Opinione scritta da pierpaolo valfrè
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Per adolescenti di oggi e di ieri
Protagonisti di “Qualcuno con cui correre” sono due sedicenni, Assaf e Tamar, che occupano tutto il romanzo e lo riempiono della loro adolescenza.
Voglia di avventura, mistero, desiderio di distinguersi dagli altri, consapevolezza di essere unici e inconfondibili, timore di rimanere soli e incompresi, contrapposizione alla società degli adulti a cominciare dalla propria famiglia, attrazione per situazioni estreme in cui perdersi o trovarsi, distruggersi o porre il basamento della persona di domani . E naturalmente il sogno dell’anima gemella, la chimera di un amore che è sempre apparentemente, pudicamente e scaramanticamente senza speranza. Queste sono le caratteristiche di questa storia e corrispondono a buona parte delle caratteristiche di questa particolare età della vita.
Il sedicenne Assaf e la sua coetanea Tamar si cercano senza saperlo per tutta Gerusalemme fin dalle prime pagine del romanzo. La ricerca di Assaf è soprattutto fisica, concreta, materiale: in compagnia di un cane attraverserà strade e quartieri, approderà in pizzerie e conventi, conoscerà il carcere, le minacce, le percosse, il pericolo e poco a poco il quadro si farà più chiaro, l’obiettivo della sua ricerca più visibile e riconoscibile. La ricerca di Tamar è invece intima e mentale, e si sviluppa attraverso le pagine di un diario segreto, attraverso dialoghi interiori e confidenze con l’amica del cuore e l’obiettivo è chiaro fin dall’inizio: Bruce Willis e Harvey Keitel messi insieme, in un’unica persona: naturalmente impossibile o forse no, chissà. Tuttavia Tamar è tutt’altro che un’inconcludente e oziosa sognatrice, anzi con coraggio, abnegazione e senso del sacrificio dedica tutta se stessa al tentativo di salvare una persona cara, cacciandosi in un sacco di guai e di situazioni difficili. E’ proprio la sua generosa avventura a mettere Assaf sulle sue tracce.
A fianco di Assaf e di Tamar troviamo altri personaggi frequentemente rilevabili nella geografia adolescenziale: gli amici saggi e temprati dalle difficoltà della vita (Karnaf per Assaf e Leah per Tamar), che a differenza degli altri adulti assecondano le loro pulsioni ribelli, pur proteggendoli a distanza e offrendo loro una sicura sponda a cui aggrapparsi e poi Teodora, una sorta di nonnina stravagante e fuori dagli schemi che qui assume l’identità di una monaca greca, obbligata da ragazza a recludersi tutta la vita in un convento con la missione di accogliere in Terra Santa i pellegrini provenienti dalla sua isola di origine, e poi capace di rimanere fedele al giuramento prestato anche quando non ce ne sarebbe stato più bisogno, dopo che l’isola fu distrutta da uno spaventoso terremoto in cui perirono tutti i suoi abitanti.
La cagnetta Dinka è lo spunto originale da cui prende avvio la storia (Assaf durante le vacanze scolastiche lavora in municipio e gli viene assegnato il compito di trovare i proprietari di questo cane abbandonato) e sottolinea ulteriormente il valore dell’amicizia autentica e incondizionata, valore tra i più sentiti da ogni adolescente.
Naturalmente, essendo storia di avventura, non mancano i nemici, i cattivi e i loro sgherri, le vittime innocenti e i complici e soprattutto i naufraghi da salvare, quelli che pensano di aver trovato nella droga la garanzia e la protezione del loro talento, quelli che si illudono che grazie alla droga avrebbero suonato la chitarra come meglio solo Jimmy Hendrix e Dio avrebbero potuto fare, quelli che maneggiano con poca perizia poeti e filosofi maledetti e fanno della sconfitta la loro vocazione.
C’è l’infelice avventura del perdersi e c’è la felice, ma difficile avventura di salvare e salvarsi, trovare e trovarsi in questo romanzo intriso di adolescenza ma, come gli apologhi e le buone favole, godibile anche dai più grandi. Niente di trascendentale, ma di buon intrattenimento, come un telefilm di buona fattura.
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Favola inutile, squallida e ributtante
Ho acquistato questo libro oltre un anno fa, subito dopo la sua vittoria al Premio Strega. Ad attrarmi non fu il premio in sé, ma il tema (la zona grigia tra criminalità e finanza) e alcuni giudizi più che positivi da parte di firme autorevoli (Massimo Gramellini: “l’autopsia a cuore aperto di un cadavere, il capitalismo finanziario degli ultimi decenni”; Goffredo Fofi: “un romanzo d’eccezione per la forza dei suoi confronti, la vivacità dei suoi squarci”).
Ho lasciato trascorrere un anno, non mi sono volutamente informato sull’autore, che non conoscevo, e un giorno di quest’estate mi sono deciso ad iniziare a leggere. Non so quale oscura forza o quale insana piega della mia personalità mi ha tenuto agganciato fino all’ultima pagina. Certamente hanno contato anche l’energia della scrittura (almeno questo devo riconoscerlo) e la mia tigna nel voler a tutti costi scoprire dove andava a parare questa “favola inversa”. Cercavo forse il guizzo finale capace di riabilitare fiumi di inchiostro tossico e inconcludente.
Purtroppo, in oltre trecento pagine non ho trovato nulla di interessante né di originale sul tema che il libro ha la pretesa di analizzare e scandagliare. Ho trovato invece una visione del mondo cupa e funerea, elucubrazioni intellettualistiche noiosette e ripetitive inframmezzate a qualche sbirciatina al mondo del jet set televisivo, modaiolo e della finanza da fotoromanzo a sostegno del cinismo tipico di chi vuole distinguersi dalla massa delle persone normali, quelle “che fanno venire sonno solo a guardarle”, tecnicismi finanziari sparsi come il prezzemolo per ogni dove, propinati con l’entusiasmo ingenuo e la totale assenza di credibilità del neofita e, a dare più pepe al pastone, abbondanti cucchiaiate di misoginia e di pornografia che danno colore e nerbo a personaggi altrimenti vuoti ed inconsistenti. Dovendo esplorare una zona grigia, tutti gli uomini sono marci e amorali, va da sé, ma c’è un particolare e insistito accanimento verso le donne: non ce n’è una che non sia puttana, tutte si concedono, si vendono, si fanno sodomizzare con una velocità che probabilmente nemmeno nei filmetti pornografici è così fulminea, persino la madre del protagonista, persino la dodicenne figlia di un imprenditore con l’acqua alla gola, che viene venduta in modo criminale e infame dal padre, ma poi Siti infierisce anche su di lei facendola stare al gioco in cambio di una vittoria in una gara di roller, perché anche l’infanzia, dopo le donne, la famiglia e la normalità deve essere schifo e ribrezzo.
Tutto questo non mi convince, non è nient’altro che una lugubre favola che vorrebbe farci credere che il male del mondo trae origine da un pugno di malvagi corruttori e da una moltitudine di corrotti o corruttibili. Tesi molto assolutoria e consolatoria, io penso che la realtà sia un filino più complessa e che il male non provenga solo dai malvagi, ma spesso proprio da chi è convinto di fare del bene o almeno da chi agisce per una valida ragion di stato, o per un puro ideale da anima candida, o per un sano interesse imprenditoriale, o per il futuro dei propri figli, magari a scapito del presente dei figli di qualcun altro. Per non parlare dell’immensa quantità di male che proviene semplicemente dagli errori, dalle omissioni, dalla sciatteria, dalla negligenza, dall’ignoranza, dalla superficialità, dall’indifferenza, dal conformismo, dall’appiattimento, dall’elogio della disponibilità che viene spacciata per meritocrazia, dalla paura, soprattutto dalla paura.
Della mafia dei colletti bianchi, delle incursioni della criminalità organizzata nel mondo della finanza e del business ci hanno già parlato magistrati, giornalisti, scrittori. Certamente c’è ancora tantissimo da scoprire e da capire, ma non mi pare proprio che Siti aggiunga nulla di nuovo, anzi ci offre una rappresentazione stereotipata e poco credibile, infarcita di situazioni fastidiose e sgradevoli descritte con linguaggio greve, solo parzialmente alleggerito dalla cultura dell’autore.
Resta il fatto che si tratta di un romanzo, non di un saggio sociologico, né di una inchiesta giornalistica. Il personaggio di Tommaso, l’ex bambino obeso, figlio di un soldato della malavita, che forgia il proprio carattere attraverso la solitudine, l’emarginazione e una spiccata attitudine per la matematica, all’inizio si lascia seguire nonostante non faccia alcuno sforzo per rendersi simpatico. Lo accompagniamo con curiosità fino alla fine dell’università e all’inizio della sua fulminea carriera, poi ci rincresce molto vederlo perdersi nella banalità dei rendez-vous con modelle e attricette varie e in improbabili speculazioni da videogame, giocate tra sceicchi arabi, bombaroli slavi e faccendieri sudamericani con l’unico risultato di dover frequentare controvoglia qualche manciata di VIP della politica, dello spettacolo, della moda e della finanza.
Walter Siti è letterato, critico e scrittore molto apprezzato, io invece sono uomo di poca cultura e dai gusti semplici e dunque può darsi che io questo libro non l’abbia capito. Ho sempre questo sospetto quando un’opera tanto celebrata è così lontana dal mio gusto e dalla mia sensibilità, anche perché in genere io sono un lettore piuttosto “ecumenico”. Sarà dunque un mio limite personale, ma io continuo a pensare che non basta l’omosessualità esibita e sbandierata e la fama di studioso di Pasolini per eguagliare l’incisività, la lungimiranza e l’anticonformismo dell’autore di Scritti Corsari. Soprattutto non basta il paravento dell’erudizione e della cultura personale per trasformare una furba accozzaglia di luoghi comuni, banalità e volgarità in un capolavoro. Però evidentemente basta per vincere il premio Strega
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L'emozione non ha voce
“Dal piccolo recinto spoglio e senz’alberi che conteneva suo padre, sua madre e qualche altro contadino, scrutò l’orizzonte in direzione della fattoria dov’era nato e dove i suoi avevano trascorso tutta la loro vita. Pensò al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita e lentamente, anno dopo anno, la terra se li sarebbe presi. Lentamente l’umidità e la putrefazione avrebbero infestato le bare di pino che raccoglievano i loro corpi, e lentamente avrebbero lambito la loro carne, consumando le ultime vestigia della loro sostanza. In ultimo sarebbero diventati una parte insignificante di quella terra ingrata a cui si erano consegnati tanto tempo addietro”.
Anche William Stoner, come suo padre e sua madre, era destinato in principio a diventare “una parte insignificante di quella terra ingrata”, ma poi il destino prese per lui una piega diversa, frequentò l’università, si appassionò agli studi, divenne ricercatore e, con la stessa muta dedizione con cui “a sei anni già mungeva le loro vacche ossute, dava da mangiare ai maiali nel porcile a poche iarde da casa e raccoglieva le minuscole uova delle vecchie galline nel pollaio”, con lo stesso tenace, servizievole e disciplinato impegno che a diciassette anni già gli aveva incurvato le spalle sotto il peso delle cose da fare, dedicò tutta la sua vita all’insegnamento e divenne una parte insignificante non della terra ingrata, ma di quell’università ingrata a cui si consegnò tanto tempo addietro.
Una vita apparentemente grigia, piatta, tanto da dubitare che fosse degna di essere vissuta e che nascondeva invece sotto la cenere della monotonia e dell’inettitudine una grande capacità di provare emozione e passione, pur non riuscendo mai a comunicarla, a trasmetterla, a lasciarla trasparire. L’emozione non ha voce, sembra proprio il caso di dire, fin dal momento in cui Stoner resta affascinato anche fisicamente dai muri dell’Università, ne percorre i corridoi, accarezza le copertine dei libri, ne inala l’odore di cuoio, resta annichilito e senza parole nel momento in cui è chiamato a commentare un sonetto di Shakespeare.
Una vita non facile, non felice, non fortunata, affrontata con la mite imperturbabilità del contadino che sa che a nulla serve lamentarsi del gelo, della grandine, della natura ostile e matrigna, ma si adatta al suo ambiente e trova il modo di conviverci, di amarlo persino, con un accanimento, un fatalismo e un’ostinazione che dall’esterno possono apparire ottusi e incomprensibili.
L’esterno, le apparenze, il mondo: non c’è persona meno interessata di William Stoner a cosa succede fuori e persino due guerre mondiali riescono soltanto a suscitargli un vago senso di malessere e di disagio per il terribile spreco di energie, di sangue, di gioventù, di speranze. Stoner, a cui la vita scivola addosso come su pietra liscia e compatta, da un lato ci affascina per la sua capacità di rimanere perennemente bambino, di conservare intatto il suo stupore, a sessant’anni come a venti, dall’altro ci fa arrabbiare perché lo vorremmo meno imbelle, se non per se stesso, almeno per le persone che ama.
In ogni caso, un’esperienza che non potrebbe essere più lontana dal nostro tempo dominato dagli affanni, dall’apparire, dall’esteriorità, da una competizione sempre sproporzionata rispetto alla posta in gioco. Tanto che alla fine ci domandiamo: ma non avrà ragione lui?
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Camilleri....che altro?
Vigata, 1877. In Italia governa da un anno la Sinistra di Agostino Depretis, che poco dopo avvierà insieme a Marco Minghetti, esponente dell’ala liberale della Destra Storica, la pratica del trasformismo.
E’ ancora in vigore la tassa sul macinato, introdotta nel 1868, che tante rivolte produsse nel nord del Paese, soffocate militarmente con migliaia di arresti e centinaia di morti e feriti. Anche nella siciliana Vigata e nella vicina Montelusa, sede della Prefettura, c’erano state rivolte soffocate nel sangue. Nulla da stupirsi dunque se due funzionari dello Stato affamatore, due ispettori dei mulini, erano stati assassinati nel giro di pochi anni.
Il loro successore si chiama Giovanni Bovara, nativo di Vigata, poi trasferito quando era ancora piccolo a Genova. Ritornato nei luoghi d’origine, in lui convivono l’ordine e la disciplina del funzionario con molti anni di servizio nell’amministrazione sabauda, il dialetto genovese che gli sgorga spontaneo nei momenti di abbandono e di emozione (come quando “da giovane si confondeva per le donne”) e la natia arguzia e parlata siciliana, nascoste da qualche parte dentro di lui, ma pronte a uscire fuori al momento opportuno, per trarlo dagli impicci e dare scacco matto agli avversari.
Ci sono parecchie cose strane all’Intendenza di Finanza di Montelusa riguardo l’attività dei mulini, a cominciare da quella vera e propria “corte dei miracoli” costituita dal nutrito gruppetto di “sottoispettori” che avrebbero dovuto vigilare ognuno sulla sua porzione di territorio. Tutti erano stati “segnalati” per l’incarico dall’avvocato Fasulo, un uomo molto pio e gran benefattore e soprattutto buon amico di Don Cocò Afflitto, proprietario di mulini e terre nella zona, che come tutti i veri potenti non entra mai nella storia, ma se ne sta piuttosto sullo sfondo e nell’ombra. A muoversi, tramare, sudare, affannarsi sono sufficienti l’avvocato Fasulo, il delegato di pubblica sicurezza Spampinato e suo fratello Gnazio, l’intendente di Finanza Felice La Pergola, detto “lo scrafaglio merdarolo” e poi politici, ministri, vescovi: sono in tanti a dover qualcosa a don Cocò.
In parellelo si svolge la gustosa vicenda di un prete donnaiolo, padre Artemio Carnazza. La sua porta era sempre aperta per le devote parrocchiane che, dopo la messa del mattino, salivano le scale di legno che dalla sagrestia conducevano all’abitazione del “parrino”. Perché “patre Carnazza amava la natura. Non quella degli aciddruzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi della fantasia del Criatore: ora nìvura come l’inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l’erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un’altra volta corta corta come appena falciata, un’altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvagio. Sempre si meravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era veramente con tutto il suo particolare da scoprire…”.
L’ultima scoperta di patre Carnazza è donna Trisìna Cìcero, una “trentina mora, con gli occhi verdi sparluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell’inferno. Mischineddra, era rimasta vedova da tre anni. Da allora si vestiva tutta di nìvuro, a lutto stretto, lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màsculo a governarla”.
In realtà Donna Cìcero, “grandissima buttana”, si governava benissimo da sola e a padre Carnazza aveva imposto anche un minuzioso tariffario: “la taliata di tutt’e due le minne nude, trecento grammi di zùccaro; una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana e relative sottotazze…”
Don Carnazza si era fatto molti nemici: gli invidiosi, i mariti cornuti, le amanti rimpiazzate, ma anche i poveri diavoli che lui strozzinava con prestiti da usura e i parenti defraudati in questioni di eredità.
Succede che l’ispettore Giovanni Bovara inciampa, fisicamente e metaforicamente, in patre Carnazza e da quel momento le due vicende si annodano si avviluppano, cacciando il Bovara in un mare di guai da cui abilmente riesce ad uscire riflettendo sulle differenze linguistiche tra italiano e sicilano, imparando bene una certa lezione con cui i suoi nemici volevano incastrarlo: “Quello la lezione se l’imparò e ce la sta mettendo nel culu para para!”
Interessanti anche gli scambi epistolari tra le diverse autorità, gli avvocati, i politici, scritte nell’italiano ampolloso e burocratico di fine ottocento, che si caratterizza come una terza curiosità linguistica, dopo il genovese (praticamente incomprensibile) e la parlata della Vigata di Camilleri.
Nell’ultimo capitolo i personaggi del romanzo fanno dei sogni, che Camilleri racconta ispirandosi, fra gli altri a Kafka, Faulkner, Sciascia (qualche analogia tra il capitano Bellodi, il generale Dalla Chiesa e il ragionier Bovara ), Hemingway, Joyce, Proust.
Duecento pagine che volano via anche troppo in fretta.
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Tra tragedia e banalità
Sono stato invogliato a leggere questo libro sia dal giudizio lusinghiero del premio Nobel Orhan Pamuk, il quale sostiene che l'autrice del romanzo, Elif Shafak, sia la "migliore scrittrice turca dell'ultimo decennio”, sia dal tema affrontato: la questione armena, il genocidio compiuto all'inizio del secolo scorso nell'impero ottomano, che la Turchia continua a negare, tanto che anche Elif Shafak subì un processo per offesa all'identità del Paese per essersene occupata, ottenendo comunque l'assoluzione.
Considerando i giudizi lusinghieri e i numerosi premi e riconoscimenti ottenuti dalla Shafak, alla fine sono rimasto molto deluso.
La storia si apre con una ragazza diciannovenne, Zeliha, che in minigonna, tacchi a spillo e camicetta attillata "per sottolineare il seno abbondante", incurante del temporale estivo attraversa Istanbul per andare ad abortire. Non senza aver fatto prima una sosta al Gran Bazar, dove acquista un servizio da tè (che immagino sia precisamente la cosa che viene in mente di fare quando si sta andando ad abortire). Ovviamente non può risparmiarsi le occhiate libidinose dei suoi concittadini allupati e anche un tentativo di abbordaggio in stile "B movie" da parte di un tassista che la scrittrice tratteggia alla grossa, livellandosi senza alcuna fantasia allo stereotipo del molestatore tanto volgare quanto innocuo.
L'aborto non avviene grazie anche a una provvidenziale preghiera del muezzin che irrompe da una moschea vicina. La ragazza rientra a casa e, dopo essersi saziata con vari e abbondanti intingoli, decide di gettare la sassata contro nonna, mamma e tre sorelle, rivelando tutto insieme: verginità perduta, gravidanza in corso e progettato aborto, presentandosi subito come la componente ribelle e disinibita del gineceo in cui vive.
A questo punto la scena si sposta in un supermercato americano, dove una giovane donna lotta contro il suo istinto a compensare le proprie numerose delusioni (il matrimonio fallito, l'abbandono dell'università e una vita da precaria) con tentazioni gastronomiche di vario tipo. Si imbatte nel fratello di Zeliha e, saputo che è di Istanbul, cerca "disperatamente di ricordarsi dove diavolo fosse Istanbul. Era la capitale dell'Egitto, o forse stava da qualche parte in India...Aggrottò la fronte perplessa." (sic!)
Per 250 pagine il romanzo procede così, con un'irritante sfilza di banalità e luoghi comuni e personaggi da serie televisiva della peggior specie.
Poi si incontrano sorprendentemente venti pagine molto intense, nelle quali si entra nel vivo della questione armena.
A partire da questo punto il romanzo ha una svolta e trova un suo perché. Alcuni personaggi acquistano drammaticità e ci sono delle sorprese, anche se ottenute a buon mercato, utilizzando qualche secchiata di tinte forti. E c'è anche uno stucchevole compiacimento nel voler chiudere i cerchi a tutti i costi, cercando coincidenze ad effetto, al limite della pedanteria.
Per il solo merito di aver parlato della tragedia del popolo armeno, sono stato tentato dall’attribuire almeno una stiracchiata sufficienza a questo romanzo, ma la sfilza di banalità e di sciatteria che ci propina proprio non me lo consentono. Anzi, viene il sospetto che si sia cercato deliberatamente lo scandalo per motivi di cassetta. Detesto l’anticonformismo peloso molto più del bigottismo.
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Quando mancano le parole
La scrittrice belga Amélie Nothomb è nata e vissuta diversi anni in Giappone, Paese nel quale sono ambientati anche alcuni dei suoi libri.
Nella lingua giapponese esiste un termine che manca in altre lingue, per definire un concetto che sembra un ossimoro. Natsukashii è la nostalgia felice ed è ciò che si prova, come spiega la Nothomb, “nell’istante in cui la memoria rievoca un bel ricordo che la riempie di dolcezza”.
Non è un’emozione o un concetto che manchi alla nostra esperienza: manca piuttosto la parola, tanto che per esprimerla dobbiamo ricorrere ai segni esteriori e ai gesti, come Proust con la madeleine.
L’Occidente tende a considerare la nostalgia come una debolezza, la irride, la disprezza. La considera, per dirla con la Nothomb, “un valore passatista tossico”.
Io non sono né un esperto né tutto sommato un grande ammiratore del mondo orientale e giapponese in particolare. Però mi affascina quella capacità che a oriente c’è e a occidente molto meno, di stare in silenzio, di andare oltre le parole, di non lasciarsi prendere dal panico ogni volta che il torrente di suoni in cui siamo continuamente immersi si interrompe per un breve intervallo.
E poi siamo ossessionati dal “fare”. Dobbiamo riempire la nostra giornata e tutte le giornate della nostra vita, di parole, fatti, azioni. Spesso un libro giapponese o un film cinese ci irritano perché la sensazione è che non succeda mai nulla.
“La nostalgia felice” è un libricino di poco più di cento pagine, una sorta di diario della scrittrice che ritorna dopo molti anni nella terra della sua infanzia e giovinezza, dove incontra la sua vecchia tata, un suo ex fidanzato, la traduttrice e l’editore giapponese dei suoi romanzi. E visita la città di Fukushima dopo il terremoto dell'11 marzo 2011 e conseguente incidente alla centrale nucleare.
In cento pagine non succede effettivamente quasi nulla o viene raccontato in modo che sembra non succeda nulla. Eppure la scrittrice, con troupe televisiva al seguito, nei dieci giorni di permanenza sul suolo giapponese non si ferma mai: Shukugawa, Kobe, Kyoto, Fukushima e infine su e giù per Tokyo.
I fatti e i luoghi si intravedono appena, giusto per evocare un’emozione e lasciare alla fantasia del lettore il compito di interpretare ed estendere quell’emozione. Sembra di osservare quelle fotografie dove le immagini sono manipolate con varie tecniche per renderle più sfocate, o in negativo, o stilizzate. Come ci fosse uno schermo deformante a proteggere il pudore di chi racconta e a offrire infiniti spazi interpretativi ed evocativi a chi guarda, o legge.
Oltre al diario interiore, il libro ci offre anche una sorta diario di viaggio, con interessanti osservazioni (almeno per me, che non ne so nulla) sui luoghi di questo personale pellegrinaggio della memoria. La visita alla Fukushima del post terremoto, è occasione per un omaggio ad alcune virtù tipicamente nipponiche.
Il natsukashii può accendersi anche prendendo spunto da oggetti assolutamente ordinari come la biancheria, un canaletto di scolo, le fogne, le finestre dei bagni scolastici. Naturalmente, trattandosi di un viaggio nei luoghi dell’infanzia, c’è spazio anche per scivoli e altalene.
Il ripetuto collegamento tra scampoli di vita apparentemente irrilevanti e le più profonde cavità dell’anima qualche volta mi affascina e qualche volta mi sembra stucchevole. Mi evoca il “racconto della perversione” che Calvino incluse in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”.
Quando le corde della nostra emozione non sono perfettamente in sintonia con quelle dell’autore, può essere che siamo noi un po’ insensibili, ma può anche essere che l’autore stia un po’ bluffando.
Oppure sta parlando a un selezionato gruppo di lettori. Nel caso della Nothomb: quelli che amano incondizionatamente il Giappone oppure quelli che hanno letto tutti o buona parte dei suoi libri. Io non appartengo né al primo gruppo, né al secondo e dunque mi rimane addosso per tutte le pagine un vago senso di spaesamento e di estraneità.
Al lettore italiano può infine succedere di avere un sussulto che la scrittrice belga non avrebbe mai pensato di provocare. Durante un viaggio in treno, la Nothomb si chiude in bagno per parlare al cellulare. Il pensiero va ovviamente ai logorroici conversatori telefonici di casa nostra, capaci di infliggere i più intimi dettagli dei fatti loro a interi scompartimenti ferroviari. Proporrei di mandarli in Giappone, o almeno di farli passare sotto lo sguardo accigliato della severa Amélie.
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a chi ama il Giappone e la sua cultura
Una storia ben costruita
Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, uno dei best seller internazionali più amato in Italia, è una storia molto coinvolgente a livello emotivo, con personaggi che si imprimono bene nella mente e che affronta temi che da sempre abitano il cuore umano e catturano l’attenzione dei lettori, in una ambientazione tanto affascinante quanto drammatica come l’Afghanistan degli ultimi decenni.
Si può provare a spiegare il successo del libro proprio con questa felice combinazione: i grandi ed eterni valori su cui l’uomo si interroga (il coraggio, la fedeltà, il tradimento, l’amicizia, la colpa, la famiglia) interpretati in un contesto che è allo stesso tempo lontano e vicino. Lontano quanto basta per poter offrire al lettore occidentale un viaggio in una civiltà diversa e affascinante, ma anche assolutamente vicino e presente nella vita di tutti, dalle Torri Gemelle in poi.
E’ un libro scritto benissimo, che commuove, indigna, stupisce nonostante alcune banalizzazioni che non saprei dire se siano dovute più ad un difetto o a un eccesso di mestiere. Propendo per la seconda ipotesi, ma trovo che la furbizia non è qualità necessariamente censurabile in un romanziere.
Per dire, il “cattivo” che fin da piccolo ammira Hitler e poi diventa un capo talebano (nascondendo i suoi freddi occhi azzurri dietro occhiali alla John Lennon) fa un po’ sorridere, ma non è da escludere che abbia contribuito anch’esso a trainare le vendite. Lo stesso cattivo, preparandosi al duello finale con il suo antagonista, annuncia ai suoi giannizzeri: “uno solo tra noi due uscirà vivo da questa stanza: se è lui ad uscire, lasciatelo andare”. Una frase che nell’immaginario collettivo evoca chilometri di pellicole “western”.
Anche la preveggenza di papà Baba, che nel lontano 1975 si augura che il suo Paese non debba mai essere governato dai mullah, non sembra molto credibile: però è affermazione di sicura presa su noi occidentali, abituati per anni a considerare la barba di Bin Laden come l’autentica bandiera dell’Afghanistan.
Si potrebbero fare altri esempi di scarsa “autenticità”, ma si rischierebbe di fermare lo sguardo al dito invece che rivolgerlo alla luna.
Perché Il cacciatore di aquiloni è romanzo che funziona e lascia il segno. Si sente il profumo di culture, di tradizioni e di popolazioni antiche, a cui viene spontaneo calcare ogni zolla della loro terra con una fierezza, un’intensità e una consapevolezza di sé da suscitare grande rispetto e ammirazione. Noi occidentali non ci siamo più abituati, non si può dire che sia il tratto dominante dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti.
Partecipiamo alle vicende di Amir, di Hassan, di Ali e di Baba con grande trepidazione, in qualche punto tratteniamo il fiato, proviamo sgomento, angoscia, stupore, meraviglia. Ci lasciamo trasportare dalla poesia degli aquiloni in volo, una poesia resa più struggente per il fatto che sappiamo bene in che modo l’incanto sia stato spezzato. E poi si piange, in qualche pagina il groppo in gola si fa troppo forte.
Libro che fa anche riflettere? Non più di tanto. Sui temi di cui tratta non si va molto sotto la superficie. Hosseini li utilizza per caratterizzare i personaggi che, non a caso, tendono ad avere poche sfumature. E quando finalmente compare una contraddizione dentro uno di loro, una di quelle di cui è piena la vita, la storia avverte una sorta di potente movimento tellurico. E’ il caso di Baba, prima e dopo la grande rivelazione.
Chiudo con un dettaglio (i dettagli a volte spiegano molte cose): Sanaubar, la madre di Hassan, mi ricorda un po’ la madre di Esmeralda in Notre-Dame de Paris. Fatte le debite proporzioni, c’è più di un’ analogia nei due personaggi e soprattutto nei melodrammatici ritrovamenti della prole perduta, anche se all’infelice e scellerata Sanaubar è stata data in sorte una fine più dolce (e almeno le è stata risparmiata l’esecuzione del figlio). Le invenzioni letterarie, come le ricette di cucina, sembrano infinite, ma gli ingredienti no. E dunque spesso si rielabora, si ricompone, si toglie una spezia qua, si aggiunge una salsa là, si trovano abbinamenti nuovi e originali.
Con semplicità e gusto per la narrazione, Hosseini è riuscito a darci emozioni, a farci viaggiare e conoscere luoghi e persone che ricorderemo. Senza la pretesa di entrare nella grande letteratura, ma con l’ambizione di piacere a molti.
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PERDERE L'AMORE (e non solo)
Quattro monologhi, ambientati a Budapest, Roma e New York, secondo un itinerario simile a quello dello stesso autore.
Quattrocentotrenta pagine, non tutte indispensabili, tre diverse stesure tra il 1941 e il 1980, un torrente impetuoso di parole, una cascata di osservazioni suggestive e di frasi da ricordare. A proposito di cosa?
Ecco, questo è il punto. Ho l’impressione che il buon Marai abbia gradualmente cambiato discorso, e che ci sia stata una svolta piuttosto netta tra i primi due monologhi (quelli dell’edizione 1941) e i successivi due.
Nel primo monologo, in un’elegante pasticceria di Budapest una signora della buona borghesia ungherese racconta ad un’amica la storia del fallimento del suo matrimonio. Si parte proprio così, tipo “posta del cuore”, tra una soffiatina di naso, un po’ di cipria, una tazzina di tè e un gelato, “sai cara” e “prego cara”.
Scorrono le pagine e ci si addentra nei meandri dell’amore,dei dubbi, delle illusioni, della lotta e della sconfitta, con considerazioni non banali sull’animo umano. Tutto interessante, ma si capisce che non si può andare avanti quattrocento pagine in questo modo.
E infatti, a pagina 61 irrompe il nastro viola, che ci introduce un personaggio che difficilmente dimenticheremo: Judit. Con lei entrano con scena altri temi cari a Marai: l’attesa, la feroce determinazione, disciplina, rinuncia, dissimulazione e autocontrollo che richiede ogni paziente, tenace e lunga attesa, e poi la forza che c’è nel sangue e nei muscoli, nella fibra di chi “vuole tutto” e che riempie di tragica grandezza ogni gesto, ogni parola, ogni attimo della sua vita.
Assistiamo ad una lotta, ma fino a qui sembra che il terreno di scontro sia soltanto sentimentale. “Da qualche parte vive sempre la donna giusta ”dice l’anziana suocera che ha imparato a muoversi e a vedere nel buio del silenzio e della rassegnazione. Ma il primo monologo si chiude con una riflessione diversa: la persona giusta non esiste, in qualche modo amiamo sempre la persona sbagliata, eppure non possiamo smettere di amare.
Cambio di scena, passano gli anni e Peter, l ’uomo conteso da due donne, racconta la sua versione dei fatti ad un amico in un bar di Budapest: un monologo lungo parecchie bottiglie di vino. Il panorama si allarga, l’atrofia sentimentale si accompagna alla solitudine, al malessere esistenziale e alla decadenza di quella buona borghesia che, fiaccata dal benessere e dalla propria stessa cultura, sarà travolta e fagocitata dalle forze nuove del ventesimo secolo. Se il sottotitolo del primo monologo potrebbe essere: “la verità, vi prego sull’amore”, in questa seconda parte potremmo fare il pieno di citazioni intelligenti e vissute sull’essere umano e sul suo destino terreno. E Judit Aldozo in questo quadro dove i deboli soccombono e i forti si prendono tutto, la bambina cresciuta in una buca sotterranea infestata dai topi, la tigre che si muove flessuosa e sorniona nella “giungla piena di impetuose cascate quale è la parte più vera della vita” assume i connotati di una invincibile dea della catastrofe.
Nel 1941 la guerra arriva anche in Ungheria e proprio in quell’anno “Az igazi” (quello giusto, senza distinzione tra genere femminile o maschile) viene dato alle stampe, composto soltanto dai primi due monologhi. La prima versione del romanzo ci consegna una Judit smarrita da quanto possano essere vuote, amare e inappaganti le vittorie a lungo cercate, ostinatamente perseguite. Alla fine esce di scena con “lo stesso sguardo silenzioso, interrogativo e distaccato di quando l’avevo vista la prima volta, nell’ingresso”.
Il terzo monologo è quello scritto nel 1949, dopo la guerra, le distruzioni, i saccheggi, le vendette, l’ordine nuovo, che in Ungheria significò la “democrazia del popolo”, le purghe, le cospirazioni, i tradimenti, le fughe, gli espatri, tutti contro tutti e si salvi chi può.
Questa volta tocca a Judit parlare. E non racconta soltanto di una vittoria vana, di un sacrificio inutile. E’ una Judit invecchiata, sconfitta, che ha perso tutto e che in un alberghetto di Roma, tra le braccia di uomo più giovane, sfoglia malinconicamente le pagine della propria vita. L’orizzonte si allarga ancora. La prospettiva diventa meno intima, più collettiva. Poveri contro ricchi, borghesi contro proletari. L’odio sociale, il desiderio di rivalsa, la fame, la cattiveria, l’assenza di pietà come armi per la sopravvivenza in un mondo allo sbando dove contano soltanto la forza e l’astuzia, essere sani e vigorosi, non intossicati dalla cultura e rammolliti dagli agi e dalle buone maniere. Insomma Judith Aldozo non aggiunge solo una terza versione dei fatti: è soprattutto la prima a parlare a guerra finita, in un mondo nuovo.
Questo spostamento di attenzione dall’intimo al sociale è testimoniato anche dalla parabola compiuta dallo scrittore Lazar, l’intellettuale, l’amico di Peter. Personaggio inquietante ed enigmatico, con sensibilità e intelligenza fuori dal comune, nei primi due monologhi Lazar è colui che ha lo sguardo capace di penetrare nel cuore di Peter, di Judit, di tutti, e capisce prima degli altri. Sebbene qualche volta si abbia il dubbio che parli sul serio, per la sua stravaganza e la tendenza a prendersi gioco degli altri, è un uomo che ancora crede nella propria missione, quella di custode del vecchio ordine, contro le pulsioni autodistruttive della stessa borghesia.
Nel racconto di Judit,conosciamo invece un Lazar molto diverso, più scoperto, senza maschera, un uomo che vuole “prendere le distanze dal mondo … da tutto ciò che conta per il genere umano”, che considera la parola come veleno e che legge soltanto vocabolari, perché è ormai convinto che la cultura, come le olive farcite al pomodoro, è destinata a scomparire. “E’ possibile che anche in futuro da qualche parte si venderanno olive ripiene al pomodoro. Ma sarà ormai estinto quel genere di persone che avevano coscienza di una cultura. La gente avrà soltanto delle conoscenze, e non è la stessa cosa. La cultura è esperienza, mia cara signora, un’esperienza continua, costante, come la luce del sole. La conoscenza è solo un accessorio. Ecco perché sono lieto che almeno lei abbia fatto in tempo ad assaggiare le olive.” E ancora: “Nel mondo prossimo venturo chi è bello sarà guardato con sospetto. Come pure chi ha talento. E carattere. Non lo capisce? La bellezza sarà considerata un affronto. Il talento una forma di provocazione. E il carattere un attentato!”
E infine, il quarto monologo, pubblicato soltanto nel 1980. Nel bar di New York dove ha trovato lavoro, l’amante di Judit racconta ad un connazionale i tempi duri dell’Ungheria dei gruppi di produzione, dei ministri che studiavano a Mosca, della polizia politica, dei tribunali speciali.
Il nuovo mondo si è ormai affermato e “lo sporco proletario” può permettersi il lusso di accompagnare a casa “il signor dottore” con la sua bella macchina nuova. E bearsi anche della casa, della tivvù e persino della cesoia elettrica per tagliare l’erba, che non si usa, perché non c’è il giardino, ma si tiene nella veranda, per lo status.
Judit invece aveva capito e imparato bene la lezione: “ho la brutta sensazione che non sarà come dicono … Alla fine, a quegli altri rimarrà sempre qualcosa che non vogliono mollare. E che non gli si può levare con la violenza … Non lo si ottiene nemmeno dopo anni e anni passati a scaldare il banco all’università … Proprio non capisco. Ma ho il sospetto che ci sia ancora qualcosa che i signori non ci vogliono dare …”
Sarà forse quella capacità di sorridere, qualunque cosa accada. Quel sorriso, che i ricchi probabilmente imparano “in una specie di università segreta” probabilmente può spiegare perché le vittorie di chi è cresciuto in una buca in mezzo ai topi sono sempre effimere, mentre chi porta la camicia da tre generazioni riesce sempre, inspiegabilmente, a conservare “aplomb” e distacco (e odore di fieno!) anche percorrendo un ponte tra gli sfollati o scomparendo a New York oltre la Centesima strada, “là dove comincia la terra dei mori…” Rispetto alla pasticceria di Budepest in cui il romanzo si apre, tanta strada.
La scelta di sviluppare la storia attraverso quattro monologhi indubbiamente l’arricchisce di significati, di sfumature, di dettagli diversi, che per essere colti pienamente richiedono almeno una seconda lettura.
L’osservazione da quattro punti di vista diversi è molto interessante, ma in questo modo si tende frequentemente a descrivere e spiegare ciò che con altra tecnica narrativa si sarebbe mostrato e raccontato direttamente. Insomma non è romanzo particolarmente adatto a chi ama i libri cosiddetti “scorrevoli”: la struttura dei monologhi, la lunghezza, la ripetitività, il continuo gioco di specchi, lo caratterizzano invece come romanzo piuttosto barocco e tortuoso.
E davvero ci sono preziosismi che si scoprono solamente con un’ottima memoria oppure con una seconda lettura. Ad esempio all’inizio del monologo di Peter e alla fine di quello di Judit (a duecentosessanta pagine di distanza) si trova la medesima osservazione sulla cultura, che al tempo degli antichi greci coinvolgeva gioiosamente tutto il popolo, persino i vasai, espressa con parole soltanto leggermente diverse. L’apparentemente forte Judit non sa che in fondo è stata plasmata un po’ anche dall’apparentemente debole Peter.
“Le Braci” mi aveva stregato immediatamente per la tensione narrativa, per la capacità di incatenare il lettore e costringerlo a stare chinato in avanti, col fiato sospeso e l’orecchio teso, attento a non farsi sfuggire una sillaba di quello splendido soliloquio notturno.
“La donna giusta” ti scava invece lentamente, goccia a goccia, in modo ammaliante e a tratti soporifero. Però probabilmente, anche se è ancora presto per dirlo, è destinato a rimanere più in profondità.
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Reportage di anime
“Reportage di anime”. Il titolo non è mio: così sono stati definiti alcuni scritti di Anna Maria Ortese, in particolare i bellissimi articoli scritti nel 1954 per L'Europeo dalla Russia, articoli che alimentarono tante polemiche, con la Ortese accusata di essere allo stesso tempo troppo severa e troppo indulgente verso la Russia di Stalin, e che segnarono un progressivo distacco della scrittrice dal Partito Comunista Italiano e dalle donne militanti ("tornai dalla Russia con dei dubbi sulla natura femminile, da allora le donne mi sono piaciute di meno”)
Silenzio a Milano, raccolta di articoli e racconti scritti alla fine degli anni ’50 è davvero un "reportage di anime". Che si parli della Stazione Centrale, vista come porta di comunicazione con le moderne divinità della produttività e della laboriosità alienante, tempio in cui si celebrano rinnovati sacrifici umani in omaggio al Vuoto, al Brutto e all’Inutile, o dei ragazzi disadattati di Arese, malinconici prigionieri dell’attesa di un focolare domestico che da tempo li ha esclusi, la sostanza non cambia.
Documentandomi un po’ sull’autrice, anche sulle opere che non conosco, ho appreso che il silenzio riveste una particolare importanza per la sua poetica, a cominciare dalla poesia d’esordio “Manuele” scritta per il fratello marinaio, morto al largo della Martinica.
In Silenzio a Milano ci sono sette articoli e racconti e almeno altrettanti tipi di silenzio. In “Una notte alla stazione” c’è il silenzio che scende su i luoghi della produttività meneghina e come la nebbia li avvolge, dopo che la città ha consumato il suo quotidiano pasto di vite umane. “I ragazzi di Arese” ci parla del silenzio di chi non ha voce per farsi sentire, o di chi può solo urlare il proprio dolore dietro una spessa barriera di vetro. “Locali notturni” evoca il silenzio che ci sorprende a festa finita, quando gli orchestrali se ne vanno, la malinconia di tutti i giorni resta e misuriamo quanto effimero sia ogni tentativo di evasione. “Le piramidi di Milano” rivelano il silenzio di morte che abita lo spazio riservato a conservare l’ordine e il rispetto della Legge. Con “La città è venduta” partecipiamo al silenzio di chi non sa rispondere a domande che sarebbe meglio evitare, fuggire, dimenticare. Con “Il disoccupato” scopriamo il silenzio cupo e ostinato dell’efficienza che respinge coloro che non si adeguano e non si adattano ad essere trasformati in “cose”, senza occhi per guardare e cuore per vivere (eppure il milanese Berto, così innocentemente fiero delle vendite di elettrodomestici e il calabrese Antonio, inebetito dalla sua incapacità di integrarsi, rappresentano due modi diversi di essere disgraziati, uniti già dal loro primo incontro in sanatorio). E infine “Lo sgombero” ci mostra il silenzio di chi scopre con sgomento che il mondo non sa cosa farsene dei valori e delle qualità umane, anzi, sono proprio i sani principi e i buoni valori che rendono inadeguati e inadatti a vivere.
La Ortese ha un radar speciale per cogliere frammenti di varia umanità nascosti in un gesto, uno sguardo, una pausa, un’increspatura della voce o nelle rughe che attraversano un volto. Poi ricompone tutti i frammenti per ottenere storie vive, reali o di fantasia, ma sempre autentiche.
Quando scrive come giornalista, illuminante a questo riguardo il pezzo sulla Stazione Centrale, “porta del lavoro, ponte delle necessità, estuario del sangue semplice”, la Ortese ci offre uno spicchio di realtà parziale e personalissimo, su cui si può anche dissentire nel merito, senza che questo impedisca di rimanere incantati dall’efficacia e dalla bellezza della sua rappresentazione.
In un primo tempo si può dubitare che sacrifichi la verità in omaggio alla bellezza, ma poi ci si convince che ciò che scrive è autentico (che è già una buona approssimazione al vero) in quanto intrinsecamente bello.
Le ideologie, gli stereotipi, i freddi numeri che possono essere usati per dire tutto e il contrario di tutto, si sbriciolano davanti alla stupefacente capacità della Ortese di cogliere l’essenziale che, se non proprio invisibile agli occhi come sosteneva Antoine Saint Exupery, certamente non si lascia facilmente catturare da microfoni, telecamere e registratori.
L’espressione “reportage di anime” mi sembra molto calzante per Silenzio a Milano proprio perché rende un l’idea di ciò che distingue questi scritti da un’atmosfera che altrimenti sembrerebbe di stampo “neorealista”. La Ortese va invece molto oltre la rappresentazione di un contesto sociale e dei tipi umani che lo caratterizzano.
L’impressione è che la sua forza stia soprattutto nella curiosità e nell’empatia con l’essere umano e nella sincerità dello sguardo con cui cerca di comprenderlo, indipendentemente dalla posizione sociale, dal ruolo professionale, dalla lingua, dalla latitudine, dalla cultura.
Per dirla con Quasimodo:
“Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di Sole:
ed è subito sera”
E per raccontare i tanti modi di vivere questa solitudine e questa brevità, la Ortese usa sia la cronaca giornalistica, (nella quale a ben vedere non ci parla veramente di Napoli o di Milano, della Russia o dell’Italia, ma sempre e soltanto di quella solitudine e di quella brevità) sia il racconto.
Anni dopo, nelle opere successive, introdurrà anche l’elemento fantastico, tanto da far parlare qualche critico di “realismo magico”, ma questo è un nuovo capitolo che anch’io devo ancora iniziare.
Voglio infine riportare qui una citazione che per la sua lunghezza non ho potuto riportare nello spazio delle "Frasi più belle". E' uno dei passaggi conclusivi dell'ultimo racconto (Lo sgombero) e dunque si tratta probabilmente di un'ideale chiusura di tutta la raccolta. Acoltate:
"E mentre seppe questa cosa, che il rispetto era la cosa più grande che si poteva offrire agli uomini, seppe anche che lui e Masa e tutti gli uomini e le donne come lui e Masa, erano uomini e donne senza peso, senza patria, senza valore, perché conoscevano il rispetto. Erano perduti perché non volevano combattere contro l’uomo, in un mondo dove i più alti monumenti erano fatti con le ossa e il sangue degli uomini, e anche i vestiti erano fatti con la pelle dell’uomo, e anche i piatti più delicati erano preparati con qualcosa ch’era sottratta alla dignità dell’uomo. E le parole stesse, le grandi parole di pietà, di coraggio, di amore, quelle parole che andavano verso l’uomo come una luce, come un fiotto di musica e gioia, nascondevano la debolezza e la cupidigia di chi le pronunciava, l’abitudine alla menzogna, al compromesso, alla rapina".
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Immagini e parole
Gabriel Garcia Marquez raccontava che la fonte di ispirazione dalla quale prendevano l’avvio i suoi romanzi era sempre un’immagine. Non questo o quel personaggio, o avvenimento, o luogo, ma un’immagine.
Nel “Viaggio di Emilia” di Anna Maria Balzano ci sono alcune immagini che hanno la forza di sostenere lo sviluppo di una storia e la caratterizzazione di alcuni personaggi.
Due su tutte: la giovane mamma con il suo bambino al collo che fugge dalla potenza distruttiva dell’acqua, o i due occhi bambini che nascosti nel buio vedono “il corpo della mamma riverso su uno dei tavoli e quello d’un uomo alto e robusto sopra di lei”.
Sono immagini che hanno tutte le potenzialità di agire da motore di una storia, ma nel caso di Anna Maria il tono, lo slancio e forse l’ispirazione per il racconto proviene da un’immagine più tenue, velata di polvere e di nostalgia, e cioè la foto di “un bel palazzetto a due piani dei primi del novecento, i suoi balconcini con le balaustre di marmo, le persiane di legno a battente verniciate di verde, il portoncino centrale rialzato su due ampi gradini di pietra, che si apriva su un vasto atrio che si intravedeva appena.”
E’ questa la stazione di partenza del viaggio di Emilia, nella Napoli del secondo dopoguerra, e come sempre capita all’inizio di un viaggio, c’è attesa, eccitazione, tenerezza, curiosità e sogno. Stazione dopo stazione, tappa dopo tappa, un po’ di quell’innocenza andrà perduta, perché il viaggio ti mette sempre di fronte agli imprevisti, alle difficoltà, alle deviazioni di percorso. Ma sono proprio queste che danno al viaggio il suo sapere autentico, personale e inconfondibile e che ci creano quella piccola bolla nello stomaco quando ci voltiamo e lo osserviamo da lontano.
Dopo aver letto due romanzi di Anna Maria, mi sento di dire che la sua scrittura è molto delicata, essenziale, niente più del necessario e tuttavia niente affatto piatta e scontata. Un po’ come la vita, che a volte ci mette davanti a prove drammatiche, che possono però essere raccontate con semplicità.
Inevitabile il confronto tra “Il viaggio di Emilia” e “La voliera dei pappagalli”, che ho letto a breve distanza l’uno dall’altro. Per me sono due opere di pari valore dal punto di vista di contenuto, stile e piacevolezza, per rimanere nei parametri che siamo invitati ad usare per le nostre valutazioni su Qlibri. Nel Viaggio, Emilia è non solo la protagonista, ma anche il sostanziale io narrante, nonostante l’utilizzo della terza persona. La Voliera invece è un romanzo più corale e con maggiore distacco nella narrazione. Entrambi possono essere letti anche come romanzi di formazione, uno a più voci, l’altro con un grande solista.
Personalmente darei la mia preferenza alla Voliera, ma soltanto perché nella lettura del Viaggio qualche volta mi sono sentito un po’ come un intruso sorpreso a frugare nei ricordi di un’altra persona.
Pur essendo una storia frutto di fantasia (l’ho appreso dalle stesse risposte di Anna Maria su Qlibri) nel Viaggio si avverte quasi quella richiesta di intima complicità che è alla base di ogni confidenza privata. Ovviamente i gusti sono personali e dunque proprio questo elemento per altri lettori (o forse lettrici) può essere motivo di interesse e di apprezzamento ancora maggiore.
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L’insostenibile forza della normalità
Ho letto anch’io La voliera dei pappagalli di Anna Maria Balzano, che è tornato recentemente disponibile.
Arrivo con ritardo e molto è già stato scritto nei commenti degli altri lettori, ma voglio fare lo stesso i miei complimenti ad Anna Maria e riportare qualche mia impressione.
Comincio col dire che il romanzo mi è piaciuto molto, alla fine ti lascia uno stato d’animo positivo e racconta con grande delicatezza fatti e vicende che invece si collocano tra il drammatico e il tragico.
Condivido ciò che è stato scritto nella Prefazione, a proposito dello stile essenziale che Anna Maria ha utilizzato e della sua “precisione chirurgica” nel delineare i personaggi e nel costruire un interessante intreccio senza fronzoli e divagazioni.
Con pochi tratti veloci Anna Maria è riuscita a rievocare alcuni efficaci archetipi che tutti possiamo diversamente riconoscere nel nostro vissuto quotidiano o in letteratura. Ad esempio le pagine sul carcere, molto belle ed efficaci, richiamano interi mondi letterari e cinematografici, a cominciare dal film di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio”. Invece le vicende dolorose di alcuni personaggi femminili mi hanno riportato alla memoria le sofferenze raccontate da Simone De Beauvoir in “Una donna spezzata”.
Soprattutto, questo romanzo riesce a non farci mai perdere l’interesse per le sue pagine, perché parla in fondo di personaggi “normali” le cui tracce e somiglianze non sono difficili da trovare tra le nostre esperienze personali e conoscenze, e comunque ne sono piene le cronache.
Semmai colpisce la sobrietà con cui ognuno vive la propria personale vicenda, o forse si tratta, nuovamente, di sobrietà del raccontare. Mi chiedo, ad esempio, se trovandomi al posto di Umberto avrei reagito con la sua stessa compostezza, e lo stesso dicasi per altre crisi esistenziali e relazionali che vengono descritte. Abbiamo tutti esperienza di quanto possono essere persino violenti i tormenti adolescenziali, per non notare invece la maturità con cui Matilde affronta un momento topico per la propria esistenza, che avrebbe potuto avere approdi completamente diversi.
Ma è proprio questo il nocciolo della questione, e qui sta anche, credo, il significato del bel titolo che è stato scelto per il romanzo.
La bella sensazione che rimane in tutti noi, voltata l’ultima pagina, è dovuta anche al fatto di vedere che le persone più fragili (come Maria e Gustavo) o le persone che finalmente hanno modo di scoprire la propria vulnerabilità (come, in modi diversi, Umberto, Giovanna, Matilde) si ritrovano fortificati dalle proprie cadute.
Scopriamo anche che si può decidere di non uscire dalla “gabbia” in cui ci si trova a vivere, soprattutto quando si è finalmente capito quali erano le vere sbarre che ci tenevano prigionieri. E questo ci piace e ci rassicura, senza bisogno di credere nelle fiabe, perché la vita è bella così, senza troppo zucchero e con qualche boccone amaro ogni tanto.
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Dire senza parlare
Avvertenza per l’uso, soprattutto a beneficio degli amanti del mare, che vedo già pronti a “tuffarsi” in pagine piene di profumo di salsedine e dolce sciabordio delle onde: il mare di cui si parla in questo libro (non un romanzo, ma un racconto di una quarantina di pagine) è soltanto metaforico.
Come sotto la superficie silenziosa e apparentemente quieta del mare, innumerevoli esseri viventi lottano tra di loro, così nel silenzio impenetrabile che avvolge tre persone costrette a coabitare sotto lo stesso tetto nella Francia occupata dai nazisti, si agitano e pulsano svariate emozioni, inquietudini, attrazioni e costrizioni.
1940 - In una cittadina francese un uomo e la sua giovane nipote sono costretti ad ospitare il giovane ufficiale tedesco Werner von Ebrennac. In quanto nemico, decidono di non rivolgergli mai la parola, nonostante egli sia un uomo gentile, colto e sensibile, e si comportano come se non esistesse. I tre personaggi avrebbero tutto per piacersi: lo stesso amore per la musica, la stessa delicatezza d'animo e, nel caso dei due giovani, un reciproco magnetismo, un'attrazione tanto forte quanto disperatamente soffocata.
Su tutto s'impone il risentimento per la libertà violata, la dignitosa e intransigente ribellione a ogni forma di oppressione, la volontà di non concedere nulla al nemico, quand'anche si presentasse con i tratti amichevoli e garbati del giovane von Ebrennac.
"Io non posso offendere un uomo senza soffrire, si tratti pure anche del mio nemico" dice lo zio.
Empatia, stima, ammirazione, passione amorosa, filtrano attraverso la glaciale indifferenza dei due francesi e i lunghi appassionati monologhi del tedesco. Alla fine del racconto non sapremo nulla dei due patrioti, nemmeno i loro nomi, mentre sapremo moltissimo dell'ufficiale: musicista e compositore, figlio di un socialista europeista (e dalle origini francesi, come rivela il cognome), cresciuto con il culto per la musica tedesca e per la letteratura francese, studi a Monaco, Norimberga, Stoccarda e Salisburgo, viaggi a Londra, Vienna, Roma e Varsavia. Tutto ciò non è sufficiente a vincere l’irremovibile rifiuto per l’occupazione che la sua presenza nella casa rappresenta.
Il vero protagonista del racconto è il silenzio, nel quale apparentemente non succede nulla e dove si dicono invece molte cose. E il silenzio, semplice e tuttavia carico di significati, ci accompagna anche nella scena finale, facendoci capire che si tratta di silenzio che continuerà a parlare.
Pare che quando il libro uscì in Germania, al’autore ricevette molte lettere di protesta in merito al carattere dell'ufficiale, che i lettori tedeschi giudicavano inverosimilmente troppo delicato.
Il racconto fu scritto nel 1942 dal disegnatore satirico Jean Bruller, che si nascose sotto lo pseudonimo di Vercors. De Gaulle lo fece tradurre su un volantino, per paracadutarlo in Inghilterra, come per sottolineare il patriottismo di cui erano capaci i suoi connazionali. In seguito fu diffuso in tutto il mondo. In Italia fu tradotto da Natalia Ginzburg.
A tre settimane dalle elezioni per il Parlamento Europeo, una lettura che ci ricorda non solo il periodo in cui gli europei ancora si facevano la guerra, ma anche la superiore dignità (vorrei dire anche “moralità”) di tanta gente comune rispetto a coloro che guidavano i loro destini.
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Impossibile è non provarci
Non è facile commentare un saggio scritto da un autore che si stima, per il quale si nutre rispetto e ammirazione, ma del cui contenuto non si condivide quasi nulla.
L’educazione (im)possibile di Vittorino Andreoli è un libro che mi ha messo molto a disagio, che ho letto con grande curiosità, sperando pagina dopo pagina di trovare la svolta che attendevo, e faticando sempre di più ad arrivare alla fine nonostante la qualità delle riflessioni dell’autore e il grande interesse dei temi trattati.
Perché ho fatto così fatica? Perché ho provato disagio?
Per due terzi il libro è un lungo elenco di riflessioni amare, di critiche al passato e al presente, strali acuminati che non lasciano speranze, come quei pensieri che tutti, genitori e non, a partire da una certa età lasciamo che ci attraversino la mente e il cuore (forse rappresentano la coperta di Linus di ex ragazzi che hanno ormai trascorso troppi anni nella fortezza Bastiani, mentre il mondo nel frattempo è andato avanti). L’ultima parte invece ripone le speranze di successo di ogni serio tentativo di educazione in un’utopica società nuova, nella quale possa fiorire un nuovo umanesimo, non più ciecamente fiducioso nelle qualità dell’uomo, ma vaccinato dalla crisi del Novecento e reso forte dalla consapevolezza dell’umanità fragilità.
Per chi è padre, o madre, è un discorso sconfortante. A costo di banalizzarlo (ma dobbiamo banalizzare un po’ le cose per riportarle sulla terra) significa questo: cari genitori, voi siete stati educati in un modo tremendo, con un sistema di regole buono soprattutto per generare una moltitudine di tranquilli e innocui cittadini sottomessi al potere. Oggi state assistendo impotenti allo sgretolarsi delle istituzioni (a cominciare dalla famiglia e dalla scuola) che vi davano un’illusoria sensazione di sicurezza. Soprattutto, le (giuste) critiche all’autoritarismo del passato hanno provocato una vittima certa: il padre, che non ha più un suo ruolo in famiglia ed è diventato inutile, tanto da poter definire la nostra società come una società senza padri. Ma poiché ogni vuoto è destinato ad essere riempito, sempre più forte sta emergendo il nuovo indiscusso capofamiglia, ovvero il dio denaro che è impiegato prevalentemente in spese inutili, caratterizzando la nostra società (oltre che per l’assenza del padre) anche come società dell’inutile.
Abbiamo qualche speranza? No, così come stanno le cose non ce l’abbiamo: manca nei giovani (e non solo) qualsiasi percezione del futuro, senza la quale non ha senso parlare di educazione. In qualsiasi ambito (famiglia, scuola, relazioni, sesso, consumi, politica) si vive per soddisfare i bisogni primari del momento, senza fare progetti, senza capacità di attesa, senza fantasia, senza sogni.
E dunque? Dunque non resta che sperare in un altro mondo, magari in un’altra vita…
Scherzi a parte, il problema è proprio qui: Andreoli vede nella crisi attuale un’occasione di rifondazione della società che permetta di uscire dalle logiche economiciste che oggi imperversano per riscoprire gli autentici valori dell’ascolto, del silenzio, dell’esperienza, del tempo delle relazioni, dell’affettività.
Non approfondisco ognuno dei punti per non dilungarmi troppo, ma ognuno di essi è trattato con un tale impeto visionario e utopico da gettarmi nello sconforto ancora più dell’impietosa analisi effettuata su presente e passato. Perché se l’analisi del presente è corretta, non si capisce su quali presupposti possano trovarsi le energie necessarie per questa nuova società.
Soprattutto avverto un profondo e istintivo rifiuto verso un’idea che percorre tutto il saggio, qualche volta in modo esplicito, altre volte semplicemente rimanendo nell’aria come nota dominante. E’ l’idea che in fondo tutto si determini nel collettivo, nel plurale e non nel privato. Perché il problema è quello: in attesa di questa rigenerata società del futuro (che di per sé, anche se tratteggiata da una persona mite e pacifica come Andreoli, evoca qualche inquietante fantasma del passato) che facciamo? Cosa ci raccontiamo? Come viviamo la realtà di tutti i giorni?
Nessun padre o madre di famiglia affiderebbe mai nemmeno l’infima parte del destino, della felicità o della salute dei propri figli alla speranza di un’incerta e poco probabile catarsi collettiva.
Un conto è la giusta critica all’Io straripante che produce invidia, bramosia, conflitto, frustrazione. Ma ben diverso è lasciar intendere che, senza una società nuova, ogni personale tentativo di trovare un proprio soddisfacente equilibrio rischia di rivelarsi vano.
Il capitolo che mi è piaciuto di più di tutto il libro è quello intitolato “Relazione e educazione”. E’ quello dove Andreoli, attingendo anche alla sua esperienza di psichiatra e terapeuta, parla della paura. Tutta la storia dell’uomo, le sue relazioni, i suoi stati d’animo, i suoi desideri, le sue passioni più profonde ruotano attorno al tema della paura. Anche il male e la violenza affondano le loro radici nella paura.
Dice Andreoli: “Non ho alcun dubbio che la relazione sia un meccanismo inventato per allontanare la paura. La relazione è il punto di partenza per stabilire un legame, e il legame può raggiungere la qualità del sentimento, che ha la capacità di far avvertire la presenza dell’altro anche quando si è soli”.
Ecco, proprio basandomi su queste belle parole, che condivido, mi permetto di criticare le conclusioni a cui Andreoli arriva. Perché non c’è genitore al mondo (anche se non colto e intelligente come chi scrive libri e studia gli uomini e la società) che non voglia almeno provare a stabilire con i propri figli quel legame.
Il bisogno di vincere la nostra paura, e di dare ai nostri figli un appiglio contro la paura, non ci farà mai riporre tutte le nostre speranze in un ipotetico processo di rinnovamento della società.
Qualcosa faremo sempre, magari sbagliando tutto, seguendo l’istinto e l’ispirazione del momento.
Perché, come scriveva Sandro Pertini a sua mamma dopo il carcere, il confino, la malattia: “nella vita occorre talvolta saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza”.
Indicazioni utili
- sì
- no
Se avete voglia di piangervi un po' addosso, le prime due parti fanno per voi.
Se insegnate, qua e là ce n'è anche per voi.
Se pensate che siamo ormai alla frutta, e che faremo tesoro di questi anni difficili per costruire la società di domani, fiondatevi sulla terza parte.
Salvate il "soldato" Mastrocola
Non so Niente di te è un romanzo che ho letto appena è stato pubblicato, giusto un anno fa.
Perchè mi viene voglia di recensirlo adesso? Per due motivi.
Ho iniziato a leggere l'ultimo saggio di Vittorino Andreoli sul tema dell'educazione, dei genitori, dei figli. E il bello della lettura è che un libro finisce sempre per rimandarti ad altri libri.
Però, la spinta decisiva arriva da un'altra cosa. E' che ho letto le recensioni finora pubblicate su Qlibri e due su tre le ho trovate molto ingenerose. Quindi sono animato un po' dal "sacro fuoco" se non di ristabilir giustizia (che le opinioni sono sempre opinioni, opinabilissime appunto) almeno di tentare di bilanciare con qualche lode le critiche finora espresse. Sono anche io un po' di parte perchè confesso che la Mastrocola è autrice che mi piace assai. Più lontana della luna e La narice del coniglio li ho trovati godibilissimi. E ho trovato molto interessante anche il pamphlet di tre-quattro anni fa "Togliamo il disturbo", una specie di provocazione, ma non troppo, sul senso dello studio e della scuola nella società di oggi.
E parliamone allora, di questo suo ultimo romanzo.
Qualche volta succede che la vita, a partire da un certo punto, cambi traiettoria. La linea si spezza e continua in un'altra direzione.
Basta un dettaglio, un capriccio del destino, una leggera increspatura nel fluire normale degli eventi per far sì che una vita intera segua un percorso inaspettato e imprevedibile.
E' il tema di film come Pane e Tulipani o come Sliding Doors.
Ma è veramente così? Non sarà che queste svolte covano, come fuoco sotto la cenere, per molto tempo e poi per alcuni divampano in un incendio e per altri rimangono per sempre soffocate fino a smorzarsi?
A partire dal tema principale del rapporto genitori-figli, "Non so niente di te" parla anche della capacità e del coraggio che soltanto alcuni hanno di scendere da un treno, rallentare, fermarsi, spostarsi, per riprendersi la propria vita. I più preferiscono continuare a fare i "topi da corsa", i "racing rats" piuttosto che seguire le proprie inclinazioni.
E perchè i genitori fanno di tutto per regalare una bella ruota da criceto ai loro figli, in modo da non avere sorprese, pensando di fare il loro bene?
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In fondo l'invito che che Paola Mastrocola ci fa continuamente nei suoi libri è quello di esserre curiosi della vita, seguirla, abbandonarsi al suo corso come la protagonista di Più lontana della luna che partendo da una poesia provenzale letta su un'encicpledia cavalcherà da Torino alla Toscana, incontrerà l'amore e professioni varie per poi approdare a quella natuale inclinazione che stava lì dentro di lei, nascosta da sempre, e che solo al termine di un lungo viaggio dentro se stessa può finalmente sgorgare allo scoperto.
Una caratteristica di questa scrittrice è che inserisce sempre un elemento surreale nei suoi romanzi. Come ha spiegato nella presentazione di Non so niente di te che ho seguito al Salone del libro di Torino (spalleggiata da un incontebile Massimo Gramellini), l'elemento surreale le serve per rendere ancora più "vera" la realtà. E poi, sostiene lei, non dimentichiamci che la moderna letteratura parte da un cavallo alato. In questo caso l'elemento surreale è dato dall'invasione di pecore in un college di Oxford, con cui si apre il romanzo (lei sostiene comunque di aver verificato sul campo che ciò è tecnicamente posibile, dunque siamo sempre nel campo del certamente del surreale, ma anche del verosimile, cioè del simile al vero).
In quell'occasione Paola Mastrocola ha anche spiegato come le era nata questa idea. Ha detto:
" Tutta colpa del fatto che non so l'inglese". Ha infatti raccontato di una sua esperienza di relatrice ad un convegno all'Università Bocconi. Relatori internazionali, inglese come lingua prevalente.
Bene, lei ad un cerrto punto di accorge di essere l'unica a utilizzare le cuffie per la traduzione simultanea e questo l'ha fatta sentire un po' a disagio, le sembrava di essere un pastore appena sceso dali pescoli in quel consesso di azzimati professori.
Insomma, anche l'aneddoto dovrebbe testimoniare che Paola Mastrocola è una persona di spirito, autoironica, per nulla pesante, anzi molto piacevole e interessante da seguire quando scrive e quando parla, Non faccio farica a pensare che sia anche un'ottima insegnante.
PS
Sentite, non fate troppo caso ai miei voti: non sono capace di darli. metto 5 perchè il libro è bello per contenuti, stile, piacevolezza. Tolstoj è un'altra cosa ma non mi va di soppesare tutto. E poi i miei predecssori sono stati veramente un po' braccini corti, quindi un po' di generosità in più non guasta. :-)
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Gli invisibili d'Africa
Per parlare di Ombra Bianca, di Cristiano Gentili, devo iniziare un po’ da lontano.
Non ho mai considerato la lettura come un semplice passatempo, una distrazione, un’evasione (anche se alla base ci deve essere sempre il piacere di leggere, altrimenti non lo faremmo) .
Nemmeno mi interessa diventare più sapiente, più colto, più intelligente.
Probabilmente il vero motivo per cui leggo è perché credo che questo mi cambi la vita.
Leggere i classici ti mette a confronto con le leggi, le pulsioni e i sommovimenti che da sempre abitano il cuore umano. Leggere autori contemporanei ti mette in comunicazione con chi abita il tuo tempo avendo punti di vista ed esperienze simili ai tuoi oppure diversissimi.
Ma c’è un terzo modo con cui un libro ti può cambiare, almeno un po’. E’ quando esso si fa testimone di fatti storici, episodi di cronaca o realtà sociali che non conoscevi, o di cui avevi sentito parlare superficialmente.
Ombra Bianca appartiene a questa terza categoria di libri. L’ho letto sei mesi fa, dopo essere stato contattato direttamente dall’autore su un social network. Ora sembra che ci sia il progetto di realizzare un audiolibro, tramite un app scaricabile in rete dove ognuno può leggere una frase del libro. Così si avrà un “audiolibro sociale in perenne trasformazione”. Solo i brani letti da alcuni personaggi famosi (tra cui Papa Francesco!) non potranno essere riletti e rimarranno invariati in tutte le versioni dell’audiolibro.
Ombra Bianca è un romanzo, ma purtroppo racconta l’orribile tragedia che ancora stanno vivendo migliaia di uomini, donne e bambini africani. Gli albini d’Africa, pelle bianchissima, occhi chiari, capelli biondi sono oggetto di superstizioni, discriminazioni e spaventose atrocità nei villaggi più remoti dell’Africa.
Nonostante i mass media non ne parlino, l’albinismo è tutt’altro che poco diffuso in Africa. Basti pensare che in Tanzania riguarda un individuo ogni 1.400 contro una media mondiale di uno ogni 20.000.
Gli “zeru zeru” , così sono chiamati gli albini nella lingua swahili, sono considerate “non persone”, la loro vita non vale nulla, ma ogni parte del loro corpo vale decina di migliaia di dollari. Guaritori e stregoni realizzano pozioni magiche nelle quali occhi,orecchi, naso, lingua, arti e genitali degli albini contribuiscono a realizzare l’antidoto a qualche maleficio, il rimedio per qualche disgrazia, la cura per qualche malattia.
Gli albini subiscono l’emarginazione, il ripudio dalle famiglie e dai villaggi. Diventano presto dei reietti, invisibili, preda di cacciatori criminali che li cattureranno per commerciare le loro parti del corpo o consegnarli agli stregoni. Per non parlare degli stupri, visto che congiungersi con una donna albina è considerato un rimedio contro l’Aids.
Ombra Bianca è la storia di Adimu, bambina nata in un villaggio della Tanzania. Appena venuto al mondo, il padre, Sefu, la saluta mentalmente così: “Come ho fatto a procreare un essere simile? Sono stato posseduto da spiriti malvagi mentre mi univo con Juma? O forse quel demonio è frutto del seme di un altro uomo? Deve essere così. Una maledizione scagliata dagli Spiriti del lago in seguito al tradimento della mia seconda moglie. sentenziò Sefu.”
Con la madre Juma non va molto meglio: “Prese la neonata con le due mani e la porse a braccia unite alla levatrice per farla calmare. L’anziana la rifiutò con un cenno del capo. Juma volle tapparle subito la bocca, annientarle la voce e, se gli Spiriti l’avessero desiderato, anche il respiro. In un gesto di stizza le premette al viso l’estremità del panno nel quale era avvolta. Il senso materno fu però più forte di lei e la strappò di prepotenza dalle mani della follia, addomesticandola alla legge della natura. Forzò lo sguardo alla sua destra, avvicinò la figlia al seno sinistro e la sentì succhiare con forza. Con la coda dell’occhio scrutava la creatura attaccata al capezzolo. Vide il contrasto fra la pelle candida della bambina e quella scura della mammella. E’ successo di nuovo, pensò. Ho partorito un figlio morto. Se vive, mio marito mi lascerà”.
Per fortuna, Adimu ha anche una nonna, Nkamba, che ha un ricordo doloroso, una pena che ancora le pesa nel cuore. Nkama trova in Adimu l’occasione per lavare la sua antica colpa e la difenderà con tutte le sue forze. Fin che durano.
Questo l’avvio della storia che Cristiano Gentili ha saputo sviluppare con competenza (Cristiano ha lavorato in Africa come operatore umanitario) e buona tecnica narrativa.
Una storia che ti cattura e ti lascia incredulo e sbigottito come il peggiore degli incubi e che purtroppo per troppe persone è la cruda realtà di ogni giorno.
Una storia nella quale si sente tutto l’influsso di “quel punto della terra dove una biologia esuberante e instancabile lavora, produce, prolifera e fiorisce senza sosta e senza sosta si ammala, si decompone, si tarla e marcisce” (Ryszard Kapuscinski, Ebano)
Da leggere e divulgare, per una buona causa.
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Ma soprattutto lo consiglio a chi legge non per fuggire dal mondo, ma per conoscerlo meglio.
Fuori dal mondo
Un lungo, intenso soliloquio, con parole pronunciate quasi sottovoce, in una notte davanti al fuoco del caminetto. Parole chiare, precise, cristalline, che vanno dritte al bersaglio, che traggono potenza ed energia dalla lunga attesa, che si sono incise nella mente e nel cuore di chi le pronuncia da oltre quarant’anni. Quarantun anni e quarantatre giorni, per la precisione.
Un interlocutore che ha trascorso una vita ai Tropici e si chiama Konrad (del resto, l’unico suo contributo alla conversazione è una suggestiva descrizione del mal d’Oriente, descrizione che sembra tratta dal grande romanziere polacco). E anche il nostro Konrad ha ascendenze polacche ed è perfino lontano parente di Chopin. La musica, la sensibilità, la “diversità”, la fedeltà ai principi o alle proprie passioni, il senso profondo dell’amicizia, l’odio, il tradimento, i diversi tipi di fuga, di silenzio e di allontanamento dal mondo, che poi sono un modo diverso per celebrare la passione che ha dato il senso alla nostra vita.
Sono questi gli ingredienti principali di un romanzo tutto al maschile, un duello preparato meticolosamente, una caccia interrotta quarantun anni prima che riprende sotto altre forme, con lo stesso gusto per i preparativi, lo stesso piacere sensuale nel dirigere l’arma verso la vittima, arricchito e potenziato dalle riflessioni amare di una vita. Due sole figure femminili di rilievo. Una è poco di più di un fantasma, totalmente funzionale alla storia e alla vivisezione dell’anima dei due protagonisti. La seconda sembra una figura allo stesso tempo concreta e magica, fragile e dotata di poteri paranormali: appare e scompare, e segretamente sorveglia, dall’alto dei suoi novantun anni, che i due ragazzi quasi ottuagenari non si strapazzino troppo. Perché ci vuole sempre, nella vita, una presenza saggia che controlli le nostre passioni e ci chieda se ne vale davvero la pena, che ci ricordi che quando il fuoco smetterà di ardere ci troveremo infreddoliti e a disagio, con tutte le medesime domande di senso di prima.
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Un'invettiva "ragionata"
Va bene, questa volta niente “suspense”: l’assassino è svelato fin dall’inizio, a partire da titolo, sottotitolo e copertina. E girate poche pagine c’è anche la sentenza di condanna definitiva: “Nessun bandito della storia ha mai potuto sognarsi di infliggere tanti danni alla collettività quanto ne hanno fatti i banchieri”.
Federico Rampini lancia il sasso, non ritira la mano, anzi punta l’indice e fa nomi e cognomi, con poche sorprese, ma con motivazioni non del tutto scontate.
Dopo l’invettiva troviamo il ragionamento. Sì, perché pagina dopo pagina si scopre che Rampini certamente non ama i banchieri, ma soprattutto li considera il centro nevralgico di un sistema che complessivamente non funziona. Picchia duro, con un pizzico di demagogia, sulla parte più esposta e meno difendibile dell’ingranaggio, ma in capitoli significativamente intitolati “Il lavoro che verrà”, o “In cerca del nuovo” prende a ragionare sul nostro intero sistema di sviluppo.
Se vi sembra che la parola “sistema” rievochi troppo il linguaggio vetero-marxista degli anni settanta, fatevene una ragione perché pare che Karl Marx sia diventato molto “cool” a Wall Street e dintorni. Qualche guru dell’economia del ventunesimo secolo ha sfidato polvere e ragnatele per rileggersi le ottocentesche previsioni sui processi di concentrazione industriale, ovvero pochi grandi “players” che riescono a sopravvivere in ogni settore, o sulla continua corsa al ribasso dei salari dovuta alla riserva crescente di disoccupati e sotto occupati, o sulla crisi di sovrapproduzione provocate dalla compressione del potere d’acquisto dei lavoratori, o sull’eccesso di speculazione finanziaria, responsabile dell’amplificarsi delle diseguaglianze.
La tesi di fondo è che se i banchieri, inclusi i banchieri centrali con compiti di vigilanza, hanno potuto combinare tanti disastri, ciò è avvenuto anche perché da trent’anni ci si sta cullando nell’illusione che i mercati si regolino da soli e che meno si interviene nell’economia, meglio è. Senza scomodare Keynes, gli esempi in controtendenza citati da Rampini sono quello di Henry Ford (che raddoppiò i salari dei suoi operai perché si potessero permettere di comprare le sue auto) di Adriano Olivetti (che era Adriano Olivetti) e dei Paesi Scandinavi nei quali un amministratore delegato può guadagnare fino a 6 volte la retribuzione di un operaio e non fino a 600 volte come negli USA.
Poiché i sapienti e i tecnici brancolano nel buio e non si vedono vie d’uscita, l’unica certezza è che con le crisi, più o meno frequenti, lunghe o profonde, bisogna imparare a convivere. Per questo gli economisti da un anno a questa parte hanno scoperto una parola nuova, prendendola da altre attività umane: è la parola “resilienza”, ovvero la capacità di resistere agli urti senza spezzarsi, di superare un trauma senza abbattersi, di ritrovare l’equilibrio dopo uno shock. L’economia chiede aiuto alla filosofia, per trovare comportamenti più saggi, stili di vita più equilibrati. Cresce la consapevolezza che una parte di “povertà” è in realtà il frutto di bisogni creati artificialmente da un’insana corsa a produrre più del necessario, ad accumulare, consumare e sprecare. Quando per qualche motivo si è costretti a cambiare passo, a rallentare, superato lo smarrimento e la paura iniziali si può scoprire che da lì si può partire alla ricerca della “buona vita” o anche reinventarsi una nuova vita.
E alla trentenne che gli fece una domanda che continuò a frullargli in testa per tutta la notte, Rampini dà tre consigli: ripartire dagli errori e dai fallimenti delle generazioni passate, guardare anche a chi è indietro e non solo a chi sta davanti e confidare che un futuro, anche nei tempi più bui, c’è sempre.
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Anna e i suoi opposti
Il testo contiene spoiler
Se Anna Karenina fosse soltanto la storia di un adulterio finito male, non avrebbe richiesto più di ottocento pagine per essere raccontato, nemmeno nel XIX secolo.
E, nonostante il titolo, è riduttivo considerarlo il romanzo pieno di umana comprensione sui tormenti di una donna oppressa da una società ipocrita e perbenista.
Da una parte Anna Karenina ci appare come una farfalla imprigionata dietro un vetro: Tolstoj descrive minuziosamente, e dall’interno, il suo penoso affannarsi e dibattersi per tentare una via d’uscita, fino ad esaurirsi e scivolare nell’abisso dell’autodistruzione. Nello stesso tempo dipinge un grandioso affresco dei tipi umani che compaiono al di là del vetro, figure e personaggi certo presenti nella società russa del suo tempo, ma in qualche modo paradigmatici di tipi umani che sono sempre esisti e sempre esisteranno.
In più, attraverso il personaggio di Konstantin Levin, ci anticipa parte dei suoi personali tormenti, ci fa intravedere quella crisi interiore che in lui scoppierà solo qualche anno più tardi, portandolo a scelte di vita importanti e piene di conseguenze per sé e per i suoi familiari.
La cosa affascinante è che tutti i personaggi principali del romanzo possono essere visti come degli “opposti” ad Anna, ognuno per motivi diversi.
Il primo personaggio che troviamo in scena è Stepan Arkadevic Oblonskij, il fratello di Anna, il farfallone capace di vivere con leggerezza e di farsi perdonare i suoi numerosi tradimenti, l’astuto e ozioso funzionario che ha fatto parte del ventre molle della burocrazia di ogni tempo e di ogni paese, l’amicone gioviale, generoso e sincero,il viveur spensierato e spendaccione, il padre sempre pronto a giocare con i propri figli, cui tutto concede. E’ un vero artista nello schivare ogni fatica, ogni problema, ogni fastidio. Lascia volentieri alla moglie la parte più dura e faticosa del menage familiare. Stepan Arkadevic scivola con leggerezza nella vita e nelle sue contraddizioni, al contrario di Anna, che ci affonda. Tutti abbiamo conosciuto almeno uno Stepan Arkadevic nella nostra vita, e anche più di uno.
La moglie di Stefan Arkadevic è Dar’ja Aleksandrovna (Dolly). Il suo modo di essere opposta ad Anna è tutto nel suo stare con i piedi ben saldi a terra. Donna pratica, concreta, laboriosa, senza grilli per la testa , Dolly porta sulle sue spalle tutto il peso di una famiglia e di un marito svagato e cornificatore. E’ l’angelo del focolare, che ascolta tutti, che comprende tutti , ha una parola per tutti. Un angelo fragile ed energico, sanguigno e ogni tanto sanguinante, che piange, si arrabbia, pensa di non farcela e invece riesce sempre. Tutto la divide da Anna, due modi opposti di essere donna. Dolly ne è allo stesso tempo affascinata e contrariata, un po’ la compatisce e un po’ la invidia. Dolly vede in Anna cosa avrebbe potuto essere se non fosse stata Dolly.
Dolly è una delle sorelle di Katerina Š?erbackaja (Kitty). Troviamo Kitty all’inizio del romanzo, ragazzina. Tutte le ragazzine di ogni epoca e di ogni latitudine del globo sono state Kitty almeno una volta nella loro vita. Lo sono state quando si sono innamorate dei Beatles, dei Duran Duran e dei One Direction. Nella Russia del XIX secolo c’erano invece il valzer, la polka e giovani ufficiali che facevano volare la loro fantasia. Piccole donne crescono e anche Kitty passa attraverso cocenti delusioni, scelte sbagliate, esperienze che le forgiano il carattere. E quando arriverà ad innamorarsi di un uomo difficile, ombroso, con un fitto strato di rovi a proteggere la sua ricchezza d’animo, avrà già acquisito la personalità necessaria a fargli dare il meglio di sé. Riuscirà ad essere meravigliosa e immensa quando si troverà, proprio lei apparentemente così fragile, a prestare le ultime cure al cognato Nikolaj Dmitrievic, un reitetto respinto da tutti. Kitty è la storia di una formazione. La conosciamo da ragazzina, abbagliata dalla lucentezza di Anna, che le appare donna piena di vita, affascinante, matura, eccezionalmente dotata di savoir faire-. Pagina dopo pagina seguiamo le due opposte parabole e alla fine, quando tornerà la quiete dopo la tempesta, sarà proprio la stella di Kitty a brillare forte nel cielo.
Anche quella di Konstantin Dmitirevic Levin è la bella storia di un’evoluzione sofferta e ben riuscita, che fa da controcanto all’involuzione e allo smarrimento di sé impersonate da Anna. Konstantin è l’eroe positivo del romanzo (sue saranno anche le parole conclusive, lo sguardo avanti dopo la tragedia). L’uomo che partendo dagli anfratti bui in cui aveva nascosto la sua anima , riesce a ritrovare se stesso, perché inizia una sua personale e faticosa ricerca, ma soprattutto perché trova la donna giusta. Un amore che salva, contrapposto ad un amore che travolge e distrugge.
Aleksej Karenin, intelligente, colto, abile, onesto, potente, rispettato e stimato da tutti. E’ tuttavia un uomo che la vita ha reso completamente anaffettivo. Il tradimento di Anna è come un colpo di vento che spalanca le finestre e scompiglia l’ordine perfetto della sua vita senza vera vita. E’ un fastidioso accidente che vorrebbe scacciare, allontanare al più presto perché troppo impregnato di materia, e Karenin invece si trova a suo agio soltanto nel suo ordinato universo mentale. Ovviamente la sua prima preoccupazione va al decoro, all’etichetta, al buon nome. Eppure non è un ipocrita: è uomo sinceramente attaccato a buoni principi, che cerca di essere giusto e persino generoso. La sua predisposizione a ricercare il bene lo porterà, in una notte sconvolgente, a superare i vincoli imposti dal perbenismo e dal moralismo benpensante e a porgere evangelicamente l’altra guancia, a dare una tale prova di altruismo e magnanimità da soverchiare completamente Anna e il suo amante. Una ne rimarrà soffocata, confusa e annientata, l’altro sarà spinto a tentare il suicidio. Ma Karenin non capisce l’unica cosa che invece sarebbe necessario capire: per riconquistare Anna non gli è richiesto di trasformarsi in un campione di magnanimità, ma semplicemente di amarla. E invece lui è uomo completamente incapace di amare, questo è il suo modo di essere opposto ad Anna, questa è la sua personale tragedia, da cui derivano tutte le altre.
Infine Aleksej Vronskij: l’altra metà della mela di Anna, il seducente e fascinoso tambeur de femme, l’ufficiale cinico e rapace. Ma Anna fa sul serio e lui rimane invischiato suo malgrado. I due sono fatti apposta per trovarsi e rovinarsi. Eros e thanatos, amore e morte all’opera, ma con una differenza. Basta solo un briciolo, un infinitesimo di convinzione in più o in meno e ci si ritrova su due sponde opposte. Entrambi, in momenti diversi, obbediscono all’impulso di togliersi la vita. Vronskij lo fa per primo, ci crede davvero ma fallisce e quell’episodio strappa definitivamente Anna dai resti della sua vita precedente. Mentre affonda, Vronskji afferra la mano della sua donna e la trascina con sé. Anna invece non fallisce e non trascina il suo amante con sé. Lo restituisce piuttosto alla vita, naufrago risputato dal mare dopo la tempesta, e al senso di colpa.
Questo per limitarci alle figure in primo piano, ma nell’affresco c’è molto altro. Anna è anche madre e alcune delle scene più toccanti del romanzo riguardano il rapporto con il figlio Serëža. Ci sono le principessine dei circoli mondani, le nobildonne bigotte, i latifondisti, i contadini, i professori universitari, i politici,gli ufficiali e tutto quanto occorre per far scorrere la storia con la maestosa e tranquilla bellezza del Volga.
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Parlami di te:venti foto per raccontare una storia
La pioggia prima che cada non esiste, non la puoi vedere. C’è quell’attimo, quella particolare atmosfera che puoi capire soltanto dopo, quando la pioggia è già caduta, che puoi guardare retrospettivamente o che puoi intuire in anticipo grazie a una sensibilità così profonda da sfiorare la preveggenza. O forse si tratta solo di suggestione.
C’è molta retrospettiva in questo romanzo, c’è sensibilità e anche premonizione.
E’ una storia di donne, di madri e di figlie attraverso tre generazioni nell’Inghilterra dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Siamo lontani dall’atmosfera cupa della “Famiglia Winshaw”, eppure la famiglia e la violenza c’entrano molto anche qui. E’ la violenza dell’amore negato, del conflitto sotterraneo, di legami rifiutati o mal sopportati. Una violenza che incide l’anima, goccia dopo goccia, e si trasmette alle generazioni successive. Non si tratta della maledizione delle colpe dei padri che ricadono sui figli: in questo caso è la fredda ostilità delle madri ad indurire il cuore delle figlie.
A Jonathan Coe piace chiudere i cerchi e in questo romanzo il dramma si sviluppa tra due momenti apparentemente insignificanti: la fuga incomprensibile di due cani. Un antipatico e viziato barboncino di nome Bonaparte fugge all’inizio della storia. Un altro cane scappa alla fine. Di mezzo ci sono sessant’anni, vite intere, storie apparentemente normali dietro alle quali si nascondono solitudini e infelicità profonde, e che appaiono quasi rassegnate, perché già scritte.
Le storie sono raccontate attraverso quanto di più intonato al clima famigliare: le fotografie. Venti foto ricordo di vacanze, di compleanni, di cerimonie, di luoghi rimasti nel cuore. Visi sorridenti, sguardi catturati nell’istante in cui ci si mette in posa, ambienti che restituiscono al presente un frammento dopo l’altro del passato, fino a comporre l’intero puzzle e a farcelo guardare, alla fine, con lo smarrimento di chi ha seguito tutta la traiettoria compiuta dal destino.
Ma nel libro c’è anche il puro piacere di raccontare il passato, di ascoltarlo, di scoprirlo.
Rosamond un’anziana e tranquilla signora, muore in solitudine, senza marito né figli. Lascia uno strano testamento, nel quale tra gli eredi compare Imogen, una donna che nessuno sa come rintracciare. Rosamond lascia a sua nipote Gill l’incarico di trovare Imogen e di consegnarle venti fotografie e una serie di cassette registrate con il racconto della sua storia: la storia di Rosamond, che conduce alla storia di Imogen.
Gill, accompagnata dalle due figlie Catharine ed Elizabeth, inizia il suo viaggio nel passato di sua zia, scoprendo un mondo ancora sconosciuto e soprattutto tre figure femminili che si passano il testimone l’un l’altra nel corso del racconto: Beatrix, Thea e Imogen. Al loro fianco, la stessa Rosamond e, per un tratto di strada, anche Rebecca, l’unica che “vede” la pioggia prima che cada. O forse la vedono tutte, ma poi rimangono ostinatamente (o rassegnatamente?) con i piedi ben piantati in terra, a percorrere il solco già tracciato del loro destino.
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La famiglia Winshaw
La famiglia Winshaw (titolo originale: What a carve up!) è un romanzo scritto da Jonathan Coe nel 1994.
E’ anche una sassata contro alcuni guasti prodotti dalla dottrina Thatcher. Vent’anni dopo, quando la Lady di Ferro è ormai passata a miglior vita, il bersaglio ha perso d’attualità, ma la forza della sassata rimane intatta.
E poi, a ben vedere, più che la Thatcher, vengono presi di mira alcuni tipi umani che sul thatcherismo hanno basato la loro fortuna, personaggi avidi, calcolatori, senza scrupoli.
Si tratta comunque di un romanzo, non di un saggio politico, quindi non ci si può aspettare fini analisi sociologiche o sottili distinzioni; la “maschera” contro cui vengono scagliate le pietre deve essere ben riconoscibile.
Il termine che userei per sintetizzare questo romanzo è “orrore”.
L’orrore parte adagio, avvolto in un alone di mistero su fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale. Si insinua in una cena all’inizio degli anni ’60, tenuta nella sinistra Winshaw Tower, che ci fornisce l’occasione di conoscere tutta la famiglia al gran completo: ognuno dei suoi membri contribuisce a suo modo a rendere plumbea e sgradevole l’atmosfera.
Poi l’attenzione si sposta su una piccola e modesta famigliola, dove troviamo l’io narrante Michael Owen ancora bambino durante una festa di compleanno in compagnia di padre, madre e nonno. Seguiamo la loro giornata trascorrere nella tenera e dolce felicità velata di tristezza che è propria dei semplici. Michael è un fan di Yuri Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio. Casualmente la famigliola in gita trova una locandina di un cinema , dove si preannuncia che al termine della commedia horror Sette Allegri Cadaveri si sarebbe proiettato “Yuri Gagarin, il film russo ufficiale a colori”.
La trama e i personaggi di Sette Allegri Cadaveri (titolo originale: What a Carve Up!, come il romanzo, la cui traduzione in questo contesto potrebbe essere "Che Macello!") da quel momento rappresenta un fiume carsico che accompagna la narrazione per riemergere con prepotenza nel pirotecnico finale.
Ma prima occorre attraversare gli anni ottanta e passare attraverso una grande varietà di orrori. Il mercante d’armi, il banchiere vizioso e senza scrupoli, il politico cinico e amorale, l’imprenditrice avida e spietata, la giornalista prezzolata e spregiudicata.
E pagine piene di orrore sono anche quelle dedicate ai disastri provocati dai tagli alla spesa sanitaria, agli ignobili traffici politici e mercantili che gravitano attorno a Saddam Hussein e all’Iraq, agli allevamenti intensivi di bestiame, con annesse cattiverie e mostruosità. Le pagine dedicate alla “moderna” industria alimentare puntano dritto allo stomaco e colpiscono duro.
Lo stesso Michael percorre la sua personale valle orrida, fatta di ossessioni maniacali, persiane abbassate, aria viziata e avanzi di cibo. Il suo destino e quello dei Winshaw si incrociano più volte. Soprattutto la sua vita si incrocia e si sovrappone al film What a Carve Up! e alla storia di Yuri Gagarin.
Non a caso,una volta che l’orrore raggiunge lo zenit sciogliendosi nel grottesco, il romanzo si conclude con un capitolo emblematicamente intitolato “con Yuri verso le stelle”.
Jonathan Coe si diverte a fare il gran burattinaio e infierisce contro le maschere che più disprezza. Qua e là c’è un pizzico di autocompiacimento di troppo nell’esibire il perfetto sincronismo degli ingranaggi.
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