Opinione scritta da Mian88
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Estremi di una vita
«[…] In casa ci doveva essere anche il caffè e adesso che gli arrivava la pensione non mancavano mai né il tabacco né il caffè e anche oggi il caffè era buono, stamattina come tutte le altre, quindi da questo punto di vista era tutto come sempre, sì, ma al tempo stesso tutto sembrava essere diverso, o no?»
Classe 1959, Jon Fosse è lo scrittore e drammaturgo norvegese vincitore del Premio Nobel per la Letteratura del 2023. Tante le opere che lo caratterizzano e tutte intrise da un filo rosso che prende per mano e conduce tra spazi temporali che si sospendono e atmosfere oniriche che si susseguono.
“Mattino e sera” è un lungo racconto che non si distacca da questa impronta. È scritto con uno stile rapido, pulito, asciutto ma al tempo stesso è scandito da un ritmo ben cadenzato che ne evidenzia la profondità. Si può suddividere in due parti; ad essere raccontato è quello che rappresenta il mattino e ciò che rappresenta la sera di Johannes, figlio del pescatore Olai, nipote del nonno pescatore di cui porta il nome e di cui ha abbracciato la professione, marito di Erna da cui ha avuto in dono sette figli.
La narrazione ha inizio proprio con la nascita del figlio maschio, tanto, troppo attesa, dopo un’unica altra figlia ormai adolescente. Olai è seduto al tavolo, segue il parto di Marta, la moglie, ha paura ad ogni urlo, attende. È il suo mattino. E quelle stesse riflessioni accompagneranno il figlio durante tutta la sua vita, sino alla tarda età.
«[…] Entra in soggiorno e poi nella camera e lì vede papà Johannes sdraiato sul letto e ha un’aria tranquilla, quasi come se stesse dormendo, pensa Signe e gli prende la mano, quasi come quando ero una bambina, pensa Signe e sente fremere dietro gli occhi e gli occhi si riempiono di lacrime.»
Nella seconda parte del racconto conosciamo Johannes ormai da anziano e vedovo. Le giornate scorrono monotone nella casa. Si sveglia all’alba, è anchilosato e incapace di muoversi, al contempo e in paradosso è colpito da una strana leggerezza. È un tempo atipico, di ricerca e riscoperta. Dopo aver ispezionato la soffitta si reca verso la costa per controllare la sua barca, qui incontra l’amico di sempre, Peter. Tante le confidenze vissute negli anni, tra scene di altri tempi e corpi ormai cambiati. È ora di tornare a casa, sta giungendo la sera e a breve arriverà sua figlia. Vede sua moglie, ma non era morta?
Un bambino nasce, un uomo muore, nel mezzo una vita che passa tra pensieri, emozioni, sensazioni, dolori e gioie. “Mattino e sera” di Jon Fosse è un libro solo in prima apparenza lineare e semplice, è in realtà uno scritto complesso che cela al suo interno molteplici piani temporali e variegate sfaccettature umane.
È uno di quei libri da assaporare poco alla volta, piano piano. Ogni frase ha un suo perché tanto stilistico quanto di contenuti e significati. Non è una lettura per tutti, non necessariamente determinerà un consenso unanime, ma chiede di essere letta e trattiene.
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I classici e il loro fascino
«[…] Leggere un classico è come entrare in profonda intimità con un estraneo. Nell’atto della lettura crolla ogni barriera, ogni resistenza; cade ogni finzione, e quell’estraneo ti diventa caro come un vecchio amico. E così i classici sono quei libri che non ti stanchi mai di leggere e rileggere, e che senti di dover sottolineare a ogni riga. Li ricordi anche a distanza di anni, perché ormai fanno parte del tuo essere.»
Dopo “Clodio” e “Intervista come un matto” Guendalina Middei torna in libreria con “Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera. L’arte di leggere i classici in dieci brevi lezioni”. In quest’ultima fatica l’autrice si interroga e ci interroga su molteplici quesiti, ma ci offre anche delle risposte ai tanti interrogativi.
Ci siamo mai chiesti perché torniamo ai classici anche se ormai sono passati decenni se non secoli dalla loro prima pubblicazione? Ci siamo mai chiesti perché li consideriamo quasi implicitamente una “garanzia” di lettura?
Il classico fa parte del nostro patrimonio culturale e sociale e fa parte di una dimensione tanto filosofica quanto sociale che ha plasmato l’immaginario collettivo che per effetto finisce con l’empatizzare e rispecchiare il proprio vissuto in quelle determinate vicende. Se da un lato vi è un effetto immedesimazione, dall’altro vi è un effetto emozione perché questi libri ne suscitano in noi un coacervo. È impossibile allora non amare i classici e questo perché sono uno strumento che ci parla e ci dice tanto di noi.
Il viaggio in cui ci conduce Guendalina Middei è un percorso molto originale che ci accompagna con mordente e passione passando per quelli che sono nove grandi della letteratura. Da Leopardi, a Tolstoj, passando per Manzoni, e ancora Mann, Kafka, Dostoevskij e tanti altri riflettiamo su quelle che sono le illusioni in particolare di una società moderna che fatica ad affrontare il presente.
Un piccolo grande saggio è “Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera. L’arte di leggere i classici in dieci brevi lezioni” che sorprende e incuriosisce, che solletica la voglia di sapere e di trovare risposte alle tante domande spesso irrisolte.
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Tra fantasmi e libri
«[…] Era come l'inizio di ogni spettacolo in cui le strade si svuotano e qualcosa di terrificante emerge dalla nebbia o dal fuoco.»
George Floyd è stato ucciso da un poliziotto bianco. Rabbia, guerriglia urbana sono all’ordine del giorno in quel di Minneapolis a causa di questo evento scatenante, seppur sia la primavera del 2020 e seppur sia un momento cruciale per il mondo che si avvia ad affrontare quella che sarebbe stata la pandemia da Covid-19 con tanto di lockdown.
Tookie, protagonista di queste pagine, è una donna di mezza età, ha un passato turbolento e molto complesso, ed è una figura che si ritrova a fare ci conti con il ritorno di una cliente della libreria, Flora, morta d’infarto. La nostra eroina ha un passato che la vede reduce da una condanna e che la riporta alla realtà in un contesto dove è costretta a fare i conti con tragicomiche figure spettrali.
Da questi brevi assunti ha inizio una storia dove suspense e tensione crescono in parallelo con black-humour, ironia e riflessioni interiori. Quel che ne emerge è infatti una vicenda composta da molteplici fili tra loro intessuti e dove la protagonista, ma anche il lettore, sono chiamati a interrogarsi e a cercare risposte alle tante domande.
Un po’ come già nella cultura indiana che nella sua struttura dialogante “include forme intricate di relazioni umane e infiniti modi di scherzare”. E forse gli orrori, la brutalità della polizia, vite rovinate da errori, possono davvero trovare una redenzione e abbracciare una nuova realtà. Da qui anche la metafora del Covid come un fantasma silenzioso che colpisce, abbraccia e miete vite umane.
«Cosa succede quando lasci durare troppo a lungo un regalo insoddisfacente? Diventa tutta la tua storia.»
“L’anno che bruciammo i fantasmi” della Erdrich ha anche un altro pregio: al suo interno contiene letteratura pura con tanti rimandi ad altri libri che, se non letti, finiscono irrimediabilmente in TBR.
Tuttavia, questo può essere anche l’elemento destabilizzante della lettura. Eh sì, perché se il libro inizia come un crime che incuriosisce e si vuol leggere per scoprire il mistero che si cela, dopo, nella sua seconda parte, diventa altro, si trasforma in un romanzo in cui si parla di libri e di letteratura pura. Non che questo sia un lato negativo, ma certamente se chi legge si aspettava altro e si era focalizzato sulla prima parte, è un elemento destabilizzante che rischia di far perdere di interesse alla narrazione.
Nel complesso, però, “L’anno che bruciammo i fantasmi” di Louise Erdrich resta una lettura piacevole e pungente e questo anche grazie a questo stile narrativo vivido, magnetico e scanzonato.
«Quando siamo giovani, le parole sono sparse intorno a noi. Come loro sono assemblati dall'esperienza, così lo siamo anche noi, frase dopo frase, finché la storia non prende forma.»
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Non solo squash
«[…] Quando sei in campo, durante una partita, in un certo senso sei solo. Ed è così che dovrebbe essere. Devi trovare una vita d’uscita. Devi scegliere i colpi e crearti lo spazio di cui hai bisogno. Devi difendere la T. Nessuno può aiutarti. Nessuno può concentrarsi per te o aver paura di perdere al tuo posto. Eppure, a volte accade il contrario. In campo, tutto ti sembra di essere fuorché solo.»
Quando si perde un genitore è come avere un’ala spezzata, potrà forse un giorno guarire ma resterà sempre la cicatrice di quel dolore. Tre sorelle, Mona, Kush e Gopi e Pa, il capofamiglia perdono colei che aveva reso la loro vita piena; la mamma nonché moglie. Viene a mancare troppo presto, la donna e l’uomo deve farsi carico delle tre ragazze crescendole da solo. Il legame da ricostruire non è semplice così come non lo è ripartire e ricostruire una vita ormai in frantumi. Da qui il suggerimento del padre di avvicinarsi a un qualcosa che possa suscitare interesse, qualcosa come ad esempio lo squash, che lui stesso aveva amato in gioventù.
Siamo a Western Lane, un sobborgo di Londra che ospita campi da gioco, siamo in un mondo che diventa seconda casa soprattutto per Gopi, undicenne, che inizia a dedicarsi in modo costante a questo sport. Quel rettangolo diventa tutto. La T diventa tutto. La ragazza ha talento, ha un occhio e una perspicacia diversa rispetto alle sorelle, quando è in campo si isola da tutto e da tutti e quel rettangolo la porta a concentrarsi e isolarsi in una dimensione parallela. È in questo quadrato che conosce Ged, un ragazzo di cui si infatua ma senza mai distaccarsi dalla T.
Il campo diventa metafora della vita e del crescere. Gopi, come le sorelle, come ciascuno di noi, deve trovare la propria voce, accettarsi, maturare e costruirsi un futuro. Tra queste pagine, lo sport diventa a sua volta metafora del senso della vita e delle difficoltà di questa, diventa strumento con cui imparare ad affrontarle. Maroo usa lo squash per mostrarci cosa succede in una famiglia, ma anche nel nostro mero esistere, quando un equilibrio si rompe e si ricompone. Ci mostra, ancora, cosa succede nell’animo di una ragazzina che inizia a diventare donna, cosa succede a quelle che sono sempre state le nostre abitudini, come quelle di un padre, per coniugarsi a una nuova dimensione fatta di nuove responsabilità.
«[…] Mi giravo di scatto per seguire ogni palla e alla fine la caviglia cedette. Il dolore fu una scossa gelida nella testa. […] Dopo tre settimane cominciai a sognare Western Lane. Vedevo i muri bianchi e gli alberi in fiore. Di notte mi alzavo e andavo alla finestra, dove un po’ di luce filtrava dalle tende. Mi sedevo a terra con la racchetta in mano e la schiena appoggiata al termosifone.»
Il romanzo è costruito con dialoghi e dettagli che vengono narrati in prima persona, si ricompone così, passo dopo passo.
“T” di Chetna Maroo rappresenta un esordio di grande interesse ed è avvalorato da una penna rapida che è arricchita da un linguaggio incisivo. Tuttavia, manca qualcosa, quel qualcosa da renderlo perfetto.
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Barcellona, gastronomia e omicidi
Torna in libreria Alicia Gimenez-Barlett e lo fa con un nuovo capitolo della serie ambientata a Barcellona che vede quale protagonista Petra Delicado e il fedele Fermìn Garzon. “La donna che fugge” è un romanzo che si sviluppa con una narrazione dal ritmo incalzante e rapido, gli scenari sono vividi e le sequenze ben cadenzate. Crimine e gastronomia si fondono tra loro riportandoci ad assaporare le avventure di una coppia di detective che non lesina azione ma che si riflette nel pubblico anche per la complessità umana che ciascuno rappresenta.
La storia prende inizio in un’atmosfera di festa. Siamo nella settima giornata gastronomica, siamo nella plaza del Nord. I food truck offrono delizie culinarie, i colori rendono vivido ogni angolo, è festa ovunque. Tuttavia, in questo contesto di pace e serenità, relax e divertimento, accade l’impensabile: Christophe Dufur viene rivenuto privo di vita. È un giovane chef francese, il suo corpo viene rinvenuto nei pressi del camion ristorante. Petra Delicado viene investita del caso e sin da subito si rende conto che non si trova davanti a un fatto semplice, al contrario. Il caso che si è aperto innanzi ai suoi occhi è estremamente complesso e nulla è come appare.
E mentre Fermìm Garzon assaggia le varie prelibatezze, Petra segue la pista della misteriosa donna francese che pare essere stata vista con la vittima per ultima. Ma non è ancora finita perché emergono anche legami con una rete di narcotraffico. Sempre più debole è l’ipotesi della vendetta personale ma anche quella di un omicidio dettato da un raptus di gelosia.
La Barlett ci ha però abituati anche a una componente emotiva che esula dal mero giallo. Questa in “La donna giusta” è data dalle riflessioni di Petra relativamente al proprio matrimonio, alla sua stabilità, alla tensione emotiva che la caratterizza.
L’opera ultima della Gimenez-Barlett è ancora caratterizzata da un ritmo serrato che non lascia spazio a pause e a respiri e che conduce a un doppio finale che rimescola le carte senza mai perdere di intensità. Al tutto si sommano le descrizioni di Barcellona e il fascino delle varie ambientazioni e dei prodotti culinari.
In conclusione, “La donna che fugge” non delude le aspettative degli appassionati della serie e si propone al lettore come un thriller ricco di colpi di scena ma anche di profondità.
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Misteri e portinaie
È in una Milano degli anni Venti che ha inizio la storia narrata da Luca Crovi. Un giorno come un altro, infatti, uscendo di casa il commissario Carlo De Vincenzi lascia alla portinaia della sua abitazione di via Massena una cartellina azzurra. Niente di impegnativo, in apparenza. Il monito è dato dal fatto che in giornata avrebbe dovuto consegnarla a un giornalista, tale Augusto De Angeli che sarebbe passato a ritirarla. Matilde Maria Ballerini che durante la preparazione della casseula, viene incaricata del compito, vede la cartellina e la sposta sulla madia con il timore che possa sporcarsi. Tuttavia la cartellina non è chiusa e lascia cadere a terra una cartolina con la pubblicità dell’evento all’Arena. Fil rouge della narrazione è proprio la vedova, la portinaia. Sbirciando nella cartellina azzurra scopre alcuni documenti che riguardano “il poeta del crimine”. Ci sono tanti articoli, tanti documenti di giornale ed ancora, storie scritte su fogli di carta blu battuti a macchina.
Sembra la raccolta personale delle vicende dell’uomo, sembra proprio una di quelle scoperte a cui una donna non può resistere, ancor meno lei. Può fermarsi? No. Una storia tira l’altra e così via, pagina dopo pagina.
“Il mistero della torre nel parco” di Luca Crovi è un libro di rapida lettura, trattiene nella sua storia con naturale e rapida consapevolezza. Offre al lettore ore liete e fatte di sincera curiosità. Forse non potrà definirsi un capolavoro ma certamente gli elementi per funzionare li ha tutti e nel suo piccolo, funziona.
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Cosa resterà di noi
«[…] Il coraggio non conta, il coraggio arriva nel momento stesso in cui tutto accade.»
Per Napoleon motivare le persone, spronarle a farcela, è un qualcosa di naturale. Quante ne ha “salvate”, quante ne ha incitate. Tuttavia, per lui è diventato impossibile andare avanti, eh sì, perché proprio lui che motiva e sprona gli altri, vive senza stimoli e ha deciso di farla finita. La sua vita non ha più ragion d’essere. Ecco allora che dopo quella che considera essere la sua ultima serata, decide di buttarsi. Le acque sotto di lui sono nere e austere, New York sprofonda nelle sue luci. È in questo frangente che sopraggiunge un uomo a bordo della sua station wagon. Sa benissimo quali sono le intenzioni di Napoleon e gli propone un patto: sette giorni per decidere se tornare indietro o meno, sette giorni per decidere se rendere definitivo quel salto o se tornare alla vita ma con nuovi occhi.
Napoleon è titubante ma alla fine accetta. Come lui accettano anche Emily, ex ginnasta olimpica, lesa da un incidente che l’ha costretta alla carrozzina e Aretha, poliziotta dal carattere forte che però ha perso quel qualcuno che nella sua vita faceva la differenza. Adesso che ha ricominciato a dormire sa che il dolore sta venendo meno diventando mera consuetudine, non può accettarlo. Quel dolore era l’unica cosa che la teneva ancora ancorata a quella perdita. Una volta riuniti i tre scoprono che la squadra è composta anche da un altro membro, Daniel, piccolo divo della pubblicità di un brand di aranciate in sovrappeso e con diabete al seguito. Quattro anime raggruppate da un uomo sconosciuto e in apparenza privo di nome e identità ciascuna delle quali con un motivo specifico e ben delineato per decidere di farla finita, per essere disperati. Ma cosa lasciano davvero? Cosa accadrà quando non ci saranno più? Cosa si perdono e quale sarà la reazione di amici e parenti alla loro scomparsa?
«Le persone. Penso sia questa la cosa più importante che vi perderete, – sentenzia l’uomo. – Sono le persone a rendere il futuro imprevedibile e affascinante, e lungo la vostra strada ce ne sono un sacco che vi aspettano.»
“Il primo giorno della mia vita” di Paolo Genovese, opera dalla quale è stato tratto anche l’omonimo film con l’interpretazione magistrale di Toni Servillo, è un titolo con cui lo scrittore torna ad affrontare le tematiche metafisiche già conosciute in “The place”. Ancora una volta i protagonisti tornano a viaggiare tra tempo e luoghi e a riflettere sul senso della vita e sul malessere di questa.
Quel che ne emerge è uno scritto dallo stile fluido e magnetico che in tutta la sua forma sa di sceneggiatura, non ne stupisce, dunque il naturale adattamento. I personaggi sono tutti ben costruiti, le vicende si susseguono rapide, il lettore è costantemente incuriosito. Cerca quel finale che possa spronare a trovare quei perché che spesso attanagliano nel quieto vivere.
“Il primo giorno della mia vita” non sarà certo per qualcuno il romanzo più originale di questi anni soprattutto se si considera il proliferare di scritti in questo senso, ma non difetta di quei presupposti capaci di donare al lettore ore liete e di riflessione. Basta semplicemente dargli una possibilità. Forse non arriverà subito ma a distanza di giorni dalla lettura sarà naturale tornare a pensarvi e riflettervi.
«È come quando arrivi al termine di un viaggio: hai sempre l’impressione che avresti potuto fare di più, utilizzare meglio il tempo. E ora che il tempo è quasi finito, quel poco che rimane Aretha non vuole perderlo, e tenta il tutto per tutto.»
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Vivere nell'attesa
«[…] Dopo tutti questi anni vorrei scoprire se in un altro mondo lui mi sta aspettando. Dopo tanto parlare, dopo tanto interrogare e ricordare, ora so che niente è più silenzioso della memoria.»
È il 1976, Amos e Anna vivono in una cittadina di provincia. Hanno due storie diverse alle spalle, vengono da mondi opposti ma insieme, dopo essersi innamorati, decidono di aprire una libreria. Lei, in precedenza, era docente. Sono sposati, hanno due figlie nate a distanza di pochi anni ma caratterialmente sono opposte. Emma e Cecilia, nate entrambe sotto il segno del Toro, Emma il 30 aprile del 1972, pesando 4 chili e con un vagito che già ne preannunciava il carattere deciso e Cecilia il 2 maggio con un carattere già da quel momento ben più mite. Una domenica mattina come tante Amos recita una poesia a memoria eppure, dopo un attimo si smarrisce e tutto dimentica. Cosa è successo? Questo episodio preoccupa la moglie che chiama il medico che a sua volta prescrive degli esami e che ancora li invita a recarsi a Roma per una visita specialistica. Ed è qui che tutto accade ma niente è accaduto: Amos esce per una passeggiata da solo a Trinità dei Monti, insiste per andare da solo, e da questo momento scompare. Anna vuole accompagnarlo, quasi come se sentisse il presagio ma lui non vuole. Ed è da qui che nasce l’attesa. Un’attesa che diventa spina dorsale per Anna, che la blocca, che non può staccarsi da questo suo vivere aspettando.
«Se smetto di aspettarlo lui davvero morirà, se non penso ogni giorno che lui c’è, lui non tornerà»
Ma lui se ne è andato davvero quel giorno o in realtà se ne è andato molto prima? E se l’abbandono non fosse un atto ma un divenire? E se fosse un percorso che si trasforma nella cerimonia dell’addio quando tutto il tempo si ritira e non resta che il dato di fatto?
È Anna, tra queste pagine, il fulcro centrale della narrazione. È lei che definisce i temi di quella che è una metanarrazione che ruota attorno al segreto, al dolore, alla sofferenza, alla solitudine, al rimpianto, al dover ricostruire in un tempo di attesa che non lo consente. Altra grande caratteristica di questo scritto è che tutti noi potremmo viverla una situazione come questa. Chiunque potrebbe vivere una storia di questa portata sperimentando un lutto dalle mentite spoglie.
Un romanzo intimistico, fragile, che prende per mano e conduce in un viaggio non semplice. E badate bene, non è semplice per davvero avvicinarsi a un romanzo come “La cerimonia dell’addio”. Tante sono le premesse, molteplici le chiavi di lettura. Un romanzo, ancora, fortemente sentito già dall’autore che lo dedica a sua moglie Federica, morta il 14 agosto 2022 senza poter davvero apprendere di quella che ne è stata la compiutezza.
“La cerimonia dell’addio” è un romanzo adatto a chi cerca risposte, a chi si pone delle domande, a chi ha vissuto una perdita, a chi sa cosa significa “attesa”.
Di seguito le parole dello scrittore relativamente alla perdita di Federica.
«Ho scritto questo romanzo per dire cosa ho perso: pezzi di memoria, frammenti di vita, ricordi non miei che andranno smarriti, perché vanno perduti i ricordi di tutti». Forse, però, qualcosa del passato resta sempre, il passato dove «quelli che ami non muoiono».
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Il nostro grande tutto?
«[…] Sarebbe bello poter piegare il tempo in due, come se fosse un foglio di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato. Io potrei essere ancora vivo, nel passato e attraverso quel buco potrei allungare la mano e stringere la tua, nel presente.»
Lui e lei. Un uomo e una donna, due amici. Poi un giorno come un altro quell’essere semplicemente amici diventa altro. Si sviluppa un’attrazione che porta al maturare di un sentimento che diventa sempre più specifico e che si trasforma in un amore specifico per una persona specifica. E poi, come in un brutto sogno, il niente. Stanno per sposarsi quando lui, a causa di un incidente, muore. Cosa resta di lei? Cosa resta di lui? Cosa resta di loro? È possibile andare avanti? Come vivere e come affrontare il dolore della perdita tanto per chi resta tanto per chi se ne va? E se tutto ciò che stato venisse dimenticato? Sarebbe più facile accettare il pensiero della morte se vi fosse la consapevolezza che una volta morti il tempo per gli altri si fermerebbe?
«[…] Non perché ci abbia trovato un senso, ma perché quando ci stringiamo forte prima di dormire, nella nostra tipica posizione, è come se le stringhe che compongono il tuo corpo si aprissero per unirsi a quelle del mio. E le mie a quelle del tuo. Non siamo più solo due post-scimmie unite in una relazione sentimentale-copulativa, ma qualcosa di più: tu vivi un po’ attraverso di me e io vivo un po’ attraverso di te.»
Ed è proprio sulla continuità dopo la morte che si sviluppa e basa “Il nostro grande niente”. Il nostro eroe è morto in queste pagine a firma di Emanuele Aldovrandi, ma continua a sentire e vedere. Osserva la fidanzata, osserva il suo dolore, osserva la sua rinascita. Sente le sue lacrime, sente le sue parole, sente i suoi bisogni. Perché un evento traumatico può cambiarti lasciandoti delle cicatrici indelebili e anche quella che può essere una storia sulla perdita di un amore e sulle sue conseguenze, può rivelarsi ben altro.
Se nella prima parte dell’opera il lettore tende ad empatizzare con l’amore perduto, la malinconia, la realtà che avanza, nella seconda sono le domande a cui dare risposta le vere sceneggiatrici e le vere attrici della pièce teatrale. Esistono verità assolute? Che valore ha davvero il “per sempre”? Che valore ha l’attimo, il godere dell’istante, il sentirsi vivi in quel momento ora e adesso? E non è forse l’amore l’unica vera chiave con cui poter dire di aver concretamente vissuto?
«[…] Noi esseri umani abbiamo sempre combattuto contro quello che la natura aveva previsto per noi. Pensaci. Verrete mangiati dagli animali più grandi di voi – e noi abbiamo inventato le armi. Verrete schiacciati dagli agenti atmosferici – e noi abbiamo costruito le case. Verrete uccisi dalle malattie – e noi abbiamo inventato la medicina. Le nostre tappe evolutive si sono fondate su questo, sul rifiuto del nostro destino naturale, cioè la morte. E anche adesso gli uomini più ricchi della Terra non si accontentano di vivere fino a novant’anni, ma investono miliardi per studiare.»
Dal ritmo rapido e le sequenze velocissime il titolo ci prende per mano e ci conduce in una riflessione sulla nostra vita, su quelle che sono state le occasioni e le possibilità perse, su quelle che sono state da sempre le nostre certezze. O almeno così credevamo. Ci invita, ancora, a riflettere sulla morte. Perché quello che più dovrebbe farci male non è tanto lasciare la vita quanto abbandonare tutto ciò che per noi le ha dato un senso. E non è forse proprio la morte, alla fine, a dare un senso alla vita?
Al tutto si aggiunge uno stile fresco, dinamico, ironico e intelligente che sulla falsa riga della leggerezza narrativa porta il lettore a interrogarsi sulla profondità del vivere, dell’esistere e del sopravvivere. Questo per mezzo non dei nostri occhi ma per mezzo di una prospettiva esterna e più oggettiva.
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Sesso, droga e... Los Angeles!
«[…] Molti anni fa mi resi conto che un libro, un romanzo è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s’innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c’è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso – in cui qualcuno probabilmente si farà male.»
Bret Easton Ellis non lascia mai indifferenti. Chi già lo conosce sa che le sue opere non sono mai banali quanto provocanti e pungenti ma anche sconcertanti, per certi versi, chi non lo conosce vi si avvicina con quella giusta dose di curiosità e attrazione perché, si sa, come per lo scrittore scrivere è un po’ come innamorarsi, per il lettore il libro è un viaggio introspettivo che viene chiamato dal testo stesso perché spesso e volentieri non siamo noi a scegliere cosa leggere ma è il da leggere che sceglie noi.
Anche questa volta il suo è un ritorno in grande stile seppur a distanza di parecchi anni. Ci prende per mano Ellis e ci riporta negli anni ’80, anni in cui il narratore era adolescente e viveva in una metropoli californiana che diventa coprotagonista in quella che è una perfetta fiction narrativa mixata con tanti componenti di autobiografia. Non stupisce nemmeno la scelta di chiamare il protagonista con il suo nome e di munirlo di quel sogno di diventare scrittore. Tutto è costruito in perfetto stile Ellis.
In questo contesto conosciamo una serie di ragazzi appartenenti all’élite cittadina e iscritti alla Buckley, una delle scuole private più prestigiose. Sono persone abituate al lusso, a party alcolici a bordo piscina, a ville e sfarzi, all’uso di droghe e psicofarmaci, ad anestetizzare il dolore della quotidianità in ogni modo possibile, sono persone che vivono nel benessere più totale, in apparenza, ma sono anche persone sole. Abbandonate a se stesse, con famiglie assenti, incapaci di vivere nei silenzi che l’anima provoca e che la consapevolezza del vivere dona.
«E malgrado fossimo consapevoli del presunto razzismo del club semplicemente non davamo peso alla cosa, perché nel 1981 non ci era richiesto. Affermare che qualcuno di noi fosse politicamente impegnato avrebbe significato entrare nel territorio delle favole: eravamo adolescenti distratti dal sesso e dalla musica pop, dai film e dalle celebrità, dal piacere e dall'effimero e dalla nostra innocente neutralità.»
Da un lato conosciamo la Los Angeles del benessere e della perfezione, dall’altra quella che va oltre la facciata e che mostra le crepe di un sistema. Ma la vita non attende, passa. Oggi si è adolescenti, domani si è uomini e questo è forse uno dei passaggi, in generale, più difficili del nostro vivere. Sono anni in cui ci scopriamo davvero, in cui conosciamo della nostra identità sessuale, ivi compresi una omosessualità latente che ci porta a non esporci, in cui instauriamo rapporti e legami e altrettanti ne perdiamo.
Sarà l’arrivo di un nuovo affascinante compagno a rompere gli equilibri e a introdurre un profondo elemento di disturbo. “Il Pescatore a strascico” ha tutte le fattezze di un perfetto serial killer e il nuovo arrivato sembra esservi collegato.
«[…] E certe volte, quando mi sveglio da uno dei miei sogni su Robert o Matt o Ryan Vaughn o Thom o Susan, mi viene da ricordare che l'autunno del 1981 non è stato il sogno che nei decenni successivi mi è capitato di fingere che fosse. Ma mi sono sempre eclissato ogni volta che ho sentito il richiamo di quelle voci lontane, per andare a cercare il disco con la ragazza biondo platino in copertina, e alzare il volume, e suonarlo forte, chiudendo gli occhi e sdraiandomi ad ascoltare una canzone che parla di sogni.»
“Le schegge”, ultima fatica di Bret Easton Ellis, è un romanzo corposo, complesso e stratificato, a tratti un po’ ridondante ma che sa offrire al lettore molti spunti di riflessione. Non manca di una componente nostalgica per gli anni passati ma non manca nemmeno di critiche pungenti a una società che fa dell’apparenza e dell’opulenza il suo marchio di fabbrica per eccellenza. Un meccanismo elitario che cela un profondo disagio del vivere.
«[…] E me ne rimasi lì nella luce del pomeriggio che sbiadiva, rendendomi conto, a diciassette anni, che stavo già guardando nel mio passato - e che il passato aveva un significato capace di definirti per sempre. Ricordo quel momento come uno dei primi in cui mi avvicinai all’età adulta, in cui compresi quanto fosse potente la memoria - o comunque fu la prima volta in cui mi fece così male. E non c’era niente che potessi fare riguardo al dolore del passato - si posò semplicemente su di me. La dépendance e Matt erano una parte della mia vita che c’era stata e adesso non c’era più. Ecco tutto. Nessun altro lo sapeva. A nessun altro importava.»
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Etica e moralismo vs corruzioni e disumanità
«[…] Non lasciarla là fuori – qualcosa se la mangerà. Questo è un paese affamato.»
Cormac McCarthy è uno di quegli scrittori che ti prendono per mano e ti accompagnano in viaggi mai uguali ma sempre diversi, tanto per intensità quanto per profondità. McCarthy ha da sempre trattato anche temi in particolar modo più cari, temi che vanno dalla violenza, alla metafisica, alla religione, a dio, all’uomo e alla morte. “Meridiano di sangue” non è da meno ed è senza dubbi una delle produzioni dell’autore più intense e crude non solo per la struttura ma anche per i personaggi che abitano queste pagine.
Ed ecco allora che conosciamo lui, un quattordicenne che nell’America di metà Ottocento, nel Tennessee rurale, deve sopravvivere. Orfano di madre dalla nascita, con un padre che si sbronza dalla nascita da mattina a sera, e nessuna prospettiva per il futuro, ecco che decide di spostarsi verso l’Ovest per cercare un qualcosa, un futuro migliore. Quel che si trova ad affrontare lo porta a vivere situazioni estreme, fatte di violenza, fatte di odio e crudeltà, situazioni in cui la sua sicurezza è sempre a rischio così come la sua vita. Per sopravvivere dopo un cruento pestaggio decide di affiliarsi a una banda in caccia di apache. Ben presto si rende conto, però, la sua situazione non va a migliorare bensì a peggiorare. La banda è capitanata da un uomo che si fa chiamare Giudice, emblema di ogni sentimento negativo radicabile nell’animo umano. La banda vaga nei deserti texano-messicani con la scusante di combattere e cercare un messicano rinnegato a capo di un gruppo di apache ma in realtà uccide chiunque trova sul cammino. Che siano uomini, donne o bambini, non fa differenza; chiunque osa trovarsi sulla loro strada avrà una sorte tragica.
«Un uomo non riesce a conoscere la propria mente perché la mente è tutto quello che ha per conoscerla. Può conoscere il proprio cuore, ma non vuole. E fa bene. Meglio non guardarci dentro. Non è il cuore la creatura che sta percorrendo la via che Dio le ha preparato. La cattiveria la puoi trovare anche nell’ultima delle creature, ma quando Dio ha fatto l’uomo doveva avere il diavolo accanto. Una creatura che sa fare tutto. Sa fare una macchina. E una macchina per fare la macchina. E tanto male che può andare avanti da solo per mille anni, senza manutenzione. Ci credi?»
Una volta tornati in Messico con gli scalpi apache, verrà indetto in loro onore un banchetto che porterà alla luce la follia e a nuovi scatti di violenza gratuita e non preventivata. Ed anche quando saranno costretti a ripiegare sui deserti di confine, non si esimeranno da atti di violenza estremi. Perché questo è ciò che accade a chi si è abbruttito, a chi ormai non vede altro che il male. Altri scontri avverranno proprio all’interno della banda e sarà quando la resa dei conti sarà tra Giudice e ragazzo che lo scontro etico avrà luogo in perfetto stile McCarthy. Perché se da un lato il Giudice ha raggiunto il disprezzo totale per tutto, vita umana compresa, il ragazzo, invece, nonostante abbia visto il male ovunque e si sia abbruttito a sua volta moralmente, rappresenta la speranza di un riscatto etico. Ne è dimostrazione il fatto che, nonostante l’occasione propizia, non colpirà alle spalle il Giudice.
Ma il tempo passa. Passa e passa ancora. Il ragazzo è adesso un adulto, un uomo, che segue il proprio rigore etico, che non ha smesso di vagare per i territori dell’Ovest. Un giorno rincontrerà il Giudice che, al contrario, non è minimamente cambiato. Anzi.
Si sa, c’è un momento per tutto, compreso quello della resa dei conti. Uno stesso atto di clemenza può avere una ambivalenza e un significato diverso. Se per l’uomo moralmente etico è un atto di bontà e benevolenza, per l’uomo eticamente e moralmente corrotto è un mero atto di debolezza e in guerra non c’è spazio per la debolezza, non c’è spazio per l’umanità, non c’è spazio per il sentimento diverso dall’odio.
Cormac McCarthy dona ai suoi lettori un testo forte, ragionato, pensato, un testo che torna a interrogarsi sull’etica e sull’esistenza umana, sui grandi temi che da sempre e per sempre l’hanno ossessionato ed ancora una volta ci fa destinatari di uno scritto affatto banale quanto carnale e viscerale.
«Luccicavano tutte leggermente nell’aria torrida, queste forme di vita, come minuscole apparizioni. Rozze sembianze elevate a dicerie, dopo che le cose stesse erano svanite nella mente degli uomini.»
Michaela e Kacey
«[…] L’unica cosa che mi stupì fu che fosse stata capace di tagliarmi fuori dalla sua vita in quel modo. Che fosse riuscita a nascondere, perfino a me, i suoi segreti più importanti.»
Il suo nome è Michaela Fitzpatrick ed è una poliziotta che pattuglia le strade di Kensington, Philadelphia. Non è un luogo semplice dove lavorare, tra queste strade impervia la criminalità e dilaga l’eroina. Sua sorella Kacey non è altro che una delle tante vittime di questa droga e sono ormai cinque anni che le due non si parlano. Michaela ha un figlio di cinque anni di nome Thomas, è un bambino intelligente e molto più grande dell’età che dimostra, ella cerca di proteggerlo come meglio può dalle minacce e dalle bruttezze del mondo. Tuttavia, Michaela e Kacey non hanno avuto un’infanzia semplice. La madre è morta a causa della droga che erano piccolissime, il padre a sua volta era un tossicodipendente e la nonna, Gee, tutto è tranne che una figura affettiva e premurosa. Le prende in casa e le cresce tra mancanze e arrabbiature e sempre rinfacciando loro quel che ha fatto per tirarle su.
«Il peso di Gee, alla cui occasionale dolcezza ci aggrappavamo con tutte le nostre forze, ma le cui crudeltà si ripetevano quotidianamente. Il peso della nostra povertà.»
Kacey è ancora adolescente quando entra nel giro, la sorella più grande, invece, è seria e priva di grilli per la testa, vorrebbe studiare e andare all’università ma Gee non glielo permette. Dopo aver incontrato Simon in questi anni di difficoltà e lontananza da Kacey, decide di entrare in polizia.
Ma Kacey è scomparsa. Di lei si sono perse le tracce e nella città si stanno susseguendo diversi omicidi di donne tutte tossicodipendenti, tutte dimenticate, tutte prede facili. E se tra queste prossime vittime ci fosse anche sua sorella? Non può permetterlo, deve trovarla.
«Nelle sere in cui lei era a casa ci infilavamo nello stesso letto, ciascuna con il suo segreto, divise da un confine, un baratro che si dilatava con il passare delle settimane.»
“I cieli di Philadelphia” è uno di quei romanzi che si aprono al lettore sotto molteplici sfumature e che solo in apparenza sono soltanto polizieschi. Perché se da un lato c’è il giallo che si mostra al lettore come un omicida da arrestare, dall’altro c’è il legame tra due sorelle da ricostruire, da comprendere, da analizzare ed ancora c’è una società che non perdona e che trascina nel baratro tra infanzia infelice e incapacità di donare un riscatto e un futuro consapevole.
È un libro tosto, duro, crudo. Nulla risparmia, nulla cela. È uno di quei libri che ti trafigge pagina dopo pagina e che ti accompagna in una ballata fatta di dolore ed empatia. Tanti i nodi da sciogliere in questa matassa che si ricompone passo dopo passo.
«In altre parole, una ragione di vita. Qualcuno da far sentire orgoglioso. Non volevo privarla di questo. Non volevo spegnere quella piccola luce.»
Il puzzle si ricompone poco alla volta, alternando presente e passato e fornendo al lettore i tasselli per ricostruire il quadro d’insieme. “I cieli di Philadelphia” è uno di quei libri da non sottovalutare, è un testo pieno di emozioni, perfettamente tratteggiato, con personaggi vividi e tangibili. Uno spaccato di realtà da conoscere.
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Tre verità
«È il riflesso della sopravvivenza, l’istinto che la natura ci ha donato perché ci allontanassimo da ciò che è marcio e malato. Ma come fare per allontanarci da noi stessi?»
Lucija osserva. La sua vita è scandita dal ricordo di un amore, quello per Dorian che prima era Dora. La prima voce che conosciamo è imprigionata in un corpo che non le consente più di un battito di ciglia, più di un suono gutturale. Ma non è sempre stato così. Non è sempre stata blindata nel suo corpo. Ha osservato Dorian, è stata al suo fianco. Dorian è cresciuto nel corpo di una donna, non si è mai sentito a suo agio, ha sempre cercato un’approvazione che non è mai arrivata. E la stessa Lucija ha dovuto combattere con la non approvazione del diverso. A causa di un incidente è costretta a vivere di pensieri e ricordi, in una vita di silenzi interni e rumori esterni. Immobile.
Il secondo personaggio, e dunque la seconda storia che conosciamo, è proprio quella di Dorian e del suo viaggio di transizione in una società fatta di crepe e contraddizioni. Infine ecco la terza storia, quella della madre che è una donna cresciuta all’interno di una famiglia e poi costretta a convivere con i genitori del marito. Soffre. La madre non ha mai accettato Dorian perché per lei il diverso va punito, ripudiato, represso. È male. È una devianza. È una donna succube prima del marito, poi della suocera, poi della società. Ha due figli, Tomislav e Lucija. Lui uomo e dunque potente e con il potere di far tutto, anche di maltrattare il prossimo, lei la reietta. A lui tutto è concesso. Nell’ultima storia ella si mette a nudo, ricompone la sua vita e da qui il perché della diversa educazione e del suo pensiero così rigido verso la figlia. Perché è lei che l’ha partorita, è lei che può farla e distruggerla e come madre in figlia ha potere su di lei.
«[…] I giorni dell’infanzia erano impressi nel tuo essere, i giorni pieni di angoscia, ma anche di crescita, della serenità tipica dei bambini che la vita sin da subito espone a dolori inconcepibili, le piccole vittorie, i passi che ti hanno fatto diventare quello che sei oggi. Una piccola parte di quel passato era fatta anche di noi, ci eravamo trovati proprio nel momento in cui tu ti stavi lacerando dentro per uscire fuori attraverso la pelle, il muco, il sangue e i punti. […] Eravamo due pazzi davanti a famiglie con figli, a corpi scolpiti, all’esigenza di essere un uomo perfetto, una donna perfetta, perfettamente banali.»
Chi siamo davvero? Cosa gli altri pensano di noi? Perché la nostra identità viene violata? Perché temiamo il diverso? La vita scorre invisibile quanto invivibile. Il nostro vero essere non è percepibile, il rimpianto è amaro, la colpa è una costante che si mescola ad egoismo, paura, indifferenza. Dov’è allora l’umanità in queste tre storie fatte di una immobilità che è moto all’ennesima potenza? Una madre con un passato di torture alle spalle e anaffettività, una figlia immobile in un letto d’ospedale che chiama silente con un battito di ciglia il suo amore, una bambina infelice e che non riesce a trovare il suo posto nel mondo nemmeno da adulto dopo aver fatto la transizione; tre storie, tre volti, tre (in)umanità(?).
“Figli, figlie” è un romanzo intenso, doloroso, crudo. È una storia di violenza, possesso, ribellione, perdita, identità violate. È una storia che si sostanzia nella memoria, nella solitudine. È un romanzo corale a tre voci, “Figli, figlie” in cui l’una storia ricompone l’altra in modo uniforme e complementare.
«Bambino e bambina come lo eravamo noi una volta. Ragazzo e ragazza, uomo e donna, tutti insieme meno di un essere umano. Ridotti alla pelle mucosa in mezzo alle gambe.»
Al tutto si somma una prosa essenziale, evocativa, diretta. Tanto tagliente quanto profonda. Tra emozioni, guerra, società, sentimenti, ricerca di una accettazione, una superficie fatta di famiglia e sentimenti inattesi quanto conseguenti. Un registro, infine, che segue la voce dell’io narrante ricomponendo di ciascuno i giusti tratti e invitando il lettore a riflettere tra molteplici domande.
Il mio sincero ringraziamento a Sellerio per la copia di lettura.
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Alla ricerca della memoria dell'amore
«[…] Se un pensiero non è ancora tradotto in parole non si riesce a elaborarlo: è come un nemico invisibile, non si può ridurlo al silenzio, né parare i suoi affondi.»
Accade per caso. La vita raggiunge una dimensione inaspettata, una pandemia planetaria fa capolino nel quieto scorrere del vivere, un amore perduto e ritrovato per mezzo di una richiesta di amicizia su Facebook. Pochi e semplici ingredienti che portano il lettore a vivere un lungo viaggio che porta all’amore, che porta a un tacito accordo, che sa di malinconia, che sa di dolcezza, che conduce per mano dall’Islanda sino al Giappone.
Due vite che si sono unite nel 1969 e che in quell’anno hanno continuato a vivere nel ricordo. Al tempo Kristofer aveva vent’anni, era approdato a Londra in cerca di un futuro, oggi ne ha settantaquattro. Lei invece, Miko, si trova, nel ricordo, sulla soglia del ristorante di suo padre. Qui conosce il giovane uomo che si è recato lì per un colloquio di lavoro. Tuttavia, è subito amore. In questo presente fatto di Covid-19 l’uomo decide di intraprendere il cammino che lo porta a lei, tra memoria, immagini, sguardi, speranza, dolore. Kristofer vive tra due poli: da un lato vi è Niko Nakamura che rappresenta l’amore idealizzato, dall’altra ha una figlia frutto di un legame con una donna che rappresenta il non-amore. In tutto questo è solo. Cosa lo aspetterà in Giappone? C’è un senso anche quando tutto sembra non averne? Perché proprio adesso decide di intraprendere questa avventura nella memoria? Forse proprio perché adesso non ha più niente da perdere? O forse semplicemente perché quei pochi momenti di felicità di quel 1969 a Londra sono stati così brevi ma indelebili da rappresentare la possibilità di un futuro diverso da quello che è stato?
«[…] Per soffermarsi sul passato bisogna avere parecchio tempo da perdere, e oltretutto, in generale, non se ne ricava nulla.»
“Sotto la pioggia gentile” di Olafur Olaffson è un romanzo sobrio e dalle tinte incantevoli. Oscilla tra la fiaba e la malinconia, tra la speranza di una seconda occasione e una carezza fatta all’anima. È un romanzo gentile, con un finale che può dividere ma che sa anche condurre e far provare emozioni intense proprio per quella voglia e quella volontà di un uomo di tornare a vivere il grande amore della gioventù, quell’amore che a prescindere dall’età si incontra, forse, una volta nella vita.
Al tutto si aggiunge uno stile ben cadenzato, fluido, carezzevole.
«Nel mio bagaglio ho messo la città, i ricordi, la gioia, la tristezza, la rabbia… e quell’amore che mi è stato d’ostacolo in tante cose, per tutti questi anni.»
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Salvarsi insieme
«[…] Lasciate che il cuore faccia una pausa, fosse anche solo il tempo di cento battiti, tanto per riprendere fiato, e tutto è finito.»
Perché continuare a vivere? È questo che si chiede Onni Rellonen, direttore ormai plurifallito che decide di porre fine alla sua vita. È una bella giornata d’estate quando il proposito prende forma e sostanza. Ha anche trovato la location perfetta in un vecchio granaio nel bosco. Nessuno potrà sentire lo sparo della sua pistola, un clic e tutte le sue sofferenze avranno fine. Ma si sa, non sempre le cose vanno come vorremmo, sì, anche quando si parla di propositi di trapassi. Eh sì, perché entrando nel granaio Olli scopre di non essere stato l’unico ad avere questa idea; Hermanni Kemppainen, colonnello, ha avuto la stessa idea, seppur con una modalità diversa costituita da un bel cappio al collo. I due si salvano vicendevolmente e decidono di ritornare a casa di Onni per parlare, confrontarsi, conoscersi. Si interrogano su questa loro volontà comune e si chiedono anche se non sia cosa diffusa in Finlandia. Pongono un annuncio, si offrono come fautori per l’intento. Ben 600 missive sopraggiungono a seguito di ciò. Impossibile rispondere a tutti senza l’aiuto di qualcuno, tra questi stessi candidati suicida selezionano Helena Puusaari, vicepreside che a sua volta ha il desiderio di morire e a cui viene affidato il compito di gestione delle lettere e conseguente risposta. Indicono anche un seminario a tema in un ristorante ed è da qui che parte l’avventura del suicidio di gruppo nel luogo perfetto. Certo, tutto deve essere magistralmente organizzato, nulla può essere lasciato al caso. È da qui che i nostri eroi finiranno, tra mille peripezie, a girare mezza Europa e anche a sorprendersi del legame che nascerà da questa gita organizzata fuori dalle righe.
«[…] Solo chi si è spinto fino alla soglia della morte comprende che cosa vuol dire in pratica l’inizio di una nuova vita.»
“Piccoli suicidi tra amici” è un romanzo intriso di una profonda ironia ma anche genialità. È un libro attuale, moderno e arguto, un testo che si prefigge di parlare di un argomento delicato e che ancora oggi è capace di far parlare di sé. Con un linguaggio pungente l’autore riesce a mostrarci il volto più cupo di un paese che è preda di questo fenomeno. Paasilinna ci insegna a prendere la vita in modo diverso, ci sprona a darci una nuova possibilità e ancora ci invita a riflettere anche su quei piccoli cambiamenti che però cambiando la nostra routine possono cambiare la nostra vita in toto. Anche il consolidamento di nuovi legami può suscitare questo effetto, lo stare insieme può risollevarci e farci riscoprire nuove realtà.
Questo scritto non è solo capace di farci ridere per mezzo di una storia tragicomica ma è anche un invito a non scoraggiarci. A tutti è capitato di “sentirsi perso”, di non sapere cosa fare della propria vita ma con un piccolo aiuto, tutto può cambiare. Un libro che è un vero e proprio inno alla vita.
“Piccoli suicidi tra amici” è il libro che si cerca quando si ha bisogno di un amico e come ogni vero amico non abbandona. Buona lettura!
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La memoria
«[…] Lo stesso accadeva per i frammenti di ricordi che tentava di annotare il più in fretta possibile: poche immagini di un periodo della sua vita, che vedeva sfilare velocemente prima che sparissero per sempre nell’oblio.»
Il tema della memoria, del ricordo evanescente che si perde nell’oblio sino ai massimi estremi, è molto caro a Modiano, autore che già in altri componimenti si è spinto ad interrogarsi in merito. Più passa il tempo, più l’età avanza, più la memoria diventa fragile, fallace e fa paura con il suo frantumarsi inesorabile.
Cambia la memoria, cambia l’età, cambia il mondo. I ricordi sbiadiscono, l’infanzia è sempre più lontana e ogni percezione di quel che è stato assume una nuova veste grazie alla riflessione adulta. “La strada per Chevreuse” riprende alcune delle situazioni e dei luoghi che il Premio Nobel per la letteratura Patrick Modiano aveva già affrontato in “Riduzione di pena”, classe 1988. L’io narrante ci rimanda naturalmente a un Modiano bambino che si trova con il fratello minore in una casa a Jouy-en-Josas. Siamo nel 1966 quando la vicenda ha inizio e protagonista è Jean Bosmans, alter ego dello scrittore già comparso in “L’orizzonte”, opera del 2010. Molti, come si evince, i rimandi al passato di Patrick stesso, un po’ come se si trattasse di un fil rouge che sembra voler resistere innanzi a quella memoria che sembra volersi invece sgretolare.
«[…] Pensò che dopotutto quel tale Guy Vincent era legato a certi suoi ricordi d’infanzia che non la riguardavano e le erano del tutto indifferenti.»
I due ragazzini vengono affidati per un periodo di tempo a dei conoscenti che vivono in quello che ha tutte le sembianze di un villaggio. Jean incontra due uomini; Michel de Gama, detto Degamat, e René-Marco Heriford. Ancora, Jean, conosce Kim, la figlia di René. È lei a occuparsi di lui, a prendersene cura. Il mistero ruota attorno alla casa di Chevreuse, tanto De Gama che Hereford che Philippe Hayward ne sono incuriositi e interessati.
Ad essere protagonista indiscusso di queste pagine è senza dubbio il ricordo. I ricordi riemergono nella mente, tornano a farsi spazio in noi in tempi, luoghi e in momenti particolari e spesso anche inaspettati. Nulla sembra accadere per caso, basta anche una piccola cosa, un piccolo dettaglio, ed ecco che il passato, sotto forma di memoria, torna a fare capolino nel nostro oggi, nel nostro presente. Cambia anche la forma che gli oggetti assumono. Se un orologio ha la funzione di scandire il tempo, una bussola di orientare, un accendino di far luce, un taccuino di essere scritto, ecco che ciascuno di questi diventa un mezzo per far scaturire la memoria in quello che è un ricordo sopito. Stessa cosa accade e avviene con i nomi, con le voci.
A condurre le parole è un ritmo narrativo ben cadenzato, pacato, che sembra sussurrare all’orecchio del lettore. Una parola silenziosa ma che infrange le barriere del suono. Con la perfetta delicatezza di un tempo che è stato e che è stato capace di sconvolgere.
Un Modiano, ancora una volta, che ricostruisce partendo dal presente e tornando al passato. Un Modiano che si interroga e ci interroga per mezzo di Jean.
Patrick Modiano è uno di quegli scrittori che non teme di affrontare le paure della nostra epoca, ancora una volta si appresta a solcare il confine tra memoria e ricordo inventato. La memoria nel suo essere labile e fragile, rende l’uomo nudo, spoglio, fragile, indifeso.
«[…] Nella sua memoria, questa Ferme d’Auteuil era molto vicina alla valle di Chevreuse, alla rue du
Docteur-Kurzenne e alla zona di Porte Molitor dove era nato. Tutto ciò formava una provincia segreta. E nessuna mappa o piano del personale avrebbe potuto dimostrargli il contrario.»
Il Premio Nobel Patrick Modiano con “La strada per Chevreuse” aggiunge un nuovo tassello alla sua “geografia poetica” basata su emozioni e sensazioni fornite dalle stagioni della vita umana.
Un’amara consapevolezza da cui non possiamo sottrarci. Oggi è già domani e ieri è un ricordo che non è più nostro.
«Il paesaggio era cambiato come se avessimo oltrepassato un confine. E da allora in poi, ogni volta che ripercorreva lo stesso itinerario da Parigi e dalla Porte d’Auteuil, provava la stessa sensazione: quella di scivolare in una zona fresca che le chiome degli alberi proteggevano dal sole. E in inverno, a causa della neve più abbondante che altrove in questa valle di Chevreuse, credevamo di seguire piccole strade di montagna».
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Un tempo che è stato ed è
«Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio nella barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai. Passiamo le giornate al tavolo d’angolo dello Starlight Diner a discutere i capricci della vita. La nostra Harmony è una cittadina come tante. Tale e quale alla vostra. Piena di santi e peccatori, indistinguibili.»
Giovani. Giovani e irrequieti, giovani e incapaci di vivere in una dimensione di tranquillità. Giovani e soli. Una solitudine fatta di incomprensioni e di criticità. Non sentirsi a proprio agio e al contempo credersi padroni del mondo. Iggy, Cleo e Paul. Tre giovani ragazzi che vivono ad Harmony, una cittadina come tante. Una cittadina che potrebbe essere qualunque cittadina del nostro tempo e del nostro vissuto, una prima sezione ambientata nel 2018 che ci viene narrata dal compagno di classe del protagonista.
Ed è proprio da questo malessere che nasce il desiderio di farla finita. Maturato, coltivato, sedimentato. Un desiderio che sprigiona in Iggy, che introduce la seconda parte, e che lo porta a decidere di togliersi la vita dandosi fuoco in quel della Chiesa dove è in atto la funzione. Si cosparge di benzina, si reca nel luogo prestabilito, accende il fiammifero e… cade. La paura prende il sopravvento, il fiammifero cade di mano, il rogo ha inizio. Ma lui scappa, esce si mette in salvo. La condanna sopraggiunge, passano gli anni e Iggy attende il giorno dell’esecuzione della condanna a morte. Sa di non avere altre alternative, di non avere molto da raccontare se non quel vissuto fatto di ricordi e tempo passato. A breve non vedrà più nemmeno quel corniolo che gli ha fatto compagnia, ad attenderlo una cella di isolamento.
«Dalla finestra guardo il corniolo solitario. Si piega al vento. La cella si riempie di ombre corte e presto sarà ora di dormire. Il primo giorno della mia ultima settimana sta finendo. Sono pronto. Sapevo che sarebbe arrivato il momento. Rimpiango il futuro che non conoscerò dall’alto. Sogno di gridare il mio nome nella valle.»
Ed ecco che Iggy narra. Racconta della sua vita solitaria, dell’incontro con Cleo e Paul, delinea il suo mondo che crolla, crepa dopo crepa, la disperazione che prende campo. Narra anche della sua sfera affettiva, dell’omosessualità, del cerchio che intorno a lui si stringe, del mondo online che si apre come uno specchio alimentando il desiderio di morte, solitudine e incomprensione. Un po’ come in “Memorie di un condannato a morte” di Victor Hugo e molti altri testi del genere, è il racconto di Iggy.
Da questo ci stacchiamo per conoscere un nuovo e terzo narratore, Farber. Detto “Marilyn Manson” o “Morrisey” egli è un bibliotecario che nel suo orario di lavoro incontrerà un personaggio già incontrato nella narrazione e che lo porterà a cercare il suo personale cambiamento.
Il romanzo giunge al termine nel 2019 con una quarta sezione narrata da Nuvola che chiude l’opera con un finale dolceamaro.
Micheal Bible dona ai lettori un romanzo fortemente evocativo, con una struttura complessa e molto particolare che si fonde con una struttura stratificata su più livelli e archi temporali e che porta a una vera e propria dilatazione di questo. Unica pecca è che la narrazione talvolta tende a perdersi e a perdere di intensità, come se si smarrissero le coordinate del narrato. A far da padrona è la solitudine di ogni voce narrante che si scontra e incontra con altre voci e con quel caos che è la vita. Perché alla fine “La vita mi si confonde. Si attorciglia su se stessa”. E non potrebbe essere così anche per ciascuno di noi?
«Il mio cagnolino ha paura dei tuoni. La sera bevo il tè e leggo il giornale. Quando metto i tulipani alla finestra, si aprono verso il sole. In lontananza c’è qualcuno che mi chiama.»
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Storie che tornano nel tempo, storie che chiamano
«[…] Costruire e distruggere, costruire e distruggere, costruire e distruggere per un solo attimo felice. Attimo che a sua volta sarà costruito e distrutto dalle convinzioni di essere padroni del tempo e degli attimi di tutto quel che ci circonda.»
È giovane, bella e felicemente imperfetta, Federica. Lavora nella libreria cittadina del luogo in cui si è trasferita, la sua vita è fatta di un passato burrascoso di cui non ama parlare e di un presente abitato da poche e semplici certezze e consuetudini. Tra queste vi è Mattia, il collega di lavoro a cui è particolarmente legata e che ogni mattina la aspetta con la tazza di caffè da asporto fumante. Ed è proprio su quella tazza che ogni mattina egli le augura il buongiorno con una semplice frase: “sorridi… è il tempo della tua vita”. Un monito ad affrontare con il giusto spirito non solo le ore successive ma anche il futuro venturo, quel che verrà. Ad attendere il duo al lavoro vi è Paul, proprietario della libreria nonché romanziere che aiuta anche Mattia a coronare il suo sogno di diventare scrittore.
Due volti complementari sono Mattia e Federica. Se lui rappresenta la possibilità, l’attenzione al piccolo gesto, l’amare per quel che il sentimento è andando oltre a quelle che sono le apparenze dettate da usi e costumi, le imperfezioni, gli sbagli, le cadute, ella rappresenta il volto più complesso ed è capace di farsi amare quanto odiare suscitando empatia anche nelle situazioni più ostiche. Lo scorrere delle giornate non risparmierà i protagonisti, saranno tante le difficoltà che si troveranno ad affrontare e che li porteranno a conoscere davvero il tempo della loro vita. Da un passato che torna a bussare alla porta, alla rinascita passando dalla perdita.
«[…] I sentimenti che provi portali sempre con te. Ascoltali. Non rinnegarti niente, non privarti della tua felicità. Segui le emozioni e se sarà necessario sbaglia.»
"Il tempo della tua vita” è un libro che offre al suo lettore tanti spunti di riflessione e che insegna a non temere l’incompletezza, la mancanza, l’errare. È un libro che per mezzo della voce di una donna allo sbaraglio, che ha perso i punti fermi, che mente spudoratamente, che è egoista e immatura, ci ricorda che non si può scappare sempre. Da quel che verrà, da noi stessi, da quel che siamo, da tutto ciò che ci circonda.
Tuttavia, la più grande caratteristica di "Il tempo della tua vita” è quella di saper emozionare. Il lettore cammina passo passo con i due protagonisti, è trascinato dal loro vissuto, è coinvolto dall’evolversi del legame e dalla maturazione dei personaggi. Un eroe per eccellenza, un antieroe per eccellenza e tutta una serie di voci che nel loro intrecciarsi rendono tangibile e vivo il testo.
Per me si è trattata di una rilettura a distanza di un decennio dalla prima ma le riflessioni ed emozioni sono state egualmente vivide seppur con dieci anni di vita in più. Alle prime provate, se possibile, se sono aggiunte semplicemente di nuove e più accorte.
Un romanzo che chiama, arriva, trattiene e resta nella sua semplice complessità.
«[…] Un’emozione non si può scegliere, lui me la faceva vivere.»
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Legami lunghi una vita e oltre
«[…] Lei pensa che io le stia remando contro, lo vedo dalla sua espressione, ma non è così. È solo che prima di metterci al lavoro dobbiamo fare chiarezza. Sì, se non fosse tornata in acqua sarebbe, ancora viva, ma non saremmo stati insieme più di trent’anni se per esempio avessi provato a impedirle di entrare in acqua quando voleva.»
Sono i romanzi come “Baumgartner” a ricordarci come sia nella normalità la bellezza della vita. Tra queste pagine si respira emozione, si è davanti a un romanzo profondamente intimista che ha quale obiettivo quello della elaborazione del letto per mezzo della voce di un uomo che ha perso la moglie Anna di cui era innamoratissimo. Baumgartner, ex docente universitario, è adesso in pensione e anche se dal giorno della separazione con la donna sono trascorsi dieci anni, continua a vivere con il ricordo indelebile di lei e dei momenti che hanno trascorso insieme, nel bene e nel male.
La donna era una poetessa, non amava far leggere i propri versi perché fortemente introversa, traduttrice di professione, sportiva e anche scrittrice di diari di anni di gioventù custoditi adesso come cimeli. Da qui anche il senso di interrogazione dell’uomo che, tornando ai giorni della fine, pensa a come sarebbero andate le cose se l’avesse fermata, se avesse agito in modo diverso. Eppure, al contempo, la parte razionale della sua mente, sa anche che se l’avesse fermata non sarebbero stati insieme tutti gli anni che sono stati perché sarebbe venuto meno quel principio di libertà e rispetto altrui che ha sempre determinato il loro rapporto. Il legame tra loro è così forte che lui continua a parlarle ancora, anche se lei non c’è più. Al contempo si diletta a ordinare oggetti quali libri solo per scambiare quattro chiacchiere con l’addetto alla consegna. Quando le poesie della moglie saranno attenzionate da una giovane studiosa che Baumgartner ospiterà, il libro avrà un vero e proprio smacco che mai però metterà in secondo piano l’alternarsi di flashback su esistenze fatte di certezze e presenze.
«[…] I suoi pensieri si allontanano piano piano dai capitomboli da mimo di stamane e tornano al passato, il lontano passato che balugina ai confini della memoria e, un pezzo minuscolo alla volta, gli torna tutto in mente […].»
Ed è proprio questo il tema centrale di questo titolo intimo e profondo: le presenze che si inseriscono nella nostra vita, i legami che ogni giorno instauriamo, le relazioni che portiamo avanti, anche le più semplici. Queste sono la linfa per il nostro percorso su questa terra, sono ciò che ci mette in moto e arricchisce il nostro percorso. Per effetto, un ruolo centrale, lo ha la perdita di quel legame, l’interruzione, il frantumamento, l’evento che ci porta alla separazione.
Cosa aspettarsi da una lettura come “Baumgartner”? Un libro che solletica l’anima con semplicità, che ci entra dentro con naturalezza, che ci ricorda quanto sia nell’unicità della nostra esistenza la bellezza del nostro vivere. Anche se semplice, anche se fatto di costanti, anche se privo di eventi apparentemente sconvolgenti.
Un romanzo maturo di Paul Auster che regala tanti spunti di riflessione.
«[…] Sarebbe il caso di indagare come in alcuni momenti fugaci e imprevedibili restano impressi nella memoria, e invece altri, in teoria più importanti, svaniscono per sempre.»
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Ariel
«[…] All’improvviso mi faccio largo a forza, urlo di allontanarsi, corro verso di lui, rovescio un tavolo, sono a pochi passi, lo raggiungo. Il tempo si dilata, gli occhi si agganciano: riconosco lo sguardo di chi ha scelto la morte. Lo afferro per un braccio, posso fermarlo. […] Belva sconcia, la morte divora a caso per non essere divorata. Grida e rantoli, sangue e urina, corpi come sacchi vuoti, occhi senza più sguardo, labbra senza più baci e parole, respiri che non appannano più specchi. Il battito interrotto. Vite rubate alla vita in un lampo infuocato.»
Quando Micol e Daniel scoprono della morte del figlio, sono separati ormai da anni. Coppia di origine ebraica, apprendono della morte di Ariel a seguito di un attacco kamikaze in Israele, luogo dove si è trasferito da qualche tempo anche grazie all’influenza della nonna Stella. Da sempre il giovane segue un ideale ben preciso e muore per questo stesso.
È come un fulmine a ciel sereno, le notizia. I genitori si recano a Tel Aviv e una volta lì scoprono che non solo il figlio si trovava estremamente vicino all’esplosione ma che, oltretutto, celava una vita ben diversa da quel che i due conoscevano.
Il lutto non è mai uguale, per nessuno. Il dolore è una voragine, consuma dall’interno. Porta alla fuga, porta al logoramento ma porta anche bisogno di sapere, di risposte. Ed è qui che Micol scopre di non aver mai davvero conosciuto il figlio che ha cresciuto. Scopre i suoi sentimenti d’amore, conosce quell’amore che ha superato i confini del pregiudizio, ne scopre perfino il gatto. In un certo senso riscopre anche sua madre, Stella, una donna forte e risoluta con cui ha sempre avuto scontri e discussioni.
«[…] Il lutto sparge sale ma cerca lampi d’oblio.»
Questo è merito dei legami atavici ma anche di emozioni senza confine come il dolore. Tante sono le voci e i volti di questo romanzo ma certamente ad essere le vere protagoniste sono Stella e Micol. Queste sono accompagnate da Tariq, il compagno di Ariel, Sharon, la migliore amica e Malak l’insospettabile gatto.
Un percorso di riflessione ma anche di rinascita in cui un evento di perdita porta a nuovi inizi. Un libro che non è solo quel che appare, uno scritto che va ben oltre e che si prefigge di far riflettere il lettore su tematiche attuali ma mai banali.
Al tutto si aggiunge una scrittura chiara, diretta, priva di fronzoli e di grande intensità. Un libro dove è il sentimento la prima vera essenza.
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Meraviglia a singhiozzi
«[…] Corro per il campo in cerca della palla e desidero per la prima volta da quando sono nata andare avanti e non fermarmi e oltrepassare quelle sbarre grigio ferro e continuare a dare calci per far rotolare il pallone un po’ più in là, per vedere quanto “in là” c’è al mondo, quanto è spaziosa la prigione dei mica-matti.»
Quando conosciamo Elba sappiamo solo che è nata in manicomio perché figlia di una donna ricoverata perché considerata malata di mente. È una bambina particolare che cresce in un contesto particolare e che aspetta la madre. Siamo all’inizio degli anni ’70, è un periodo storico che vede l’introduzione della legge Basaglia, che si accavalla e si accoda a un momento della nostra Storia in cui bastava poco per finire catalogati tra persone non sane di mente. La stessa madre di Elba finisce in manicomio per lo stesso motivo, è una tedesca rifugiata politica che alla fine non riconoscerà nemmeno più la figlia a causa dei troppi elettroshock subiti.
Elba ha molta fantasia, è molto intelligente e non è matta. Dà soprannomi a tutto e tutti in quel del “mezzomondo”, basti pensare alle “suore culone” o a “Lampadina”, l’infermiere che pratica l’elettroshock, vive nella speranza e la sua vita cambierà davvero quando tra i medici entrerà il dottor Fausto Meraviglia. Sarà lui a rendersi conto dell’anomalia di una bambina sana in un luogo di confinati e quando i manicomi saranno chiusi, ecco che l’uomo la prenderà in casa con sé crescendola e facendola studiare. Se per il dottore ella è la figlia che si è scelto, per la bambina egli è il padre e la famiglia che non ha mai avuto. È un uomo non immune da difetti, anzi; è un donnaiolo, un bugiardo, spesso è incoerente ma è anche un uomo di grande umanità.
«[…] Forse festeggerò domani il nuovo anno andando a spasso per i campi elisi, in mezzo alle anime smarrite come me, che non si sono accorte di essere state truffate e di aver contribuito in qualche modo alla loro stessa truffa. Insieme a quelli che hanno goduto troppo presto per una vittoria che non c’è stata mai, per un rigore mai tirato.»
Elba sente il dolore per l’assenza di una madre che gli è stata negata ma lo sente anche nei confronti di tutte quelle figure femminili che non hanno potuto vivere una vita normale, a cui quest’ultima è stata per qualsivoglia motivo sottratta. Ed è anche per questo che la Ardone, tramite la sua protagonista, cerca di rivolgersi a un pubblico prevalentemente femminile.
Il racconto si divide in sezioni e si avvale del canonico salto temporale per svilupparsi. Questo non sempre rende favorevole la lettura, soprattutto quando a tornare in scena è la figura del Dottor Meraviglia che ora è giovane, ora è anziano. La frammentarietà rende lo scritto un po’ un singhiozzo continuo e non favorisce l’empatia.
Al modesto avviso di chi si scrive e fermo restando che la lettura è soggettiva, c’è anche una problematica di obiettivi disillusi e traguardi non raggiunti. Se vuoi parlare di manicomi, malattia mentale, Legge Basaglia devi anche un minimo addentrarti nel profondo di quello che è la tematica e qui, questo aspetto, non c’è. Si resta molto sul superficiale, quasi come se si volesse narrare una favoletta di un tempo che è stato e fine. Certamente in un romanzo di narrativa non è richiesto l’approfondimento di un saggio ma ci dev’essere comunque coerenza tra il narrato e gli intenti, cosa che in “Grande Meraviglia” non c’è.
C’è tanta discontinuità, tanta disarmonia tra queste pagine. Si fatica ad empatizzare con i personaggi, a farli propri. Il lettore resta un po’ distaccato da quel che viene proposto, è arenato dalla frammentarietà che si trova davanti ed è stordito dal quantitativo di frasi fatte. Lo stesso Meraviglia resta un personaggio sulla superficie, uno di quei volti che vedi ma che non ti prendono per mano trasportandoti in un caleidoscopio di emozioni. Elba non è da meno.
Un libro tanto, troppo commerciale. A maggior ragione per il tema che tratta, tema molto gettonato, tema trattato in tanti modi da altri scrittori, tema che merita un qualcosa di più. Si fatica sinceramente tanto a leggere un romanzo che per come è impostato si dovrebbe ultimare in poco più di una giornata.
«[…] L’ho carezzata senza rimproverarla: ho capito che dopo tanta prigionia aveva bisogno di costeggiare i limiti della sua libertà.»
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Petra specchio a specchio con Petra
«[…] No, pe molto tempo fui convinta che mi volessero bene e basta, fino a quando compresi che il loro non era un amore incondizionato, era un amore “nonostante”.»
Alicia Gimenez-Barlett, ideatrice del fortunato personaggio di Petra Delicado, propone ai suoi lettori un romanzo che si struttura in una autobiografia narrata in prima voce dalla stessa protagonista. Ce lo dice sin dalle prime pagine, Petra; è necessario uno stacco da tutto e tutti, dall’umanità. Ed è proprio per questo che la donna si ritira per una settimana in un austero convento di religiose, un luogo totalmente estraneo ai suoi soliti interessi e in cui è isolata anche da ogni forma di tecnologia. Non è altro che un modo per ritrovare se stessi, per riscoprirsi e fare il punto su tante situazioni.
La grande forza di questo scritto sta proprio nella sua naturalezza: non vi è bisogno di cercare scheletri nell’armadio o di far disconoscere autrice/protagonista, la forza di Petra è il suo essere imperfetta nel tempo che scorre e in un vissuto che sembra non avere titolarità.
La creatura nata dalla finzione narrativa prende autonomia, raggiunge i suoi lettori, cammina con le sue gambe, un po’ come Pinocchio dopo che ha ricevuto la vita e inizia a fare i suoi primi passi nel mondo.
Normalmente Petra è una donna risoluta, solida, salda. Una donna dedita alla professione così come alla vita privata, una donna completa e profonda. È, ancora, una donna estranea al cliché, alle consuetudini e grazie anche alle origini materne è canonicamente priva di tolleranza per il maschilismo ma anche per quel femminismo così fortemente inculcato. Anche quando la madre verrà a morire rivelandole il perché del suo essere stata talvolta troppo ferrea, Petra non perderà il suo aplomb duro e perentorio perché nemmeno con se stessa è possibile venire a compromessi o adottare attenuanti.
«[…] Ognuno è così com’è, e qui non si tratta di stendere un inventario di soprusi materni.»
Petra Delicado è una donna comune, una donna come tante ma anche una donna autonoma e matura, una donna che fa dell’intelligenza e della sensibilità le sue colonne portanti. Rappresenta alla perfezione i suoi tempi, descrive l’epoca in cui è cresciuta, delinea con precisa e minuziosa maestria l’epoca franchista sino alla sua conclusione. Ma il “nuovo mondo” sarà davvero un nuovo mondo o continuerà a portarsi dietro come una zavorra quel che è sempre stato?
Al tutto si aggiungono perfette descrizioni dei personaggi che sono vivibili nella mente del lettore ma anche volti di uomini e donne che credono in principi che differiscono da quelli che sono stati gli insegnamenti. Tante le tematiche trattate con acume e brillantezza.
Un romanzo sinceramente gradevole, che accompagna e che dimostra non solo la grande originalità della scrittrice ma che conferma anche la sua indiscussa dote di narratrice.
«[…] Successe davvero, e adesso, dopo tanto tempo, ripensando all’enormità della cosa ho l’impressione di averlo sognato. Non ne ho mai parlato con nessuno. Come potevano reagire le mie amiche a un simile racconto? Non mi avrebbero creduta, avrebbero riso di me, sarebbero rimaste disgustate. Non valeva la pena di parlarne.»
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Intrighi di famiglia
«[…] Zio Antoine è morto martedì, vigilia di Ognissanti, probabilmente intorno alle undici di sera. Sempre quella notte, Colette ha tentato di buttarsi dalla finestra. Pressappoco nello stesso momento si veniva a sapere che Eduard era tornato e che diverse persone lo avevano visto in città. Tutto questo ha creato una certa agitazione nella famiglia che ieri, al funerale, è apparsa al completo per la prima volta da anni.»
Quando pensiamo a Simenon è naturale pensare a Maigret, il personaggio forse più famoso e di cui il romanziere è stato anche ideatore prolifico. Tuttavia Simenon non è solo noto al grande pubblico per il celebre commissario, Jules, è stata solo una delle tante personalità create che si sommano ai tanti racconti e volti che non lo vedono quale eroe principale ma che si confermano essere testi di particolare spessore. Il marchio Simenon lo si percepisce a distanza e anche in questo titolo edito per Adelphi” e intitolato “Gli altri”, classe 1961, è evidente la sua presenza.
Siamo nella provincia francese e già dall’incipit percepiamo la forza evocativa di uno scritto che si stacca dal poliziesco per soffermarsi sul ritratto psicologico dei personaggi che sono introdotti. Narratore delle vicende è Blaise Huet, insegnante di disegno all’Accademia, non particolarmente noto e ancor meno brillante, che in queste pagine e sotto la forma del diario, propone ai suoi lettori quelli che sono gli avvenimenti familiari che si susseguono nonché le impressioni e gli intrecci che emergono dopo il fatto scatenante determinato dalla morte dello zio Antoine, un avvocato giurista di grande fama, e che non trascura nemmeno l’aspetto finale dell’apertura del testamento e delle varie evoluzioni che subentrano. Molti i dubbi sulla morte, si pensa a un auto-avvelenamento, a una morte forse non proprio volontaria, ma l’attesa dell’apertura della successione prevale. L’occasione della morte diventa occasione per ricontrarsi, per riallacciare legami, per tracciare una storia fatta di conflitti, pettegolezzi, cadute, incomprensioni, umanità.
Come spesso accade nelle opere di Simenon non Maigret anche in questo caso ad emergere sono le figure femminili, non sempre in modo positivo. “Gli altri” è un testo fatto di uomini e donne imperfetti e che rappresentano lo specchio di una società del tempo a sua volta composta da omertà e apparenza. Da Colette, la moglie dello zio defunto che tenta il suicidio e ha costanti crisi isteriche, a Irène, moglie di Blaise che si intrattiene con un compagno che è noto e accolto dal coniuge che a sua volta si accompagna con la servetta di casa, Adèle, tutto è perfettamente e naturalmente normale. Anche se nel concreto queste situazioni potrebbero far storcere il naso o comunque aggrottare la fronte, nella realtà definita da Simenon è tutto perfettamente normale.
Ed è così che il belga ci dimostra, ancora una volta, come tutto possa essere fatto cadere nell’oblio laddove sia necessario al fine di una consuetudine sociale fatta di apparenza, sfornita di valori, debole nel suo essere.
“Gli altri” è uno scritto di Georges Simenon che ci propone un’analisi psicologica profonda in un panorama appartenente a un’epoca diversa ma non così lontana, per similitudini e contraddizioni, alla nostra.
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Lucia, Amanda e Doralice
«[…] Ho addomesticato la paura che avevo all’inizio per lei. Un posto che aveva tanto desiderato non poteva farle del male.»
Nota al grande pubblico per il suo “L’Arminuta”, Donatella Di Pietrantonio torna in libreria con “L’età fragile”, uno scritto che tra i tanti intenti si propone anche di sensibilizzare il lettore su un tema oggi molto attuale; il femminicidio. Per farlo ella torna indietro nel tempo, ci riporta al 1997 e più precisamente nella sua terra dove si perpetrò il delitto del Morrone. Due ragazze, mentre erano in escursione sulla Maiella, furono trucidate.
Ma procediamo con ordine. Conosciamo in primis Lucia e Amanda, una madre e una figlia che vivono in un paesino vicino Pescara e che nella finzione narrativa si fa protagonista del locus commissi delicti di un tempo trascorso. Sappiamo che Amanda si è trasferita nel milanese, che sta inseguendo il sogno della grande metropoli, che sta studiando per il suo futuro. Sappiamo ancora che tra Lucia e suo marito le cose non vanno più e che la separazione ufficiale è ormai l’ultimo tassello. La madre vorrebbe proteggere la figlia, tenerla al riparo, ma non può. C’è un momento nella vita in cui i figli devono essere lasciati andare, devono crescere, cadere e sbagliare ma anche imparare a rialzarsi. Siamo a ridosso dello scoppio del periodo pandemico e dei vari lockdown quando Amanda riesce per un soffio a prendere il treno che la riporta a casa. Con sé porta tutto, come se fosse un ritorno definitivo, tranne i libri. Lucia cerca di leggere oltre, di capire cosa si cela dietro il suo mutismo, dietro quel chiudersi in se stessa. Intuisce che qualcosa è accaduto ma non riesce a percepirne la vera portata, la vera devastante conseguenza. Amanda è taciturna, si trova un lavoretto in zona, trascorre il tempo chiusa in camera senza rispondere al telefono.
«[…] Nel rispetto della sua libertà, le sono mancata quando aveva bisogno di me.»
A questa prima narrazione del presente, si aggiunge quella del passato. Sotto a quello che è conosciuto come il Dente del Lupo, un terreno che appartiene loro e che un tempo ospitava un campeggio, tanti anni fa è successo un qualcosa di terribile. Oggi è oggetto di speculazione edilizia, ma quel che è stato non può essere dimenticato. Torniamo così agli anni della giovinezza di Lucia, conosciamo Doralice e le altre due ragazze, Tania e Virginia. Ricostruiamo tra presente e passato quello che è stato, dalla scomparsa, al delitto, alle udienze con la sopravvissuta.
«[…] La ferita era superficiale, si sarebbe presto rimarginata. Non vedevo il danno più duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa.»
E forse è vero, la nostra unica verità sono proprio le ferite. Ferite che sanguinano oggi, che sanguinano domani perché forse non è possibile una vera guarigione. “L’età fragile” è uno scritto che trasporta in una dimensione narrativa nuova della Di Pietrantonio, è anche uno scritto coraggioso per i temi che affronta e quel che si prefigge. Si noti bene che il libro non si prefigge di trattare nel dettaglio le fasi del delitto del Circeo, ne prende spunto, ricostruisce una storia che vi si ispira per molteplici aspetti, ma non si tratta di una cronaca dettagliata dei fatti.
Manca qualcosa, qualcosa sfugge nella dimensione complessiva a livello di emozione, forse perché nella totalità tende in parte a perdere il centro, ma nell’insieme “L’età fragile” è un romanzo che può offrire molto a livello di riflessione.
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Ulf
«[…] Non appena ebbi formulato quel pensiero mi resi conto che non era così: le nostre parole hanno un potere mortale su di loro.»
È proprio l’inaspettato ciò che più è capace di cambiare la nostra vita sino a portarci a una nuova consapevolezza di noi. Ed è questo quel che accade tra queste pagine. È il giorno di Capodanno quando il settantenne Ulf Norrstig, all’interno della propria roulotte, ex ispettore forestale nonché cacciatore, lo vede: il muso nobile, il portamento regale, il mantello bianco e grigio; ha davanti il lupo. Si osservano, si scrutano. Poi il lupo entra nel bosco e scompare. Sono pochi istanti, attimi, ma Ulf sente cambiare qualcosa dentro di sé. Il suo cuore è malato, vive nella fragilità di questi battiti che oscillano, ascolta i ricordi, riscopre la propria memoria interiore.
«[…] In vita mia non mi ero mai sentito tanto maledettamente inutile. Un povero vecchio. Inservibile. Impotente.»
Ulf ha un carattere forte, spesso si scontra con Inga, la moglie, condivide gli acciacchi con Zenta, il vecchio cane. Ma come può confidare a Inga ciò che ha visto? È preda della solitudine e della malinconia che da sempre si porta dentro, deve confrontarsi con un lavoro che non lo appaga, che considera fallimentare, deve riconsiderare se stesso. È affascinato dal bosco, dalla sacralità del luogo, dalla sua bellezza illusoria quanto immortale, dalla realtà di un luogo per alcun motivo inviolabile. Anela la libertà del lupo, la magnificenza del predatore che sovrasta dall’alto, che esplora quei boschi consapevole di essere forte e invincibile.
Scuote quell’apparizione, scuote da quel mondo in cui Ulf è bloccato. Riflette su quel che è e su quel che è stato in modo totalmente diverso. Ripensa ai disboscamenti, rifiuta lo stereotipo dell’uomo, abbraccia il nuovo io che scopre.
«[…] E per quanto avrà intenzione di parlare? Ma tutto passa, comunque. Alla fine.»
“Essere lupo” è un romanzo che fa leva sulla natura, l’essenziale, la vita nella natura. È intriso di toni poetici, è avvalorato da descrizioni nitide che rendono i luoghi e i personaggi tridimensionali, è mistero ed essenza. Siamo tutti un po’ Ulf e come lui non possiamo restare impassibili a quel lupo che riesce a scatenare in noi un universo sepolto, offuscato, forse mai conosciuto davvero.
Ed è ancora riflessione e risveglio dal torpore. La memoria è corale, la potenza narrativa è evocativa e stratificata. Non è solo un racconto dell’anzianità di Ulf, è anche la presa coscienza del rapporto uomo-natura che viene delineata dal rapporto che proprio il protagonista ha verso questa e che è devoto, diligente, rispettoso, quasi sacrale ma anche verso l’ambiente e la fauna. Ma è anche la denuncia verso la volgarità e l’insensibilità dei suoi compagni di caccia. È ancora la riflessione sul differente atteggiamento, nonostante la stessa età, del marito e della moglie. Se Ulf è in cerca di risposte alle tante domande e ai tanti dubbi, Inga è mossa da una verve che spinge e sprona anche il marito.
Che lo si legga dall’ottica di Inga o da quello di Ulf, “Essere lupo” emerge per la profonda intensità che emerge dall’incontro con la figura divina del lupo, dal rapporto tra coniugi, dalle descrizioni di quei paesaggi che sono descritti con pennellate perfette e colori intensi.
«[…] Dopo di che partimmo, e finalmente eravamo soli. Era una cosa meravigliosa, che mi godetti per tutto il tragitto fino a Loåsen, mentre guardavo stupito il paesaggio invernale e la quantità di neve. Non so perché, ma avevo pensato che fosse arrivata un’altra stagione.»
“Essere lupo” di Kerstin Ekman è un racconto di rinascita, un racconto sul rapporto uomo e natura, un racconto che parla di legami di vita, una vita che cambia e si evolve con il passare degli anni e delle fasi del nostro esistere. È ancora uno scritto che affronta le incertezze, le fragilità e le paure che ci coinvolgono. Siamo tutti un po’ Ulf e Ulf è un po’ tutti noi.
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Fragilità e solitudini umane
«[…] Erano anni che la mia casa non era così pulita e ordinata. In fondo ho la sensazione che la ruota stia girando e che una forza benevola abbia fatto esplodere la mia vita, in modo improvviso e fruttuoso, che l’abbia fatta fiorire in un sogno carico di estasi.»
Ci sono momenti nella vita in cui perdiamo semplicemente il controllo. E come spesso accade, ce ne accorgiamo quando ormai è troppo tardi e non sappiamo più come tornare indietro, quasi non ci ricordiamo più com’eravamo prima. Questo è un po’ quel che succede ad Arthur Opp, ex docente universitario prigioniero di un corpo che è un fardello che ne scandisce l’esistenza con tutti i suoi malesseri. Ripensa al passato ma anche questo è troppo per il suo nuovo io. Sono anni che non esce di casa, anni che non riordina, che non sale ai piani superiori della sua abitazione, anni che inventa frottole a Charlene Keller, ex allieva con cui ha avuto anche un coinvolgimento sentimentale e che delineerà il suo capolinea con il mondo universitario. Charlene, come Arthur, è un’anima fragile. Seppur con cadenza non sempre regolare i due si scrivono da diciotto anni. Lui ha infiocchettato alcuni aspetti della sua vita, lei è arrivata a chiamarlo e sempre lei chiede all’uomo di occuparsi di Kel, suo figlio. È giovane, ama il baseball che vede com’occasione irripetibile per il futuro, non crede nello studio. La donna chiede ad Arthur di parlarci, di occuparsi di lui. È a questo punto che egli decide di dirle la verità anche se può far male ed è sempre a questo punto, con la possibilità che lei e il figlio entrino nella sua vita, che decide di chiamare una ditta di pulizie per farsi aiutare a rimettere in ordine lo sporco di anni. Entra così in scena anche Yolanda, una giovane donna di origine peruviana che lo aiuta a mettere in ordine la casa, che è incinta e che rappresenta il primo vero ponte e contatto dell’ex docente con il mondo di fuori.
«[…] Che cosa accadrà ora, mi sono chiesto. Ma ero solo, e ho scoperto di non avere una risposta.»
Tuttavia, anche Charlene ha dei segreti non rivelati ad Arthur e sarà solo quando la narrazione passerà a Kel che scopriremo cosa davvero è successo nel passato e cosa ne è del presente. Perché Charlene e Arthur sono due anime sole e fragili, due anime che hanno cercato rifugio e sostegno in un qualcosa che credevano potesse aiutarli ma che in realtà li ha condannati ancora di più, isolati ancora di più. E come spesso accade, le scelte dei genitori ricadono anche sui figli che, come nel caso di Kel, portano a crescere più rapidamente, ma anche a vivere in una profonda e ulteriore solitudine.
«[…] Qui casa Keller, ha detto la voce. Ora non possiamo rispondere. Sapete cosa fare.
Ho aspettato il bip e poi ho riattaccato.
Io non lo sapevo, cosa fare.»
Quella di Liz Moore è un’opera profonda e intensa, scritta con un linguaggio vigoroso e una prosa poetica. È uno scritto che percorre le fragilità umane, che traccia vite vissute fatte di ombre e perdita.
Ma la solitudine è solo una delle molteplici sfaccettature di questo scritto. È sinonimo di sconfitta e rassegnazione ma anche di desiderio di un qualcosa che cambi affinché venga meno quel senso di inadeguatezza perpetrato. Ed è anche sinonimo di nuovi inizi.
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Vite fragili di solitudini dirompenti
«[…] Lo salutai e me ne andai pedalando, ma di tornare a casa non se ne parlava. Respiravo una libertà che era più grande di me.»
Vivere o sopravvivere? Quante volte ci siamo interrogati su questa domanda e quante altre ancora ci siamo chiesti quanto sia necessario scendere a compromessi stante, che spesso, siamo obbligati più a sopravvivere che a vivere per far fronte a quelle che sono le circostanze che la vita ci mette davanti.
Aron Snaer è un bambino abbandonato dal padre che vive con una madre incapace di prendersi cura di lui. Non è in grado di prendersi cura nemmeno di se stessa, è talmente debilitata che fatica a vivere. Più volte ce lo dimostra nella narrazione l’autrice e il cuore del lettore si fa piccolo piccolo all’idea di quel bambino che non sa come salvare la sua mamma. Sembra non avere speranza, Aron. Per lui non sembra poterci essere un futuro e ancor meno migliore. Tuttavia, la vita tanto ci pone davanti a circostanze difficili, tanto ci pone innanzi anche persone e situazioni inaspettate ma capaci di salvarci. Aron si imbatterà in Arni, Borghildur e Hanna e loro lo aiuteranno a vivere quelle emozioni e quelle cose belle che l’esistenza sembrava non aver mai riservato per lui. Sono cose semplici come un bagno caldo, dei vestiti puliti, un pranzo sostanzioso, qualcuno con cui parlare per non sentirsi solo, la forza di una bicicletta che dona una libertà senza eguali. Piccole cose che troppo spesso diamo per scontate.
Ma l’effetto è ambivalente. Perché se gli adulti portano serenità al piccolo, Aron è un toccasana per quei grandi con tutti i loro piatti rotti, insoddisfazioni, crepe nell’anima. Arni, Borghildur e Hanna diventeranno un punto fermo per Arni che troverà in loro quella famiglia che mai ha avuto. Dal loro canto, loro troveranno con Arni, la forza per guardarsi dentro e per attuare quei piccoli ma sostanziali cambiamenti per diventare persone migliori.
«[…] Da allora mi sento come un sacco pieno di schegge di vetro. Non sento il bisogno di piangere o di lagnarmi ma mi fa male ogni parola, ogni passo.»
Arni inizia a fare i conti con l’età che avanza e con Alfons, il suo cane così iperattivo e difficile da gestire, Borghildur, vedova, torna a sentirsi viva dopo tanta apatia e mancanza di energia, Hanna è invece una adolescente con un rapporto complesso con il cibo. Lei, in particolare, ha un ruolo chiave per Aron. Si avvicina al piccolo per sostenerlo ma sarà poi lui ad aiutarla davvero.
Il tutto si sviluppa nella città di Rejkiavik ma le vere protagoniste sono vite fragili in cui a far da padrone sono l’empatia e la condivisione, il prendersi cura per il prossimo e il tendersi una mano.
«[…] Siamo come soldati che porta via dalla prima linea un compagno ferito.»
Tutte situazioni e circostanze che faranno maturare Aron e chi gli gravita attorno. Perché è vero che la vita a volte sa essere davvero complicata e che il vivere diventa un sopravvivere, ma è anche altrettanto vero che se lo si fa con le persone giuste accanto, anche l’insormontabile può diventare sormontabile.
“Metodi per sopravvivere” di Gudrun Eva Minervudottir, edito per Iperborea e tradotto da Silvia Cosimini, è un romanzo che scalda il cuore e che con la sua naturalezza invita il lettore a tante piccole riflessioni sottese ma mai scontate. E se non sapete cosa regalare per Natale, ecco il romanzo giusto.
«[…] La vita è già abbastanza agghiacciante anche senza tracannare volontariamente del ghiaccio.»
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Hede
«[…] No, chi fa felice un’altra persona è già un artista e lei, Ingrid, doveva conservare i suoi occhi e il suo sorriso per un solo essere umano, riservarli unicamente a lui, e quell’essere umano non l’avrebbe mai abbandonata al contrario, le avrebbe offerto un rifugio sicuro finché fosse vissuto. […] Hede si congedò da loro e tornò a casa. Non cercò più di trovare un significato nascosto della sua avventura. Tutto sommato, non c’era altro senso a tutta la vicenda che l’aver salvato quella povera ragazzina triste dal tormentarsi a morte sulla propria inadeguatezza.»
Prima donna insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1909, ex maestra, Selma Lagerlof propone ai suoi lettori un testo che prende per mano e accompagna in un universo a metà tra il romanzo e il fiabesco grazie all’uso di uno stile tipicamente del genere. Ed è una storia, “Il violino del pazzo”, che si articola su più piani. Tutto parte da un violino e dalle sue note così seducenti da riuscire a inibire la mente e a staccarla da ogni altro pensiero e impegno. La musica è vita, è fonte di dolcezza, amore, speranza ma può essere anche condanna se diventa una ossessione. Gunner Hede, protagonista, è un giovane studente baciato dalla bellezza e dal talento ma anche un unicum con il suo strumento. Tale è la sua dipendenza da questo da restare indietro sugli studi, l’isolarsi dal mondo, il vivere una realtà fatta di note musicali e niente altro. Anche apprendere che la madre vive di stenti per permettergli di studiare, loro che appartengono (o appartenevano) a una famiglia benestante, ben poco lo scuote. Questo sino a che il suo strumento non viene affidato ad un amico tanto da costringere il musicista a separarsene. Da questo momento in poi per Gunner inizia un periodo di perdizione, un arco temporale in cui deve aiutare la famiglia a risollevarsi da sorti infauste ma in cui avrà come venduto l’anima al diavolo: Gunner perde totalmente e interamente la cognizione di sé, della ragione. Sarà preda di una follia che lo porterà a vivere la sua condizione nella più totale inconsapevolezza.
«I cimiteri erano perfino meglio dei boschi, perché nei boschi la solitudine era così grande che gli faceva paura.»
Nemmeno la giovane e bella Ingrid, ambulante dagli occhi magnetici, riuscirà a scuoterlo. Lei che da lui è stata strappata dalla strada riesce a strapparlo dalla malattia. Anche se ci sono dei momenti in cui l’uomo torna a rivivere la propria integrità, non sono che attimi. La memoria sembra essere svanita, il ricordo è sbiadito. Hede dialoga con gli animali, apprezza le silenziose presenze all’interno dei cimiteri, ignora il ricordo. La memoria non sembra sopravvivere.
Ingrid farà leva sull’amore, l’arte, la musica, la resilienza, la pazienza per cercare di risvegliare Hede e riportarlo alla vita. Hede a suo tempo ha salvato Ingrid da una morte certa, adesso è Ingrid che vuole salvare Hede da quella follia che cela l’angoscia. Ma come restituire vita a chi è malato di nostalgia? È possibile staccarsi dai ricordi dolorosi, imparare a conviverci, sopravvivere a un mondo che sembra essere fatto solo di tenebra?
Con “Il violino del pazzo” Selma Lagerlof dona ai suoi lettori un romanzo di una apparente semplicità ma in realtà di una forza devastante. I sentimenti sono di una semplicità unica, la vita si snoda nelle sue declinazioni più variegate, la “speranza” è il leitmotiv che accompagna una narrazione intensa e intrisa di potenza narrativa.
«Ma era soprattutto un indefinito senso di gioia che si risvegliava in lui, per la pattinata e per la bellezza della sera. In serate di chiaro di luna come quella non si poteva non andare a pattinare.»
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Abel Crow
«Lo facevamo in silenzio nelle grandi solitudini che dicevo, ai bordi del mondo conosciuto: così lontani da tutto che noi eravamo tutto, e il nostro nulla l’unica notizia.»
Il suo nome è Abel Crow ed ha ventisette anni. Tutto quel che sa lo ha imparato da suo padre, il Maestro, e si riduce in un gesto semplice: sparare. È un tutto e un niente ma in cui eccelle grazie al Mistico, un colpo che non ammette errori e che vede l’incrociare di due pistole colpendo il bersaglio di sinistra con la destra e viceversa e disegnando due segmenti pulitissimi e perfetti. È anche il suo colpo preferito oltre che uno sparo perfetto.
Abel deve però ricostruire una vita e una geometria ben più complessa che lo porta a indagare sul suo destino sino a ricomporlo e scoprirlo forse per la prima volta. Le pistole potrebbero non essere il suo divenire ma sarà solo dopo l’incontro con la bruja che egli arriverà a realizzare che ancora non è nato, che deve nascere davvero.
L’Ovest è un luogo di polvere e ombre. È un luogo dove vivono ingranaggi di bussole e orologi rotti, è un luogo dove il fischio di un fucile è eco persistente. Il presente si mixa con il futuro anteriore, il passato remoto non è più solo passato perché nel fondersi dello ieri e dell’oggi delinea una dimensione metafisica che porta il lettore a viaggiare nel tempo e nello spazio, a scandire il ticchettio dell’orologio rotto e a restare sospeso con esso.
«[…] Perché, gli spiego, il nostro mondo, di noi due, è solo un frammento tenuto insieme non da una mia volontà, o sapienza, ma dalla presenza di quell’uomo che ancora per un po’, non so quanto, conosce ciò che ignoro ed è per me la pietra solida su cui appoggiare la mia immaginazione mentre costruisco l’uomo che sarò.»
Molteplici sono le tematiche trattate tra queste pagine, tematiche che sono care all’autore e che già spesso, in passato, sono state riproposte. La sensazione leggendo questo western metafisico è di essere dentro al testo, di essere materia stessa di questo. Il tempo è l’altro baricentro che conduce nello spazio, governandolo e plasmandolo a sua immagine e somiglianza.
E tanti sono ancora i personaggi costruiti dall’autore e che portano Abel Crow a comprendere il bisogno di una nuova consapevolezza. Perché come anticipato, Abel non è ancora nato e solo osservando, uscendo da quel che è sempre stato, riscoprendosi anche per mezzo del volto della donna che ama e che possiede spesso con violenza non consapevole, potrà davvero assumere il suo posto nel mondo.
«Per il resto, quando cerco un senso a tutto questo finisco per rivedere una bruja che, sulle colline, mi guarda, ride e poi dice: sarà molto doloroso, ma un giorno, Abel, te lo prometto, nascerai.»
L’opera ultima di Alessandro Baricco si dipinge negli occhi del lettore in modo chiaro e cristallino. Volontariamente vengono a quest’ultimo lasciati spazi vuoti, in tal modo egli può interrogarsi, porsi domande, cercare risposte. In questi spazi di vuoto regna il silenzio e da qui l’interpretazione più intima di chi legge.
Se cercassimo di circoscrivere “Abel. Un western metafisico” non ci riusciremmo perché questo è tridimensionale, filosofico, usa l’espediente del western per delineare un qualcosa di più grande. Il risultato è un testo che non è solo un libro, che non è un romanzo, che è tempo che si scandisce e che trattiene come se il lettore vivesse una sorta di dilatazione temporale, di sospensione di questa.
Ecco allora che questo romanzo, iniziato diversi anni fa da Baricco, interrotto prima per il Covid-19 e poi dalla scoperta della patologia leucemica, giunge in profondità. Respinge, trattiene. Incuriosisce, affascina. Appaga e riempie. Un Baricco che fa sua ancora una volta la parola e crea una multidimensionalità unica. Da leggere.
«C’è da rimanere secchi dalla gratitudine e dalla consolazione. Voglia questo istante non abbandonarmi mai, e diventare parte di me, vita contro la morte, sangue sotto la pelle.»
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Witold & Beatriz
«Tutti dobbiamo stare da qualche parte. Non possiamo non stare da nessuna parte. È la condizione umana. Ma no. Sono qui per te.»
Il suo nome è Witold Walczykiewicz ed è “il maestro”, il settantenne polacco. È noto per le sue interpretazioni austere, il suo profondo lirismo, la passione smodata per Chopin. Ella è Beatrice, è una donna di origine spagnola con un matrimonio fallito in camere separate e nessuna separazione ufficiale, un marito che si dedica a molteplici scappatelle, due figli ormai adulti. È elegante ed appartiene alla buona società di Barcellona. Il circolo musicale del Barri Gòtic porta all’invito del maestro seguito da una cena formale quanto ordinaria in contesti di siffatto genere. Tuttavia, per “Il Polacco” quello non è solo uno dei tanti incontri della vita fatto di legami occasionali e persone che non verranno a rincontrarsi, per lui Beatriz è, come per Dante, la sua Beatrice. A distanza di mesi l’uomo torna in Spagna, a Girona. Cerca di contattarla, le confessa di essere tornato per lei, di volerla rivedere, di voler andare in Brasile con lei. Ma Beatriz non concepisce questo sentimento, trova l’uomo privo di ardore, falso nelle sue dichiarazioni. Eppure è come magnetico per la donna. Lo respinge ma poi ne è attratta esattamente come l’uomo non può fare a meno di ammirarla e amarla in silenzio, in un corteggiamento goffo e inadeguato per lei che lo rifiuta ma sente di desiderare qualcosa di più.
«[…] Perché è importante? Perché ci parla di noi. Dei nostri desideri. Che a volte non ci sono chiari. Questa è la mia opinione. Che a volte sono desideri di quello che non possiamo avere. Di quello che per noi è irraggiungibile.»
“Il Polacco” di J.M. Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, è un romanzo breve nelle dimensioni ma di gran contenuto. È un romanzo che ci fa riflettere sull’amore, sui sentimenti, sull’importanza dei legami nella nostra vita. Talvolta questo bisogno di amore è tale da spingerci a compiere gesti apparentemente inconcepibili, anche a mostrare quelle debolezze che non vorremmo che fossero viste, anche a mettersi a nudo rischiando di essere compatiti nel proprio più intimo desiderio.
Tra Beatriz e il pianista c’è un profondo senso di magnetismo che si scontra con le reciproche rigidità e le reciproche mancanze. Lui è un uomo con una figlia adulta che vive in Germania, a Berlino. Ben poco rivela della sua prima moglie. Vive l’amore per Beatriz come un senso di rinascita, un appagamento e un riempimento di giornate buie e vuote, è la sua musa e la sua ispirazione. Lei è scocciata da questo suo prenderla come tale perché si sente piena di difetti, imperfetta. Lo respinge ma al contempo ne è attratta. Lo respinge perché più vecchio, lo cerca perché vorrebbe qualcosa di più, un vero corteggiamento. Mente al marito anche se sa che non ce ne sarebbe bisogno perché alla fine è a se stessa che in primis mente. Non tanto per quel profondo o non profondo amore quanto, al contrario, perché mentre l’uomo mette a nudo le sue debolezze lei non riesce a spogliarsi dei suoi limiti.
Alla fine poesia e musica si uniscono in un tentativo dantesco che non riesce ma che lascia da un lato un retrogusto amaro per questa sensazione di solitudine persistente e dall’altro uno spiraglio di speranza in un finale aperto. Non siamo un po’ tutti, alla fine, anime sole?
«Il lutto è un processo naturale. Tutti i popoli del pianeta hanno rituali di lutto. Anche gli elefanti. Lei, Beatriz, ha perso presto sua madre. Una perdita che aveva lasciato un vuoto incolmabile nella sua vita. Era addolorata, piangeva, le mancava. Poi a un certo punto il lutto è finito e lei è andata avanti. Ma il Polacco non sembra essere andato avanti. Dopo averla persa, l’ha pianta e ha continuato a piangere, cullando la sua perdita come una madre che rifiuta di staccarsi dal figlio morto.»
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Espiazione
«E capirono che quel gatto era il disgusto che si era appena destato e che sarebbe cresciuto e si sarebbe espanso su tutta la piana e non avrebbe mai potuto crescere meglio che lì, dove tutto è livellato e uniforme e ristretto e confinato.»
Selma Lagerlof, prima donna Premio Nobel per la letteratura nel 1909, con “Bandito”, pone il lettore davanti a una serie di interrogativi molteplici quanto attuali. Tutto ha inizio dalla violazione della sacralità della morte e della vita, da quel peccato che si cela dietro alla violazione di uno dei più grandi tabù esistenti e riguardanti il cibarsi di carne umana.
Sven Elversson è un giovane uomo che torna al paese di origine dopo che, ancora bambino, fu affidato a una famiglia di alto ceto sociale inglese. Qui il giovane è stato educato e istruito, è cresciuto e ha fatto le sue prime esperienze di vita. Tuttavia è adesso circondato da un’onta dalla quale non può liberarsi, a prescindere da qualsivoglia gesto caritatevole che compia. Protagonista di una spedizione nel nord Europa viene accusato di essersi cibato di carne umana, di necrofagia. La spedizione non è andata a buon fine e pare che i membri di questa si siano macchiati di questo peccato. Tornato al paese d’origine saranno in primis i genitori ad aver difficoltà di accoglierlo, poi, riflettendo e immedesimandosi nei panni altrui, muteranno la propria prospettiva sino a riprenderlo in casa. Il paese lo biasima, lo deride. È un reietto e solo una tra tutti lo accoglierà, Sigrun. Per tutta la sua vita Sven vivrà in un obbligato e protratto isolamento forzato, cercando di espiare una colpa che crede di avere commesso, che lo esclude dalla vita della comunità e di cui per primo ha disgusto. Questo crimine lo porta a odiarsi, a comprendere il disgusto altrui, perché il primo a provarne è proprio lui. Sceglie la via caritatevole, in parte perché parte del proprio essere, in parte perché unico mezzo con cui cercare l’espiazione. È un uomo che si sente mortificato, prova ripugnanza per se stesso, assume modi sempre più umili e asseconda una vita sempre più isolata.
Sigrun rappresenta la compassione e a sua volta compirà una scelta sbagliata che la porterà a un matrimonio fatto di infelicità e costrizioni dove un uomo geloso è disposto a tutto pur di trattenerla a sé, anche a imprigionarla. Il ritorno di Lotta, la donna delle visioni con cui Sigrun era particolarmente legata in gioventù, rappresenterà una via di fuga quanto uno strumento di redenzione.
«[…] Sigrun è la compassione. […] È questa la sua missione. È questo che avrei dovuto capire.»
Sarà solo lo scoppio della Grande Guerra con il suo dolore e il diffondersi della morte a rimescolare le carte in tavola, perché solo una grande colpa, un grande dolore, può far ricontestualizzare quello che sino ad ora era macchia di infamia e disonore. Saranno i corpi restituiti dal mare in attesa di sepoltura e privi di bulbi oculari, preda della fame dei gabbiani, a testimoniare la forza dell’orrore senza confini e fine.
Dai toni volontariamente fiabeschi è “Bandito”, uno scritto in cui c’è tanta della pedagogia propria dell’ex maestra Selma ma anche tanto di simbologia e metafora che porta alla riflessione. Ci sono passaggi di questo scritto volontariamente duri, crudi. Altrettanti sono i momenti di dolcezza, condivisione e carità. Sven rappresenta l’antieroe per definizione, vita e morte tra queste pagine, ancora, si fronteggiano in quel che è una lotta alla sacralità ma anche al bene e al male, al vivere stesso. Anche quando quel lieto fine così auspicato non esiste, anche quando amore e perdono si sedimentano nell’anima.
“Bandito” è un romanzo da gustare un poco alla volta, da assaporare e con cui e su cui soffermarsi. Tra riflessioni, domande e ricerca di risposta. Un libro che si interroga su temi di grande attualità partendo da un espediente narrativo e spostandosi sulla guerra, la morte, il perdono, l’espiazione, il pregiudizio e tanto altro ancora. Da non perdere.
«Non è bene mentire e nascondere qualcosa. Non lo è per niente. Ma non è neanche giusto torturare qualcuno a morte. Non si fa. E il cuore può cambiare. O meglio, può tornare a essere se stesso. E a quel punto, se ne va da sé, quello che adesso è così nero. Non potete crederlo?»
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Il perfetto romanzo corale americano
«E avrebbe avuto tutto il tempo di ricordare, perché andò di fatto a marcire in caserma. Ricordò che suo padre era solo e si sentiva solo e lo sapeva.»
“La valle dell’Eden” è senza dubbio il testamento spirituale di John Steinbeck ma è anche il romanzo più maturo e più complesso dell’autore. Rappresenta un’opera dell’età adulta che ben si distacca da lavori precedenti quali “Pian della Tortilla” (maggio 1935) o lo stesso “Furore” (1939, che è tra le opere più acclamate del romanziere ma che è anche una delle più impulsive e che arriva a vincolarlo a un’immagine che è solo apparenza oltre a determinare l’immagine di un contesto sociale di poi smentito). A partire dagli anni Trenta e sino ad appunto “La valle dell’Eden” le opere dello scrittore sono incentrate su duplice interesse; da un lato l’osservazione distaccata e scientifica del gruppo (il cd “group man”) e delle sue dinamiche, dall’altro sulla lettura della realtà così com’è e non ancora come potrebbe essere. Steinbeck è stato un autore che apparteneva non a “casi generali” ma alla teoria dei “casi particolari”.
«Adam sapeva, per via degli anni passati nell’esercito, che un uomo che ha paura è un animale pericoloso e, come tutti del resto, aveva paura di quello che le frustate avrebbero fatto al suo corpo e al suo spirito.»
Ma veniamo al testo. “La valle dell’Eden” rappresenta il romanzo americano per eccellenza. Per chi avesse visto anche il film interpretato, tra gli altri, da James Dean, il libro si distanzia sotto molteplici aspetti, in primis già solo per il fatto che la pellicola si basa su un arco storico ben più breve e che riguarda gli anni del primo Novecento, quando i figli di Adam sono già adulti. Al contrario il libro parte dall’Ottocento e riprende il filo dell’ottimismo tipico di Emerson e Whitman. Fa un vero e proprio excursus storico, con tanto di guerra, un’analisi profonda che ci porta a conoscere i primi personaggi e a restare affascinati dalla loro complessità e durezza. Cyrus e Charles rappresentano la durezza e l’asprezza della vita, Adam, al contrario, è un’anima schiacciata e ingenua innanzi alla vita.
Non casuale è anche la scelta della suddivisione dei nomi che rimanda alla Bibbia. Non c’è una visione univoca in merito ma non è un dettaglio che passa inosservato quello che porta a riconoscere nelle iniziali con la “A” i personaggi “buoni” e positivi come Abele e nella “C” i personaggi “cattivi”.
Due le narrazioni che accompagnano lo scritto e a cui ne segue una terza: la storia degli Hamilton, che era la famiglia materna dello scrittore e in cui si intravede lo stesso Steinbeck (da qui il primo artifizio narrativo degno di nota e all’avanguardia per i tempi); la storia della famiglia Trask e infine la terza storia, quella dedicata a Cathy Ames che rappresenta il romanzo gotico nel dramma pastorale ma che è anche, al contempo, il personaggio più complesso, duro, cupo e spietato dell’intero viaggio. La sua figura fa sinceramente male. Ci sono dei passaggi in cui il lettore si interroga sulle sue azioni, i suoi comportamenti. Non vi trova soluzione o spiegazione. Cathy non ha scrupoli come non prova emozioni.
«I pensieri divagavano un poco, perché non si può ricordare l’esatta sensazione del piacere, del dolore, o dell’emozione che ti soffoca.»
Quel che riesce a realizzare Steinbeck in questo romanzo è prima di tutto indagare nei tratti umani più intimi e profondi. Nulla è casuale, nulla è per caso. Se Samuel è il capostipite degli Hamilton che grazie alla sua bontà e integrità morale ma anche saggezza, risveglia Adam e rappresenta una sorta di linea guida per tutti i suoi cari, Kate, quando decide di cambiare nome, è fredda, cinica, crudele, arrivista. Qualunque mezzo è appropriato pur di raggiungere lo scopo. Non si pente delle morti che causa, anzi, ne è fiera e quel sangue versato è solo un tassello ulteriore per un disegno più grande. Lee stesso è un volto che rappresenta l’immigrazione nella realtà della non accettazione e che alla fine, seppur abbia perso le radici non essendo più cinese ma nemmeno americano, trova nella famiglia Trask, la propria famiglia. È un personaggio buono, che resta nelle retrovie ma che si insedia nel lettore. Il suo codino, e il suo successivo essere tagliato, rappresenta uno spartiacque tra prima e dopo, tra radici e loro perdita.
Passano gli anni e con gli anni passano anche le generazioni. Iniziamo lo scritto conoscendo Cyrus e sua moglie, i suoi figli Adam e poi Charles, con l’arrivo in scena di Cathy poi Kate, ci spostiamo lasciando indietro alcuni personaggi e per abbracciarne altri e da qui la storia si evolve su ulteriori binari che si intrecciano e intessono una trama profonda e ricca. Tra buoni propositi, ricchezze, auspici e speranze. Tra esseri umani agli antipodi e la delineazione di un romanzo corale che è fotografia di una società, quella americana in tutte le sue criticità. Ed ancora è un romanzo spirituale ma non in modo assoluto. La spiritualità è un’aura che ruota attorno alle vicende, è presente ma assente, non è univoca ma è discutibile. E chi legge non può esimersi dall’interrogarsi sui tanti parallelismi e sulle molteplici situazioni.
“La valle dell’Eden” è un romanzo stratificato, gestito con maestria, sviluppato con acutezza, strutturato in una complessità voluta ma mai pesante. È un romanzo estremamente godibile, da assaporare un poco alla volta, da vivere. È un libro in cui a parlare sono anime che parlano alle anime. È un libro che chiede di essere letto e che non deve spaventare per la mole, la prosa magnetica ne rende la lettura estremamente fruibile e rispetto a tanti romanzi di Steinbeck lo stile è più morbido, cuneiforme e questo lo rende appetibile a una vasta platea di lettori anche non amanti del narratore.
«E non posso farci niente, ma mi chiedo se percepisci mai che attorno a te c’è qualcosa che ti è invisibile. Sarebbe orribile se tu sapessi che c’è e non riuscissi a vederlo o sentirlo. Questo sì sarebbe orribile.»
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Juliet e il vetro soffiato di Murano
«La bellezza era sempre stata importante nella sua vita. Le aveva permesso di notare aspetti che ad altri sfuggivano, e che per lei invece erano puntelli sui quali costruire il suo avvenire. Credeva di essere preparata alla bellezza.»
È un romanzo onirico “La collana di cristallo, decimo titolo a firma Cristina Caboni, edito da Garzanti, ambientato a Venezia tra riscoperta di sé e vetro soffiato di Murano.
Siamo a Venezia, il vetro soffiato di Murano regala magia e sogni con le variegate sfaccettature che si presta a realizzare. Protagonista della vicenda è Juliet Meriwheter che ama l’arte e ha una particolare predilezione per il lavoro del vetro. È proprio grazie a questo suo talento che riesce a conquistare un dottorato in Arti visive e la conseguente ammissione all’Accademia del vetro di Murano.
Come spesso accade, la famiglia è contraria. Lei che da sempre, per loro, è incapace di affrontare qualsivoglia difficoltà perché troppo fragile e indifesa, come può ora affrontare un’avventura del genere e per di più oltreoceano? Juliet non demorde, però. Ha già deciso cosa vuole e farà di tutto per ottenerlo.
«Voglio decidere della mia vita. Murano potrà darmi delle risposte. Perché lavorando il vetro mi sento me stessa.»
A differenza di tutti è la tata a credere in lei e a lasciarle un regalo che custodisce un mistero. Juliet giunge a Venezia e ne resta affascinata. Per lei è un luogo magico, fatto di colori, umori, intrighi e tante umanità distinte e contraddistinte. Non faticherà a distinguersi nemmeno all’interno dell’accademia e questo perché lei, a differenza di altri, sa realizzare oggetti capaci di emozionare.
«Lei applicava la tecnica al concetto che voleva esprimere, e così produceva un oggetto capace di emozionare. Era quella la sua particolarità rispetto ai colleghi. Lei si dedicava al dettaglio, giocava con il colore e la trasparenza.»
Lavora sodo Juliet eppure si sente incompleta. Prova un senso di disagio che la porta ad essere irrequieta, non felice. Deve capire cosa è capace di fare, chi è, qual è il suo posto nel mondo e deve anche riuscire a interpretare questa sensazione profonda che l’attanaglia sino a riuscire a darle un nome e una risposta. Chi è veramente Juliet? Cosa il futuro le riserva? Cosa voleva dirle la tata con il suo misterioso dono? Perché è così attratta dal vetro soffiato di Murano?
“La collana di cristallo” di Cristina Caboni è un romanzo maturo, profondo e intenso. Al suo interno il tema centrale è il cristallo di Venezia e cioè un vetro di altissima qualità la cui lavorazione si tramanda di generazione in generazione da oltre sette secoli. È un vetro straordinariamente trasparente che ha la capacità di assumere l’aspetto di un cristallo e di affascinare ancor di più proprio grazie alla sua purezza. Quest’ultima, se unita a una sapiente e minuziosa lavorazione, si presta alla realizzazione di opere di indubbia bellezza che vanno da pregiati specchi a lampadari.
Cristina Caboni si dimostra essere ancora una volta un’ottima narratrice dalla penna leggera ma minuziosa. Propone ai suoi lettori uno scritto magnetico, che conquista tanto per storia che per costruzione dei personaggi. Il lettore è affascinato, coinvolto, conquistato dalla magia della penna e dalle ambientazioni. Non manca, ancora, l’immedesimazione verso una protagonista evocativa e che suscita una naturale ricerca interiore. “La collana di cristallo” è un testo adatto a chi cerca l’emozione, chi ha desiderio di scoprire e chi cerca parole mai scontate ma capaci di trasportare in un altro mondo.
Ecco allora che le parole assumono un significato diverso, che conducono per mano, che spiegano il cuore e catturano.
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Il mondo dentro, il mondo fuori
“Non ho l’abitudine di piangere, non lo nego, ma l’affidabilità si misura soprattutto dal comportamento. Mettetemi alla prova, e valuterete se il risultato vi soddisfa.”
È un romanzo molto particolare “Resta con me, sorella”, opera di recente pubblicazione a firma Emanuela Canepa e ambientata negli anni Venti del Novecento.
Protagonista è Anita Calzavara, donna che per coprire il fratellastro e salvare la famiglia, si accolla la colpa di un furto al giornale dove lavorava insieme all’ingrato e insolente congiunto. Anita viene condannata, finisce in carcere alla Giudecca per diversi mesi e deve abituarsi a una nuova vita, quella della reclusa. La convivenza con le prigioniere non è semplice e solo Noemi, tra tutte, non le è ostile.
Ella ha il “demonio dentro” e quindi è da tutte scansata. Non rivela però perché si trova lì. Anita sa che sta maturando un debito con l’altra e segue la promessa del ritrovarsi una volta fuori. Ma cosa succederà davvero una volta fuori dal carcere?
In “Resta con me, sorella” Emanuela Canepa offre ai suoi lettori una storia particolare e molto articolata dove non perde la sua anima già conosciuta in “L’animale femmina” e ritrovata in “Insegnami la tempesta” ma dimostra anche una profonda maturità introspettiva e intellettuale prospettando l’analisi su più piani.
Notevole tratto distintivo è la crescita dei volti femminili che, tra queste pagine, sono caratterizzati da una maggiore analisi psicologica. Non manca la componente storica assente nei precedenti scritti, pregnante in quest’ultimo. Ad essere analizzato è il Novecento ma anche la condizione femminile in questo primo ventennio. Interessante è anche l’approfondimento sulla dimensione carceraria nonché l’analisi del rapporto con il potere, il tema dell’amicizia, la Chiesa.
“Resta con me, sorella” è un romanzo stratificato, complesso, godibile e ricco di spunti di riflessione che portano il lettore a interrogarsi ma anche a interrogare. Il perfetto affresco di una realtà storica con tanti lati oscuri.
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Romanzo di tante umanità
«Forse, semplicemente, dovrei chiamarla paura: di essere ricordato male, o per niente. Come uno scomparso da vivo, uno che non è mai esistito.»
Le temperature scendono di quasi venti gradi sotto lo zero, le emozioni mancano da giorni; sono disperse. Il batticuore degli animali è solo una conseguenza dell’ipotermia. Un freddo pungente esce dalle pagine e viene percepito sulla pelle dal lettore che si avvicina all’ultimo e complesso lavoro di Paolo di Paolo intitolato “Romanzo senza umani” (Feltrinelli 2023). Paolo ci prende per mano e ci riporta in un tempo lontano, la fine del XVI secolo, durante l’inverno del 1573 quando una piccola glaciazione investì l’Europa centrale gelando il lago di Costanza. In questo frangente temporale morirono uccelli, si congelò il vino nelle botti, il paesaggio diventò infido e lacustre, inospitale e ancor più pericoloso, minacciando la morte di quegli umani sopravvissuti. Un evento apocalittico ma che ben segna il dato della memoria e che si riallaccia alla nostra più intima e personale glaciazione.
Di Paolo torna poi al presente presentandoci il suo protagonista, Mauro Barbi, di professione storico. Barbi si stacca da Fiore, l’amico, e intraprende un breve viaggio, viaggio che “spaccia” per indeterminato quando in realtà c’è già una prenotazione per il rientro. La destinazione è il lago di Costanza, oggetto dei suoi studi, partirà da Mestre verso Monaco per poi rientrare da Zurigo. Viene anche contattato da un redattore di una trasmissione televisiva che vuole ospitarlo in studio e che dovrebbe in tale occasione trattare proprio la glaciazione del lago di Costanza. Sarà Barbi a ricontattarlo dopo un breve lasso di tempo e a scontrarsi con un ghiaccio che sembra aver attraversato i secoli per sedimentarsi nel presente.
Mauro vive nel presente ma pensa costantemente e incessantemente al passato. La memoria è uno degli aspetti che più fanno leva sulla sua esistenza. Nel suo pensare affiorano i nomi di persone che lo fanno tornare indietro e che lo mettono davanti al dato compiuto che si sostanzia in una memoria che lui percepisce in un dato ma che differisce da quella degli altri. E quale traccia ha lasciato lui negli altri? Lo studente a cui è stato supplente non si ricorda di lui, la donna che ha amato non lo ha mai sentito presente. C’era ma era come se non ci fosse, come se fosse sempre e perennemente altrove. Ritrova l’amico Fiore ma anche la compagna Susanna con cui non è mai riuscito a lasciarsi andare davvero a una storia, il professor Cardolini che vive con ora con la moglie in Germania e lei, Anna, di cui già ho anticipato, e che rappresenta l’amore distrutto. Sofia, la figlia di questa, ricorda Mauro, ricorda i giorni trascorsi insieme, la festa di compleanno peggio riuscita ed ancora compare Consuelo che lo ha preso in pieno con la macchina e che ora cerca di additargli ogni colpa.
Ricordi molteplici e disparati di una vita intera, un tentativo di riannodare fili ormai interrotti ma anche di capire perché si sono snodati e come sono percepiti. Mauro non è un uomo semplice. È un uomo che vive una piccola era glaciale, quasi come se questa si ricollegasse a quella con cui viene ad aprirsi lo scritto, in un processo di sempre maggiore raffreddamento che spopola e ha spopolato la sua esistenza in un continuum che non si ferma. Dove trovare le conferme? Dove trovare le tanto attese risposte? Come nel 1573 si è usciti dalla glaciazione? Come riuscire ad uscirvi oggi ma nella dimensione più intima e introspettiva?
«Uno dei tanti nessuno che occupano una stanza d’albergo e poi spariscono: senza lasciare tracce, se non le poche, organiche, su cui agiscono le mani guantate degli addetti alle pulizie la mattia del check-out. È un’evenienza confortante o disperante, a seconda delle urgenze e dei punti di vista, ma la solitudine la fa risaltare.»
Ad essere protagonisti sono proprio i disastri climatici delle nostre singole vite che qui vengono rianalizzati da più prospettive, tra loro diverse e molteplici. E c’è anche una urgenza di andare avanti che si affaccia anche solo dal punto di vista grafico nel lettore. “Romanzo senza umani” è in realtà un romanzo con molti umani e molta umanità, una umanità che esce in tutte le sue contraddizioni, evoluzioni e involuzioni del quotidiano.
Viviamo in un tempo in cui non solo è difficile fidarci ma anche affidarci, un tempo in cui è difficile ricordare e far tesoro di ciò che sappiamo. La memoria è un altro perno fondamentale di questo scritto, un filo conduttore che cerca il suo disgelo e la sua rinascita. E forse è vero, l’unica cosa che possiamo predire è il passato.
In “Romanzo senza umani” Paolo Di Paolo ci interroga come Barbi viene interrogato dal suo mentore, ci ripropone dubbi, incertezze, ipotesi, contraddizioni, utopie e disillusioni e ci invita a guardarci dentro. E vi riesce con un personaggio ruvido, che sa farsi amare nel suo non riuscire ad amare e amarsi.
«E non ha più domande da fare, forse non ha nemmeno pretese.»
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Corpi.
«Non sapeva che non era dall’oscurità che avrebbe dovuto proteggermi, ma dalla luce.»
Non ha nome la giovane donna che conosciamo tra le pagine de “La valle dei fiori”. Sappiamo che è sempre stata una diversa, che ama le donne, che il suo corpo la mette a disagio perché troppo grosso, che la sua pelle è troppo scura, che la sua famiglia la opprime in un profondo e costante senso di inadeguatezza diffuso, sappiamo anche che vive a Nuuk, capitale della Groenlandia, ma non conosciamo il suo nome. Già questo è un dato importante per la narrazione perché ci fa subito arrivare alla mente un dato di grande e profonda importanza: la giovane donna protagonista di questo luogo non ha una sua identità riconosciuta.
Vive tra ricordi del passato e una dimensione del circostante che non le appartiene. Sta per partire per la Danimarca, luogo che a sua volta è noto per essere trampolino di lancio di molti studenti promettenti e di sinonimo di nuovi inizi. Questo vale anche per lei, tutti sono convinti che stia per prendere il volo per iniziare un percorso di vita fatto di successi e traguardi raggiunti. Ma non è così, per lei. La sua “tana” è l’unico luogo in cui riesce a vivere, le lezioni sono un qualcosa che acuisce il suo sentirsi fuori luogo, i compagni non capisco il suo senso dell’umorismo, il suo sarcasmo, lei non riesce a comprendere i loro usi e costumi, sa di essere diversa da loro, sa di non essere da loro accettata. Quello che dovrebbe essere per lei il trampolino di lancio è in realtà il baratro che silente l’attende. Anche il legame con la sua fidanzata Maliina risulterà non sufficiente a invertire una rotta destinata al naufragio.
«Voliamo in un caos ardente che tenta di penetrare attraverso le tende nere, ma noi siamo al sicuro, intoccabili. L’afferro da dietro mentre mi passa accanto e crolliamo a terra. La guardo in silenzio, vola via con me.»
È una narrazione forte e intimistica quella della protagonista de “La valle dei fiori”, giovane donna che entra subito in simbiosi con il lettore suscitando in lui un profondo senso di vertigine e anche di empatia. Perché il lettore va avanti tra queste pagine, si sente parte, si sente complice, sa di essere accanto a questa antieroina che non riesce a trovare una strada per accettare se stessa e il suo corpo.
Corpi. Corpi imperfetti, corpi fatti di difetti. Corpi che vivono e che abitano le nostre vite e ci presentano a un mondo che spesso non ci accetta per ciò che siamo pretendendo da noi sempre e sempre di più. Estremamente interessante anche la struttura del testo con capitoli in discesa.
Niviaq Korneliussen ha anche un altro grande merito e cioè quello di donare al suo lettore non solo uno scritto vivido quanto anche un testo di denuncia di una realtà sconosciuta. Eh sì, perché il più alto tasso di suicidi al mondo è proprio in Groenlandia e le causa di questo si attesta su ragioni molteplici ed eterogenee ma anche inspiegabili. Non esiste cioè una motivazione unica per un dato concreto che si manifesta senza sosta. Solo negli ultimi anni questo si è palesato nella percentuale dell’8% sulla popolazione groenlandese e colpendo in particolare la fascia 14/25 anni.
Non mi stupisco della scelta di Iperborea; non poteva esistere testo più adatto alla tematica dei corpi de “La valle dei fiori”. Un libro da leggere e se ancora non lo avete letto, non aspettate oltre.
«Eri una bomba a orologeria. Era come se stessero semplicemente aspettando che riuscissi nel tuo intento. Non potevi essere salvato, né potevi salvare te stesso, dato che nessuno credeva che ci saresti riuscito.»
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Samuel & Anita
«Le umiliazioni continuano ad aumentare: cos’altro possono portarci via? La vita, non ci resta altro.»
Torna in libreria Isabel Allende con “Il vento conosce il mio nome”, opera che oscilla tra presente e passato sino a ricomporre un puzzle fatto di anime, storie e vite. Eh sì, perché l’Allende non teme di porre la sua attenzione su un tema ad oggi scottante: l’immigrazione e in particolare quella del Sud America verso gli Stati Uniti. Ma proseguiamo con ordine.
È il 1938, Vienna non è più la città di un tempo. L’annessione con la Germania ha portato a una diffusione della cultura antisemita, gli ebrei hanno sempre più paura. Qualcuno è riuscito a scappare, la maggioranza non è ancora davvero consapevole del cosa stia accadendo e non è ancora scappata. Tra questi vi è Samuel Adler, un bambino ebreo di quasi sei anni che è fortemente legato alla musica. I suoi genitori cercano di proteggerlo, il padre intesta tutti i beni all’amico di famiglia viennese per tutelarli ma resta vittima delle sovversioni della Notte dei Cristalli, è gravemente ferito e ben presto trova la morte nel campo di concentramento in cui viene deportato. La madre, dal suo canto, perde ogni notizia del marito, cerca di guadagnarsi un visto per il Cile ma senza successo. Non c’è scelta se non quella di separarsi dal figlio mettendolo su un treno destinato all’Inghilterra in modo che possa salvarsi. Anche per lei, le sorti non saranno liete. Samuel parte con la morte nel cuore, una medaglia datagli dal vicino ex colonnello nella Grande Guerra affinché abbia sempre coraggio e il suo inseparabile violino. In Inghilterra la vita non è semplice, ancor meno per chi come lui ha un’indole riservata e un carattere chiuso. Non sarà semplice trovare la giusta famiglia adottiva, crescere e studiare.
«Le immagini più persistenti del suo passato, che sarebbero rimaste intatte nella memoria di Samuel Adler fino alla vecchiaia, sarebbero state quell’ultimo abbraccio disperato e sua madre in un bagno di lacrime, sorretta dal braccio fermo del vecchio colonnello Volker, che sventolava un fazzoletto alla stazione, mentre il treno si allontanava. Quel giorno la sua infanzia finì.»
La narrazione si sposta a Berkeley, siamo tra il 1981 e il 2000 quando conosciamo Leticia Cordero con cittadinanza e passaporto statunitensi e la pelle color dulce de leche. È arrivata nella nuova terra dopo che la sua famiglia è stata massacrata. Si è salvata insieme al padre solo perché nel momento in cui il suo villaggio è stato distrutto si trovava in città per essere operata di una brutta ulcera. Ha attraversato il Rio Grande con Edgar Cordero, il padre, pronto a ogni sacrificio per lei. È ribelle Leticia, ama la vita, ama il padre, ama gli uomini e ama la passione. Scappa giovanissima e non poche saranno le avventure che dovrà vivere.
È il 2019, ci spostiamo a Nogales dove conosciamo Selena Duran, membro attivo del progetto Magnolia nonché assistente sociale. È pronta a recarsi allo studio legale Larson, Montaigne & Lambert per illustrare le sue richieste. Ha bisogno di supporto per aiutare tutti quei bambini che, varcato il confine, a causa della politica di tolleranza zero, vengono separati dalla madre e dal padre. Lo studio è noto per non essere particolarmente onesto e per difendere anche personalità corrotte anche a costo di pagare somme di denaro. Frank Angileri è il pupillo e prediletto della società, resta affascinato da questa donna così lontana dai suoi standard e che non si pone problemi né sul vestire né sul mangiare liberamente. Selena lo incarica di occuparsi di Anita Diaz, di anni sette, separata dalla madre Marisol e cieca. Incontrata la bambina, conosciuto il sistema applicato sui migranti, Frank prenderà a cuore la causa e comincerà a vedere le cose in modo molto diverso.
Isabel Allende con “Il vento conosce il mio nome” dà vita a un romanzo corale narrato su più assi temporali che ricompone il volto di una realtà non facile. Non teme di porre l’accento sul carattere della denuncia, perché se sei un criminale hai diritto a un avvocato, se sei uno straniero no. Non teme di evidenziare le incongruenze di un sistema fallace e contradditorio. Ed ancora, non teme di mostrare il volto di una società basata su una assenza profonda di valori. Ma non si ferma qua. Con “Il vento conosce il mio nome” ci insegna che la Storia fa il suo corso ma che non sempre l’uomo impara dai suoi errori.
Una lettura forte e coinvolgente, che conduce per mano con un ritmo narrativo rapido e fluente, quasi fiabesco in alcuni passaggi, ma mai scontato o staccato dalla realtà. Da leggere.
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Tre volti, tre storie, tre epoche
Romanzo d’esordio di Emilia Hart, australiana, è “Weyward” opera tradotta da Enrica Budetta e che intreccia tre storie e tre epoche e tre volti di donna.
Una lotta costante e continua contro il patriarcato per mezzo delle Weyward che sono caratterizzate da un forte e profondo legame con la natura.
«Avevo la natura nel cuore mi disse. Come lei e come sua madre prima di lei. C’era qualcosa in noi – le donne Weyward – che ci teneva legate al mondo naturale. Lo sentiamo, continuò, proprio come sentiamo la rabbia, il dolore la gioia. Gli animali, gli uccelli, le piante ci lasciano entrare riconoscendoci come simili. Ecco perché le radici e le foglie si piegano così facilmente sotto le nostre dita, per creare tonici che portano conforto e guarigione. Ecco perché gli animali accolgono il nostro abbraccio. Perché i corvi – quelli che recano il segno – vegliano su di noi ed eseguono i nostri ordini, perché il contatto con loro potenzia le nostre abilità.»
Altha è la più lontana nel tempo. Lei narra le sue vicende in prima persona intorno al 1600. La storia è messa per iscritto da colei che ha imparato a leggere e scrivere e che a sua volta era una Weyward e come ogni donna di questa famiglia era destinata a diventare madre di una bambina. Ha donato ad Altha le sue capacità e le sue conoscenze. Questo per le donne del tempo era molto pericoloso e poteva condurle anche a essere perseguitate e a finire in tribunale.
Anni Quaranta. Violet Ayres vive con il nobile padre e il fratello nella tenuta di Orton Hall. Chi era sua madre? Perché è morta? Elizabeth Weyward Ayres è scomparsa quando Violet era troppo piccola ecco perché la piccola cresce con in particolare la tata MetCalfe. È sempre vigilata dal padre, ogni suo gesto è monitorato e controllato. Non è apprezzata la sua passione per la natura. Come riscoprire il destino della madre, le sue origini e ancora il contatto con la natura?
Infine vi è Kate, l’ultima Weyward, la donna del nostro tempo che è vittima del fidanzato violento, che è incinta e che fugge da lui rifugiandosi nel cottage ricevuto in eredità dalla prozia Violet. È ferita, non vorrebbe nemmeno portare a termine la gravidanza, ma è un’altra donna coraggiosa ed essendo una vera Weyward darà luce a una piccola figlia.
Tre volti, tre storie, tre vite che si uniscono tra loro sino a ricostruire una vicenda collegata nel tempo e nello spazio. Tante le tematiche trattate anche se certamente la prevalente è quella del patriarcato, del maschilismo e dell’agire femminile nei secoli. Tra narrativa e realismo viene ricostruito il volto di una società e al tempo stesso il coraggio di queste donne troppo spesso vittime.
Forse non la storia più originale di sempre ma certamente un romanzo che ha qualcosa da dire e un messaggio importante da destinare.
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Un romanzo corale
«La giustizia è la sorella cattiva della speranza. Ti fa credere che ti salverà, ma da cosa verrà mai a salvarti visto che arriva sempre dopo una disgrazia. Una sentenza che non ripara nulla. Non consola. A volte, tuttavia, risana il cuore. L’unico sollievo a cui punto è questo: risanare. Mandare al tappeto i colpevoli. Rovesciare l’ordine prestabilito. Tu non chiedevi tanto, mamma. Questa collera è solo mia. Quando le persone davanti a me si meravigliano – Il coraggio che hai, davvero, la forza dopo tutti questi anni… – non so cosa rispondere. Il coraggio è l’arma di chi non ha altra scelta. Lo saremo tutti, nelle nostre povere vite, coraggiosi a un certo punto. Non siate impazienti.»
Questa è la storia di un amore. Un amore che si snoda nel tempo e che si coniuga e fonde con la Storia, quella con la S maiuscola. C’è una cartina a pagina 9, ci mostra l’Arcipelago delle Chagos, nell’Oceano Indiano a una distanza pari a quella che ci sarebbe tra India e Sri Lanka (a nord) e da Madagascar a Mauritius (a sud-ovest). Siamo tra il 1967 e il 2020. Siamo, ancora, davanti a una storia realmente accaduta perché a prendere campo è il colonialismo alla fine degli anni’60 tra tutte quelle dinamiche della Guerra Fredda che portarono la Gran Bretagna ad affittare agli americani le isole Chagos, unica parte delle Mauritius a cui fu negata l’indipendenza allo scopo di costruirvi una base militare. Questo prevedeva la necessità tassativa e obbligatoria di deportare i chagossiani in un altro luogo. Poco importa se queste persone vengono strappate dalla loro terra e private del loro tutto. Poco importa di quelle che sono state le conseguenze di ciò per chi le ha vissute sulla propria pelle.
«Era arrivata l’ora di andarsene da Mauritius. Partire, allontanarsi da se stesso. Ma si parte mai davvero?»
1967, due le voci narranti; Marie-Pierre Ladouceur ha ventuno anni e vive nell’agglomerato più grande a Diego Garcia. È una giovane sognatrice, ama camminare a piedi nudi, la sua pelle è striata dal sole, gira arruffata e ha una figlia di quattro anni di nome Suzanne e del cui padre, tra i due ex pretendenti, non ha certezza. Non vuole nemmeno dipendere da un uomo, preferisce crescere la figlia da sola, piuttosto. Vive nel villaggio con la madre e con Josette, la sorella di anni venticinque, che sta per sposarsi con Christian.
È nel mese di marzo che la Sir Jules vi fa scalo. Partita da Port-Luouis questa è pronta a scaricare sull’isola beni di ogni tipo mixati a sogni, speranze e divenire. Gabriel Neymorin vorrebbe essere ovunque tranne che qui, eppure è stato mandato sull’isola per aiutare l’amministratore coloniale. L’Inghilterra è un qualcosa di non preventivato al momento.
Tanto Marie-Pierre è dedita a lasciarsi andare all’istinto e anche al desiderio carnale, tanto Gabriel è mite ed educato. Si infatuano l’uno dell’altra e ne scaturisce un amore profondo quanto travolgente.
«Non sempre le prigioni sono armate di sbarre.»
Ma non sempre è tutto oro quel che luccica. I due si amano, la donna resta incinta di un figlio maschio, Josephin, che non assomiglia a Gabriel. Pensa che sia il frutto di un’altra relazione seppur occasionale. Gabriel, dal suo canto, deve firmare un documento di riservatezza che gli impedisce di rivelare quello che è il piano degli inglesi. Ha inizio il progetto di deportazione, egli sarà amico e nemico delle due fazioni; sarà ancora padre, marito, uomo. Un uomo in dubbio sul da farsi per tutelare ciò che ama e il luogo in cui tutto ciò è stato possibile.
«Ci si dà appuntamento in due posti diversi, non l’ho fatto apposta, mi spiace, la prossima volta? Non ci sarà una prossima volta.»
“Le rive della collera” è un romanzo corale. È specchio di un periodo storico che fa parte del nostro presente-passato, è avvalorato da una narrazione in prima persona del figlio Joséphin quanto della donna e di Gabriel. È un libro che si snoda però non solo tra emozioni e amore ma anche tra ricostruzione e risanamento, perdita e lirica, effetti climatici come il ciclone, verità odierne.
Al tutto, ne “Le rive della collera” si aggiunge uno stile fluido e pungente che fa sì che il libro scorra rapido e senza difficoltà. Una storia che è una testimonianza concreta ricostruita per mezzo di altre voci e racconti, in primis quella della madre di Caroline Laurent.
Un libro da leggere, assaporare e con cui riflettere.
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Il mistero del tempo
Tutto ha inizio con Jen, avvocato divorzista, una donna dalla vita tranquilla e un figlio prossimo ai diciotto anni di nome Todd. Quest’ultimo è considerato un gioiellino dagli insegnanti, un ragazzo promettente e con un futuro prospero. A completare il quadro un marito sfuggente che viene definito con tratti modesti.
La loro è una vita tranquilla, senza grandi sconvolgimenti o pensieri, questo almeno fino a quel maledetto 30 ottobre, notte del cambio dell’ora. È in questo frangente che Jen aspetta il rientro del figlio osservando dalla finestra. L’orario del coprifuoco è quasi passato, del giovane non vi è traccia. È preoccupata, dov’è suo figlio? Ed è in questo frangente che lo vede arrivare con il suo passo dinoccolato e la sua aria da adolescente. Mentre sta percorrendo il tragitto sino a casa il giovane commette però il crimine dei crimini: accoltella senza apparente motivo un uomo e ne determina il decesso. Todd viene arrestato, alla famiglia non è permesso vederlo, la fine della sua promettente vita sembra ormai cosa certa.
Eppure è qui che accade l’inimmaginabile perché Jen torna a casa frastornata e impaurita e al mattino dopo ricomincia a vivere la stessa e identica giornata vissuta il giorno prima. L’omicidio non è ancora successo. Lei, Todd e Kelly iniziano la loro quotidianità e solo la donna sa come questa andrà a finire. Deve impedire che i fatti si ripetano, deve riuscire ad agire prima che sia troppo tardi.
«La figura emerge dal cancello del giardino mentre lei vi passa davanti e, improvvisamente, si ritrova faccia a faccia con un uomo morto. No, non è corretto. Un uomo che morirà di qui a due giorni. La vittima.»
Il tempo cambia forma. Si espande e si dilata, si contrae e si riespande ancora. Jen comincia a tornare ancora più indietro nel tempo, i salti temporali sono imprevedibili e oscillano anche di anni nel normale e regolare corso del vivere. Viene consultato anche un esperto di fisica ma nessuno sembra riuscire a dare una spiegazione a quanto accade. Jen arriva a rivivere anche il suo bambino da piccolo, a osservare connessioni prima sconosciute.
Sarà però viaggiando a ritroso nel passato che l’avvocatessa scoprirà di fatti ignoti e sconosciuti che le permetteranno di far luce su molteplici ombre, in primis sullo stesso marito che non è chi dice di essere. Indagando scoprirà che il marito ha dei contatti con una banda criminale e che è un agente sotto copertura. Quella che avrà luogo sarà una vera e propria corsa senza tempo che porterà la donna a chiudere il cerchio con un “lieto fine”.
«Jen allunga un braccio verso Kelly e Todd si abbandona al loro abbraccio, e restano così, davanti alla finestra panoramica, soltanto loro tre.»
Giovane giornalista inglese è Gillian McAllister, autrice di diversi romanzi e di molteplici sceneggiature televisive e cinematografiche. In libreria con “Posto sbagliato, momento sbagliato”, ella si ripropone al suo pubblico con un romanzo singolare e capace di intrigare. “Posto sbagliato, momento sbagliato” è un romanzo che trae origine da una buona idea di base ma che si sviluppa e snoda non sempre in modo ottimale. Il primo, infatti, grande difetto dello scritto è dato dal fatto che i continui salti temporali rischiano di non far cogliere al lettore i giusti passaggi tanto da farne perdere la regolare e naturale linearità.
In secondo luogo, per quanto sia indubbia la capacità dell’autrice di costruire il mistero, manca la tensione. I personaggi sono ben creati ma talvolta solo abbozzati, in altri la narratrice è mancata di un ulteriore e corposo approfondimento che ha portato a renderli poco concreti, sfumosi. Ci sono elementi di sorpresa, ancora, ma prevalentemente volti a capire il filo conduttore, il nesso che muove le vicende. Il conoscitore si chiede chi e cosa c’è dietro al mistero e soprattutto come lo risolverà la romanziera. Tutto questo porta a far apprezzare “Posto sbagliato, momento sbagliato” ma a non renderlo indimenticabile. Si evince anche la presenza della volontà di far ruotare il tutto attorno alla componente della genitorialità in un mondo in cui essere genitori non è semplice e dove, in particolar modo, ci si sofferma sulla maternità e gli errori che una madre potrebbe aver compiuto per crescere un potenziale futuro assassino.
Nel complesso, “Posto sbagliato, momento sbagliato” è un romanzo che si focalizza sulla componente di mistero, che si propone come un’ottima lettura estiva e che negli intenti si prefigge anche di farsi domande sul quanto il nostro passato sia fondamentale per salvare il nostro presente. Godibile ma non indimenticabile.
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La rivincita
«La forma che nostro padre si lascia dietro diventa rapidamente un vuoto in cui possiamo mettere il nostro lutto, e questo in un certo senso è un passo avanti.»
“La cura dell’acqua” non è un romanzo immediato. Non è uno di quei titoli che arriva “tutto e subito”, dunque, se come lettori amate i libri dai ritmi ben cadenzati, rapidi, in un continuo crescere di velocità e dove la storia appare subito per quella che è, questo non è il romanzo adatto a voi perché si struttura interamente come una metafora. È un racconto dove la prosa è chiara, cruda, essenziale ed anche visionaria, lo stile è anche disturbante in alcuni passaggi in quanto confondente. “La cura dell’acqua” è prima di tutto una metafora sul dolore delle donne, sulla sorellanza, la salvezza.
Una breve ma doverosa premessa che si rende necessaria quanto inevitabile per descrivere quella che è una favola noir che si snoda apaticamente e che altrettanto apaticamente o cattura o non arriva. Non prevede vie mediane, come spesso si suol dire, “o si ama, o si odia”.
«In effetti l’aria diventa più leggera; piccoli uccelli marini si avvicinavano alla casa, si libravano sul giardino, sulla piscina, e cantavano l’uno per l’altro. Eppure, oltre la foresta, oltre l’orizzonte, il mondo pieno di tossine era ancora lì. Aspettava il suo momento.»
A narrare la storia sono tre sorelle: Grace, Lia e Sky. Allevate da Mamma e King su un’isola protetta, lontana dal mondo infetto e accuratamente recintata dal filo spinato. Grace è la più grande, ha sperimentato il “mondo di fuori” da bambina e si riscoprirà incinta, Lia è giunta sull’isola ancora in fasce, Sky vi è nata. Sanno che nel mondo di fuori vi è la “tossicità” e che ogni volta che King, ogni circa tre mesi, vi va per far provviste, deve poi fare una serie di riti purificatori per liberarsi delle tossine. Si intuisce che nell’aria vi è una sorta di infezione che la aggredisce rendendola pericolosa per le donne. Come, dove, perché non è dato saperlo. Non ci viene fornita in questa fase risposta alcuna ai tanti quesiti. Altro grande nemico sono i sentimenti. Questi ultimi costituivano delle energie pericolosissime nel mondo di fuori, le tre ragazze devono sapersene difendere, devono in ogni modo non cedere mai a questi.
A far da sfondo acqua, aria e terra ma non anche il fuoco che viene al contrario sostituito dal sangue. Mamma e King usano la “cura dell’acqua” per liberare le donne ferite e intossicate così come le convalescenti che chiedono aiuto. L’ex albergo adibito a clinica, un po’ come succedeva ne “L’albergo delle donne tristi” della Serrano, è il luogo in cui è possibile auspicare della cura. Ci sono prove e rituali ben precisi (es. il sacco, la mussola) che devono essere affrontate dalle donne ma anche da Grace, Sky e Lia. Queste le irrobustiranno nel corpo ma anche nella mente. I rituali non esulano dal riguardare anche ciò che viene dal mondo di fuori; che si tratti di carcasse o relitti, tutto deve essere cosparso dal sale e affidato alla terra. Lontano dagli occhi, lontano dalla memoria.
A questa prima parte più descrittiva in cui conosciamo dei personaggi e delle abitudini sull’isola ne seguono altre due per un totale di tre sezioni complessive. Se nella prima sezione le voci si alternano tra tutte e tre le sorelle, Sky tra queste pagine è una bambina, nella seconda a parlare è Lia e nella terza Grace.
«I sentimenti forti ti indeboliscono, ti aprono il corpo come una ferita. Per tenerli a bada ci vogliono vigilanza e terapie regolari. Nel corso degli anni abbiamo imparato come smorzarli, come esercitare e rilasciare l’emozione solo in condizioni controllate, come padroneggiare il nostro dolore. Posso tossirlo nella mussola, intrappolarlo nelle bolle sott’acqua, farlo sgocciolare via dal sangue.»
Lia e Grace raccontano così la storia tra presente e passato, ricomponendola come un puzzle. Mamma e King sono figure estemporanee che non narrano. Sono narrati. Sono le due sorelle maggiori a descrivere le privazioni, l’isolamento e anche le prove. Sono loro che arrivano anche a descriverci della scomparsa di King da un lato, della nascita del figlio di Grace e dell’arrivo di loro; gli uomini. Due uomini adulti fratelli e un bambino. I loro nomi sono James fratello di Llew e zio di Gwil. Lia cede. Sente di essersi infettata. I sentimenti prendono il sopravvento. La presenza degli uomini scombussola ogni precedente certezza. Finisce anche con l’aspettarsi qualcosa, seppur non sappia cosa. Grace infine chiude il cerchio. Lei sa cosa sia il male, lei ha sperimentato il male di fuori.
«Piangere non ci è mai stato permesso, perché rende opprimenti le nostre energie. Piangere ti fa diventare umile e vulnerabile, ti strazia il corpo. Se l’acqua è la cura per il male che ci affligge, l’acqua che ci viene dalla faccia e dal cuore è acqua del tipo sbagliato. Ha assorbito il nostro dolore, e spargerla è pericoloso. Disperazione patologica era l’espressione che usava King per definire un’emergenza a cui bisognava reagire con la mussola, il confinamento, la testa sott’acqua. Emergenza eravamo io e le mie sorelle che piangevamo tutte assieme senza riuscire a fermarci.»
Ed ecco allora che i contorni della metafora prendono forma. Non è distopia, ma realtà. Un mondo reale sbilanciato, concreto, dove le donne sono espressione della loro fragilità mentre dall’altra vi è l’insofferenza più propria della sfera maschile che “condanna” quel bisogno. Senza mai rinunciare alla violenza, se necessaria. E come può la donna salvarsi? Trovare il suo riscatto, la sua occasione di vita? Con la sorellanza.
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Intrighi e misteri tra Venezia e Rodi
«E se il nostro prossimo fosse proprio come noi.» disse la giovane sposa a voce bassa, fissando lo specchio. «A volte generoso, altre volte avido, spietato quando meno te lo aspetti, e addirittura santo in altri momenti? Forse i buoni e i cattivi non esistono che nei racconti per bambini, forse anche dentro di me, la tua cara, tenera sposina, si nascondono ora una santa ora un’assassina.... e le due potrebbero essere solo in attesa d’incontrarsi, di conoscersi. […] Qui, ora, ci siamo noi, Enrico, soltanto noi, e siamo in balia di una corrente impetuosa.»
È il 14 settembre 1938 e come tutti i mercoledì l’avvocato Ridolfi sorseggia il caffè sfogliando il “Corriere della Sera” al Florian, in piazza San Marco. Concentrato nella lettura del suo quotidiano non si accorge della presenza dell’anziana signora dall’aria altera e svagata che gli siede vicino osservandolo di sottecchi. Un canticchio voluto quanto studiato della donna porta il legale ad alzare la testa dal giornale e da qui a intessere una fitta conversazione che porterà i due a siglare un accordo. Mebel, l’anziana, fiuta subito l’indole delle persone e ben comprende che l’avvocato ha una certa propensione al compromesso, ben celata, ci mancherebbe, ma presente. Ed è proprio l’uomo che fa al caso suo.
«Sapete cosa mi diceva mia nonna quando ero piccola? Con il denaro Dio illude gli sciocchi e spezza il cuore degli avidi, questo mi ha insegnato.»
Rodi, 29 settembre. La luna di miele è finalmente iniziata. I giornali non parlano che della conferenza di Monaco dove Chamberlain, Daladier e Mussolini giocano alla sorte dei Sudeti girando le carte che il cancelliere Adolf Hitler distribuisce. Enrico e Rita sono convolati a nozze da giusto il tempo di mettere gli anelli e già la donna ha qualche perplessità sulla scelta fatta. Sono benestanti, in particolare la ventunenne Rita. L’arrivo di Costantini annuncia a quest’ultima della morte della vegliarda in Italia a cui segue la scoperta di una grande eredità che però non potrà, ella, intascarsi interamente perché anche lui, in qualità di neo-marito, ha adesso diritto a questa. Al contempo, un altro uomo misterioso bussa alla porta della coppia. È un avvocato, porta con sé una minaccia silenziosa, e la richiesta altrettanto tacita di un quarto della fetta di torta. Non cela la sua generosità stante che basterebbe un piccolo gesto per ottenere la torta intera.
«E poche cose, Rita, sono più tristi di un farabutto mediocre.»
Come comportarsi? A chi credere? Che la nonna abbia davvero sposato il generale Costantini? Quale ruolo riveste davvero l’avvocato? Come aggirare la trappola in cui ciascuno si ritrova? Tra i quattro, sullo sfondo mondano e corrotto dell’isola levantina, che poi riporterà da Rodi a Venezia le vicende, ha inizio un gioco fatto d mosse e contromosse, ricatti e delitti. La scena tornerà dove tutto ha avuto inizio ma quel che si paleserà innanzi al lettore non sarà certo un qualcosa di scontato.
Ci sono libri e poi ci sono i libri coccola. Ecco “Non si uccide di martedì” di Andrea Molesini è proprio un libro di questa seconda categoria. Si apre, si legge, si gusta pagina dopo pagina, si arriva al finale e si resta stupiti ancora una volta perché non solo arriva con un epilogo non scontato ma giunge anche con un epilogo che chiede al lettore una riflessione. Una morale che sa lasciare quel giusto sapore agrodolce in chi legge che fa suo il messaggio e lo custodisce.
Ancora una volta Andrea Molesini, già autore di “Non tutti i bastardi sono di Vienna” e “Il rogo della Repubblica”, propone al suo lettore un romanzo che sa trattare di molteplici tematiche che vanno dalla relazione familiare sino agli intrecci criminali. Il passato, e dunque la chiave del romanzo storico e del periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale, è usato per interrogare il presente e cercare quelle risposte spesso troppo vacue per il futuro.
“Non si uccide di martedì” di Andrea Molesini è un romanzo piccolo, forse, nelle dimensioni ma non anche nel contenuto. Da assaporare un poco alla volta.
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H
“«Un giorno capirai tutto». Un giorno, certo. Intanto però dovevo stare zitto e obbedire ai grandi.E pazienza se molti di loro, a cominciare dai miei genitori, avanzavano come sonnambuli o nascondevano la testa sotto la sabbia, con la curiosa speranza – tipica dei bambini – che se ci fossimo nascosti la storia non ci avrebbe toccato.”
Una sera come tante, una cena come tante. O almeno è quel che pensa la famiglia. È il 13 gennaio del 1945, siamo all’aeroporto militare di Langensalza, Turingia, è un mercoledì cupo di neve del mese di gennaio. Sono pronti al pasto quando bussano alla porta. Il padre è rientrato da poco dal lavoro, non è altro che il direttore del personale alla Junkers, la grande fabbrica di aerei con una succursale all’aeroporto di Langensalza. Da qualche tempo a casa lo si vedeva sempre meno. La guerra durava già da cinque anni, la situazione non sembrava affatto cambiare. Alla porta due sconosciuti che desiderano parlare con lui. Dopo la cena, risponde il padre. Tuttavia nessuno si sarebbe mai aspettato un tale risvolto; la cena avrà luogo ma dopo, del padre non vi sarà più alcuna traccia.
«Aveva ragione, naturalmente. A ben guardare quella brutta storia era cominciata tanti anni prima. Ed era arrivata assieme a una venata di euforia. Quando la Germania sembrava padrona del mondo e io… Io ero il bambino più felice dell’universo.»
La madre, donna coraggiosa, proverà anche a varcare i confini della Gestapo per ritrovarlo ma ben presto si renderà conto che non sarà così semplice e che il capo d’accusa è ravvisabile in cinque tazze di riso usate per verificare che il prodotto fosse commestibile. L’equilibrio già fragile della famiglia cambierà, un malinteso riuscirà a rompere l’idillio. La famiglia si troverà a dover affrontare stenti e fame ma anche paura e separazioni in un mondo che è ben diverso da quel che i potenti hanno voluto far credere al popolo.
La narrazione avviene per mezzo di un bambino libero da pregiudizi e animato dalla curiosità del capire le cose dei grandi. Heinrich Stein è il primogenito dei suoi fratelli. Lo conosciamo nel 1945 ma poi torniamo indietro nel tempo di sette anni al 1938 quando tutto è davvero iniziato. Qui si pone l’accento su un aspetto che oggi come oggi è ancora poco conosciuto e cioè sulle deportazioni degli stessi tedeschi.
La vicenda de “La guerra di H” è tratta da una storia vera che ci riporta ad anni fatti di prigionia, indottrinamento, menzogna e violenza. Tra queste pagine assistiamo a una volontà di non dimenticare ma anche al desiderio di riportare l’attenzione su un qualcosa che si pensa essere completamente noto ma che in verità non lo è. Il lettore potrà porsi domande proprio grazie a Heinrich che vedrà il suo mondo crollare, che assisterà alle sempre maggiori divergenze tra quanto proposto e imposto dal regime e quanto in realtà manifestatosi nel concreto, che crescerà e si salverà proprio grazie a queste domande.
L’epilogo della sua vita non sarà altro che quello di una famiglia dai sogni infranti, dai diritti negati, dalla perdita e dal desiderio di riscatto.
Quella di Nicoletta Sipos è la descrizione di una società divisa in due, una società che vede i fanatici da un lato e i benpensanti che avevano mandato la coscienza in letargo, dall’altro. Una società che si articola negli anni della Seconda guerra mondiale, che vede le sparizioni, le morti all’ordine del giorno, che giustifica e che prova la fame.
“La guerra di H” di Nicoletta Sipos è uno scritto che invoglia alla riflessione, che pone l’accento sulla vita e l’esistere, che invita il lettore a non dimenticare affinché gli stessi errori non vengano nuovamente commessi.
«Mi resi conto solo in quel momento di quanto mi mancava. Era la prima volta che ci pensavo da quando ci aveva salutato, convinto di tornare indietro in pochi minuti. Le preoccupazioni di quegli ultimi mesi avevano assorbito tutte le mie energie. All’improvviso mi scoprii disperato. “Finirà presto” mi dissi, cercando di farmi coraggio. Invece era solo l’inizio.» p. 245
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(Non) Lieto fine
«Tu cercavi di convincermi che il divorzio non è la fine del mondo, neanche un divorzio con due figlie, siamo circondati da amici separati, anche i nostri genitori, e stanno tutti bene, la vita continua, la gente si ricostruisce in fretta, i bambini si adattano, il divorzio è una cosa come un’altra, comune come sposarsi. Io dicevo di no, mi opponevo: che me ne importa di quello che fa la gente, questo è il nostro divorzio, fa male a me, sono mie le figlie che dovranno adottare le loro vite al fallimento dei genitori, che sia un male comune non mi consola, non mi interessa perché la gente si separa, voglio solo sapere perché ci separiamo noi, perché io e te, perché, perché. Perché.»
Questa è la storia di Angela e Antonio ma potrebbe tranquillamente essere la storia di ognuno di noi. Sono sposati da 13 anni, hanno poco più di quarant’anni, hanno due figlie, vivono in una costosissima Madrid e lavorano entrambi nel settore culturale. Due volti, un uomo e una donna, che rappresentano una famiglia classica in una realtà classica e in una città classica. Tuttavia apprendiamo subito che qualcosa non va come dovrebbe andare. Cominciamo infatti dal finale: l’amore è finito, venuto meno, è stato soppiantato da ripicche, infelicità, tradimenti e bugie. Tante, troppe le difficoltà che questo sentimento ha dovuto affrontare perdendo del suo incanto, perdendo di quella scintilla che ha fatto ardere e bruciare i cuori.
Ma facciamo un passo alla volta perché dal titolo sarebbe dunque plausibile aspettarsi un “lieto fine” eppure, questa storia che parte dal finale tutto sembra avere tranne che questo. Sono un uomo e una donna fatti di fragilità, stanchezza e fallimenti in cui sono caduti dopo aver toccato le più alte vette. Sono il risultato di tanti non detti ma pensati. Tra aspettative, errori, incomprensioni. Tra momenti felici e non.
«Me lo chiedo anch’io, mormoravi tu, e io insistevo: se potessimo tornare indietro nel tempo, risalire la nostra vita come un fiume dalla foce, scavare in verticale nel nostro passato, sollevando strato per strato, fino a dove credi che dovremmo arrivare, in quale momento eravamo ancora in tempo per sistemare le cose? E dopo una pausa drammatica, tu: indietro, Angela, molto indietro.»
Solchiamo insieme a Isaac Rosa, solchiamo insieme la fine di un amore. Un passo a due, due voci che si alternano nella sintesi di un sentimento che non ha confini e che difficilmente può essere definito. Un passo a due narrato da voci che si alternano tra lui e lei ma che sono rancorose, arrabbiate, funeste. Non sanno più scambiarsi parole d’amore ma solo recriminazioni. L’amore ha cambiato forma, è stato piegato da nuove esigenze della vita e al contempo è stato marchiato che porta il cuore a inaridire e quel “ti amo” si trasforma in un “ti voglio bene ma”.
E forse, chissà, sarebbe bastato davvero poco per salvare tutto. Forse una maggiore comprensione, uno scambio di opinioni, un interesse mantenuto, una maggiore vicinanza e desiderio di ascoltare oltre che di essere ascoltati.
Ma ormai è tardi. È diventata inaccettabile la vita in comune, si è perso il desiderio fisico che non è più tale quanto al massimo un bisogno o peggio ancora una supplica, un tentativo anche umiliante di recuperare un qualcosa quando ormai le lancette hanno concluso il loro giro dell’orologio.
“Lieto fine” è una parabola discendente dell’amore, uno scritto narrato con voce chiara e limpida, analizzato in ogni suo aspetto e in ogni sua vicissitudine. C’è durezza tra queste pagine, c’è crudezza ma c’è anche un’analisi così intima e particolare che porta a interrogarsi, a guardarsi dentro senza affossare quelle che sono le vibrazioni dell’amore nella sua forma più semplice, nuda e cruda.
«Angela ha ragione, chiamiamo amore quello che è semplicemente desiderio, un bene di consumo come gli altri. Ma l’amore senza desiderio non è possibile. Sto parlando di un’altra cosa, l’amore è l’opposto del desiderio che ci lascia sempre insoddisfatti, il desiderio mira a consumare e sostituire, mentre l’amore vuole preservare, produrre, riprodurre, ho letto da qualche parte che l’amore è centrifugo mentre il desiderio è centripeto.»
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Tortilla Flat
«È un fatto rilevato e comprovato in molte istorie che l’anima capace del bene più grande è anche capace del più grande male.»
Un piccolo grande gioiello è “Pian della Tortilla” di John Steinbeck, il celebre autore de “Furore” e “Uomini e topi” che, proprio 1935, quando ancora non era chi oggi sappiamo essere, pubblica questo scritto tradotto in italiano da Vittorini che insieme alle traduzioni anche di Pavese ha aperto l’Italia alla letteratura americana nei suoi più grandi risvolti. Vittorini non conosceva direttamente l’universo americano, alcune sue traduzioni sono state ritenute imprecise, vede in questa dimensione un qualcosa di ancora “barbaro” ma resta il fascino per questo mondo da scoprire. Un luogo dalle mille possibilità, mitizzato. Al tempo stesso è anche perplesso da quel che sta traducendo, ne sono una riprova le note inviate all’editore Bompiani dopo la traduzione dei quattro libri affidatogli ove afferma: “Lo confesso che dopo tale lettura sono, sono rimasto un po’ perplesso circa il valore genuino dello scrittore. […] Perché uno dei libri, “To a God Unknown” (Al Dio sconosciuto), è pieno di un senso molto misterioso e segreto della vita, […] e finalmente Picarilla Flat (Pian della Tortilla) è picaresco né più né meno come il Gil Blas.
Ed ecco allora che ha inizio questa storia picaresca in cui i protagonisti sono dei Paisanos, termine coniugato dalla fusione dello spagnolo, indio, messicano e che ci porta in California, a Pian della Tortilla, Monterey. E qui già torna un tema caro a Steinbeck; quello della povera gente che nulla ha e che spesso è dimenticata dal mondo.
La vicenda si apre con una banda di disperati che nulla hanno e che nulla hanno da perdere. Sono abituati a non avere niente, non concepiscono come sia possibile “avere qualcosa”. E come da incipit questa è la storia di Danny, degli amici di Danny e della casa di Danny. Eh sì, perché Danny è il primo volto che conosciamo, un uomo che nella vita non ha mai posseduto nulla e che si ritrova proprietario appena tornato dalle milizie. Ed è subito colto dal peso della responsabilità del possedere, responsabilità poi sopraffatta dalla gioia dell’accaduto. Ma cosa fare di quei beni? Come gestirli? E perché non affittare una di quelle proprietà a Pilon per quindici dollari anche se con la consapevolezza che mai vedrà quel denaro esattamente come Pilon sa bene che non potrà mai pagarlo?
Danny, Pablo, Pilon, Il Pirata e i suoi cani, Gesù Maria e Joe il portoghese sono i protagonisti eclettici di questo scritto che narra una profonda storia di legami e amicizia. Amano il vino e amano condividerlo tra momenti di ilarità e gioco. Sono un po’ dei perdigiorno le cui principali attività sono essere attaccabrighe e ladruncoli, ma sono accomunati da un sincero legame che li porta a poter contare l’uno sull’altro e a poter sopravvivere alle tante difficoltà.
Peculiarità dell’opera è la sua struttura stessa. Ogni capitolo è narrato da una voce diversa che viene a intervallarsi e intrecciarsi con le voci precedentemente narranti, ogni capitolo, ancora, è preannunciato da brevi frasi che rendicontano ciò che accadrà.
A ciò si aggiungono dei denominatori comuni che si ripropongono man mano che lo scritto si evolve. Sono uomini semplici ed elementari, uomini fatti della loro vita e della loro pur semplice umanità. Uomini che agiscono per schemi per soddisfare i propri bisogni. Dalla ricerca di denaro ad avventure con ragazze del momento, a dollari spesi per galloni di vino anziché per pagare la pigione o bisogni di altra necessità.
Al tutto si somma uno stile che rimanda a quello del poema epico cavalleresco con temi sarcastici e ironici. Il “Re Artù” di questa tavola rotonda è Danny, leader del gruppo che a seguito dell’eredità ricevuta sale di un gradino nella scala sociale ritrovandosi da nullatenente a proprietario. Sarà poi Pilon a salire diventando locatore che subaffitterà nuovamente l’abitazione per assicurare la pigione. Anche qui dunque riemergono altri temi cari all’autore e che abbiamo ritrovato anche nelle opere successive, una tra tanti “Uomini e topi”. Il sogno di avere, il sogno di possedere, la contrapposizione tra povertà e gente abbiente. Tra sogno e mito di un fazzoletto di terra a gran proprietario terriero ricco e abbiente.
“Pian della Tortilla” è un ottimo romanzo per avvicinarsi all’autore laddove non lo si conosca ed è dunque altamente consigliato quale primo titolo da poter leggere laddove lo si voglia conoscere. Al contempo, è uno scritto con cui poterlo approfondire laddove, al contrario, già si abbia avuto modo di leggerlo e apprezzarlo.
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Doppio o non doppio
Manlio Castagna è tornato in libreria con un romanzo particolare dal titolo “La reincarnazione delle sorelle Klun”. L’opera non appartiene a un genere unico in quanto contiene al suo interno elementi di molteplici sfaccettature, dall’horror al giallo, dal soprannaturale al fantasy sino al thriller, cosa a cui Castagna già ci ha abituato, basti pensare a “La notte delle Malombre”, uno scritto tra lo storico e il fantasy, tra il mistery, il romanzo per ragazzi e quello per adulti.
Due le famiglie che conosciamo, quella dei Klun e quella degli Odascalchi/Monforte/Dalcò. Le vicende relative ai Klun si collocano tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, la famiglia Odascalchi/Monforte/Dalcò prende forma negli anni del nostro contemporaneo.
Augusto e Dora Klun perdono le due figlie, Gorizia e Fiorenza. Un dolore atroce, che non può in alcun modo essere compensato. Poco dopo però arrivano le due gemelle Gloria e Felicita. Tante le similitudini, i tasselli concordanti che fanno pensare a una reincarnazione delle prime nelle seconde.
Ancora c’è Rina Monforte. Madre di Erika, figlia del primo marito, e di Kevin ed Emilio, nati dal secondo compagno, Davide. Incontrerà Attila, scrittore/predicatore di grande carisma, che scombussola la sua vita in ogni suo aspetto. Sembra inoltre collegato all’indagine assegnata al commissario Verne.
Le due storie viaggiano parallele, sembrano destinate a non incontrarsi mai. Si dividono buona parte della prima sezione narrativa, alternandosi in capitoli susseguenti che sono collegati da piccoli e precisi “escamotage verbali” che chiudono un capitolo e portano all’apertura del successivo.
A queste due storie se ne ricollega e intreccia una terza che vede quale protagonista Irin. Se in precedenza il lettore era onnisciente, adesso ascoltiamo Irin che ci prende per mano dagli anni Settanta a oggi. Le tre storie, come anticipato, ricostruiranno le fila e sveleranno molti dei misteri che si celano dietro ai personaggi e alle vicende. Perché nulla è scontato, nulla è come appare.
“La reincarnazione delle sorelle Klun” è un libro ben costruito sia a livello di struttura che di forma. La narrazione si sviluppa su più piani temporali e le vicende finiscono con l’intrecciarsi tra loro dopo una iniziale sensazione di indipendenza l’una tra le altre. Ciò rende il titolo solido nella sua formulazione e non danneggia la rapidità della lettura e del ritmo in quanto il lettore è spinto dal desiderio di conoscere del proseguire e dalla volontà di ricostruire il puzzle.
Al tutto si aggiungono frequenti rimandi ai testi sacri e ottime descrizioni ai luoghi che sono parte integrante del racconto. I personaggi descritti tra le pagine sono ben caratterizzati sia dal punto di vista del soprannaturale che da quello psicologico. Lo stile è fluido, adatto alla lettura anche dei più piccoli.
Non mancano gli elementi non realistici quanto fantastici ma Castagna dimostra un’ottima padronanza della parola e un’abilità indiscussa nel condurre dove vuole. Non manca nemmeno il rimando al tema del doppio, cosa molto amata e generalmente utilizzata nella narrativa horror, che viene affrontato con quella giusta dose di originalità.
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Nemici dal passato
«Iniziò tutto con un bulbo oculare. La pupilla spalancata come una prateria texana, l’iride colore del jeans sbiadito, la sclera bianco-giallastra tutta un reticolo di capillari violacei.»
Dopo otto lunghi anni nell’esercito, tra Afghanistan e luoghi ai confini del mondo, Katy ha fatto ritorno a casa ma è una donna ben diversa da quella che ricorda Tempe. È sempre stata particolare ma ha sempre saputo ben reggere lo stress e le situazioni ai limiti. Tuttavia, da quando ha fatto ritorno a Charlotte ha i nervi a fior di pelle, ha paura della sua ombra, non è chiaro cosa voglia fare del domani e del suo futuro. Temperance Brennan ipotizza che possa trattarsi di una situazione di stress post-traumatico ma è comunque preoccupata. Al contempo, riceve a casa un inaspettato pacco che non contiene oggettistica, che non contiene esplosivo ma che contiene un bulbo oculare umano. È infilzato su uno spillone come se fosse un insetto. Su questi sono stati incisi dei numeri e delle lettere che corrispondono, grazie all’acuta vista di Katy che riesce a leggere sino a 13/10, a delle coordinate. Una volta giunta sul luogo con chi di dovere, Tempe scoprirà i resti di una testa putrefatta e ciò accadrà proprio in una latrina situata nei pressi di un collegio cattolico ove normalmente trovano rifugio le ragazze madri. Qualcosa non convince la donna ma sarà solo successivamente al ritrovamento di un altro cadavere appartenente a un uomo appeso a un ramo della statura di poco superiore ai 160 cm che ella comincerà a dare ascolto al suo subconscio che la porta a pensare a una sensazione costante di déjà-vu. E non sbaglia. Perché man mano che va avanti trova sempre più analogie con il passato, con vecchi casi da lei stessa seguiti, casi che non possono essere coincidenze e che si traducono necessariamente in un assassino emulatore. Quest’ultimo sembra avere un conto aperto con lei ed è pronto a tutto pur di saldarlo, anche a rapire la figlia Katy che nel mentre cerca una ripartenza del mondo delle fondazioni pro-senzatetto ed ex militari.
A dar una mano a Temperance vi sono Erskine “Skinny” Slidell, ora in pensione, Andrew Ryan, detective privato e tanti altri personaggi. Sarà una vera e propria corsa contro il tempo perché ne va della vita di Katy oltre che della sua carriera professionale.
Kathy Reichs propone ai suoi lettori un thriller di facile e rapida lettura, cadenzato da un buon ritmo narrativo seppur talvolta si perda in descrizioni che potevano essere centellinate in quanto rischiano di far perdere di intensità alla narrazione. Il pov narrativo è ben costruito, i personaggi sono ben delineati e la lettura si rende adatta sia a chi conosce già della serie, e quindi sa cosa aspettarsi, che a chi non la conosce. Il thriller dal punto di vista dell’intreccio rende bene seppur sia abbastanza intuibile nel suo svolgersi. Questo però non danneggia la lettura che resta comunque piacevole. Lo stile narrativo tende ad essere molto gergale e meno tecnico in alcuni passaggi questo anche per segnalare una sorta di demarcazione tra la Tempe che lavora e la Tempe a casa con Birdie, il felino dalle occhiate furibonde, e la sua ordinaria vita.
Non il miglior romanzo della Reichs ma da leggere se si cerca uno scritto con cui passare qualche ora leggera.
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Elizabeth, Beth, Betsy e... Bess.
«Le davano una sensazione preziosa, era come se alla fine qualcuno l’avesse scovata, qualcuno di intimo e caro, qualcuno che voleva averla sempre sotto gli occhi […].»
Protagonista di questo particolare romanzo a firma Shirley Jackson è Elizabeth Richmond, una donna di circa ventitré anni, all’inizio del romanzo, che vive con la zia Morgen in una cittadina di provincia americana e che lavora presso il museo della zona. Non ha particolari progetti, Elizabeth. È una donna apatica, ordinaria, cerca di vivere aspettando la propria dipartita cercando di soffrire il meno possibile. Vive in un silenzio fatto di se stessa, di una ingannevole tranquillità. Ha perso la madre cinque anni prima, vive da allora con la parente più prossima e sarà, una volta compiuti i venticinque anni, effettivamente ereditiera della grande fortuna lasciata dal padre. Le circostanze della morte della madre di Elizabeth sono alquanto ambigue e non è chiaro quale sia la risposta giusta attinente alla verità su questa. La giovane soffre di profonde e ricorrenti emicranie, vertigini e strane amnesie. Queste le fanno talvolta perdere il controllo in circostanze inadeguate, soprattutto per lei che incarna il modello della vera “gentildonna”.
«Un generale che ordinasse la ritirata quando sul suo esercito è ancora forte e in grado di combattere sarebbe considerato un gran vigliacco, ma chi potrebbe condannare il guerriero che, rimasto senz’armi, tradito dagli alleati che l’abbandonano, sentendosi sfidato su un terreno che l’avversario controlla meglio di lui, fuggirà senza dar battaglia?»
Diventando sempre più frequenti, manifestandosi in luoghi pubblici e palesandosi anche in orari improponibili della notte, zia Morgen spinge la nipote a recarsi dal medico curante che a sua volta la indirizza dal Dottor Wright, specialista in casi di questo genere. La zia Morgen non è una donna particolarmente empatica, anzi. È una donna anaffettiva ma a suo modo vuol bene alla nipote e si preoccupa, e spaventa, sinceramente. Dal momento in cui Elizabeth varca la porta dello studio del dottor Wright, ecco che il romanzo prende concretamente avvio e che noi conosciamo le vere sfaccettature dell’anima e personalità della protagonista.
«Veniamo tutti misurati, buoni e cattivi, dal male che facciamo agli altri. Io avevo creato un mostro e l’avevo lasciato libero di andare in giro per il mondo, e – poiché l’ammissione è, dopotutto, il dolore più crudele – ammetto che avevo visto tutto con chiarezza e lucidità: Elizabeth R. non esisteva più. L’avevo corrotta irredimibilmente, e in quei freddi occhi che adesso appartenevano solo a Bess avevo letto la mia vanità e la mia arroganza. Dunque alla fine mi svelo: sono un mascalzone, per aver creato alla leggera, e un malvagio, per aver distrutto senza pietà. Non ho scusanti.»
Il Dottor Wright all’inizio tende a sottovalutare “il problema”. È convinto che si tratti di un malessere temporaneo, dettato dal lavoro, dalla quotidianità. Ben presto si rende conto che miss Elizabeth Richmond non è sola. Ricorrendo all’ipnosi scopre che la ragazza è affetta da un disgregamento di personalità, è abitata da personalità multiple che sono un po’ i frammenti della Elizabeth completa ma anche volti propri che vogliono prendere il sopravvento su colei che a conti fatti è la personalità più debole. In primo luogo, il medico incontra Beth, l’amabile e femminile, Beth. Una donna tranquilla, affabile, premurosa, che prende in simpatia il dottor Wright e che è disposta ad aiutarlo in tutti i modi e con ogni mezzo. La chiamerà R2. Ma se Elizabeth è R1, Beth è R2, chi è R3? È Betsy, la parte diabolica, malefica, birbante e immatura di Elizabeth. Questo pensa all’inizio il dottore che la vede come una figura quasi demoniaca ma poi nel concreto bambina. Ognuna di queste personalità ha un suo blocco e nemmeno Betsy è esclusa. Quando, tuttavia, le personalità inizieranno a prendere il controllo di Elizabeth e accadrà un fatto che porterà la protagonista lontano da casa, si scoprirà che vi è anche una quarta personalità molto più pericolosa, infima e malvagia di Betsy. Quest’ultima non ha alcun rimorso e ritegno, è pronta a schiacciare le altre tre e chiunque si metta sulla sua strada pur di averla vinta.
«Era obnubilata dalla memoria, il bisogno di trovare razionalità e coerenza in un tempo che ne era privo la disorientava; era perduta in un mondo che si rifletteva all’infinito, e lì solo la zia Morgen e il dottor Wright riuscivano a seguirla mentre lei inseguiva loro.»
Avventurarsi in “Lizzie” di Shirley Jackson, significa avventurarsi in un romanzo profondo, complesso, stratificato e dove nulla è come appare. In primis c’è evidenziare la particolarità narrativa che vede mutare la voce narrante capitolo per capitolo rendendo quindi l’opera tangibile e veritiera man mano che la vicenda viene a ricostruirsi. Tutto ruota attorno alla morte della madre e al mistero che si cela dietro questa ma, al contempo, Lizzie è anche un titolo che non teme di sollevare domande e questioni sulla psicanalisi, l’ipnosi, la malattia mentale, la frammentarietà delle individualità dell’anima, il trauma, il “mostro”, la personalità, l’incubo.
Tanti temi che vengono introdotti con una penna precisa, minuziosa, descrittiva. Talvolta anche con delle descrizioni di troppo che rallentano la lettura. Un plauso all’autrice per la maestria con cui ha gestito la parte finale dedicata al prevaricare delle varie personalità. Ad ogni modo “Lizzie” è forse l’opera più strutturata e complessa dell’autrice e merita di essere letta e assaporata in ogni sua sfaccettatura.
«Pensavo a come ci si debba sentire a essere un prigioniero che va a morire; guardi il sole e il cielo e l’erba e gli alberi, e siccome è l’ultima vola che li vedi, sono meravigliosi, pieni di colori che non avevi mai notato e intensi e beli ed è terribilmente difficile lasciarli. E poi mettiamo che l’esecuzione sia sospesa, e ti svegli il mattino dopo e non sei morto; riuscirai a guardare il sole e gli alberi e il cielo e pensare che sono il solito vecchio sole, il solito vecchio cielo, i soliti vecchi alberi? Che non hanno niente di speciale, che sono le stesse vecchie cose che hai visto tutti i giorni, solo perché non sei più costretto a rinunciarvi?»
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L'amaro epilogo
«Soltanto Hugh, che era stato in guerra e anche in un campo di prigionia, soltanto Hugh sapeva per esperienza diretta con quanta violenza il normale corso della vita possa a volte venire sconvolto.»
“Un amore senza fine”, classe 1979 e ripubblicato sempre da Sellerio con nuova traduzione a cura di Tommaso Pincio, a cui vanno i miei più sinceri complimenti per l’ottimo lavoro e per avere realizzato un testo capace di tenere avvinti i lettori dall’inizio alla fine del componimento, è un libro che fa pensare a un grande sentimento, un amore eterno ma anche un amore a lieto fine. È un po’ il sogno di ogni coppia, di ogni nuovo legame che si alimenta di quella speranza e unicità tali da far credere nell’eternità di un tempo che si scandisce da battiti che non hanno fine. Ma è davvero possibile un amore del genere? Un sentimento così puro, forte e disarmante può davvero vivere senza che la vita si prenda gioco di lui? È davvero possibile rendere vivo quel sentimento oltre le difficoltà? E se queste fossero tali da portare l’amore a vivere su binari paralleli sino a rendere quel sentimento quasi una ossessione? Quanta forza possono avere gli eventi sull’indole umana e la sua volubilità?
«Come trovare posto tra la gente e come imparare a desiderare di trovarne uno? Non avevo niente da dire a nessuno; tutto quello che mi interessava non riguardava che me.»
Il confine, talvolta, tra follia e amore può davvero essere labile ed è inevitabile, nel leggere questo scritto, riscontrare alcune peculiarità che nella mente riportano a “Follia” di McGrath, seppur tenendo conto delle dovute differenze, seppur tenendo conto che a differenza del primo quest’ultimo romanzo è stato scritto successivamente e pubblicato solo nel 1996.
Ma “Un amore senza fine” non solo la storia di un amore, è la storia di David. Il giovane ha poco più di diciassette anni quando lo scritto ha inizio. Vive con Arthur e Rose, attivisti di sinistra, comunisti rossi, nella Chicago degli anni ’60. I genitori sono persone tendenzialmente rigide, attaccate agli schemi, abitudinari e refrattari verso tutto quel che esce dalla disciplina del partito. È nascosto tra le siepi, il ragazzo. Vuole attirare attenzione. Il suo unico desiderio è quello di riunirsi a Jade, la ragazza che ama e figlia dei Butterfield. Tanto però i suoi genitori sono avvezzi alle regole, tanto più i Butterfield non lo sono, anzi. Sono una famiglia che vuol essere aperta, libera, alla moda e soprattutto moderna. Qui David si sente a suo agio. Non si stupisce che i genitori della fidanzata usino sostanze stupefacenti, non si stupisce di poter dormire nella stessa camera di Jade, di poterla amare in totale libertà perché loro sono così, è il loro modo di essere quello di essere aperti e liberi. Tuttavia, il padre di Jade ha posto un vincolo: David non deve avvicinarsi alla figlia per almeno trenta giorni. Non riesce a capire il perché. Lui va d’accordo con Ann, la madre della ragazza con una passione smodata per la cioccolata, va d’accordo con i fratelli e perfino con il padre. Ma allora perché lo hanno allontanato? E soprattutto, come rientrare nelle loro grazie? David ha deciso che ci riuscirà e per farlo decide di dare fuoco alla pila di giornali situata nella veranda della famiglia. Non poteva però immaginare che la famiglia, in quel momento, fosse tutta interamente stesa da una dose ben potente di LSD assunta tramite francobollo e arrivata appositamente affinché loro potessero provarla. Si immagina pronto a rientrare in casa accolto a braccia aperte, si allontana e poi ritorna, non sospetta che il fuoco sta divampando per tutta l’abitazione e che nessuno si è accorto di niente perché tutti sono drogati. Proverà a entrare, a salvarli, confesserà anche la propria colpa ma ormai, il danno è fatto.
David verrà recluso in un ospedale psichiatrico a Rockville. La sua ammissione di colpevolezza e il ricovero non esuleranno però i Butterfield da una disgregazione inevitabile. Man mano che la lettura prosegue è infatti evidente che ciò sarebbe comunque stata conseguenza logica perché “non è tutto oro quello che luccica”. E se da un lato abbiamo David che pensa alla sua Jade e che al contempo cerca di riprendere le fila della sua vita vedendo a sua volta distruggersi delle sue stesse certezze, i suoi genitori non riescono a superare il dolore per quanto accaduto e sono privi di quell’amore tale da mandarli avanti insieme, dall’altro Anne e Hugh si separano e ogni figlio dei Butterfield prenderà una propria e diversa strada. Passa il tempo ma non questo amore che mantiene in vita David. Rispetta ogni regola, si trova un lavoro, si riscrive all’università, segue anche i corsi di fisica e correlati allo spazio cosmico che sognava prima che la sua vita prendesse una piega infuocata, ma non riesce a dimenticare la donna e per questo non si apre a nessuna. Lei è sempre lì, nel cuore e nella mente anche se nessuno lo sospetta e/o deve sospettarlo.
«I segreti offrono il conforto di una solitudine piena di possibilità. Sono la x della tua equazione, l’incognita compassionevole.»
Per David rivedere la sua Jade è un sentimento urgente, talmente urgente da diventare più forte del sentimento stesso. È pronto a rischiare nuovamente tutto quel che ha pur di rivederla.
Scott Spencer, dal suo canto, riesce a trasferire nel lettore la totalità di questa situazione senza che questo mai sia portato a giudicare ma anzi facendolo sentire parte. L’angoscia è vissuta sulla pelle, sentita nella sua dirompenza, gli eventi sono conseguenza di questo vivere interiore scombussolato e inquieto, insoddisfatto e irrefrenabile. L’amore non è più solo amore esattamente come “Un amore senza fine” non è solo un romanzo sull’amore e d’amore. È un libro sui legami, un libro sulla famiglia e il suo ruolo nella crescita dei figli (Jade sembra rispondere alla troppa permissività dei genitori come di contro David alla rigidità dei suoi), sulla crescita individuale e collettiva, sulla maturazione, sulla vita, sull’esistenza, sul conflitto eterno tra desideri e aspettative e cruda realtà, sul sesso che però è solo apice ma non totalità non a caso in questi frangenti non è mai la carnalità a prevalere quanto il cuore.
«Nelle giornate migliori mi sentivo come un naufrago che scorge i segni di una riva vicina ma ancora invisibile; un sapore nel vento, una luce più dolce, un volo improvviso di gabbiani.»
Avventurarsi in “Un amore senza fine” di Scott Spencer è come trovarsi su un palcoscenico nero, con un cerchio di luce, dove il passato è presente e il presente non sempre sa ipotizzare un futuro. È un romanzo profondamente evocativo, devastante dal punto di vista emozionale, dirompente da quello dei contenuti che sono così tanti da non poter essere scritti nella loro interezza. E come David giunge alla fine del suo racconto, ma non dell’amore, perché cessa nella sua capacità di esprimersi, com’è giusto che ciascuno tragga le proprie fila su quel che questo titolo è. Un coacervo di vite che si uniscono legate da un unico filo ma che sono fatte di propria linfa, un sentimento che è tale da influenzare quelle vite stesse. Un titolo corposo, che si lascia divorare, dalla fine che non è un lieto fine.
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Dickens oh Dickens
«Tra loro c’era sempre stata una sorta di spinta in avanti, come se la vita potesse solo tradursi in un’espansione continua: altri figli, una casa più grande, cose migliori. Lo stesso Dickens era noto per la sua tendenza alla prodigalità, generoso fino all’eccesso.»
Piccola ma doverosa premessa: Samantha Silva si ispira alla vita di Dickens per questa storia che ci riporta ai tempi de “Canto di Natale” ma sin da subito premette di distanziarsene. È invenzione letteraria liberamente ispirata alla figura e da qui si sviluppa uno scritto che conduce per mano.
A questo dato di distanza dalla realtà vi è però anche l’assonanza tanto che molti lettori affezionati di Charles Dickens riconosceranno. Dickens, al tempo, si trovò nella necessità di scrivere in poche settimane un racconto di Natale poi trasformatosi in Canto di Natale. Il racconto doveva rispondere alle esigenze del pubblico e doveva soddisfare anche le richieste economiche degli editori. Dickens, ancora, per tutta la vita ha dovuto fronteggiare i debiti costanti del padre, le richieste di prestito da parte dei parenti e uno stile vita fin troppo spesso più alto delle proprie e reali possibilità.
«Avrebbe voluto vedersi offrire, se non del denaro, almeno una ventata di quel suo ottuso ottimismo, ora che ne aveva tanto bisogno. Un orecchio pronto ad ascoltare, una parola di saggezza, una spalla su cui appoggiarsi, ora che si sentiva vacillare. Un qualche segno che l’ordine naturale del rapporto tra genitore e figlio era ancora intatto. Era ridicolo aver bisogno di un padre alla sua età, adesso che lui stesso lo era diventato, e per ben sei volte. Eppure era così.»
Ecco allora che siamo trasportati in questa Londra umida e fredda, nella vita di uno scrittore che sta per vedere nascere un altro figlio e con la minaccia di dover anche restituire quelli che sono stati gli anticipi al lavoro dato. Tante le tematiche che vengono trattate, tanti gli aspetti che riconducono il lettore al testo originale. Che dire, o si ama, o si odia. Non ci sono tante vie di mezzo. È uno scritto che si sceglie perché ci si aspetta un qualcosa ma si deve sempre ricordare che è finzione narrativa e dunque adattata agli scopi. Certamente serve una buona dose di spirito natalizio perché il tema Natale e le sue ambientazioni non mancano.
Edito da Neri Pozza nella traduzione di Daria Restani, in libreria dall’8 novembre 2022.
«I miei fratelli, mia sorella, mia madre… se li portò dietro tutti quanti. Lo supplicai di portare anche me. Ma a me spettava il compito di farli rilasciare. Lavorando in questa fabbrica»
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