a quella di 'adulto' per poi concludersi normalmente nella fase del 'genitore', che precede lo stadio finale di tutto il percorso; non mi soffermo sulla caratterizzazione di questi singoli aspetti della psiche umana perchè già trattati nella precedente opera di Giacobbe 'Alla ricerca delle coccole perdute' (a cui vi rimando per eventuali approfondimenti anzi, meglio, vi rimando al mio illuminante commento - come avrete notato la modestia non è una peculiarità di un Buddha junior quale mi ritengo).
Preferisco invece concentrarmi sulla più completa forma di evoluzione che la personalità umana può raggiungere, l'unica in grado di garantire un perfetto equilibrio interiore in costante armonia con il mondo esterno, ossia la personalità del Buddha.
E attenzione, non siate scettici e non abbiate pregiudizi: il primo punto da tener presente è che ognuno di noi può diventare un Buddha, non è un ruolo riservato a pochi eletti, non bisogna avere poteri speciali e, lasciatemi dire, mi sembra almeno in teoria più semplice che diventare santi (è risaputo infatti che la santità spesso viene concessa ai più raccomandati e non ai più meritevoli.. maledetta burocrazia).
E soprattutto non crediate che sia una possibilità consentita solo ad un uomo, assolutamente no: anche una donna può diventarlo, con l'unica accortezza che non sarà detta 'Buddhana' per evitare una palese sovrapposizione di significati, ma più soavemente 'illuminata'.
Ma allora, direte voi, perchè se ci guardiamo intorno troviamo le più variegate forme di esemplari umani ma nemmeno un Buddha o un'illuminata?
Semplice: perchè molti, come me sino a qualche settimana fa, pensano che diventare un Buddha non rientri nelle priorità verso cui indirizzare parte, anche minima, del proprio tempo; io stesso non avrei mai preso tra le mani codesto libro di Giacobbe se non mi fosse stato regalato da una mia collega 'illuminata', anzi di più, 'folgorata' direi.
E soprattutto perchè la buddhità è certamente e potenzialmente aperta a tutti ma non tutti sono maturi e psicologicamente pronti per evolvere verso tale stato mentale.
E qui entra in gioco Giacobbe che con questo suo vademecum condensa in poco più di 100 pagine i fondamenti del pensiero buddhista, milioni e milioni di parole trascritte su libri di ogni epoca e qui riassunte in pochi concetti basilari e soprattutto tradotti in esercizi 'pratici' da completare nel corso di 5 settimane.
Insomma, una sorta di Buddha for Dummies, perchè come giustamente asserisce Giacobbe una teoria che rimane tale e non si concretizza praticamente quale utilità e beneficio può portare all'uomo? Nessuno.
Praticando invece con costanza alcuni esercizi, riusciremo a plasmare la nostra personalità avvicinandola a quella di un Buddha e questo si traduce in un grande beneficio: eliminazione dello stress e di ogni forma di nevrosi (mi sento in dovere di avvisare le lettrici interessate allo stato di 'illuminata' che il raggiungimento di una maggiore serenità interiore può avere come controindicazione un rilassamento della nevrosi da fisico longilineo con conseguente aumento del peso corporeo e della taglia dei vestiti; ecco perchè i veri Buddha vanno in giro con tuniche abbastanza larghe).
Ma allora, arrivati a questo punto, non siete curiosi di sapere in cosa consistono questi esercizi da praticare con cadenza settimanale? Ve ne svelo solo un paio, poi tocca a voi decidere se proseguire o meno il percorso di trasformazione.
Il primo esercizio è molto semplice: il controllo del respiro, "dovete imparare ad osservare e a calmare il vostro respiro, il vostro corpo e le vostre emozioni".
Inspirare ed espirare, lentamente e spesso, più volte durante il giorno e soprattutto nei momenti di maggiore pressione psicologica. E di sicuro vi capiteranno momenti del genere: giusto stamane in metropolitana una signora poco illuminata mi ha aggredito verbalmente per averle 'quasi' pestato un piede, sbraitando ai quattro venti che la mia scarpa si è avvicinata in modo preoccupante al suo piede, già compresso in un tacco 12cm.
Inspiro, espiro, inspiro, espiro. Faccio notare alla signora che non è facile mantenere l'equilibrio se il conducente della vettura soffre di un tic nervoso esercitato sul pedale del freno e che comunque, nonostante ciò, il suo piede è ancora intatto nel suo contenitore.
Ma la signora, indispettita forse per la calma con cui le ho risposto e per il sorriso bonario che ho costruito sul mio viso per l'occasione, ha rincarato la dose coinvolgendo persino gli altri vicini di vettura come testimoni del pestaggio del piede che non c'è stato ma poteva esserci.
Ed io? Cosa ho fatto secondo voi? Inspiro, espiro, inspiro, espiro.. e dopo pochi secondi sono sceso alla mia fermata mentre la signora che ancora inveiva nei miei confronti è stata travolta dalla gente in uscita dalla vettura, con gomitate a destra e a manca. Il suo piede però non ha subito traumi. Buddha è anche giusto.
Secondo esercizio: ecco, ora la difficoltà aumenta, "Osservate con distacco i vostri pensieri come osservate con distacco il volo lontano degli uccelli nella pace della sera".
"Quando nasce un pensiero, piacevole o spiacevole, non fatevene intrappolare e non diventatene schiavi. Osservatelo con distacco e lasciatelo andare: esso non crescerà dentro di voi e non produrrà il frutto avvelenato della sofferenza."
Che scritto così sembra facile, ma non lo è affatto: significa, in altri termini, prendere coscienza dei propri pensieri ma lasciarli scorrere nella mente senza soffermarsi troppo e senza crearsi paure o timori infondati perchè basati su eventi che potrebbero verificarsi ma ancora non sono reali (vedi pestaggio del piede sopra citato).
Quindi, ad esempio, se vi passa per la mente il dubbio che vostra moglie vi stia tradendo con un cuoco perchè ha preso 5 chili in 5 settimane, lasciate correre questo pensiero e non fantasticate troppo: nella migliore delle ipotesi vostra moglie è diventata illuminata restando fedele, nella peggiore voi siete diventati Buddha restando cornuti.
Il terzo esercizio, a mio parere il più importante, è anche quello su cui personalmente mi sono arenato:
"Diventa cosciente della precarietà dell'esistenza e quindi della precarietà della presenza nella tua vita delle persone oggetto del tuo attaccamento affettivo. Esse non sono eterne. Esse non possono esserci per sempre. Esse non possono esserci neppure per tutta la tua vita. Quindi non puoi fare dipendere la tua vita, la tua felicità, la tua serenità dalle persone a cui vuoi bene.
Non ti dico di abbandonare le persone a cui sei attaccato o attaccata. Non devi lasciare la tua famiglia. Devi soltanto smetterla di far dipendere la tua felicità da loro."
Bene, non aggiungo altro a questa citazione tratta dal libro: ritengo sia esaustiva per giustificare il mio giudizio di sufficienza a tale opera di Giacobbe che, seppure utile nell'evidenziare con un linguaggio chiaro e quasi con rigore logico le principali cause della 'sofferenza' psicologica dell'uomo, fonte di stress e nevrosi, rimane tuttavia poco realistica e 'convincente' sull'efficacia della cura proposta e dei rimedi ipotizzati.
E anche con la mia collega abbiamo raggiunto un compromesso: niente tunica per entrambi ma ora invece di urlare inspiriamo ed espiriamo, inspiriamo ed espiriamo...
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l'attimo sfuggente
E' stato un attimo.. un attimo per leggerlo, un attimo per dimenticarlo.
E non fraintendetemi: non si dimentica perchè brutto o noioso, ma perchè frenetico, travolgente e pertanto non sedimenta, non lascia il tempo di essere assimilato, termina senza darti la possibilità di rendertene conto.. è come se le pagine scorressero con il forward inserito, come quando si fa procedere la registrazione di un film a velocità massima.
La velocità, la frenesia sembra l'elemento caratterizzante di questo romanzo di Sandrone Dazieri: un noir 'casareccio' che vede come protagonista Santo Denti, detto Trafficante.
Ed il soprannome la dice lunga su quale sia la sua attività professionale, spaccio di droga e furti di appartamenti in una città come Milano nei primi anni '90 che con la sua classe borghese in prosperosa crescita economica rappresenta terreno fertile e proficuo per questo tipo di attività.
E tutto procede nel migliore dei modi sino a quel giorno, quando durante un litigio col suo socio di affari, Santo subisce un colpo violento alla testa e.. puff.. si risveglia in un bagno del teatro alla Scala, senza la minima idea di come ci sia arrivato.
E non appena riprende coscienza, il suo stato di totale disorientamento aumenta progressivamente perchè quella città in cui si ritrova è sempre Milano, ma le strade, i palazzi, i bar, la gente .. tutto è completamente diverso, è come se da quel giorno qualcuno avesse ruotato velocemente la manopola del tempo nella sua testa senza però che lui se ne rendesse conto;
e adesso Santo si ritrova 15 anni in avanti con i ricordi di una vita che non è più la sua, con accanto una donna che non ha mai visto prima e con un impiego come pubblicitario in una società di prestigio che mai avrebbe immaginato di poter ottenere. Beh, poco male, se non fosse stato per un problema che complicherà all'ennesima potenza la sopravvivenza di Santo nella sua nuova identità: l'omicidio di un suo collega e per il quale Santo risulta il principale indiziato.
Con la polizia alle calcagna, con un cratere profondo nella memoria che non riesce a colmare, con il cambio dell'euro, con le diavolerie elettroniche comparse durante la sua assenza, cellulari, internet e pc poco più grandi di una mano, Santo deve correre, correre sempre, recuperare il tempo perduto e con esso la sua vera identità, quella di Santo il Trafficante.
Un attimo sfuggito via dalla sua memoria.. e la sua vita diventa quella di un fuggitivo.
Un libro quindi che non lascia neanche il tempo di annoiarsi, perchè uno sbadiglio durerebbe troppo: scrittura metropolitana, con frequenti termini ereditati dallo slang milanese anni 80-90, stile paninaro per intenderci.
Ed ovviamente non può mancare quel pizzico di sottile ironia, di sarcasmo, tipico di molti scrittori noir italiani, in primis Enrico Pandiani.
"Come trova questo mondo, dottor Denti?"
"Una merda. Una merda collegata a Internet".
Curioso, d'altro canto, notare come certe abitudini dei milanesi con cambieranno mai:
"Normalmente a Milano la gente pensa ai cazzi suoi, per questo mi piace. Se uno viene assalito da un coccodrillo mentre passeggia in piazza del Duomo non se ne accorge nessuno, perchè tengono la testa bassa, ingrugniti sul mutuo da pagare, le tasse, la moglie o il marito che rompe l'anima. Con un'unica eccezione: le vecchie. Ovunque tu abiti, c'è sempre una vecchia che ti controlla dallo spioncino quando rientri sbronzo, che bussa sul muro se non trombi in silenzio, che manda lettere all'amministratore del condominio perchè frequenti 'gente strana'."
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Sono gli schiavi a creare i tiranni..
Con un titolo che fa riferimento in modo così esplicito ai due protagonisti della storia, mi sembra doveroso presentarveli prima di ogni giudizio o commento sul romanzo stesso.
I 'due uomini buoni' sono don Pedro Zárate e don Hermógenes Molina, due nomi che probabilmente risulteranno sconosciuti al 99,9% di voi, escluso me ed il caro collega qui sotto che ha già commentato tale romanzo; si tratta però di due nomi che appartengono a personaggi realmente esistiti.
E non cercate - come ho già fatto io da gran curiosone che sono - di spiare i loro profili Facebook perché i personaggi estratti dal filtro di ricerca (per quanto alcuni possano risultare anche affascinanti ad un occhio femmineo) non corrispondono ai nostri 'uomini buoni': sia perchè essi sono vissuti nel XVIII secolo quando il 'download' di Zuckerberg nel mondo terreno non era stato ancora avviato da nostro Signore, sia perché oggi come oggi 'uomini buoni' sono perle rare e generalmente poco esposte su una vetrina pubblica come Facebook.
Facile intuire, comunque, dal nome che si tratta di due spagnoli, precisamente due membri dell'onorevole e prestigiosa Real Academia Española, un'istituzione nata con lo scopo di salvaguardare la purezza della lingua castigliana dalle contaminazioni delle culture straniere; una sorta di Accademia della Crusca, per intenderci.
Un'istituzione, quindi, dal chiaro stampo conservatore, soprattutto all'epoca della sua fondazione nel 1713 quando la Spagna, ancora pregna del clima di terrore generato dall'Inquisizione e dal potere ecclesiastico di Roma, bandiva come eretiche le 'voci' che provenivano dalla vicina Francia, idee e pensieri di uomini 'illuminati' dalla ragione e dalla scienza, e pertanto pericolosissimi per la salute e la sopravvivenza di un potere monarchico-religioso basato proprio sulla negazione della ragione, sull'oscurantismo della mente che piegava gli animi ad una cieca obbedienza.
E si avvertivano chiaramente tra le strade di Parigi i primi focolai di quell'incendio che scuoterà dalle fondamenta il regime monarchico francese dando vita al movimento rivoluzionario più travolgente di tutta la storia, i cui effetti si allargheranno a macchia d'olio nell'intera Europa con la stessa potenza che avrebbe oggi un evento mediatico di primaria importanza, come ad esempio l'uscita del nuovo iphone...
"... la visita fatta ieri, sconcertante perchè inattesa, ad alcune strade umili di questa città dove il fasto dell'urbe si ottenebra di fronte alla sordidezza della vita dei più poveri, dove ogni necessità ha il suo esempio e ogni vizio la sua triste manifestazione. Il che dimostra che, perfino in nazioni colte e in città in cui maestosità e lumi sono più evidenti, creature sventurate patiscono offese e accumulano pericoloso rancore. Del che dovrebbe prendere nota, per la propria salvezza, chi ha per obbligo lavorare per la felicità dei popoli che Dio gli ha affidato."
Ed è in questo contesto storico così turbolento che si colloca la missione di cui sono incaricati i due 'uomini buoni', per conto della stessa Accademia Spagnola, quella cioè di recuperare e trasferire in Spagna, sotto la custodia intellettuale degli accademici, l'opera più imponente e più discussa dell'epoca, messa all'indice in tutta Europa come opera sovversiva ed ingannatrice, divulgatrice di concetti e filosofie in chiara contrapposizione alle verità assolute difese strenuamente dalla Santa Inquisizione: la prima edizione in 28 volumi dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
Una missione che coinvolgerà i due protagonisti in un'avventura irta di difficoltà, sia per la durata del viaggio sia per la particolarità del 'carico', visto che alcuni 'uomini cattivi' cercheranno di ostacolare l'arrivo dell'Enciclopedia in Spagna evitando così che tale opera possa infangare, dal loro punto di vista, il prestigio della stessa Accademia.
E quando si parla di avventura il nome di Arturo Pérez-Reverte è una garanzia: per la scrupolosa e minuziosa ricostruzione dei luoghi e del costume sociale dell'epoca, preceduta da uno studio analitico di testi e mappe storiche che l'autore ha documentato nello stesso romanzo, alternando il racconto vero e proprio del romanzo con quello del suo personale percorso di approfondimento storico.
E ciò che la realtà storica non documenta viene integrato dalla fantasia dell'autore, finzione a supporto della storia e miscelata ad essa in perfetto amalgama.
Una scrittura pulita, elegante, direi quasi in 'pendant' con la galanteria e l'erudizione dei due gentiluomini; ecco, ciò contribuisce a rendere estremamente coinvolgente questo romanzo, nel senso che leggendo quelle pagine vi sentirete subito catapultati nella Francia del 18° secolo, come se foste all'interno di una macchina del tempo: e vi ritroverete così a passeggiare tra le strade di Parigi, lungo la Senna per Saint-Denis, passando sotto le sinistre mura medievali del Petit Chatelet, seguendo il molo fino a raggiungere place de Greve per poi ammirare "la vicina isola di Saint-Louis, il Pont Rouge e le torri bianche della cattedrale che s'innalzano sui tetti d'ardesia"; e vi ritroverete ad osservare con curiosità, sin nei minimi gesti, uomini e donne dell'alta nobiltà gustare un caffè seduti ai tavolini dei bar, incipriati, avvolti da parrucche e cappelli sfargianti all'ultima moda (a proposito, lo sapevate che l'ignobile idea di sostituire la comoda cerniera lampo sulla patta dei pantaloni maschili con quei fastidiosissimi bottoni è stata partorita proprio da un sarto francese dell'epoca che riteneva poco elegante quel meccanismo ad incastro, che seppur a volte soggetto a inceppature, era a mio parere una gran comodità nel momento del bisogno?)
e potrete infine assistere alle innumerevoli discussioni che animano i salotti dell'epoca, da quelle più impegnative sulle innovative scoperte in ambito scientifico o sulle irriverenti teorie filosofiche illuministiche:
"Non è meglio gettarsi nelle braccia di una natura cieca, priva di saggezza e di obiettivi, piuttosto che tremare per tutta la vita schiavizzati da una presunta Intelligenza Onnipotente, che ha disposto i suoi sublimi disegni affinchè i poveri mortali abbiano la libertà di disobbedirvi, e trasformarsi così in continue vittime della sua collera implacabile? (d'Holbach)"
a quelle più frivole e libertine:
"A Parigi l'amore non è altro che un libertinaggio mitigato, un esercizio sociale che sottomette i nostri sensi senza impegnare la ragione o il dovere. Delicato per la sua incostanza, non esige sacrifici che ci costino cari. Il seduttore non è tale se non per colei che vuole essere sedotta, e la vera virtù può conservarsi intatta in tutto questo. L'amore è leggero, volatile, e svanisce con la noia.."
Un romanzo d'avventura in stile classico, assolutamente consigliato agli amanti del genere.. a chi, per esempio, mantiene sempre riservata in un angolo della sua libreria una copia dei Tre Moschettieri di Dumas.
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Giacobbe o Giobbe Covatta?
"Se tu soffri per quello che fanno gli altri della loro vita la colpa non è degli altri ma tua che ti crei aspettative fuori dalla realtà, cioè nevrotiche.
E quindi sei una falsa vittima perchè sei soltanto vittima di te stesso."
Potrebbe essere riassunto in tali righe il messaggio alla base di questo libro di Giacobbe che, a ben vedere, si presenta come una sorta di appendice al precedente libro 'Alla ricerca delle coccole perdute', in cui l'autore illustra i fondamenti della teoria psico-evolutiva per spiegare le cause alla base della più diffusa forma di nevrosi, ossia quella ansiosa-depressiva.
Esse sono sempre imputabili ad una mancata progressione dell'individuo nella sua evoluzione psicologica da bambino --> adulto --> genitore.
Ed una delle conseguenze dirette della coazione (ossia persistenza) della personalità del 'bambino' è proprio la propensione dell'individuo al ruolo di 'vittima', ossia di persona che racchiude in sé il pessimismo cosmico, si sente perseguitato da tutto e da tutti e pertanto incapace di reagire, in quanto ogni suo sforzo sarebbe comunque annullato dall'accanimento del destino e della sfortuna nei suoi riguardi: come dire.. se la fortuna è cieca, la sfortuna ha occhi solo per lui.
Ovviamente, se c'è una vittima è inevitabile che ci sia come controparte un 'carnefice', colui cioè che la vittima vede come la fonte di tutti i suoi problemi.
Ma questa visione è fortemente soggettiva perchè nasce e si concretizza nella mente della presunta 'vittima'; il ruolo della vittima non è altro che la manifestazione dell'incapacità del singolo individuo di affrontare una qualsiasi difficoltà o problema che gli si pone davanti.. come appunto farebbe un bambino, che è una 'vittima' per definizione.
Non solo, ma con una più obiettiva visione della realtà, si potrebbe facilmente dimostrare che i ruoli di vittima e carnefice sono spesso intercambiabili e sovrapponibili: e se la 'teoria' esposta nel libro di Giacobbe si condensa nella frase iniziale di questo commento, le rimanenti pagine del libro non sono altro che esempi di chiaro stampo cabarettistico di quanto appena affermato, ossia della duplice immagine della 'vittima&carnefice': esempi tratti dalla vita quotidiana ma soprattutto dalla Bibbia, con particolare predilezione verso l'antico testamento.
E come non notare allora una forte analogia con la 'Parola di Giobbe', rivisitazione in chiave umoristica delle Sacre Scritture, dalla Genesi fino alla vita di Cristo, da parte di Giobbe Covatta che riscosse a suo tempo un notevole successo editoriale.
Tutto ciò per concludere che se - come me - avete già letto il precedente libro di Giacobbe "Alla ricerca delle coccole perdute" e la 'Parola di Giobbe', non avrete alcun valore aggiunto dalla lettura di questo libro il cui acquisto vi farà probabilmente sentire 'vittima' di una scelta editoriale con finalità puramente commerciali.
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Siamo uomini o nevrotici?
Il mio incontro, su carta stampata, con G.C. Giacobbe è avvenuto tramite presentazione da parte di una mia collega che, ormai incapace di sopravvivere alle ondate di stress quotidiano, ha acquistato e letto un libro del suddetto autore intitolato 'Come diventare Buddha in 5 settimane' e che, a sua detta, le sta portando grande giovamento.
La stessa collega, però, mi ha fatto notare che essendo l'ufficio la fonte primaria della sua condizione di stress, affinchè la sua trasformazione in Buddha si possa completare con successo, sarebbe stato utile che anche io (in quanto suo diretto collaboratore e pertanto imputabile al 50% del suo malessere) leggessi tale libro.
Ed è stato così che, con qualche giorno di anticipo sul mio compleanno, ho ricevuto in dono dalla cara collega un terzetto di opere di Giacobbe, dai titoli promettenti: oltre il sopra citato 'Come diventare Buddha in 5 settimane', c'è anche 'Come smettere di fare la vittima e non diventare carnefice' ed il nostro 'Alla ricerca delle coccole perdute'.
Capirete bene che con titoli così eloquenti e non avendo la minima idea del loro contenuto, non sia stato facile per me scegliere il primo libro da leggere.
Di sicuro, non essendo la mia massima aspirazione diventare un Buddha (nè caratterialmente nè - soprattutto - fisicamente) ed ipotizzando che i problemi della mia collega siano riconducibili fondamentalmente ad una carenza di affetto, ho optato per quel libro che almeno in copertina promette ai suoi lettori un viaggio avventuroso degno del migliore Indiana Jones .. alla ricerca delle coccole perdute.
Questa premessa mi è sembrata doverosa per farvi presente che sarebbe stato improbabile, se non addirittura impossibile, che avessi scelto mea sponte l'acquisto di tale opera e che se nei prossimi giorni troverete su questo sito i miei commenti relativi agli altri due libri non è per un istinto recondito di masochismo piuttosto per un atto di amore (nel senso di compassione) verso la mia collega.
Detto ciò, Giulio Cesare Giacobbe è un uomo dalle mille risorse (fonte Wikipedia): prima tecnico radiologo, poi consegue la laurea in Filosofia presso l'Università di Genova, poi approfondisce le sue conoscenze in diversi ambiti letterari sino a diventare professore universitario e successivamente psicoterapeuta con specializzazione in psicoterapia evolutiva.
Insomma, il dottor Giacobbe non è certo uno sprovveduto, uno dei soliti ciarlatani che illuminato o folgorato sulla via di Damasco entra in contatto con la verità assoluta e vorrebbe condividerla con noi, poveri ignoranti, sempre e soltanto dietro compenso pecuniario.
No, il dottor Giacobbe è un illustre accademico che ha anzitutto approfondito lo studio di diverse discipline psicologiche e che adesso cerca di divulgare al pubblico più variegato le teorie elaborate nel corso degli anni da altri illustri personaggi (soprattutto orientali) evidenziando anche gli effetti benefici che tali teorie possono avere sul singolo individuo se applicate correttamente.
E il dottor Giacobbe, da esperto di comunicazione, sa anche quanto sia poco proficuo sia dal punto di vista professionale sia dal punto di visto remunerativo rivolgersi al pubblico con termini dotti, più appropriati per un trattato accademico e che sarebbero compresi solo da una ristretta cerchia di colleghi psicologi.
Per questo motivo, 'Alla ricerca delle coccole perdute' si presenta come un trattato semi-serio sulle cause principali delle nevrosi più comuni, in particolare la nevrosi ansiosa-depressiva, in assoluto una delle patologie più diffuse nella società odierna.
'Serio' perchè viene esposta con serietà e rigore logico la teoria alla base della psicoterapia evolutiva, 'semi' perchè la complessità di tale teoria viene addolcita con l'uso di un linguaggio poco tecnico e molto discorsivo e soprattutto con esempi estremi tratti dalla vita quotidiana e spesso ai limiti della parodia.
E questo credo sia più un difetto che un pregio dell'opera: immagino quanto sia difficile trovare il giusto compromesso tra un manuale divulgativo ed un trattato scientifico, ma soprattutto nella seconda metà del libro ho avuto la sensazione di leggere il copione di un cabarettista di Zelig.
Infatti, potrei affermare che la sostanza del libro sia tutta concentrata nelle prime dieci pagine dove troviamo sintetizzata l'ipotesi alla base della psicologia 'evolutiva':
nella società odierna, ricca, tecnologica e dotata di tutti i comfort, gli adulti rimangono bambini. Non crescono. Non diventano adulti.
Lo dimostra il fatto che gli stati d'animo depressivi più diffusi, quali solitudine, insicurezza, disadattamento, insoddisfazione, paura, infelicità, sono tipici stati d'animo dei bambini.
La cura: ripristinare la corretta progressione dell'individuo nei tre passaggi evolutivi previsti dalla natura, ossia personalità del bambino, dell'adulto e del genitore.
Se la personalità dell'individuo permane, a causa del condizionamento esterno, in uno di questi tre stati è inevitabile l'insorgere di una nevrosi, ossia una non corretta percezione della realtà, con conseguenze disastrose per l'individuo stesso e chi lo circonda.
Occorre, invece, fare in modo di evolvere gradualmente nelle tre condizioni psicologiche sopra indicate evitando di 'ristagnare' in una di esse, bensì cercando di 'indossare' la personalità giusta e coerente con il contesto in cui si vive.
Ecco perchè, con particolare riferimento al rapporto di coppia, risulta vincente l'abbinamento tra due individui che riescono a giocare come bambini, ad essere indipendenti come adulti e che si proteggono vicendevolmente come farebbe un genitore.
Bene, la mia unica osservazione a tutto ciò è la seguente: a me sembra tanto la scoperta dell'acqua calda!! Sono proprio necessarie lauree, studi, ricerche, analisi e quant'altro per arrivare a questa conclusione? Non sarebbe sufficiente un pò di buon senso personale?
Fermo restando che la difficoltà maggiore in tutto ciò non è certo capire il concetto sopra esposto quanto sicuramente metterlo in pratica.
Perchè il quadro idilliaco della coppia modello 'Mulino bianco', con un lui adorabile e coccoloso ed una lei giocherellona (leggi: 'che non lamenta mai l'usuale mal di testa...') funziona molto bene i primi mesi, forse anche i primi anni, di convivenza.. ma poi?
Poi altro che 'mulino bianco'... diventa il campo di battaglia di Hunger Games.
E allora mi chiedo: quale sarebbe il contributo di Giacobbe con questo suo saggio? Quello di riportare su carta 'princìpi' di psicologia che ognuno potrebbe dedurre autonomamente con un minimo di autocoscienza?
Probabilmente sì.. e probabilmente un contributo di questo tipo è utile a molti perchè molti spesso perdono di vista se stessi e non riescono a 'ritrovarsi'.
Altrimenti non si spiegherebbe neanche perchè nel mio quartiere ci siano più psicoterapeuti che dentisti o oculisti...
Chiedo venia per questo commento anomalo.. d'altro canto, potrei ritenerlo appropriato trattandosi di un libro incentrato sulle nevrosi o, in genere, atteggiamenti 'fuori dal normale'.
Ora, dopo aver approfondito con Giacobbe le tre personalità basilari previste dall'evoluzione naturale, mi accingerò allo studio della quarta personalità che non rientra nel percorso ordinario e biologico del singolo individuo ma richiede una precisa volontà dello stesso indirizzata al suo conseguimento: la personalità del Buddha.
Che, come ricorderete all'inizio di questo commento, è anche quella che mi consentirà di evitare il suicidio della mia collega...
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E' quasi tutto laggiù...
L' opera di Mari si articola in 11 racconti splendidamente scritti, lessico lussureggiante e classicheggiante, una prosa ricercata e colta, dal sapore antico, arcaico, che rimane tale anche quando l'umorismo prevale sulla malinconia, l'ironia sull'inquietudine e l'angoscia per il futuro.
La costruzione di ogni periodo è un'opera d'arte, una scultura finemente cesellata, ogni termine scelto e posizionato con cura maniacale a concorrere nel raggiungimento di un'armonia quasi musicale e perfezione stilistica.
Ogni racconto è un pezzo d'infanzia che riaffiora prepotentemente sfidando e vincendo la pressione esercitata dall'oblio con cui la vita adulta, la maturità, cerca di relegare nei più profondi meandri della memoria quei momenti, quelle immagini, quelle emozioni che tanto abbiamo amato perchè hanno plasmato in tenera età la nostra personalità, in quegli anni fortemente ricettiva verso qualsiasi stimolo esterno perchè ancora priva di esperienza, ancora incontaminata.
Volendo trovare un'immagine rappresentativa di questi racconti penserei ad un geyser, per l'impeto che trasmettono, il desiderio di non soccombere, di non svanire e perdersi per sempre... come i giocattoli, quei giocattoli che erano nostri compagni di sogni ed avventure in mondi inventati nella nostra cameretta, a cui non avremmo rinunciato per nulla al mondo e che da un giorno all'altro scompaiono, senza rendercene conto, come se qualcuno, un ladro invisibile li abbia nascosti o peggio ancora distrutti.
"Infatti è così, scompaiono. Tutto il segreto sta nel non distrarsi mai, mai abbassare la guardia... sapere sempre cosa si ha, dove lo si ha.. E ciò che hai amato anche un solo mattino, tenertelo stretto fino alla morte. Tenere, tenere, tenere .."
E i giornalini, la raccolta di fumetti se non l'intera collezione Urania, magari accantonata nel ripiano superiore e più nascosto della libreria, non sono forse un tesoro inestimabile al pari dei grandi classici, dei nobili testi occupanti in bella mostra i ripiani centrali?
"Non erano forse un documento - una prova! - della sua infanzia e insieme del suo angosciato dibattersi per non uscirne mai, da quella infanzia, mentre tutto invece aveva congiurato a strappargliela via a sangue a colpi di paure, di orrende prurigini, di ambigue conquiste intellettuali, di botte da orbi? "
E per questo motivo i ricordi-racconti di Mari sanguinano, e sarà così per sempre, sono una ferita aperta che mai si rimarginerà.. perchè il loro destino è inevitabile, il loro dissolvimento inarrestabile come inesorabile è la transizione verso l'età adulta.
Tutti i racconti indistintamente meritano di essere letti, se non altro per lasciarsi ammaliare dalla superba scrittura di Mari:
"C'è una zona, proprio sotto il ginocchio dei ragazzini, in cui si compendia l'orrore dei giardinetti: là, dove la pelle è più grigia e più spessa, quasi cotta dagli sfregamenti sull'erba; là, dove la lerceria si è consustanziata nel derma. In quel livido lembo di cuoio si leggono le imprese scomposte di una precoce virilità, l'iscrizione a precisa mafiucola, la disgustosa logica della strada."
Io però ne ho amato uno in particolare, un piccolo grande capolavoro, un concentrato di poesia e pregiata letteratura: 'Otto scrittori'
Una sfida immaginaria tra 8 grandi nomi, autori dei più memorabili romanzi di avventura, aventi il mare come protagonista assoluto: romanzi che ogni ragazzo dovrebbe aver sfogliato almeno una volta nella vita e conservato gelosamente sotto il cuscino, nei propri sogni.
"Non c'è stato molt'altro, nella vita. No, è quasi tutto laggiù."
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L'inferno è sulla terra..
Devo essere sincero: sono partito prevenuto con questo libro, temevo fosse un'altra ciofeca come 'Il simbolo perduto' ed ero completamente scettico sulla possibilità che Dan Brown potesse ancora sfornare un romanzo quantomeno leggibile sino all'ultima pagina e non fino al primo capitolo per poi essere abbandonato.
Invece devo ricredermi, non siamo certo di fronte ad un best seller come 'Il Codice da Vinci', ma l'Inferno di Dan Brown ha anche qualcosa di buono, per esempio:
-) qualcuno potrebbe obiettare che la trama sia troppo 'futuristica' ed improbabile: vero, ma questo romanzo ha comunque una sua utilità come guida turistica del capoluogo toscano (ed in minima parte di Istanbul) perchè è innegabile la bravura di Brown nella descrizione particolareggiata di monumenti, opere d'arte e sculture, talmente efficace da stimolare la curiosità ed il desiderio di chi legge a visitare i luoghi citati; io per primo mi riprometto di portare con me il libro nel prossimo viaggio a Firenze.
-) qualcuno potrebbe obiettare che in giro sia facile trovare guide turistiche di Firenze meno care ed ingombranti: vero, ma questo romanzo lancia un messaggio a mio parere non trascurabile, ossia l'incremento malthusiano della popolazione terrestre registrato nell'ultimo secolo porterà inevitabilmente al collasso del pianeta essendo limitate le risorse disponibili. E a meno che non si verifichi una qualche catastrofe di proporzioni mondiali, già entro la fine di questo secolo gli uomini dovranno imparare a condividere un pezzo di pane e pesce tra 100 persone (e tenete presente che i miracoli non si avverano mai due volte nella storia).
-) qualcuno potrebbe obiettare che messaggi catastrofici come quello sopra descritto se ne sentono tutti i giorni in tutte le piazze: vero, ma provate a leggere 'Inferno' su un lido di Ostia in una domenica di agosto, dove la gente è talmente tanta ed ammucchiata una sull'altra che sfogliando le pagine del libro potrebbero leggere tre persone contemporaneamente, e poi ditemi se quel messaggio catastrofico vi sembra ancora tanto lontano ed inconcepibile.
In definitiva, una rilassante lettura estiva (meglio se su un'isola sperduta dell'oceano); avrei preferito però un finale meno 'sbrigativo'... l'autore avrebbe, per esempio, potuto evitare di ripetere la descrizione del messaggio video da cui si snoda tutta la vicenda per ogni singolo personaggio che ne prende visione durante lo sviluppo della trama (almeno 5-6 volte) e dilungarsi maggiormente sull'epilogo, concentrato invece in un paio di pagine.
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La mano di Dio
Columbia County, Arkansas, 1956. Quella dei Moses è una famiglia ben conosciuta in questa piccola contea ai confini con la Louisiana.
Certo ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse così: tutti conoscono tutti e le case sembra quasi non abbiano pareti in questa zona. Tanto più che i Moses, John e Calla, gestiscono rispettivamente il bar e la drogheria del loro paese che tutti quindi, o per necessità o per piacere, hanno frequentato.
Una gran bella famiglia quella dei Moses, unita ed affiatata: e se qualcuno avesse dei dubbi in merito non dovrebbe far altro che presentarsi a casa loro il giorno del tradizionale incontro annuale di tutta la famiglia e rendersi conto di persona dell'amore e dell'affetto che circonda John e Calla da parte dei loro quattro figli, Toy, Sid, Alvis e l'unica donna Willadee ed i tanti nipoti che scorazzano allegri e spensierati nella proprietà di famiglia.
Tutti sanno però che anche i Moses hanno attraversato periodi difficili che hanno segnato profondamente la loro vita e che ancora turbano la loro serenità: Walter, il più piccolo tra i figli di John, muore accidentalmente in segheria mentre lavora e Toy, il fratello maggiore, torna dalla guerra con una gamba in meno e con tanta rabbia nel cuore; tanta anche per un uomo forte e leale come Toy.
C'è poco da condannarlo, quindi, se appena tornato in città dalla guerra e vedendo uscire da casa sua un uomo - quando invece pensava di trovare la moglie, sola, ad attenderlo - decide di seguirlo ed ucciderlo a sangue freddo. Ma non finirà in carcere perchè in città tutti sanno che Toy Moses non avrebbe mai ucciso nessuno senza una buona ragione; anche lo sceriffo lo sa e non ci pensa due volte a far passare quell'omicidio per uno sfortunato incidente.
E poi quell'uomo, Yam Ferguson, era ben noto in paese come un farabutto, figlio di un ricco proprietario che grazie alle sue raccomandazioni era riuscito ad evitare la guerra e trascorreva i giorni importunando le mogli degli onesti cittadini chiamati alle armi. Più che giusto, quindi, che fosse morto.. e se non lo avesse ucciso Toy sicuramente avrebbe provveduto Dio in altro modo.
Tra l'altro Dio ha sempre avuto un occhio di riguardo per i Moses; anche se loro forse non lo sanno o non se ne rendono conto. Tanto che quando John, incapace di reggere oltre il dolore per la morte prematura del figlio, decide di togliersi la vita con un colpo di fucile e proprio durante una delle riunioni annuali di famiglia, nessuno sembra biasimarlo, nemmeno la moglie o i figli ormai convinti che sarebbe successo prima o poi.
Sempre uniti, i Moses, anche contro Dio se Lui porta via uno di loro così ingiustamente. E contro Samuel Lake, portavoce di Dio nonchè marito di Willadee Moses, la figlia preferita di John, testarda come lui, tanto da sposare contro la volontà del padre il pastore metodista Samuel, integerrimo ed infaticabile predicatore della parola di Dio. E della Sua magnanimità, della Sua benevolenza che mai potrà tradire le aspettative di chi crede in Lui. Anche se spesso la vita sembra remare contro, a tal punto che risulta arduo pensare che sia voluta da Dio, che faccia parte di un Suo progetto.
Tutto ciò è solo una minima parte della storia raccontata dall'autrice Jenny Wingfield che vede come protaqonista anche la piccola Swan, figlia di Samuel e Willadee, a cui è ispirata la splendida copertina del libro ma che ho volutamente evitato di citare per non anticiparvi niente sul suo personaggio.
Per il semplice motivo che il punto di forza di questo romanzo è proprio nel modo con cui l'autrice induce il lettore ad appassionarsi alle vicende della famiglia Moses, lo invita a casa loro e lo rende partecipe della loro vita quotidiana, sin quando si sentirà uno di loro, uno di famiglia.
E questo perchè il lettore possa avvertire sulla 'propria pelle' la drammaticità del tragico episodio finale, un episodio di violenza che seppure descritto in modo molto velato senza indugiare sugli aspetti più cruenti riesce comunque a scuotere il lettore, proprio in virtù del rapporto di intimità che l'autrice instaura tra il lettore e la famiglia Moses.
E Jenny Wingfield ha certo esperienza da vendere in questo campo avendo scritto negli anni precedenti diverse sceneggiature per film di discreto successo: sa bene, quindi, come coinvolgere emotivamente il lettore, quali corde toccare.
Stile di scrittura molto fluido e scorrevole, sicuramente non pregiato ma comunque efficace nel creare quel crescendo di tensione fondamentale nell'evolversi dello scontro tra bene e male, tra il buono ed il cattivo di turno.
Un romanzo perciò senza grandi pretese se non quelle di garantire una lettura emozionante che coinvolge il lettore rendendolo spettatore partecipe della vicenda, soffrendo e gioendo all'unisono con i protagonisti della storia.
Un'ultima considerazione del tutto personale sul titolo 'Una mano piena di nuvole' dell'edizione italiana del libro: una traduzione, se così possiamo definirla, alquanto 'originale' del titolo 'The homecoming of Samuel Lake' dell'edizione americana.
Samuel Lake è il pastore metodista , irreprensibile seguace della parola di Dio, la cui fede e perseveranza vengono messe a dura prova da una serie di vicissitudini negative che lo porteranno a dubitare, a vacillare.
Il 'ritorno a casa' del titolo originale ha quindi un doppio senso: la casa non è solo quella dei Moses ma anche quella del Signore.
La traduzione italiana del titolo credo si possa comunque collegare al tema religioso e della fede in particolare: una 'mano piena di nuvole' è una mano che viene dall'alto, insperata, inattesa, unica ancora di salvezza per chi è a terra a fa fatica a rialzarsi e quando apre gli occhi ciò che vede dinanzi è una mano tesa, che sembra quasi venire dal cielo; non si scorge un volto ma solo nuvole intorno.
"Alla gente piacerebbe se le cose andassero avanti sempre uguali a com'erano in passato, ma questo non è possibile, ed è un bene, perchè quando una parte di una cosa comincia a cambiare anche tutte le altre si modificano, e presto inizia tutta un'altra storia".
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Tutta la vita è un trucco
Consentitemi prima due parole sugli autori: Pierre Boileau e Thomas Narcejac, due scrittori francesi autori di una fortunata e lunga serie di romanzi polizieschi pubblicati negli anni '50 e che Adelphi ha deciso di riproporre in Italia, alcuni anche inediti proprio come Le incantatrici.
Ahimè, prima di questo, non avevo letto alcun romanzo di codesta famosa coppia della letteratura noir francese, che ha partorito capolavori quali I diabolici e La donna che visse due volte, e che a loro volta hanno ispirato registi del calibro di Clouzot e Hitchcock per le corrispondenti trasposizioni cinematografiche; anche il libro 'Le incantatrici' ha avuto una versione su celluloide, forse meno nota rispetto ai titoli prima citati, con le gemelle Kessler come protagoniste... scelta quasi inevitabile, direi, dopo aver letto la storia ed osservato la copertina.
Una breve premessa solo per descrivere meglio l'atmosfera che respirereste addentrandovi nella lettura di questo romanzo: una sensazione sfuggevole e non meglio definibile di inquietudine, di progressivo distacco dal mondo reale per sfociare in una dimensione parallela, doppia, apparentemente identica alla prima ma distinta da essa, un'immagine distorta allo specchio, una reale e l'altra surreale perchè alimentata dal subconscio dei personaggi, dalle loro ossessioni. Una realtà duplicata come le due Incantatrici, le gemelle Hilda e Greta, che danno il titolo al romanzo.
E molti potranno trovare familiare tale atmosfera perchè tipica di alcuni grandi capolavori di Hitchcock, primo fra tutti Vertigo - La donna che visse due volte.
Ne 'Le incantatrici' il protagonista è Pierre Doutre, figlio del famoso illusionista e prestigiatore dal nome d'arte "professor Alberto" e di madame Odette, sua assistente negli spettacoli oltre che manager della sua attività. Pierre trascorre i primi anni della gioventù in un collegio della Svizzera, non potendo seguire i genitori nelle loro tournee in tutta Europa, le quali avrebbero sicuramente impedito al ragazzo di completare gli studi.
Pierre sopporta a malincuore questo distacco forzato dai suoi genitori e vive gli anni della sua adolescenza nel collegio isolandosi da tutti e soffocando dentro sé stesso, in silenzio, il dolore e la tristezza che prova per la sua condizione indotta di 'orfano', praticamente abbandonato dai genitori in quel collegio essendo un ostacolo per il loro lavoro e senza il minimo interesse da parte loro per il suo disagio interiore; disagio che certo non poteva essere colmato, anzi forse solo accentuato, dalle visite sporadiche del padre.
Sin quando, poco più che ventenne, Pierre riceve la notizia della morte del padre, per un presunto infarto durante uno spettacolo. Lascia quindi il collegio per partecipare al funerale ad Amburgo, dove la compagnia degli Alberto si esibiva prima della morte del grande illusionista; ma la sua vita prende una piega del tutto inattesa durante le prove di uno spettacolo, quando rimane affascinato dall'incantevole bellezza di due donne, due gemelle perfettamente identiche, Hilda e Greta. E l'incanto che lo travolge è così intenso che decide di entrare a far parte della compagnia degli Alberto, imparando l'arte ed i trucchi inventati da suo padre, e diventando protagonista principale di un nuovo numero, una spettacolare esibizione ideata da Odette e che lo porterà ben presto ad un successo strepitoso. E alla rovina.
Non anticipo altro sulla trama, si tratta comunque di un 'giallo' ed ogni parola in più rischia di compromettere l'effetto 'sorpresa' rendendo così poco intrigante la lettura di questo romanzo.
Lettura che consiglio comunque a tutti gli amanti del genere per assaporare quell'atmosfera un pò 'vintage', consentitemi il termine, di cui parlavo all'inizio.
Perchè si percepisce facilmente la differenza con il genere noir contemporaneo: ovviamente non manca l'assassino, l'omicidio c'è così come c'è una suspence costruita sapientemente dagli autori per nascondere sino alla fine il colpevole ed il suo movente.
La differenza è proprio nel movente: in questo romanzo il movente è tutto 'nella testa' del colpevole, si scatena qualcosa nella sua mente, a livello inconscio, qualcosa di completamente imprevedibile che lo porta al gesto estremo, una follia maturata dal nulla ma che si alimenta giorno dopo giorno sino all'inevitabile esplosione.
Ed immaginate quanto sia difficile per uno scrittore basare il suo romanzo su un movente del genere, incentrare una storia sulla metamorfosi psicologica di un personaggio ed ancor più renderla credibile a chi legge, anzi quasi terrorizzarlo per quello che può emergere scandagliando in profondità le zone d'ombra della sua mente.
E' molto più complesso anche rispetto alla stragrande maggioranza dei thriller più recenti in cui il serial killer uccide in preda ad una follia omicida molto spesso generata da traumi più o meno stereotipati, come abusi sessuali, maltrattamenti, tradimenti et similia.
Ecco perchè in questo romanzo tutto si poggia sull'introspezione approfondita dei personaggi, e non solo dei protagonisti ma anche di quelli secondari, perchè ciascuno di essi può essere l'assassino e tutti contribuiscono col loro comportamento a far maturare la sua follia.
Ed i rapporti che si creano tra i personaggi sono anomali, si avverte che c'è qualcosa di sbagliato, di insano, appena accennato ma comunque percepibile.
Così quando Pierre ritrova, dopo tanti anni, la madre Odette al funerale del padre tra i due s'instaura un rapporto ambiguo, estremo e contrastante di amore-odio: odio represso che sfocia spesso in scatti d'ira verso quella madre che per tanti anni ha praticamente dimenticato suo figlio per inseguire il successo del marito, in contrapposizione ad un amore quasi morboso che invece si manifesta quando Pierre è incapace di prendere una decisione e che sembra scaturire proprio da quella lacuna di affetto materno mai ricevuto.
Analogamente, le due incantatrici Hilda e Greta sono anch'esse figure molto ambigue, a volte si ha quasi l'impressione che esistano solo nella fantasia di Pierre, che siano una sua invenzione mentale .. e questa sensazione è tanto più accresciuta dal fatto che Pierre non può mai parlare con loro perchè sono tedesche, mentre lui parla solo francese, così che i vari tentativi di dialogo si riducono sempre a dei monologhi di Pierre con se stesso...
Inoltre, la perfetta somiglianza delle due gemelle tanto da renderle indistinguibili a tutti, rende ancora più 'illusoria' ed eterea la loro figura, il loro continuo alternarsi e sdoppiarsi determina soggezione, paura e disorientamento in coloro con cui si relazionano, quasi fossero anch'esse un trucco, una magia, il risultato di un'incredibile numero di illusionismo.
Sono proprio queste sensazioni che 'incantano' il lettore, la storia ruota completamente intorno alle due incantatrici e al loro effetto deleterio su chi le circonda, determinando a volte ossessione, a volte gelosia, a volte paura.
«Nel nostro lavoro bisogna saper mentire» - dice madame Odette. «Tutto qui».
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Questione di ... numeri
Ciò che mi ha maggiormente affascinato di questo libro è la sua attualità, sono rimasto infatti piacevolmente meravigliato da come i pensieri, le sensazioni raccontate da Irene Nemirovsky, pur essendo lei vissuta circa un secolo fa, siano facilmente condivisibili da ognuno di noi, perchè sicuramente fanno anche parte di noi... a testimonianza della loro eternità ed immutabilità nel tempo.
Eterno come dovrebbe essere l'amore, a detta di molti; in realtà ciò che è eterno non è l'amore come sentimento in sè bensì tutto ciò che scatena nell'animo umano, è l'evoluzione dell'amore che si ripete ciclicamente, la sua metamorfosi che si consuma inesorabilmente con le stesse modalità da secoli e così sarà per sempre.
Si può impedire ad un ragazzo o una ragazza di crescere e diventare adulto? No, se non con la morte. Allo stesso modo non si può impedire all'amore di assumere col tempo una forma diversa da quella con cui si manifesta in una coppia, una forma che molti definiscono più 'matura', più razionale e meno istintiva, ma che senza ombra di dubbio poco mantiene dell'ardore e dell'impeto iniziale.
Ecco, tutto ruota intorno ad un tema molto caro all'autrice e che ritroviamo in molte sue opere, ossia l'ineluttabile trasformazione che subisce l'amore, o presunto tale, da come lo si conosce in età adolescenziale sino al momento in cui la coppia rafforza e consolida la propria unione col matrimonio. In questo modo la coppia perde progressivamente la propria essenza, nata dall'incontro/scontro di due personalità distinte ma comunque in attrazione reciproca, e si trasforma in una nuova entità unica, assimilabile alla famiglia.
"Gli anni di vita in comune avevano compiuto, quasi all'insaputa degli sposi, il loro lavoro segreto: di due esseri ne avevano fatto uno solo. Potevano scontrarsi, a tratti odiarsi, ma erano uno, come due fiumi che hanno mescolato il loro corso."
Ovviamente, anche l'amore, prima alimentato da quell'attrazione reciproca, viene progressivamente snaturato, alterato in una sorta di eroico sentimento di protezione della nuova entità nata, la famiglia, che diventa prioritaria rispetto alle esigenze dei singoli componenti della coppia; non sempre, però, tali esigenze rimangono sopite, schiacciate dal peso del nuovo impegno assunto. A maggior ragione se riaffiorano con prepotenza i ricordi di quello che era veramente l'amore.
Capirete bene che volendo commentare un romanzo incentrato su tale argomento si rischia facilmente di lasciarsi condizionare dalle esperienze personali, rendendo poco obiettivo il giudizio sull'opera in questione e, ancor peggio, cercando di far collimare i pensieri espressi dall'autrice con la propria soggettiva interpretazione.
Per questo motivo, ho pensato di illustrarvi le mie considerazioni su questo romanzo chiamando in aiuto la matematica e l'universalmente indiscussa imparzialità ed assoluta neutralità dei numeri; e chissà, forse anche l'autrice avrà avuto la stessa idea, avendo dato al suo libro un numero come titolo.
In effetti, tutto quanto raccontato in questo romanzo è riconducibile ad una questione di numeri: uno, due o tre?
I personaggi tratteggiati da Irene diventano rappresentativi di questi numeri e delle loro peculiarità sul piano sentimentale... in barba a chi crede che i numeri non abbiano un cuore.
Sono tutti ragazzi, poco più che maggiorenni, appartenenti all'alta borghesia francese del primo dopoguerra con ancora negli occhi gli orrori della guerra e desiderosi, pertanto, di godere appieno del privilegio loro riservato di 'sopravvissuti', di ridare vitalità ed energia alla loro gioventù appena sbocciata, cancellando dalla memoria ogni traccia (per fortuna non troppo incisiva da essere indelebile) di quella triste parentesi della loro vita.
Dominique Heriot è la rappresentazione del numero 'uno': passionale, spregiudicato, amante della libertà e per questo tendenzialmente incline alla 'solitudine', ad essere uno, la sola idea di amalgamare la sua vita con quella di un'altra persona lo terrorizza.. a tal punto che, pur essendo cosciente del rischio che corre, quello cioè di lasciarsi sfuggire la donna che potrebbe renderlo felice per sempre, preferisce comunque non rinunciare alla sua indipendenza sentimentale.
"Che cosa trova in me quella bella ragazza? E io? Che cosa cerco in lei? Non abbiamo aspirazioni comuni. Come tutte le donne, quello che lei desidera è essere presa e tenuta stretta. Quello che vuole è il matrimonio, la stabilità, la durata, l'imprigionamento, e io... la libertà interiore, sicuramente.."
Marianne ed Antoine, Gilbert e Solange, ecco invece alcune coppie incarnazioni del numero 'due'. Il destino che le accomuna è lo stesso: si conoscono nel pieno della loro gioventù, s'innamorano perdutamente, si lasciano travolgere dai sensi e sognano che il piacere che brucia loro dentro possa non esaurirsi mai. Per questo vogliono preservarlo, vogliono difenderlo dal peggior nemico che sembra essere il tempo, perchè loro stessi avvertono col passare dei giorni che sta cambiando, la sua intensità si affievolisce progressivamente e si convincono che il matrimonio sia l'unico modo per evitare che svanisca per sempre.
Ma, ahimè, non tarderanno a rendersi conto che l'effetto sortito sarà invece proprio quello che temevano: l'unione coniugale sembra aver trasformato in fumosa apparenza di affetto quel sentimento vero e ardente che bruciava i loro animi da giovani.
L'effetto è simile a quello di un secchio d'acqua buttato su un fuoco vivo, le fiamme si ritraggono improvvisamente sollevando una nuvola di fumo, di ipocrisia, di parvenza che intossica i loro stessi cuori.
Ed è sicuramente nella descrizione del numero 'due' che l'autrice affila la sua lama tagliente e colpisce a fondo, senza riserve; sembra quasi che voglia essere da monito per tutti, per i giovani in particolare, "badate bene" - sembra quasi urlare dalle pagine del suo libro - "attenti a quello che fate!".
Quanti, infatti, all'inizio di un rapporto sperano che la convivenza e la vita coniugale possano annullare quel vuoto, quel senso di precarietà, che spesso si lascia dietro la passione quando la sua intensità scema col tempo:
"Quello che ci manca è vivere insieme" pensava. "Niente, nessuna intimità fisica è paragonabile al sonno nello stesso letto, notte dopo notte, e non per un'ora..."
Per poi scoprire invece che:
"Un marito ed una moglie non vedono i lineamenti l'uno dell'altro, non compiono quel lavoro mentale che consiste nel paragonare di continuo l'immagine rimasta nella memoria e quella che hanno davanti agli occhi in quel preciso momento. Guardano il sorriso e non il disegno della bocca, l'espressione e non la forma degli occhi, e questo per dieci, quindici anni... Poi, ad un tratto, una sera, una sera come le altre, lui legge, lei cuce, e uno dei due alza gli occhi; l'altro, sentendo quello sguardo su di sè, forse domanderà: "Che c'e? Che hai?". Il primo risponderà: "Niente", oppure: "Ti amo", o qualcosa di altrettanto automatico, ma in realtà, per un attimo, l'uomo o la donna hanno realmente visto, e a volte hanno dovuto fare un impercettibile sforzo per riconoscerlo, il volto di chi condivide la loro vita."
La sua analisi è estremamente lucida, le riflessioni dei suoi personaggi sono talmente profonde e veritiere, così vicine alla realtà che è inevitabile pensare che siano state vissute dall'autrice sulla propria pelle.
E se mettiamo da parte le differenze con la società dei giorni nostri, ora che la donna gode sicuramente di una maggiore emancipazione rispetto agli anni '20 e la famiglia e il matrimonio non sono più l'unico punto di arrivo per lei, l'unica ambizione, rimane pur sempre eccezionale l'affinità di sensazioni, di comportamenti tra le coppie di allora e quelle di oggi.. e lo stesso identico destino che le accomuna.
"Il legame coniugale è tanto più forte quanto più si basa sull'ipocrisia, sulla costrizione. Due sposi, liberi l'uno verso l'altro, tolleranti, due sposi che si rifiutassero di rifugiarsi nel silenzio e nella menzogna, potrebbero essere due amanti, due ottimi amici, due compagni, ma cesserebbero di essere due sposi. Il matrimonio non ha bisogno della persona reale, bensì dell'apparenza, della maschera."
E' evidente quindi, agli occhi dell'autrice, l'estrema instabilità del numero due, la sua 'imperfezione' intrinseca che può sfociare solo verso la rottura definitiva (e quindi la separazione della coppia ed il ritorno alla libertà solitaria del numero uno) oppure verso la 'triangolazione' dei sentimenti, quando cioè si aggiunge un terzo elemento che risveglia la passione, la gioia di vivere, di osare, di trasgredire per non morire dentro, prima del tempo.
Per questo Marianne cerca Dominique così come Antoine cerca Evelyne, essi rappresentano il terzo vertice del triangolo:
"Lui ed Evelyne erano simili, perchè quando si trovavano soli, insieme, tutti e due riuscivano ad allontanare da sé ogni sia pur minimo rimorso. Non provavano vergogna, non avevano pudori. Insieme, ritrovavano il fervore dell'adolescenza, che è veramente se stessa solo nei sentimenti più sfrenati, quando il desiderio fisico è così impetuoso, così possente da soffocare la debole protesta dell'anima."
Come facile immaginare, però, anche il numero 'tre' è soggetto ad un'estrema instabilità... è soggetto alla stessa vulnerabilità delle passioni adolescenziali...
Ma allora qual è il numero perfetto?
Irene non lo sa, Irene vuole solo indicarci quali sono le tre buste da scegliere, la uno, la due o la tre, facendoci notare che nessuna di queste promette la felicità eterna, l'amore eterno.. per il semplice motivo che non esiste.
"La felicità coniugale non somiglia alla felicità più di quanto l'amore coniugale non somigli all'amore."
A questo punto, tocca a ciascuno di noi scegliere il miglior compromesso; lo farà anche l'autrice, a mio parere in modo inaspettato, nelle pagine finali del libro assimilando la sua riflessione a quella di Antoine nei confronti della moglie Marianne:
"Antoine pensò: 'La donna che ho amato di più non è questa, ma, in punto di morte, rimpiangerò ciò che mi unisce a lei più di quanto non abbia rimpianto la passione. La passione sembra un dono di Dio, "troppo bello per essere vero". Si sente che Lui ce la concede solo per un certo tempo; una cosa così invece (si riferisce al matrimonio) - è tutta nostra.. conquistata a fatica, accumulata lentamente, distillata come un miele."
Stavano immobili, abbracciati, i corpi stretti l'uno all'altro. Non provavano desiderio; erano calmi, un pò ironici e senza gioia, ma, un istante dopo, fu come se per loro ogni difficoltà fosse sparita."
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Il brutto, il buono e il cattivo...
Che brutta bestia la guerra! Probabilmente nessuno tra noi è stato tanto sfortunato da viverla in prima persona, possiamo solo immaginare, noi, da quello che leggiamo, dai film o dai racconti dei nonni cosa significhi veramente aver sperimentato sulla propria pelle le conseguenze di una guerra.
Un pò per caso un pò per scelta, ho letto negli ultimi mesi libri che raccontano storie vissute durante gli anni dei conflitti mondiali, alcune tratte o ispirate da episodi realmente accaduti (come in questo libro) altre partorite dalla fantasia dell'autore, tutte però mi hanno trasmesso un senso di inquietudine al solo pensiero di quello che potrebbe essere diventata la mia vita in simili condizioni.
Tra l'altro le guerre non finiranno mai, rappresentano una tappa inevitabile nei cicli e ricicli storici; tuttavia le guerre più recenti, non certo meno crudeli e devastanti di quelle del secolo scorso, sono in genere più 'circoscritte', si consumano nell'ambito di un solo paese. La prima Grande Guerra, invece, rappresentò la prima grande disgrazia umana che si abbattè implacabile su tutta l'Europa ed i cui effetti forse furono tanto più tragici perchè inaspettati, inattesi, perchè molti pensavano che la guerra non li avrebbe toccati, che ne sarebbero usciti indenni.. nessuno poteva immaginare quale portata devastante avrebbe avuto quel conflitto:
"Chi pensava che quella guerra sarebbe finita presto era già morto da molto tempo".
E come per la peggiore delle malattie, coloro che trovavano la morte erano i più fortunati.. nel senso che la morte fisica era probabilmente la più auspicabile delle sorti, di gran lunga più consolante del decadimento interiore che colpiva inesorabilmente i reduci della guerra, non solo coloro che avevano trascorso gli anni migliori della propria vita in trincee scavate nel terreno, non solo coloro scampati a bombardamenti ed incursioni nemiche ma anche coloro che avevano vissuto ogni singolo giorno nell'ansia e nell'angoscia di ricevere una lettera o una visita per annunciare la perdita del proprio figlio o marito o, peggio ancora, coloro che dopo tanto attesa vedevano tornare dal fronte un uomo diverso da quello che avevano visto partire, una sua ombra, il riflesso di tutte le sue paure o incubi peggiori.
Eccoli, quindi, due reduci della prima guerra mondiale, Albert e Edouard: combattevano fianco a fianco nello stesso reggimento, ma non si conoscevano quando erano in trincea. Soldati come tanti altri, volti infangati, occhi tristi, spenti dopo tanti morti disseminati tutt'intorno.. nel cuore solo la speranza che le voci sempre più insistenti di un armistizio imminente fossero vere e che quella missione, l'ultimo folle assalto alle linee nemiche voluto dal loro capitano Pradelle, non fosse proprio quella ad impedire loro di tornare a casa... perchè sarebbe proprio da stupidi morire il giorno prima della fine della guerra.
Ma tanti moriranno, quella missione si rivelerà solo una mossa astuta del capitano Pradelle per il suo tornaconto personale, per assicurarsi una decorosa conclusione della sua carriera militare che possa garantirgli anche un decoroso futuro da 'civile'... e si delinea così sin dalle prime pagine la figura di Pradelle come quella del classico 'cattivo', quello che induce il lettore a sperare sino alla fine in una giusta punizione, l'antagonista che aggiungerà la sua malvagità alle già numerose difficoltà che i due eroi incontreranno nel prosieguo della trama (inevitabili le assonanze con l'ispettore Javert dei Miserabili, a cui lo stesso autore ammette di essersi ispirato).
Albert ed Edouard invece sopravviveranno alla guerra, ma a quale prezzo? Albert, salvato miracolosamente da Edouard prima di morire soffocato in una buca nel terreno, vede il suo compagno trafitto in pieno volto dalla scheggia di una granata: l'armistizio viene firmato ma per Albert ed Edouard la guerra continua, uniti da un legame che va oltre la semplice amicizia, nasce tra loro un'alleanza quasi forzata contro l'attuale nemico che è la vita, non più la morte.
Perchè non è facile sopravvivere in quella nuova trincea che è diventata la società del dopoguerra, per uomini come loro a cui la guerra ha tolto tutto, amore, sogni, desideri, tutto bruciato dal fuoco delle bombe e dei proiettili che ancora risuonano nelle orecchie, immagini di soldati morti che affollano le notti e la paura, la disperazione più profonda che progressivamente annulla ogni velleità di riscatto.
Sono soli Albert ed Edouard, ognuno sostegno dell'altro, quasi in rapporto simbiotico: così diversi prima della guerra, Albert sempre pacato, riflessivo, spesso insicuro e per questo tendenzialmente incline ad una vita solitaria e piatta, Edouard ragazzo dalle notevoli doti artistiche e con una personalità eccentrica, ribelle e colma di vitalità. Al termine della guerra e di quella maledetta missione, le loro anime sembrano quasi invertite: Edouard, col viso deturpato e tormentato da dolori atroci, trascorre i giorni isolato nella sua stanza, nella più totale apatia e nell'attesa della prossima dose di morfina; Albert, che cerca di colmare il suo senso di colpa per la condizione in cui versa Edouard, procurandogli la morfina anche con mezzi poco leciti e rischiando in prima persona.
Qualcosa però accade, un'idea quasi impossibile da realizzare, una truffa colossale contro quello Stato, quella nazione che prima li ha mandati alla morte, poi li ha osannati e celebrati per il sacrificio prestato e poi li ha abbandonati a se stessi: e questo progetto diventa il loro grande tentativo di riscatto.
Ho avuto modo di apprezzare Pierre Lemaitre in Alex, un romanzo dalle tinte forti, un thriller angosciante che magnetizza l'attenzione del lettore come una calamita col ferro, in un crescendo di tensione e colpi di scena magistralmente condotti.
Con "Ci rivediamo lassù", Lemaitre cambia strada, ne imbocca una in cui la violenza non è più limitata a poche persone, vittime e carnefice, ma ha un impatto 'mondiale': è quella violenza fisica, ma soprattutto psicologica, che la prima guerra mondiale ha lasciato come una scia al suo termine.
Notevole cura da parte dell'autore nel delineare i due personaggi della storia, i due eroi, nel mettere in risalto la particolarità del loro rapporto evidenziando il disagio subito dai reduci della guerra, le enormi difficoltà che dovevano affrontare per il reintegro nella società, essa stessa allo sbaraglio dopo mesi di stenti e sacrifici imposti dalla guerra.
Non viene comunque trascurata la storia, bensì impreziosita dall'esperienza dell'autore nel genere thriller poliziesco ed arricchita quindi con quella tensione narrativa che coinvolge il lettore sino all'adrenalinico capitolo finale.
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Aprite gli occhi..prima che si chiudano per sempre
Premio Pulitzer 2015 per la narrativa! Signori, si tratta di un premio di tutto rispetto, forse una delle più prestigiose onorificenze in ambito letterario a cui uno scrittore possa ambire, basterebbe forse citare alcuni grandi capolavori che ne sono stati insigniti, da 'Il vecchio e il mare', 'Il buio oltre la siepe', sino al più recente 'Pastorale americana'.
Insomma, siamo sicuramente di fronte ad un romanzo che obiettivamente non può deludere le aspettative della stragrande maggioranza dei lettori; un pò come quando viene assegnato il primo premio ad un concorso di bellezza.. per quanto la bellezza fisica, come quella 'letteraria', sia suscettibile del gusto personale e soggettivo di ognuno di noi, difficilmente la vincitrice di quei concorsi potrà apparire 'brutta' agli occhi di qualcuno; al massimo, potrebbe non essere considerata 'perfetta', perchè magari uno nota uno sguardo poco incisivo, altri un sorriso poco smagliante... ma sono comunque dettagli che non inficiano o sminuiscono di molto il giudizio unanime.
Ecco, lo stesso potrei dire per questo romanzo, sicuramente un ottimo romanzo, con un stile di scrittura molto fluido ma che palesa al contempo una scelta accurata delle parole, volta a creare un alone di poesia che impregna ogni singola pagina del libro: si ha spesso la sensazione che l'autore voglia aiutare chi legge a percepire lo stato d'animo dei protagonisti provando a ricrearlo e trasmetterlo nella descrizione dell'ambiente, dei suoi suoni e colori, soprattutto i colori direi.
E se tenete conto che la trama si svolge durante la seconda guerra mondiale, a cavallo del D-Day, è facile intuire che i colori predominanti siano quelli più grigi e cupi, persino la primavera appare spesso spenta e sbiadita, e i suoni siano quelli più assordanti delle bombe o i sibili incisivi ed istantanei dei proiettili dei cecchini.
La guerra, sicuramente, c'è nel romanzo.. ma non ci sono vincitori, non ci sono vinti, non si punta il dito contro il tedesco o contro l'americano, non c'è politica e non si sventolano bandiere ideologiche di alcun tipo: c'è bensì la constatazione che la guerra è un male per tutti, il sangue dei caduti è rosso, sempre, indipendentemente dal paese per cui si combatte, e l'anima dei sopravvissuti è nera, educata solo all'annientamento del nemico e al sacrificio in nome della patria ed infine oscurata dalla violenza subita e perpetrata.
In questo grigiore dominante, spiccano alcuni bagliori di luce.. 'luce che non vediamo', luce che stimola ed illumina il cervello e di conseguenza l'anima, la luce della scienza, del sapere, quella curiosità che sin da tenera età pone mille domande, mille perchè, e l'ostinazione di chi non rinuncia a trovare una risposta, ad indagare, studiare, osservare ed imparare.
"Il cervello è rinchiuso nell'oscurità totale. Galleggia in un liquido trasparente dentro il cranio, senza mai vedere la luce. E tuttavia il mondo che costruisce nella nostra mente è pieno di luce. Trabocca di colore e movimento. E dunque, come fa il cervello, che vive senza uno sprazzo di luce, a costruire per noi un mondo pieno di luce?"
E' questa luce che caratterizza entrambi i protagonisti del romanzo, Marie-Laure e Werner, che l'autore ci presenta inizialmente quando ancora bambini: Marie-Laure vive a Parigi, col padre, la madre persa a pochi anni dalla nascita così come la sua vista, a sei anni infatti i suoi occhi si spengono ed il mondo intorno a lei diventa improvvisamente buio; Werner invece è un ragazzino e vive con la sorella in un orfanotrofio in un paesino della Germania nazista, vicino a quelle miniere di ferro che rappresentano l'unica fonte di lavoro e sostentamento per gli uomini del paese e dove spesso loro stessi trovano la morte.
Li vediamo crescere, le loro infanzie procedono su binari inizialmente paralleli, anche se si intuisce sin da subito che sono destinati ad incrociarsi: Werner, grazie alla sua fervida intelligenza, scopre tutti i 'misteri' racchiusi in quella scatola magica che è la radio, sino a diventare un vero esperto di elettronica, inducendo poi un ufficiale tedesco che ne percepisce le potenzialità a favorirne l'ingresso nella prestigiosa scuola di formazione della gioventu hitleriana; Marie-Laure, costretta ad abbandonare Parigi, ormai sotto l'assedio dei tedeschi, e a rifugiarsi col padre nella cittadina bretone di Saint-Malo trovando ospitalità presso la casa del prozio Etienne, dove rimarrà anche quando il padre sarà costretto ad abbandonare quel paese.
E mentre Werner trova conforto nella scienza, si concentra sullo studio delle onde elettromagnetiche per non lasciarsi soffocare dalla triste realtà che lo circonda, la 'luce' di Marie-Laure è nella sua passione per i libri, libri di avventura, libri che raccontano mondi inesplorati e ricchi di misteri della natura ancora da svelare e studiare... 20000 leghe sotto il mare, che Marie-Laure leggerà instancabilmente con le sue dita, solcando ogni singola parola della versione stampata per non vedenti, superando così con l'immaginazione i limiti imposti dalla sua cecità.
E' questa la forza della 'luce che non vediamo'... è la caparbietà che la tiene viva e che alimenta la speranza in un mondo migliore, la scienza come veicolo di progresso e sviluppo e non come strumento di morte.
E' un aspetto questo che si ripresenta spesso nel romanzo; a titolo di esempio, vi cito il riferimento frequente alla triangolazione delle onde radio, tecnica efficace in tempi di guerra nell'individuare sorgenti nemiche da disintegrare e al contempo basilare nello sviluppo delle attuali reti GSM (come accennato nel capitolo finale del libro). Analogamente, ritengo sia da interpretare sempre in quest'ottica l'introduzione nella trama della leggenda del Mare di Fiamma, un diamante di rara bellezza custodito nel museo parigino dove lavora il padre di Marie-Laure e che la tradizione vuole soggetto ad un'antica maledizione, a causa della quale il possessore gode di immortalità ma chi lo circoda è destinato ad una morte precoce.
Persino a fine lettura, ho avuto difficoltà a capire per quale motivo l'autore abbia arricchito la trama intessendo le vicende dei personaggi intorno a tale pietra, la stessa vita di Marie-Laure sarà in pericolo proprio a causa di un ufficiale tedesco che ricerca il diamante da anni sperando che la sua 'magia' sia vera e possa difenderlo dal tumore che gli ha invaso il corpo: inizialmente ho ipotizzato che sia stata una scelta 'stilistica', dettata dal desiderio di dare un tocco più 'avventuroso' alla storia; mi piace però pensare che l'autore abbia voluto mettere in contrapposizione la 'luce' visibile del Mare di Fiamma, irrazionale, basata sulla magia e sulla superstizione, con quella 'invisibile' della ragione e della scienza.
Per concludere, volendo trovare un difetto al vincitore del premio Pulitzer, ho notato solo una certa ripetitività in alcuni capitoli, soprattutto quelli in cui l'autore indugia maggiormente nel mettere in risalto il distacco forzato di Marie-Laure dal padre e del giovane Werner dalla sorella nell'orfanotrofio; ecco, direi che in alcuni punti del romanzo l'eccesso di 'poesia' sembra quasi correre sul filo della leziosità.
Ma, come già scrivevo all'inizio, si tratta di piccole imperfezioni che sicuramente non alterano la 'bellezza' di questo romanzo.
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Si può odiare continuando ad amare..
Non è facile, vi garantisco che mai sinora come con tale romanzo ho avuto grande difficoltà nello scrivere un commento che possa trasmettervi quanto ho amato questo libro, tanto da rileggerne più di una volta interi capitoli.
Perchè non appena tento di iniziare una frase, di comporla e darle un senso compiuto, essa stessa va alla deriva... si trascina all'infinito, perdendosi nel vuoto, insieme ai pensieri che la alimentano ...
Perchè questo libro è il racconto di uno dei miei incubi peggiori, di quelli che ti rimangono impressi per ore dopo il risveglio, perchè ti sembrano quasi degli 'avvertimenti' provvidenziali... insomma, un segno inviato da qualcuno per dirti 'attento a quello che fai, pensaci bene perchè questo è quello che rischi..'
Quindi il mio giudizio non sarà forse obiettivo, probabilmente la forza e l'intensità di alcune sue pagine non saranno percepite come tali da tutti ma in me hanno trovato terreno fertile.
E m'ha fatto bene leggerlo perchè nonostante i dubbi, le paure, i timori che genera, porta anche un sollievo, lo stesso che segue pure il peggiore degli incubi quando pensi 'Era solo un incubo', la consolazione appunto di rendersi conto che non è ancora divenuto realtà e sei in tempo per evitare che lo diventi.
La storia è quella di un uomo, Rico, uno qualunque, con un lavoro qualunque ed una vita qualunque, che un giorno senza forse neanche rendersene conto, perde tutto, prima la moglie e la famiglia, poi il lavoro, poi la dignità ed infine la forza di vivere:
"Capire: aveva bisogno di capire come avevano fatto, lui e Sophie, ad arrivare a quel punto. Un'ossessione. Ma, naturalmente, non c'era niente da capire. Era la vita.
Qualcosa fra due persone che un bel giorno fa cilecca. Come un appuntamento mancato. La vita.
L'amore che, senza alcuna ragione, sragiona.
La felicità che improvvisamente si trasforma in dramma."
E quando Rico è lì, solo, seduto sulla scogliera solcata dal mare di Marsiglia, lui ed il mare... beh, avrei voluto essergli vicino... senza parlare, senza dirgli niente, solo abbracciarlo, da buon amico...
"Sai, guardando il mare capisco tutta la vita che ho dentro di me. Sulla terra non c'è niente. E' brutta la terra. Sulla terra non cambia niente. Tutto è come morto. Anche la gente..."
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Italian decadence
Una grottesca ed esasperata rappresentazione (tanto esasperata da sfociare spesso nella caricatura) del degrado che ormai invade la nostra società, in cui l'ipocrisia, il cinismo, il desiderio di apparire e la necessità di emergere dalla massa, di evadere dalla monotonia del quotidiano hanno ormai annullato ogni traccia di umanità, di sentimenti tanto nobili quanto anacronistici, portando via ogni speranza di un cambiamento in meglio.
Ed il marcio è così tanto radicato da creare una voragine che ingoia tutti indistintamente, ricchi e poveri, vip e non vip, prede e cacciatori, santi e satanisti...
Ed è così che la festa del secolo, quella organizzata dall'imprenditore corrotto Sasà Chiatti nella splendida scenografia di villa Ada, acquistata e ristrutturata per l'occasione e trasformata in una sorta di zoo safari per la gioia e la soddisfazione degli istinti primordiali e predatori dei suoi ricchi e famosi invitati, si conclude poi con una vera e propria apocalisse.
Beh, certo, bisogna ammettere che non è stato facile 'digerire' la 'partecipazione straordinaria' alla festa degli uomini-talpa, un gruppo di atleti russi fuggiti, durante le Olimpiadi romane del 1995, dal comunismo sovietico e rifugiatisi nel sottosuolo di Villa Ada riducendosi, anzi regredendo così, allo stato di uomini primitivi.. rappresentano metaforicamente il nostro destino, il nostro futuro? come se l'unica alternativa alla decadenza sia cancellare tutto e ripartire dall'inizio? mah!
Ironico, sarcastico, pungente quando mette in mostra le debolezze dei suoi personaggi, la vacuità della loro vita, le assurdità elevate a normalità, Ammaniti riesce spesso a strappare un sorriso ma non basta.. rimane comunque poco incisivo.
"Se non esistono più regole etiche ed estetiche le figure di merda decadono di conseguenza"
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E buio fu..
Finalmente un pò di sano, vero, crudo, animalesco vampirismo... mi serviva questa lettura di uno dei primi romanzi di King, più che altro per 'riportare alla luce' nella mia fantasia l'immagine del vero vampiro, depurandola dalla recenti contaminazioni generate dalla penna irriverente ed oserei dire 'blasfema' della Meyer che ha ridotto la gloriosa razza dei vampiri ad un gruppetto di insignificanti figure stucchevoli, sdolcinate ed effeminate.
Per il resto, questo romanzo non è certo tra i migliori di King, la sua maestria deve ancora evolvere per manifestarsi al meglio nelle opere successive; la trama scorre lineare ed in modo prevedibile, non ci sono grandi colpi di scena nella storia ma King riesce comunque a mantenere alta la tensione... perchè sa come incutere terrore, sa come spaventare, un pò come un regista di film horror sa come muovere la telecamera per generare suspence nello spettatore.
E poi, come non notare già in questo romanzo la straordinaria abilità di King nel dare un corpo ed un'anima ad una miriade di personaggi; non ci sono personaggi minori, sono tutti protagonisti, ogni singolo cittadino di Salem viene caratterizzato in maniera impeccabile tanto che alla fine del romanzo ci sembrerà di essere uno di loro, di conoscerli tutti come ci si conosce tutti quando si vive in una piccola cittadina.
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Se non esci da te stesso, non puoi sapere chi sei.
Il racconto dell'isola sconosciuta è il racconto di una nave, di un'imbarcazione in procinto di salpare.. non è il racconto di una meta raggiunta ma di un viaggio da affrontare.
Un viaggio di cui si avverte forte la necessità e il desiderio di intraprenderlo ma che spaventa per le difficoltà che comporta, per la paura di non approdare mai o peggio ancora di trovare una terra diversa da quella auspicata...
Per questo spesso si rinuncia e per questo il primo grande ostacolo da superare è proprio la partenza... non servono abili marinai, non servono viveri o carte nautiche..
tutto ciò che serve è la voglia ed il coraggio di salpare... ed una persona, solo una, che col suo amore possa fungere da bussola.
Non è importante sapere quale sia l'isola a cui approdare, non è tracciata in alcuna mappa e non è stata mai esplorata prima.. è importante però non perdere mai la volontà di mettersi in viaggio alla sua ricerca, perchè '...ogni uomo è un'isola... e bisogna allontanarsi dall'isola per vedere l'isola, e non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi...
Solo un grande scrittore come Saramago può riuscire ad impreziosire ogni singola pagina di questo brevissimo racconto col suo stile inconfondibile, essenziale, ma tale da trasmettere un senso di infinito, di libertà e di struggente poesia.
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Ven der putz shteht, ligt der sechel in drerd.
Mi scuso sin da subito per l'abbondanza di peni e passere presenti in questo commento... non sono certo all'altezza di Philip Roth che potrà permettersi tali licenze letterarie, ma trovare sinonimi per tali membri, magari pure diversi per non appesantire troppo la lettura, è alquanto snervante.. quindi abbiate pazienza, per cortesia.
Il lamento di Alexander Portnoy potrebbe essere anche il mio e chissà di quanti altri uomini affetti da quella che si potrebbe definire sindrome del 'pene perplesso', dove la perplessità non nasce da indecisioni o dubbi in merito al fatto che la passera sia la compagna giusta, un sintomo cioè di omosessualità latente, bensì la perplessità è legata all'incapacità di trovare la passera giusta, non certo quella perfetta che probabilmente non esiste, ma una con la quale possa risultare piacevole vivere il resto dei giorni senza rimpianti e senza invidiare le passere altrui; e se quel pene proviene da un certo ambiente familiare, se è stato educato secondo rigidi e ferrei principi morali, la perplessità è accresciuta ben presto dai sensi di colpa, determinati dall'inevitabile contrasto tra pressanti impulsi etici ed altruistici con un egoistico soddisfacimento delle proprie pulsioni sessuali, ovviamente inevitabile in questo vagabondaggio tra le passere; ed ai sensi di colpa segue ben presto il timore, la convinzione frutto di un ragionamento inoppugnabile che tale ricerca della passera ideale non avrà mai fine:
"Immagini: supponiamo che mi decida a sposare A, con le sue soavi tette eccetera, cosa succederà quando fa la sua comparsa B, le cui tette sono ancora più soavi, o comunque una novità? Oppure C, che muove il culo come non m'era mai capitato prima; o D, o E, o F. Mi sto sforzando di essere onesto con Lei, Dottore, perchè con il sesso l'immaginazione umana vola sino a Z, e anche oltre!
Tette e fighe e gambe e labbra e bocche e lingue e buchi del culo! Come posso rinunciare alla novità, visto che una ragazza, per quanto deliziosa e provocante sia stata un tempo, mi diventerà inevitabilmente familiare quanto un pezzo di pane? Per amore? Quale amore? Quello che tiene legate tutte le coppie che conosciamo (quelle che si sono date la pena di lasciarsi legare)?
Non è piuttosto debolezza? Non è piuttosto convenienza, apatia, senso di colpa? Non è piuttosto paura, estenuazione, inerzia, pura e semplice mancanza di coraggio, molto, molto più dell' "amore" di cui sognano sempre i consulenti matrimoniali, i parolieri e gli psicoterapisti? Per favore, non prendiamoci per il culo con l' "amore" e la sua durevolezza. "
E, attenzione, sapete di chi è la colpa di tutto ciò? Delle mamme, le nostre care, dolci mamme, che Dio le benedica. E non importa che si tratti di mamme italiane o americane, ebree o cattoliche, bianche o nere, se una mamma è ossessiva e troppo presente nella vita di suo figlio, troppo intransigente, i risultati sono questi: una marea di peni perplessi sparsi nel mondo:
"Nondimeno, nella mia vita c'è un anno o giù di lì che non passa mese in cui non combini qualcosa di talmente imperdonabile, da sentirmi dire che devo far fagotto ed andarmene. Ma cosa sarà mai successo? Mamma, sono io, il bambino che passa serate intere prima prima dell'inizio delle scuole a tracciare in elegante grafia Old English il nome delle materie sui quaderni colorati, che incolla pazientemente i rinforzi intorno ai buchi dei fogli di un trimestre, a righe e senza.
Mi porto appresso un pettine ed un fazzoletto pulito; non mi lascio mai scendere le calze sulle scarpe, ci sto attento; finisco i miei compiti con settimane di anticipo: parliamoci chiaro, mà, io sono il ragazzino più intelligente ed ordinato nella storia della mia scuola! Le insegnanti (come sai, come ti hanno detto) per merito mio tornano a casa liete dai loro mariti. E allora cosa avrei fatto? Se c'è qualcuno che sa rispondere a questa domanda per favore si alzi! Sono così terribile che lei non mi vuole in casa un minuto di più. Una volta, quando definii mia sorella una caccoletta, mi venne immediatamente lavata la bocca con un pezzo di sapone da bucato; questo lo capisco. Ma essere cacciato! Cosa avrò mai fatto?
Non ti voglio più bene, non ad un bambino che si comporta come te; resterò qui sola con Papà e Hannah, dice mia madre (vera maestra nel mettere le cose in modo da ferirti); non avremo più bisogno di te."
Sono traumi come questi che ci rovinano:
"Saltello frenetico come un topo sulla punta dei piedi, tentando di liberarmi le caviglie dalle mutande prima che qualcuno vi lanci un'occhiata perchè, con dispiacere, con frustazione, con moritificazione, scopro regolarmente sul cavallo una pallida, informe velatura di merda. Oh Dottore, mi spazzo e poi mi spazzo e poi mi spazzo, passo lo stesso tempo a spazzarmelo che a cagare, forse di più. Adopero la carta igienica come se crescesse sugli alberi - così dice il mio invidioso padre -, mi spazzo il piccolo orifizio finchè diventa rosso come un lampone; eppure per quanto desideri compiacere mia madre depositando nella cesta della biancheria delle mutandine che potrebbero aver fasciato il buco del culo di un angelo, recapito invece i fetidi slippini di un ragazzo."
Anche perchè, prima che arrivino i sensi di colpa, prima che il pene diventi perplesso, c'è una fase intermedia di assoluta irrequietezza, di spavalderia, di ferocia che nasce proprio dal desiderio represso di libertà, di dire 'basta mamma, lasciami in pace' e che il futuro pene perplesso non può far altro che sfogare su se stesso:
"Poi arrivò l'adolescenza. Trascorrevo metà della mia vita da sveglio chiuso a chiave nel bagno, spremendomi il pisello nella tazza del gabinetto o nei panni sporchi del portabiancheria, o s-ciacc, contro lo specchio dell'armadietto dei medicinali, di fronte al quale stavo ritto con le brache calate per vedere com'era quando schizzava fuori.
Attraverso un mondo di fazzoletti sgualciti e kleenex appallottolati e pigiama macchiati, agitavo il mio pene turgido ed infiammato, nell'eterno terrore che la mia schifosità venisse scoperta e qualcuno mi piombasse addosso proprio nell'istante frenetico in cui deponevo il mio carico. Nonostante ciò, ero del tutto incapace di tenermi le zampe lontane dal batacchio, una volta che cominciava a salirmi su per la pancia."
Ora, è evidente che siamo lontani anni luce dall'autore maturo e lucidamente rassegnato di EveryMan o dal premio Pulitzer di Pastorale Americana; sebbene ci siano già indizi evidenti, tracce semeiotiche di quella che sarà l'ineguagliabile forza espressiva e mirabile capacità psicoanalitica di questo autore, mi sembra inopportuno abbondare negli elogi per un 'racconto' senza tante pretese, una sorta di spudorata confessione delle manie sessuali di uno schlong ebreo (da esperto segaiolo - un intero capitolo dedicato all'argomento - a trapanatore frustrato e mai appagato di shikse americane) che sfocia in un irriverente e dissacrante (nella sua geniale comicità) sfogo giovanile contro un certo tipo di educazione, di insegnamenti ortodossi basati su regole morali/religiose tanto rigide quanto illogiche, siano esse di stampo ebreo o cattolico.
Un libro, quindi, da leggere senza riflettere troppo, c'è solo da condividere ed eventualmente partecipare al lamento di Portnoy.. anche perchè, come dice il famoso proverbio, "quando l'uccello tira, il cervello va a finire sotto terra!"
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Ecco ciò che volevamo: bruciare
C'era una volta.. ai primi del Novecento un paesino della provincia francese, un piccolo borgo rurale, circondato da campi coltivati, boschi e ruscelli dove la vita scorreva lenta, pacata, nella sua imperturbabile ripetitività, come il rintocco di un orologio a pendolo.
Gli abitanti ne seguivano il ritmo adagiando la loro esistenza su una condotta monocorde, piatta, moralmente ineccepibile, cercando così di evitare quegli scossoni che avrebbero potuto determinare una frattura irreparabile nel regolare decorso della loro vita.
Silvio, la voce narrante, si recava in visita - come solito fare - presso la dimora dei suoi cugini, Helene e Francois, una dimora austera ed elegante che rifletteva in ogni minimo particolare l'integrità e la stabilità coniugale dei padroni di casa, dalla scelta e disposizione del mobilio, ai dipinti, ai libri disposti con ordine e cura.
E come accadeva spesso, ogni volta che entrava in quella casa, Silvio rimaneva affascinato dall'imperturbabilità di quel quadro familiare, verso cui inconsciamente avvertiva un certo senso di estraneità a causa del suo trascorso giovanile, in giro per il mondo in paesi lontani e sconosciuti quanto il cuore delle donne tra le cui braccia si addormentava.. un passato che era come una macchia indelebile sulla sua coscienza, agli occhi della sua famiglia ma soprattutto degli abitanti di quel villaggio che continuavano a trattarlo alla stregua di un 'figliol prodigo' senza però mostrare nei suoi confronti la misericordia del padre bensì un disprezzo mal celato verso chi ha sperperato futilmente i suoi averi.
E l'ammirazione di Silvio era ancor più accentuata quando osservava Colette, figlia di Helene e Francois, prossima alle nozze con Jean, erede di una delle famiglie perbene del villaggio; entrambi sembravano riflettere in tutto e per tutto l'integrità morale dei loro genitori e quindi degni eredi della loro rettitudine e felicità coniugale.
Un bel quadretto, ineccepibile.. ed è brava l'autrice nelle prime pagine di questo breve romanzo a cadenzare le sue parole, i periodi, sulla stessa frequenza lenta e flemmatica con cui si muove la vita in questo borgo francese.
Ma attenzione, questa non è una favola e tantomeno non c'è un lieto fine... questo piccolo borgo della campagna francese non è frutto della fantasia dell'autrice ed i suoi abitanti non sono personaggi immaginari con riferimenti puramente casuali a fatti e personaggi realmente esistiti.. tutt'altro, questi personaggi sono reali, sono copie speculari di uomini e donne da cui Irene era circondata e che lei ha riprodotto nel suo romanzo a fronte di una lucida analisi, obiettiva, spietata e senza remore, del loro mondo e della loro vita.
Anzi vi dirò di più.. questi personaggi sono anche eterni, non appartengono solo alla generazione di Irene ma anche a quelle passate e future perchè eterno è il "calore del sangue".
Cos'è il 'calore del sangue'? E' quel fuoco che avvampa la giovinezza, è fame di vivere, è desiderio di avventura, è quella forza interiore e misteriosa perchè la si percepisce irrefrenabile ma non se ne conosce la fonte, in grado di soggiogare ogni virtuoso tentativo di resistenza del singolo individuo in nome di una rettitudine morale molto spesso accettata solo perchè imposta dagli altri, ma mai realmente condivisa; per cui anche il carattere più risoluto, una volta attizzato, finisce per cedere.
"Chi non ha visto un fuoco simile deformare e piegare inaspettatamente la sua vita, in un senso opposto a quella che è la sua natura autentica?"
E nella giovinezza il calore del sangue diventa quasi indispensabile, come il fuoco in una fucina, per forgiare il carattere e la personalità, come in una sorta di percorso obbligato nella crescita di un individuo, un itinerario che ciascuno di noi dovrebbe compiere per acquisire quella saggezza che nasce dall'esperienza e che pertanto non può essere insegnata da nessuno, genitori o amici che siano; e non dev'essere assolutamente ostacolato o impedito in alcun modo, perchè qualora dovesse risvegliarsi nell'età adulta i suoi effetti sarebbero distruttivi, il fuoco covato sotto la cenere per tanti anni potrebbe divampare cancellando in poco tempo un'esistenza costruita a fatica giorno dopo giorno.
Ecco perchè, già dalle prime pagine, si percepisce tra le righe la sensazione che qualcosa sta per accadere, che la monotonia di quei giorni sempre uguali sta per essere rotta in modo violento ed irreversibile.. la quiete che precede la tempesta, l'incendio.
E lo si percepisce dalle parole di Silvio, che progressivamente diventano sempre più cariche di disprezzo verso quelle persone che nascondono dietro una facciata di perbenismo ed integrità una profonda grettezza morale:
"Bisogna riconoscere che i nostri contadini possiedono un talento innato per vivere nella maniera più dura possibile. Per quanto possano essere ricchi, respingono con implacabile fermezza il piacere, e persino la felicità, forse perchè nutrono scarsa fiducia nelle loro ingannevoli promesse."
"Sono persone troppo selvatiche ed orgogliose. Hanno piuttosto timore che ci si occupi di loro: sentirsi addosso gli occhi del prossimo è una sofferenza insopportabile. Questo, per altro, le rende impermeabili alla vanità: non vogliono essere invidiate, nè tanto meno compatite; solo starsene tranquille. E' il loro motto; un sinonimo di felicità, o meglio, un surrogato della felicità assente."
Nessuno è risparmiato, persino i due cari cugini, seppur in modo velato e quasi impercettibile ad una prima lettura, vengono in realtà derisi con un sarcasmo mascherato da finta ammirazione:
"Lo studio è una deliziosa stanza piena di libri, piuttosto piccola, con due grandi poltrone sistemate davanti al caminetto. Da oltre vent'anni i miei cugini trascorrono qui le loro tranquille serate, lui su una poltrona con un libro, lei sull'altra con un lavoro di ricamo; tra i due il rintocco dell'orologio, lento e rassicurante come un cuore privo di rimorsi: l'emblema della serenità coniugale."
E senza che il lettore abbia neanche il tempo di rendersene conto, l'incendio è già divampato: tutti quei palazzi incantati crollano sugli stessi pilastri che danno solo una parvenza di solidità, di felicità e di equilibrata armonia coniugale.
E le conseguenze sono disastrose per tutti, in particolar modo per chi sembra quasi aver dimenticato il 'calore del sangue', chi si è illuso di poter domare con l'aiuto del tempo che passa i suoi effetti roventi, la 'fiammata di sogni e desideri' che si porta dietro, la "febbre dell'anima, qualcosa di non paragonabile a ciò che sino a quel momento avevo chiamato amore", perchè molto più intenso, più coinvolgente seppur destinato ad esaurirsi in breve tempo in quanto alimentato dall'istinto, dalla passione e da sentimenti spesso 'immorali' e per questo certamente non candidati a durare in eterno.
"E non sto parlando semplicemente delle esigenze della carne. E' più complicato di così. La carne ci vuol poco a soddisfarla. E' il cuore ad essere insaziabile, il cuore che ha bisogno di amare, di disperarsi, di ardere di un fuoco qualunque.. Ecco ciò che volevamo: bruciare, lasciarci consumare, divorare i nostri giorni come le fiamme divorano la foresta."
Irene Némirovsky conosce bene il 'calore del sangue', lo si avverte dall'impeto e dall'entusiasmo con cui denuncia chi decide di mantenerlo sopito o peggio ancora di soffocarlo, di congelarlo a favore di una coscienza più pulita, "tanto che gli slanci di generosità che proviamo a vent'anni in seguito li bolliamo come ingenuità, dabbenaggine.. I nostri amori, puri e ardenti, assumono l'aspetto turpe dei piaceri più vili."
Il calore del sangue diventa così ghiaccio dell'anima.
Da qui la disperata preghiera finale, urlata al mondo intero:
"Torna, giovinezza, torna. Parla attraverso la mia bocca. Dì a questa donna campionessa di buon senso e di virtù che è una bugiarda. Dille che il suo amante non è morto, che lei mi ha seppellito in fretta, ma io sono vivo e vegeto, e ricordo ogni cosa. E' una bugiarda! La donna autentica relegata dentro di lei, ardente, allegra, audace, in cerca di piacere, io l'ho conosciuta, io soltanto! Al marito spetta una copia sbiadita e fredda, mendace quanto l'epitaffio di una tomba, mentre io ho avuto di lei quel che ora è morto: la giovinezza."
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Non fate il nome di Izzo invano...
Forse la mia sarà una voce fuori dal coro ma questo nuovo romanzo di Bruno Morchio non mi ha entusiasmato e credo che ben presto finirà nel dimenticatoio della mia memoria, considerata la scarsa incisività della storia e dei personaggi.
E prima che ciò accada mi affretto a descrivervi brevemente la trama: il Greco è un agente segreto, o meglio dovrei dire ex agente segreto, perchè dopo aver militato per diversi anni nel cosiddetto nucleo Gamma, un gruppo di sicurezza nazionale dell'intelligence italiana, decide di ritirarsi a vita privata in seguito alla morte della moglie a causa di un incidente stradale, poco fortuito ma ben programmato - secondo il Greco - da chi aveva interesse ad allontanarlo dalle indagini che aveva intrapreso e che avrebbero dimostrato coinvolgimenti di personaggi di spicco della sicurezza nazionale in traffici di scorie radioattive verso il nord Africa.
Il Greco non avrebbe certo rinunciato alle sue indagini e, soprattutto, non avrebbe lasciato impuniti gli assassini di sua moglie se fosse stato solo, se non avesse un figlio di pochi anni da far crescere e proteggere.
Decide quindi di abbandonare la sua attività, si ritira col figlio Alessandro in un isolato casolare della Toscana lontano dalla città in cui avevano vissuto fino ad allora, Genova, col solo scopo di mantenere Alessandro al sicuro.
Tuttavia il Greco sa benissimo che la vendetta è un piatto che va servito freddo e sa anche che non potrà essere lui a servirlo, visto che una grave malattia lo porterà entro pochi anni alla morte.
Sceglie perciò di lasciare un 'testamento' al figlio, un testamento che pretende morte e vendetta, ma non la impone, dovrà essere Alessandro a decidere se portarlo a termine o rinunciare.
In realtà il Greco ha lasciato al figlio anche un'eredità ben più cospicua: infatti negli anni trascorsi nel casolare in Toscana ha sottoposto il figlio ad una vera e propria educazione militare, tramandandogli tutta la sua esperienza e la sua conoscenza nell'ambito dei servizi segreti, e addestrandolo all'uso delle armi e delle più letali tecniche di combattimento.
Il Greco ha quindi trasformato il figlio in una vera e propria macchina da guerra, lasciandolo però all'oscuro del vero motivo per cui ha fatto ciò.
Immaginate quindi lo stato d'animo di questo ragazzo, Alessandro, che trascorre gli anni della sua adolescenza riducendo ai minimi termini il contatto sociale per dedicarsi a continui allenamenti fisici o battute di caccia col padre per affinare la sua mira e la sua abilità nel colpire a morte.
E' solo con la scomparsa del padre che Alessandro scopre la ragione di tutto ciò, è solo allora che scopre la verità sulla morte della madre sino ad allora associata ad un maledetto incidente stradale ed invece voluta ed architettata dai nemici del Greco.
E non ha dubbi Alessandro, non ha ripensamenti: tocca a lui ora finire quello che il padre ha iniziato, tocca a lui portare a compimento il testamento del Greco.
La storia entra così nel vivo dell'azione, Alessandro torna nel capoluogo ligure dove ancora vivono gli altri componenti del nucleo Gamma verso i quali sono indirizzati i sospetti del padre e ha così la possibilità di mettere in pratica tutti i suoi insegnamenti, architettando un piano che lo porterà alla verità e alla vendetta promessa.
Alcuni hanno paragonato l'autore di questo romanzo, Bruno Morchio, a Jean-Claude Izzo, il padre della ben nota trilogia marsigliese iniziata con Casino Totale: ecco, questa mi sembra una vera eresia.
Ho letto e amato la trilogia marsigliese e posso quindi affermare che l'unica caratteristica in comune tra le due opere è quella di aver ambientato la storia in città che potremmo quasi considerare 'gemelle', dal punto di vista storico e culturale, città antiche, il cui splendore, la cui vera anima non è in superficie, ma è nei vicoli, nelle stradine intorno al porto, nei quartieri più difficili e malfamati; non per niente Izzo scriveva: 'Non c'è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Marsiglia non è una città per turisti.'
Ma i romanzi di Izzo sono capolavori del genere noir, Izzo è quasi un poeta quando descrive la sua Marsiglia, i suoi colori, l'odore dei pastis e delle birre sui tavolini lungo il porto, i versi dei gabbiani, la sua luce al tramonto... Izzo rende viva la sua città, la descrive con una tale musicalità che se ne scorge veramente l'anima, impossibile non rimanerne affascinati.
Ed i personaggi dei suoi romanzi sono quasi alter-ego della città, sono marsigliesi e come tali ne mostrano tutte le sue peculiarità, sono passionali, violenti, cupi ma veri.
Niente insomma a che vedere con i personaggi di Bruno Morchio: lo stesso Alessandro, il Greco junior, in confronto a Fabio Montale (protagonista della trilogia marsigliese) sembra quasi una macchietta.
E poi la storia: tralasciando il finale che a mio parere rasenta quasi il ridicolo, ho faticato molto a digerire alcune parti del racconto. Degli esempi? Non appena giunto a Genova, Alessandro dopo un'amichevole chiacchierata con uno dei vecchi amici di suo padre, decide sapientemente di piazzare una 'potente microspia' nella cintura dell'ignaro malcapitato.
E su quanto poi Alessandro riuscirà ad intercettare grazie a questa microspia si basa gran parte della sua indagine. Ora, anche supponendo che Alessandro dopo tanti anni di allenamento sia diventato un abile borseggiatore/manipolatore tale da riuscire a piazzare una microspia in una cintura senza destare il minimo sospetto, pur supponendo che l'uomo in questione abbia la sensibilità di un elefante tale da non sentire un oggetto estraneo nella cintura, ma come posso accettare che questa microspia funzioni per giorni e giorni senza il minimo problema? Devo quindi dedurre che l'uomo con la microspia nella cintura sia stato costretto dall'autore ad indossare gli stessi pantaloni per tutta la durata del romanzo?
Ed ancora un altro esempio: l'addetta alle intercettazioni è nel romanzo un'amica di Alessandro, un'altra vecchia conoscenza del Greco nonchè anch'ella membro del nucleo Gamma, la quale durante le conversazioni telefoniche con Alessandro per riferirgli il riassunto delle intercettazioni tramite la suddetta microspia si preoccupa di non fare nomi ed indirizzi essendo la linea poco sicura ma non esita ad usare un vocabolario tipicamente siciliano, essendo tra l'altro l'unica siciliana del gruppo e quindi sicuramente individuabile senza il minimo dubbio!!!
Insomma, che dire, se i nostri servizi segreti fossero così .. ingenui, consentitemi il termine, sarebbe più conveniente ed economico per tutti chiudere baracca.
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Gente di mare...
Sorge quasi spontaneo paragonare questo romanzo ad un quadro dell'arte romantica, inizio Ottocento, principalmente la pittura tedesca, mi vengono in mente per esempio artisti come Friedrich o forse, meglio ancora, l'inglese William Turner che hanno spesso incentrato le loro opere sulla natura, la sua forza, la sua selvaggia grandiosità che l'uomo non potrà mai dominare in quanto segno evidente del potere di Dio; può solo ammirarne e contemplarne la potenza e l'energia che sprigiona e di cui l'uomo può trarne beneficio o esserne travolto, soccombendo.
E quale tra le molteplici manifestazioni della natura può meglio ispirare questo senso di maestosità se non il mare, l'oceano; immaginate quindi uno di quei quadri in cui un uomo viene ritratto mentre osserva estasiato ed intimorito dall'alto di uno scoglio la suprema bellezza del mare in tempesta.
Ecco.. non so se esiste qualcosa di simile alla sindrome di Stendhal per un libro, ma vi posso garantire che leggendo le pagine di questo romanzo sembra quasi di sentire la brezza dell'oceano sulla pelle o il rimbombo delle onde mentre si frantumano sulla scogliera.
"Alla loro destra la torbiera si perdeva in un'infinita foschia interrotta solo da qualche pecora stoica che resisteva saldamente al vento forte dell'Atlantico. Alla sinistra, l'oceano si abbatteva in cicli eterni sulle spiagge e nelle insenature rocciose con la schiuma bianca e cremosa che cozzava sullo gneiss scuro e caparbio, la roccia più antica del mondo."
Siamo sull'isola di Lewis, un pezzo di terra nell'arcipelago scozzese delle Ebridi circondata dall'Oceano Atlantico che, come si può facilmente immaginare, condiziona col suo 'umore' e con la sua capricciosa mutevolezza la vita degli uomini che la abitano.
Una vita non facile, soprattutto per i giovani sempre più inclini a non seguire le orme dei loro genitori, desiderosi di abbandonare il prima possibile quel luogo così primitivo e lontano dal mondo, congelato in tradizioni che si tramandano da secoli e nell'ottusa mentalità imposta dalla chiesa protestante che soffoca sul nascere ogni loro sogno ed ambizione.
Per questo motivo molti ragazzi, una volta concluso il liceo, si trasferiscono in Scozia per completare gli studi e crearsi una propria vita, liberi di costruirla senza imposizioni esterne, commettendo errori anche ma seguendo comunque la propria indole.
Fin Macleod è uno di questi: originario di Crobost, una piccola cittadina sull'isola di Lewis, vive in Scozia e lavora come ispettore nella squadra omicidi. Sconvolto per la perdita del figlio di soli 8 anni a causa di un incidente stradale che porta anche alla rottura definitiva del già fragile rapporto con la moglie, decide di partecipare alle indagini su un caso di omicidio nella sua città natale Crobost, nella sua isola.
Ma le indagini per il delitto diventano solo il filo conduttore di un racconto che, alternandosi sapientemente tra flash back raccontati dal protagonista e narrazione in terza persona, ripercorre diversi episodi della vita di Fin, sin dalla sua infanzia, svelando debolezze, virtù, ossessioni e desideri dei suoi amici di un tempo e nella cui vita ora Fin deve scavare al fine di riconoscere il colpevole, l'assassino.
E' sicuramente questo ritorno al passato il fulcro di tutto il romanzo, l'indagine poliziesca sembra quasi un pretesto per poter scandagliare e 'perquisire' a fondo l'animo degli abitanti di Crobost, in particolar modo quelli con cui Fin ha vissuto gli anni più importanti della sua vita, quelli dell'adolescenza. Ed un episodio, in particolare, quello che per i ragazzi di Crobost segna il passaggio all'età adulta, una sorta di rito di iniziazione, la caccia annuale alle guga, uccelli che vanno a nidificare sull’An Sgeir, una striscia di gneiss lunga un chilometro a largo dell’isola di Lewis, battuta da venti e da intense mareggiate; su questa striscia di terra, senza alcun riparo se non una caverna scavata dal mare nella roccia, un gruppo di uomini e ragazzi - come imposto da una tradizione secolare - convivono per due settimane massacrando duemila cuccioli di guga prima di tornare sull'isola.
E ciò che accade durante la caccia alla guga rimane sepolto lì, sull'An Sgeir.. e nei cuori di chi vi partecipa, perchè nessuno parlerà mai di ciò che accade in quei quindici giorni, una volta tornato all'isola.
Inevitabilmente, quindi, anche Fin cadrà vittima delle sue stesse indagini, perchè anche il suo passato non è limpido, anche lui nasconde un segreto, anche lui è vissuto sull'isola dei cacciatori di uccelli.
Vi consiglio senza ombra di dubbio la lettura di questo romanzo sia perchè ben scritto, di sicuro uno dei migliori noir che abbia mai letto (e ne ho letti tanti), ma principalmente perchè è impossibile non rimanere affascinati dalla straordinaria potenza descrittiva con cui Peter May 'dipinge' come in un quadro quei luoghi:
"Dal bordo dell'acqua alzai lo sguardo su un cielo libero da ogni inquinamento luminoso e mi sentivo pieno di meraviglia per la sua vasta volta stellata nera come l'inchiostro. Ci sono momenti in cui si guarda il cielo e si sente che tutto ruota intorno a noi e altri in cui ci si sente infinitamente piccoli. Quella notte mi sentii come un infimo granello di polvere nella storia dell'infinito."
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Non dire mai: di quell'acqua io non ne bevo.
Devo ammettere che non è facile esprimere un giudizio su questo libro perchè sicuramente è un romanzo che merita di essere letto ma nello stesso tempo è ben lungi dalla perfezione.
Cominciamo con i pregi: anzitutto lo stile di scrittura, elegante, diretto, periodi ben articolati con una scelta molto attenta ed efficace dei termini, direi che andrebbe letto ad alta voce per apprezzarne la musicalità delle parole.
Poi l'ambientazione: le tradizioni, i costumi, la gente, l'aria della Sardegna traspira da ogni pagina del libro... e per chi come me ha avuto la fortuna di visitare l'isola in lungo ed in largo, soprattutto l'entroterra, è facile ricostruirsi nella mente quei luoghi, che sembrano quasi essere immuni al trascorrere del tempo, e che neanche la 'civiltà' ed il turismo dilagante lungo la costa sembra riuscire ad intaccare.
Gente meravigliosa, quella della Sardegna: ospitale, affabile, generosa ed estremamente rispettosa delle tradizioni. E la storia ruota proprio intorno a due usanze che la nostra civiltà, quella del 'continente' non potrebbe mai accettare e giustificare ma che in questo borgo isolato dal resto del mondo sono tacitamente consentite, personificate nelle due figure femminili protagoniste del romanzo, Maria, la fill'e anima, e Bonaria, l'accabadora.
E' una storia che coinvolge ed incuriosisce perchè racconta il rapporto tra queste due donne "particolari", una 'madre' ed una 'figlia' fuori dal comune e soprattutto fuori da quello che noi siamo abituati a considerare come etico, morale.
Maria, la fill'e anima, una figlia che nasce una seconda volta perchè affidata dalla madre naturale alle cure di un'altra donna che diventa a tutti gli effetti la sua seconda madre, come se il cordone ombelicale venisse reciso una seconda volta; e nel caso di Maria, la sua seconda nascita sembra quasi una grazia, una fortuna inattesa, per lei che era destinata ad essere considerata da tutti come "l'ultima", la quarta e non desiderata figlia dopo altre 3 sorelle maggiori e già praticamente accasate.
Bonaria, invece, la sua madre acquisita è un'accabadora, colei cioè che seguendo un rituale preciso "aiuta" a morire chi ormai non ha più speranze di condurre una vita degna di essere chiamata tale, perchè dilaniata dal dolore e dalla sofferenza; è una sorta di 'ultima' madre, perchè tutti noi nella nostra vita incontriamo ogni giorno madri e padri nuovi, persone che intervengono nel nostro destino plasmandolo, visto che nessuna delle nostre scelte dipende esclusivamente da noi, neanche la nascita. E spesso nemmeno la morte; l'accabadora è l'ultima madre, colei che segna l'ultimo giorno.
Si tratta perciò di un rapporto molto particolare quello che s'instaura tra Maria e Bonaria: offre diversi spunti di riflessione e viene inizialmente affrontato in modo perfetto, senza inutili retoriche e ben calato nel racconto e nello sviluppo della vicenda.
Però poi c'è una brusca interruzione, l'autrice crea una svolta nella storia, a mio parere del tutto inutile ed evitabile, tanto più che rimane una parentesi isolata, come se fosse una piccola storia all'interno della trama principale ma del tutto scollegata da questa. Ed anche il finale secondo me ne risente negativamente, perchè perde la carica emotiva, l'intensità delle prime pagine risultando quasi banale e scontato.
Rimane comunque un'ottima lettura.
Se non altro per alcune perle di saggezza popolare:
"Non dire mai: di quell'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata".
"Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell'anima."
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Mors tua, vita mea...
Che forza, Irene! Che stile! Una potenza espressiva che ti travolge e ti avvolge, come un'onda dell'oceano quando insegue un surfista nella sua spirale d'acqua e lo trascina con sè, lo conduce lungo la sua scia e lui non può far altro che lasciarsi trascinare, sino alla fine, sin quando l'onda gli si abbatterà addosso con tutta la sua forza, spegnendosi.
E così come un'onda esaurisce la sua potenza nel giro di pochi secondi, allo stesso modo l'impeto di Irene si concentra in un centinaio di pagine, un racconto che si legge e si vive tutto d'un fiato, impossibile interromperne la lettura perchè una volta catturati dall'onda non è facile uscirne, praticamente soggiogati dalla sua forza cinetica, dalla progressiva accelerazione verso l'epilogo finale.
E' il primo libro che leggo di Irene Nemirovsky (e di certo non sarà l'ultimo) ma mi ha affascinato a tal punto che non ho potuto fare a meno di approfondire la conoscenza di questa donna, che sarà stata sicuramente una grande donna, forte, passionale, ribelle, un animo sensibile ma non debole, combattivo e certamente sincero, istintivo; perchè altrimenti non sarebbe riuscita a rendere così 'vivi' i suoi racconti, c'è un cuore che batte tra quelle pagine, c'è uno stomaco che si contorce per la rabbia, per l'odio verso chi le è più vicino, in primis i genitori, dai quali riceve incomprensione piuttosto che amore, accecati come sono dalla propria meschinità e menefreghismo.
E leggendo la sua biografia, percorrendo le tappe della sua breve ma intensa vita (come un'onda), si intuisce facilmente l'inquietudine e il desiderio di rivalsa da cui era tormentata: la nascita a Kiev nel 1903, gli anni dell'adolescenza trascorsi in fuga dalla rivoluzione russa prima in Finlandia, poi a Stoccolma ed infine in Francia dove vivrà sino al suo arresto da parte dei nazisti, nonostante la sua conversione al cattolicesimo, e la morte nel 1942 ad Auschwitz dove era stata deportata.
Due lingue, il russo e il francese, parlate alla perfezione; due culture, Oriente ed Occidente, assimilate ma in equilibrio instabile nella sua personalità; due religioni, ebraismo e cattolicesimo, mai veramente vissute spiritualmente anzi quasi rigettate e derise nelle loro contraddizioni.
Ma è nella descrizione dei suoi personaggi che Irene palesa la sua straordinaria vena narrativa:
ne 'Il ballo', la protagonista Antoinette (inevitabile considerarla alter-ego dell'autrice Irene dopo aver letto la sua biografia) è la figlia quattordicenne dei coniugi Kampf, lui banchiere ebreo che grazie ad investimenti ben calcolati riesce ad accumulare una grande ricchezza tanto da consentire alla famiglia il passaggio nell'alta società, quella dei ricchi e dei titoli nobiliari, e lei donna arrivista, ambiziosa e vanitosa, che dopo anni di sacrifici e rinunce che la vita 'borghese' le impone, può finalmente dar sfogo alla sua cupidigia, esaudire tutti i suoi desideri, anche quelli più futili, repressi per anni, in particolare quello di entrare di diritto nella società che conta.
E quale migliore occasione per farsi conoscere se non quella di organizzare un ballo, una cerimonia nella sua nuova residenza a cui avrebbero partecipato ben 200 invitati selezionatissimi, gente sconosciuta ma dai titoli altisonanti e che avrebbero confermato definitivamente il passaggio del signor e signora Kampf ad una nuova vita. E già, ma Antoinette? La signorina Antoinette, nel pieno della sua adolescenza è animata da quell'ardore tipico di una ragazza che si sente ormai donna, pronta e desiderosa di dismettere definitivamente i suoi vestitini da bambina, ormai troppo stretti, soffocanti quasi. Ma nessuno in famiglia sembra capirla, nessuno avverte il suo trambusto interiore anzi la madre per prima continua a trattarla come una bambina, una stupida bambina, che col suo broncio perenne, col suo atteggiamento disubbidiente ed indisciplinato non fa altro che aggiungere problemi, solo problemi, alla signora Kampf distogliendola dalla sua unica preoccupazione, il ballo, che la consacrerà nell'olimpo dell'alta società.
Antoinette soffre, medita, piange, il suo odio si amplifica nella crescente indifferenza dei suoi genitori sino ad esplodere alla prima occasione che le si presenta per mettere in atto la sua vendetta, tremenda quanto efficace vendetta.
E l'abbraccio finale è una sconfitta per entrambe, per la madre che vede crollare il suo castello faticosamente eretto e per la figlia che assapora senza pietà il gusto della vendetta, senza il minimo senso di colpa, lasciando quindi intravedere quello che diventerà Antoinette, una donna identica alla madre, una seconda signora Kampf:
'Era l'attimo, l'istante impercettibile in cui si incrociavano "sul cammino della vita": una stava per spiccare il volo, l'altra per sprofondare nell'ombra. Ma non lo sapevano. Eppure Antoinette ripetè piano: Povera mamma.. '
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In questo mondo di ladri...
Va detto subito: il romanzo di Fuminori Nakamura non ha niente in comune con quello di KK (Kenzo Kitakata) se non il titolo 'Tokyo Noir'... ed aggiungerei purtroppo, in quanto uno dei motivi che mi ha indotto a scegliere il romanzo di Fuminori è stato proprio aver apprezzato moltissimo il romanzo omonimo sperando che fosse, come quello, un capolavoro del genere noir nipponico, considerato anche quanto osannato nei vari commenti autorevoli riportati in copertina e come i premi di rilievo ricevuti in patria e all'estero lasciano ipotizzare.
Ma se Kitakata non ha deluso affatto le mie aspettative col suo romanzo che incanta e violenta il lettore allo stesso tempo, non posso affermare altrettanto di Fuminori.
Alcuni hanno definito questo romanzo un 'noir filosofico', definizione che condivido a metà nel senso che c'è molta filosofia e poco noir, se per noir intendiamo quel filone (meglio conosciuto come 'hard-boiled') del genere poliziesco che punta ad una più efficace costruzione della suspence, indugiando ed enfatizzando dettagli anche cruenti ed erotici, a discapito dell'indagine investigativa vera e propria.
Non sarebbe corretto affermare che queste caratteristiche siano del tutto assenti nel romanzo di Fuminori ma sembrano note stonate, non perfettamente in sintonia col resto della storia: un esempio per tutti, la descrizione direi quasi asettica e distaccata di un'orgia che si concretizza dinanzi agli occhi attoniti del protagonista nel salone di un locale e che si percepisce come 'estranea' alla vicenda, quasi fosse un obbligo per l'autore inserirla; risulta, infatti, del tutto inutile nello sviluppo della trama e se lo scopo dell'autore, l'unico che posso immaginare, è stato quello di voler assimilare quel salone ad una sorta di bolgia infernale, quasi come anticamera prima dell'incontro col diabolico Kizaki, il risultato è comunque poco soddisfacente, offrendo più l'idea di un set per un film pornografico.
In quest'ottica trovo la scelta del titolo (della versione italiana) 'Tokyo noir' dettata da esigenze di mercato più che da una reale assonanza con la storia raccontata; molto più efficace il titolo 'Thief' della versione inglese, traduzione 'letterale' del titolo originale 'Suri' (ladro).
Per la semplice ragione che il romanzo ha come protagonista un ladro, Nishimura, un vero professionista nel suo settore, un Arsenio Lupin di strada, un borseggiatore che adocchia le sue possibili prede tra la folla variegata che popola le strade di Tokyo e con maggior predilezione verso coloro che ostentano ricchezza e potere; come se in tal modo possa attenuare il senso di colpa per il piacere che prova nell'impossessarsi della proprietà altrui, nell'avere tra le mani un pezzo della vita altrui, quello riassunto nelle foto, nei documenti di identità o nelle tessere conservate nel portafoglio o in una borsa.
Le tecniche di furto sono estremamente precise ed eseguite con perizia quasi chirurgica; e per quanto mi sembra assurdo che un ladro, seppur di tale livello, possa riuscire nel giro di pochi secondi a sbottonare un cappotto, tagliare un taschino interno, sfilare un portafoglio, prenderne i soldi all'interno, rimettere al suo posto il portafoglio e riabbottonare il cappotto senza destare il minimo sospetto, devo ammettere che mentre leggevo il libro in metropolitana ho spesso controllato, quasi istintivamente, che il mio portafoglio fosse sempre al suo posto.
Poi un giorno la vita di Nishimura subisce un radicale ed improvviso cambiamento: da una parte l'incontro, sembrerebbe fortuito e casuale, con un bambino alle prese con i suoi primi tentativi di furto, alquanto maldestri, in un supermercato che fa riaffiorare nella mente di Nishimura i ricordi della sua infanzia e risveglia nel suo cuore un desiderio di amicizia e di affetto sino ad allora soffocato da anni di solitudine ed isolamento; dall'altra, l'incontro altrettanto casuale con un uomo misterioso e temibile, già citato Kizaki, che lo costringe ad assecondare i suoi piani criminali apparentemente senza una ragione precisa che giustifichi il suo coinvolgimento, senza un motivo per cui Kizaki abbia scelto proprio lui, Nishimura.
Ma nulla avviene per caso nella vita di ogni uomo, il destino è sempre un disegno ben preciso nella mente del più forte: 'In fondo che cos'è il destino, se non il vincolo che tiene uniti i deboli ai forti?'
Anche gli eventi solo all'apparenza inevitabili sono sempre mossi dalla cupidigia e dall'opportunismo di alcuni e dallo scontento degli altri che sfocia inevitabilmente in un gesto disperato e definitivo.
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Ossessione paterna
Conoscete, vero, Sandrone Dazieri? E' un nome che certo non possono dimenticare gli amanti del genere noir italiano, stile metropolitano alla Scerbanenco per intenderci, autore della fortunata e ben riuscita saga del 'Gorilla' ma che con questo nuovo romanzo decide di avventurarsi nel genere affine del thriller poliziesco.
E sicuramente ha tutte le carte in regola per farlo, poichè oltre alla sua pregressa esperienza come scrittore ha anche realizzato sceneggiature per diverse fiction di grande popolarità nel panorama 'poliziesco' italiano.
Sa quindi come lasciare il segno nei suoi lettori e sa che è sempre garanzia di successo puntare sull'effetto sorpresa, sulla verità tenuta nascosta sino alla fine, mascherata da storie secondarie che poco alla volta si sgretolano come matrioske sino al colpo di scena conclusivo, imprevedibile ed inatteso.
Uccidi il padre è infatti un romanzo che vuole sorprendere, vuole stupire il lettore e disorientarlo presentando una vicenda che inizialmente sembra muoversi nei confini classici di un'indagine investigativa ambientata nella capitale ma progressivamente si allarga a dismisura temporalmente e geograficamente mettendo in relazione tra loro episodi terroristici, organizzazioni e segreti di Stato risalenti a diversi decenni prima.
E l'intento di Dazieri è evidente sin da subito, sin dal titolo direi: un titolo forte, sconcertante, un 'comandamento' in chiara contrapposizione con quello cristiano, un atto contro natura e contro morale, un ordine imperativo a cui potrebbe sottostare solo una persona la cui coscienza è stata annullata e quindi plasmata secondo nuove regole, nuovi schemi imposti dal suo creatore, il Padre.
Ed il Padre sceglie Dante Torre come suo figlio prediletto, rapito in tenera età dalla sua vera famiglia e rinchiuso in un silo di pochi metri quadrati, senza alcun altro contatto col mondo esterno se non una finestrella tramite la quale il nuovo Padre adottivo lo nutre, lo istruisce e lo educa secondo la sua volontà.
E quando, dopo ben dieci anni, Dante riesce a fuggire dal Padre sfruttando una crepa in una parete non ha certo intenzione di comportarsi come il più famoso 'figliol prodigo', sicuramente non torna da lui ma scappa, lontano, il più lontano possibile, per dimenticarlo, per ricostruirsi la sua vita, la sua identità.
Ma il Padre non lo abbandona, il Padre lo osserva crescere nel mondo.. forse era proprio questo il suo scopo, lasciarlo libero nel mondo per studiarlo, compiacersi della sua creazione.. perchè Dante ora non è più colui che crede di essere, Dante ora è il Figlio.
Un piano perfetto.. o quasi, sin quando la poliziotta romana Colomba Caselli coinvolge Dante nelle indagini per la scomparsa di un bimbo di sei anni dopo il ritrovamento del corpo decapitato della madre.
E la scelta di Dante come supporto nelle indagini non è casuale, sia per alcune somiglianze col suo rapimento seppur avvenuto molti anni prima sia per le capacità acquisite durante la sua prigionia, un potere di deduzione sopra la norma che gli consente di percepire ed elaborare anche i minimi particolari di tutto ciò che osserva, una specie di Sherlock Holmes in borghese.
Non nascondo che personalmente gradisco maggiormente l'anima noir di Dazieri ma questo suo esordio nel thriller è sicuramente apprezzabile: ritmo incalzante, adrenalinico ma sapientemente dosato, inframmezzato con momenti più introspettivi ed arricchiti da dialoghi ben curati che consentono di soprassedere su alcuni eccessi, ad esempio le abilità di combattimento corpo a corpo della nostra poliziotta, da far invidia a Jean Claude Van Damme, o l'acume sin troppo acuto di Dante.
Una trama fitta e ricca di colpi di scena sino all'ultimo imprevedibile, inimmaginabile resoconto finale.
E sarebbe stato inatteso anche per me se non avessi visto un film, citato anche nel romanzo, a cui la storia di Dante e del Padre è sicuramente ispirata.
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Dio è silenzioso, il diavolo sussurra...
Discreto. Non paragonabile, secondo me, all'esordio di Faletti con 'Io uccido', ma di certo una prima prova ben riuscita per un italiano che s'imbatte nel genere thriller stile CSI.
Le prime pagine sono molto accattivanti, l'autore non indugia eccessivamente sui particolari più macabri degli omicidi seriali, già di per sè violenti e crudeli in quanto perpetrati su bambine in tenera età, ma si concentra sui risvolti psicologici che la vicenda determina sui componenti della squadra investigativa incaricata dell'indagine, in modo particolare Mila, esperta nel ritrovamento di bimbi scomparsi, ed il dottor Gavila, esperto criminologo; entrambi, ovviamente, già provati da esperienze passate alquanto traumatiche il cui ricordo non del tutto sopito riaffiorerà prepotentemente col procedere delle indagini.
E che la sfida con l'assassino sia principalmente su un livello psicologico lo s'intuisce sin dall'inizio quando il dottor Gavila ipotizza quello che secondo lui potrebbe essere il movente dell'assassino, tanto folle quanto spietato:
"Debby. Anneke. Sabine. Melissa. Caroline."
Mila ripeteva in mente quei nomi mentre osservava da dietro un vetro i famigliari delle 5 vittime identificate, che erano stati riuniti per l'occasione nell'obitorio dell'Istituto di medicina legale.
"Guarda lì", disse Goran Gavila alle sue spalle. "Cosa vedi?"
"Vedo quelle bambine morte. Anche se non sono lì. I loro volti sono la somma dei volti dei genitori. Perciò posso vedere le vittime."
"Io vedo, invece, 5 nuclei familiari. Tutti con una diversa estrazione sociale. Con diverso reddito e tenore di vita. Vedo coniugi che, per motivi vari, hanno avuto un solo figlio. Vedo donne che hanno superato abbondantemente i quarant'anni e che perciò non possono biologicamente sperare in un'altra gravidanza. Io vedo questo." Goran si voltò a guardarla. "Sono loro le sue vere vittime. Li ha studiati. Li ha scelti. Una sola figlia. Ha voluto togliergli ogni speranza di superare il lutto, di provare a dimenticare la perdita. Dovranno ricordarsi di quello che gli ha fatto per il resto dei loro giorni. Ha amplificato il loro dolore portandogli via il futuro. Li ha privati della possibilità di tramandare una memoria di sè negli anni a venire, di sopravvivere alla propria morte.. E si è nutrito di questo. E' il compenso del suo sadismo, la fonte del suo piacere".
Ed è su questa sfida che l'autore cerca di catalizzare l'attenzione del lettore.
Nel prosieguo della vicenda, però, Carrisi infonde un'impronta da 'fiction' al suo romanzo creando punti di svolta nella storia troppo vincolati alle abilità investigative dei protagonisti; ed esagera ricorrendo persino all'intervento soprannaturale.
Il colpo di scena finale tuttavia non cade nella banalità, anzi mi sembra molto ben congegnato ed efficace tanto da mettere in secondo piano le imperfezioni sopra citate.
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Un libro che non volevo...
Questo libro è come un piatto di pasta cotta senza metterci il sale: è insipido, sciapo, manca di carattere, di forza espressiva, la materia ci sarebbe ed offrirebbe diversi spunti di riflessione interessanti se fossero approfonditi e trattati senza scadere nella banalità e nell'ovvietà.
Tutto ruota intorno alla domanda: 'Era questa la vita che volevi?' Beh, ovvio che il 99% delle risposte sarà un NO, anche a causa della naturale tendenza dell'uomo all'autocommiserazione ed all'inevitabile riconoscimento dell'inadeguatezza della sua condizione attuale che lo porta sempre verso un perenne senso di insoddisfazione; e non si sottraggono a questa risposta neanche i protagonisti dei racconti proposti nel libro, racconti imperniati sul rimpianto per le decisioni non prese o peggio ancora per le decisioni prese ma nel modo sbagliato. E per quei pochi che risponderebbero Sì (tra cui anche lo stesso autore) e che si ritengono soddisfatti della vita che hanno, per essi ci sarebbe comunque, a ben guardare, il rimpianto delle occasioni mancate per non coincidenza dei tempi, che non è un vero e proprio rimpianto in quanto se sono occasioni mancate spesso non hai neanche coscienza del fatto che si sarebbero potute verificare e quindi non puoi neanche rimpiangerle; è più una sorta di triste consapevolezza che sicuramente, almeno una volta nella vita, ci siamo persi chissà quale grande occasione .. per una manciata di minuti.
Ecco, 'La vita che volevo' in fondo è questo: una decina di racconti su occasioni mancate e scelte sbagliate, condite con riflessioni più o meno semplicistiche sul caso o destino che dir si voglia... tutto qui.
Io piuttosto vi consiglierei di comprare qualche gratta e vinci... ci sono più probabilità che troviate la vita che volete...
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