Opinione scritta da annamariabalzano43
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La melodia scandisce i ritmi della nostra vita.
Una dettagliata e esauriente descrizione di ciò che sia un crooner, della sua funzione nell’arte melodica ci è data da Ernesto Assante in un articolo pubblicato da Repubblica il 17 maggio 1998.
Egli fa immediatamente riferimento a Bing Crosby e Frank Sinatra, che definisce “principi dei crooner”, per il loro stile melodico, sussurrato e mai urlato, confidenziale e sensuale. Assante si sofferma anche sull’origine del termine crooner, che potrebbe risalire al tedesco kronen, che significa gemere, lamentarsi, poi divenuto comune negli Stati Uniti, forse anche grazie alla musica afroamericana. È certo comunque che lo stile melodico del crooner si è diffuso nel momento in cui è divenuto d’uso comune il microfono che ha permesso di giocare su diverse intonazioni di voce.
Il crooner diviene così il cantante preferito dalle coppie innamorate, e le sue canzoni scandiscono le fasi dell’innamoramento e dell’amore, della tristezza dell’abbandono e dell’addio. Per le generazioni degli anni 40 fino agli anni 60 la musica melodica e confidenziale ha segnato le tappe d’una crescita sentimentale. È quanto emerge anche in questo breve toccante racconto di Kazuo Ishiguro, illustrato meravigliosamente da Bianca Bagnarelli. Qui il giovane chitarrista Janeck incontra la grande star della sua adolescenza, Tony Gardner, di cui sua madre era stata fan appassionata, in una serata a Venezia. È questa l’occasione per riandare a ricordi nostalgici del passato, per rievocare i momenti difficili della vita della madre di Jan e quelli felici della vita di Tony. Ora però quella stessa musica che ha lasciato segni indelebili nell’animo e nella mente dei protagonisti farà da sottofondo al momento triste dell’addio tra Tony e Lindy, perché il mondo degli artisti, fondato sostanzialmente su principi estetici non può affrontare il decadimento fisico e professionale. Solo un cambiamento che porti nuove energie può offrire una via di salvezza a chi ha basato la propria vita più sull’esteriorità che sui sentimenti.
Un racconto breve, profondo nei contenuti, gradevole nello stile, “musicale” nella forma.
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La terra del cervo
“Le persone affette da demenza da lunghi anni, che sembrano aver rinunciato al mondo e a cui il mondo sembra avere rinunciato, verso la fine della loro vita hanno una specie di risveglio e riprendono lucidità, come se la demenza fosse solo una finzione, un gioco, o magari un modo di difendersi dagli altri. E quando la morte si avvicina la maschera cade e lascia spazio al dolore, alla sofferenza e forse al rimorso. Così anche se per anni sono sembrati indifferenti a chi si è preso cura di loro, in punto di morte sembrano aggrapparsi a quelle persone e avere bisogno di un loro sguardo, di una carezza.”
È Zvi Luria, ex ingegnere ai lavori pubblici, responsabile di grandi opere come costruzioni di strade e tunnel destinati a congiungere luoghi altrimenti irraggiungibili, il protagonista dell’ultimo romanzo di Abraham Yehoshua ed è intorno al suo decadimento cognitivo che l’autore costruisce una storia che offre molteplici e importanti spunti di riflessione.
È dunque proprio quando Zvi, raggiunti i limiti di età, deve abbandonare il lavoro e rinunciare alla costruzione di altri tunnel sull’autostrada, che egli si trova prigioniero del tunnel più buio dell’esistenza. La sua progressiva perdita di identità si accompagna a una inevitabile perdita di dignità umana e sociale, tanto più rilevante quanto più prestigioso è stato il ruolo ricoperto nel passato. Ed è proprio il tema dell’identità che è centrale nel romanzo.
Se Zvi, il cui nome evoca l’immagine maestosa del cervo, va progressivamente verso una perdita di prestigio e di consapevolezza di sé, altrettanto privi di identità, per motivi politici, sono i pochi rifugiati palestinesi nascosti in cima a una collina nel deserto del Negev. È per salvare l’esistenza di costoro che Zvi è chiamato a raccogliere le sue ultime capacità cognitive, necessarie a costruire il tunnel che impedirà la demolizione della collina, altrimenti indispensabile per la realizzazione della strada che servirà all’esercito. Il tunnel assume qui, ancora una volta, una valenza positiva, in quanto rifugio e via di salvezza.
Il tema della convivenza con i palestinesi è d’altronde presente in tutto il romanzo: Yehoshua non manca di sottolineare come in molti casi essi siano riusciti ad integrarsi nella società israeliana e come i bambini palestinesi siano curati negli ospedali israeliani. Si nota, tuttavia, quanto egli sia sensibile al problema della perdita di identità nazionale che l’integrazione stessa può comportare. Non a caso il personaggio Zvi insiste a chiamare la bella Ayalà con il suo nome originale Hanadi, quasi a voler sottolineare l’importanza e il diritto/dovere di rispettare le origini di ciascun individuo. A questo proposito ricordiamo che Yehoshua , con Oz e Grossman ha sottoscritto il documento favorevole al riconoscimento dello stato della Palestina.
Proprio spinto da questo desiderio di pacifica convivenza, Zvi con un ultimo sforzo volto a controllare il suo stato confusionale, affronta un avventuroso viaggio per raggiungere di nuovo il deserto di Negev, luogo simbolo nella storia di Israele, dove riposano le spoglie di Ben Gurion, al fine di constatare che i lavori del tunnel siano iniziati e soprattutto che i rifugiati siano in salvo. Ed è qui che Zvi si ricongiunge al cervo, al suo alter ego, la cui sagoma si staglia maestosa sulla collina. Ed è qui che simbolicamente finirà il suo viaggio, lasciando al lettore un amaro e doloroso interrogativo sul futuro.
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Middle England, middle class, middle age.
Non c’è dubbio: Jonathan Coe è uno scrittore geniale, di sicuro uno dei migliori scrittori inglesi, che unisce al dono della narrativa una verve satirica e un’acuta capacità di analisi degli eventi sociali e politici del suo tempo.
Con il suo ultimo romanzo “Middle England” egli ci ripropone i personaggi de “La banda dei brocchi” e di “Circolo chiuso”, seguendoli nel corso degli ultimi otto anni del nuovo millennio. Siamo dunque di fronte a un Benjamin, un Doug e una Lois ormai giunti alla maturità, con tanti dubbi e tante ansie nient’affatto risolti. A Sophie, figlia di Lois, l’eredità complessa e confusa di un mondo caotico con poche certezze e tanti limiti.
Ciò che più sta a cuore a Coe è descrivere la situazione politica e sociale in cui si è trovata la Gran Bretagna dal 2010 ad oggi. A Doug il compito di denunciare la crisi e il declino del partito laburista, responsabile di aver causato l’impoverimento della media e piccola borghesia, lasciando immutati i privilegi di pochi. È Doug che riconosce, in un incontro con Ben, che la gente è stanca, rabbiosa e disgustata. Né le cose sembrano migliorare con l’avvento dei Tories di Cameron, sicuro di sé al punto da indire un referendum sulla Brexit, con l’impegno di restare a risolvere i problemi del paese nel caso d’un voto favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, promessa che non avrebbe mantenuto, lasciando a Theresa May il compito di rispettare la volontà popolare. Ed è attraverso i personaggi di Ben, Lois e Doug che possiamo constatare con quale drammatica consapevolezza si sia vissuta e si viva tuttora una decisione destinata ad avere un’influenza determinante sulla vita di ciascun individuo. La nazione sembra letteralmente divisa in due: da una parte c’è chi, come il padre di Lois e Ben, legato ancora ai ricordi del passato, vorrebbe che al suo paese fosse restituita quella sovranità che gli è stata tolta con la sua adesione all’Europa, dall’altra chi ritiene che far parte dell’Europa sia un’opportunità da non perdere. Ciò di cui tutti si rendono perfettamente conto è che la politica di austerità che l’Europa ha imposto ai suoi membri ha impoverito il paese, trasformando persino il territorio, in seguito alla chiusura di fabbriche e industrie per far posto a attività commerciali. “Un edificio non è solo un posto, non ti pare?” – dice Colin a suo figlio Ben – “E’ anche la gente. La gente che ci sta dentro […..] Se non produciamo niente, non abbiamo niente da vendere, perciò come faremo a sopravvivere?”
Ben, Doug e Lois vedono accentuarsi intorno a loro uno strisciante sentimento xenofobo e sovranista, aumentare l’intolleranza per l’avversario politico, atteggiamento che raggiunge il momento culminante con l’assassinio della deputata Jo Cox.
Pur mantenendo una posizione equilibrata ed equidistante verso la problematica della Brexit, sembra tuttavia che Coe lasci trasparire il suo rammarico di vedere il suo paese chiudersi nuovamente in un isolazionismo che ha comunque sempre caratterizzato la sua politica, pur riconoscendo che un’Europa così fondata su rigide regole economiche e nessuna politica comunitaria non può che vedere rinascere i nazionalismi e avviarsi ad una chiusura sempre più drastica delle frontiere. Cosa che non può che palesare il fallimento degli ideali sui quali l’Europa avrebbe dovuto fondarsi.
L’originalità di questo romanzo consiste proprio nell’aver messo l’accento su come la politica influisca in maniera determinante sulla vita dei singoli individui, con i suoi personaggi borghesi di mezz’età nell’ Inghiterra delle Midlands.
Middle England, Middle class, Middle age.
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Un uomo che legge ne vale due
La passione per i libri e per la letteratura segna profondamente la vita di Edmond Charlot, che apre una libreria e crea una casa editrice nell’Algeria degli anni trenta. Attraverso le vicende del protagonista che diventa amico dei più grandi scrittori del tempo, tra i quali Camus, Saint Exupery e Gide, seguiamo il drammatico sviluppo della politica colonialista francese, con il conseguente insorgere di movimenti indipendentisti e del terrorismo fino alla conquistata indipendenza.
E’la letteratura, come l’arte, in senso lato, il mezzo più efficace per tramandare la memoria ed è ai libri affidato il prezioso compito di preservarne il valore.
Con dolorosa consapevolezza, il giovane Ryad si appresta, molti decenni più tardi, a svuotare la libreria ormai destinata a ospitare un negozio di ciambelle. Un oltraggio per chi ama i libri e ciò che essi rappresentano.
Se la storia tramanda numerosi tentativi da parte di regimi repressivi di impedire la divulgazione delle idee e della cultura, proprio mediante la distruzione di considerevoli patrimoni letterari, qui siamo di fronte a un ulteriore esempio dell’imbarbarimento culturale che induce a preferire due ciambelle alla lettura di un testo di Camus o di Gide.
Con un ritmo narrativo che alterna passato e presente, Kaouthier Adimi, descrive luoghi caratteristici dell’Algeri del passato e della Parigi più moderna, da sempre luogo di riferimento della più fertile cultura europea.
Una lettura piacevole dal punto di vista letterario e interessante per la testimonianza di eventi storici che non vanno dimenticati, ma dei quali piuttosto è bene preservare la memoria perché sia di monito e insegnamento.
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Quando l’ideologia si scontra con la realtà
Con il titolo Proletkult è stata pubblicata l’ultima opera del collettivo di autori che si firmano con lo pseudonimo Wu Ming. E’ un romanzo originale, con qualche rallentamento nel ritmo della narrazione quando si sofferma su alcuni aspetti filosofici che sono stati alla base delle teorie marxiste e leniniste sulle quali si è fondata la nascita dell’Unione Sovietica.
Osserviamo innanzitutto la copertina del libro edito da Einaudi Stile Libero: l’illustrazione di Riccardo Falcinelli rappresenta una falce e martello costituita da un assemblaggio di astronavi, siluri, razzi proiettati verso galassie sconosciute o immaginarie. Ciò ci porta immediatamente a pensare che il romanzo voglia da una parte descrivere la realtà degli anni venti in quella che ormai non era più la Russia degli zar, e dall’altra parte rappresentare il sogno di un mondo ideale e perfetto che avrebbe ormai potuto realizzarsi solo in una sfera ultraterrestre.
Illusione e disillusione sono i sentimenti che hanno albergato a lungo nell’animo di Aleksandr Bogdanov, il vero protagonista del romanzo, filosofo e politico oltre che medico, il quale aveva enunciato la teoria della tectologia, scienza secondo la quale ogni istituzione, ogni forma della società moderna deve essere basata su una rigorosa organizzazione delle strutture. Su queste basi nacque il Proletkult, un organismo fondato nel 1917, per creare un’arte per i proletari, che si liberasse del fardello delle ideologie borghesi. -“L’arte non è una decorazione. Come la scienza, serve a organizzare le esperienze. Ma a differenza della scienza non usa concetti astratti. Usa immagini vive.”
“Proletkult era il divenire, era lo spostamento del punto di vista, il movimento che cambia il modo di organizzare l’esperienza del mondo. Cioè la realtà.”
“Ho sempre pensato che costruire una nuova cultura fosse il modo migliore di difendere la rivoluzione.” “Se gli operai conquistano le fabbriche, ma non hanno una nuova cultura per organizzarle, finiranno per dipendere dagli ingegneri e dai tecnici che già lavoravano per i vecchi proprietari, oppure ne imiteranno l’opera, con risultati peggiori, e così la pretesa rivoluzione non produrrà un reale cambiamento, se non in peggio.”- così dice Bogdanov con la sua genuina onestà intellettuale, la sua consapevolezza che il sogno comunista delle origini fosse ormai svanito. Da questa disillusione aveva visto la luce quel mondo immaginario, perfetto nella sua concezione, il mondo di Nacun, che viene descritto nel suo libro Stella Rossa. Nacun è una sorta di Città del sole, in cui regna la legge universale dell’organizzazione: sembra evidente anche l’influenza de La Repubblica di Platone.
Da questo mondo ideale immaginario crede di essere giunta Denni, sempre alla ricerca spasmodica di un rifugio, che le permetta di sfuggire alla solitudine e al deserto affettivo della sua adolescenza. Denni, personaggio che vive tra realtà e immaginazione, desidera solo tornare a Nacun.
Su questa contrapposizione realtà-sogno si muove tutto il romanzo, e sulla base di questa contrapposizione, chiudiamo il libro sull’ultima pagina per tornare a osservare la copertina, in una naturale e istintiva chiusura del cerchio.
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La fine delle illusioni.
Con “Circolo chiuso” Jonathan Coe prosegue l’analisi della società britannica, riprendendola là dove l’aveva lasciata con “La banda dei brocchi”. È infatti attraverso gli stessi protagonisti che l’autore mette in luce tutti i più rilevanti limiti della politica degli anni novanta, fino alla soglia del duemila. Con il personaggio di Paul siamo di fronte all’aspetto deplorevole del parlamentare ambizioso che più che gli ideali persegue un successo personale quanto mai aleatorio. Da posizioni dichiaratamente conservatrici egli non esita ad abbracciare la causa laburista a quel tempo rappresentata da Blair. E su Blair, sul suo impegno nel sostenere la folle guerra in Iraq, Coe scrive pagine di critica che lasciano trapelare la disillusione di gran parte di coloro che l’avevano sostenuto. Dunque l’immagine del personaggio Paul ne esce inevitabilmente compromessa, considerato anche il suo comportamento nella vita privata. La funzione della stampa, la sua influenza sull’opinione pubblica, la sua manipolazione, emergono attraverso il personaggio di Doug, coerente nella sua ambizione. Non mancano critiche all’insorgente mercato globale che va distruggendo importanti realtà ben radicate sul territorio, come nel caso della Rover assorbita dalla tedesca BMW, con il conseguente licenziamento di un numero notevole di persone. Siamo all’inizio di un processo che sfortunatamente ci è ormai ben noto, con il risultato di un appiattimento di ogni individualità in un mondo asservito alla finanza, un mondo che ha alla base una inevitabile mobilità che impedisce ogni sicurezza. “I nostri genitori restavano nello stesso posto di lavoro per quarant’anni. Oggi invece nessuno riesce a star fermo.” Sono le parole di Claire.
Claire e Benjamin , la prima sempre nostalgica d’un amore mai realizzato, e sempre alla ricerca della sorella scomparsa, è anche lei in continuo movimento, nella speranza di raggiungere una tranquillità definitiva; il secondo, Benjamin, le cui qualità di artista incompreso e incompiuto sono le uniche a essere stabili, riesce a distruggere quella aleatoria tranquillità che aveva raggiunto, per inseguire un sogno. E dunque anche l’amore, così importante per ciascuno di questi personaggi, è sempre problematico, troppo spesso basato sull’inganno e sull’egoismo. Il quadro che Coe ci prospetta nel suo romanzo è sicuramente estensibile a qualsiasi altro paese occidentale. A Sophie e Patrick, i giovanissimi eredi di questo mondo, un futuro di probabile precarietà e incertezza. E il cerchio infine si chiude. “E quando la luna piena comparve di nuovo, alta sopra il Reichstag e il Tiegarten, i due ragazzi capirono che era ora di andare via e che il cerchio si era chiuso per l’ultima volta.”
A conferma di ciò che aveva voluto esprimere con il suo romanzo, Coe ne cura la struttura in modo del tutto originale. Dopo un inizio che raccoglie una serie di lettere di Claire alla sorella scomparsa, il libro è suddiviso in due parti, ciascuna delle quali è composta di capitoli, la cui numerazione procede a ritroso, proprio a voler evidenziare l’intenzione di procedere verso la chiusura del cerchio. Un romanzo bellissimo, uno dei migliori di Coe.
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Quegli “strani” anni settanta
“Anni strani” è una definizione quanto mai significativa se usata da una generazione di giovani cresciuta in un contesto sociale e culturale che li vuole sufficientemente ignari di ciò che si agita nel mondo circostante. Ciò è quanto accade nel romanzo “La banda dei brocchi” di Jonathan Coe, che ha come protagonisti un gruppo di giovani che frequenta un liceo esclusivo di Birmingham con la prospettiva di accedere alle migliori università del Regno Unito. Come in qualsiasi di queste scuole britanniche, così selettive, i giovani sembrano destinati a dover necessariamente fare propri i principi borghesi, senza spirito critico. Ogni turbolenza proveniente dall’esterno giunge improvvisa e dapprima quasi incomprensibile. Philip, Benjamin, Doug e gli altri si trovano ormai alle soglie dell’età adulta a interrogarsi su cosa sia la guerra fredda, sul perché Berlino sia divisa in due, sul significato e la motivazione dello scandalo Watergate, sul fine degli attentati dell’IRA, o sullo scopo degli scioperi che portano al “power cut”. Tutto ciò perché essi sono cresciuti in un ambiente ingannevolmente protetto, che non ha aiutato la loro crescita in merito alla coscienza civile.
Coe non risparmia la sua satira sottile e intelligente né ai padri né ai figli. Al punto che si è indotti a chiedersi se la definizione di “ banda dei brocchi” sia più giusto riferirla ai genitori o ai figli.
Tutte le problematiche che scossero la Gran Bretagna negli anni settanta traspaiono nella trama del romanzo e ne costituiscono il filo conduttore. L’autore non trascura il problema razziale, e anzi lo inserisce nel modo che meglio può essere compreso dalle generazioni più giovani, accennando a un mito della musica, Eric Clapton, che in un concerto del 1976 a Birmingham si trova a sostenere quanto detto da Enoch Powell, che preconizzava un’Inghilterra sovraffollata di neri. Non a caso contro queste teorie nacquero gruppi di rock against racism. Non sorprende dunque che l’unico studente di colore del liceo di Birmingham soprannominato con disprezzo Rastus cada vittima di un inganno che gli precluderà l’accesso all’università.
Né Coe trascura di accennare ai movimenti indipendentisti del Galles e della Scozia che da sempre affliggono e minacciano l’unità del regno. Nulla dunque viene trascurato in questo romanzo corposo, i problemi degli anni settanta con gli scioperi, il fallimento della politica laburista e l’avanzata dei tories, costituiscono lo sfondo importante sul quale si muovono personaggi assolutamente credibili, tra i quali spicca Benjamin, l’artista per eccellenza, che proprio per la sua fragile aderenza alla realtà viene soprannominato Minus habens, non senza qualche allusione di dubbio gusto.
Vedremo come evolveranno gli eventi nel seguito intitolato “Circolo chiuso” ambientato negli anni novanta.
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Una, unica e irripetibile.
La vita d’ogni singolo individuo è in sé unica e irripetibile. Ogni vita è l’insieme di tante storie, ma tra tante storie ce n’è sempre una che conta più delle altre, che si ricorda, si racconta o si tace in un involontario processo di avvicinamento alla verità dei fatti che hanno fatto di noi ciò che siamo.
Da qui trae spunto il bellissimo romanzo di Julian Barnes, “L’unica storia”, un’opera che analizza con spietata veridicità l’animo e i sentimenti umani, senza nulla concedere a una soverchia indulgenza.
Diamo innanzitutto uno sguardo alla sopracoperta dell’edizione Einaudi: come sempre le copertine offrono al lettore spunti di riflessione assai importanti. La realizzazione è di Marco Campedelli ed è intitolata “Handwriting” . Essa riproduce a lapis su carta il titolo del romanzo “L’unica storia” in bella calligrafia, e sostituisce il titolo in stampatello cancellato da un tratto deciso e inequivocabile. Ciò rende immediatamente chiaro il pensiero che si vuole trasmettere: ogni storia è unica come unica è la vita, come unica e significativa è la grafia di ogni individuo.
Il romanzo è diviso in tre parti e anche questa scelta non è casuale. La narrazione della prima parte è affidata allo stesso narratore protagonista della storia, che racconta come, giovane diciannovenne, si innamori di una cinquantenne e venga completamente preso dal fascino di lei e dall’audacia di una relazione così trasgressiva.
Nella seconda parte del romanzo, il capitolo Due, il narratore, Paul, comincia a prendere le distanze da sé come protagonista, alternando sempre più spesso la seconda persona alla prima, come a voler raccontare e spiegare a se stesso i fatti in un tentativo di maggiore obiettività. I fatti narrati mostrano un crescendo di dolorose esperienze e perciò stesso un maggiore distacco dal protagonista diviene assolutamente funzionale al romanzo.
La terza parte, infine, il capitolo Tre, è in terza persona. Il narratore personaggio scompare, i fatti sono presentati nella loro realtà, nell’intento di dare massima credibilità alla storia e allo stesso tempo di offrire una possibilità di riscatto al protagonista.
Ciò per quanto riguarda la struttura del romanzo. Per quanto attiene al contenuto, anche in questo romanzo, come ne “Il senso di una fine”, l’elemento dominante è il tempo. Il tempo che coincide con la vita dell'uomo e la condiziona, il tempo come accumulo generato dal movimento, il tempo che ci vede giovani e poi inesorabilmente vecchi. Il tempo domina tutto, trasforma le persone e i sentimenti, esalta e avvilisce le relazioni, alimenta e distrugge l’amore. E al concetto del tempo è legata la funzione della memoria che permette di rivivere il passato con nostalgia ma con più equilibrato e corretto distacco.
Non è questo il solito romanzo di iniziazione sessuale, non è questa la solita breve storia di una passione fuori dagli schemi, non siamo di fronte al giovane laureato e a una Mrs Robinson, né Paul e il semplice giovane seduttore, non a caso spesso si accenna a lui come “bel ami”, qui siamo di fronte ad un approfondito esame dell’animo umano, di come esso reagisce nelle varie stagioni della vita di fronte all’amore che non sempre si presenta nel suo aspetto più convenzionale e tradizionale.
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Quando ripercorrere gli eventi del passato può aiu
Eleonora e Marco, una coppia in crisi, un amore che non vuole estinguersi nonostante le incomprensioni, le piccole e grandi umiliazioni e le prevaricazioni. Una crisi e una separazione che offrono lo spunto e l’occasione di indugiare nei ricordi e nei rimpianti. Attraverso la memoria di Eleonora e di Marco ripercorriamo le tappe più importanti della vita di entrambi i protagonisti. Superando inibizioni profondamente radicate, nel momento della dolorosa decisione di abbandonare il marito, Eleonora riesce a rievocare momenti della sua infanzia che l’hanno resa infelice per molto tempo, il difficile rapporto con le amiche Giovanna e Irma, i tradimenti, le delusioni, le maldicenze.
Rivivere il passato significa demistificarne l’influsso negativo, svelare misteri nascosti in seno ai quali si sono annidati incomprensioni e rancori. E affrontare apertamente il dramma più sconvolgente della sua adolescenza, l’attentato a quel padre tanto amato e ammirato che con profondo dolore e indignazione aveva sentito definire “boia”, per la sua professione di giudice, da sciocche e gelose compagne, affrontare questo dramma ora, per l’Eleonora adulta, significa accettare una realtà difficile e dolorosa che può svelarle il mistero della scomparsa della sua più cara amica Sara.
Se ripercorrere a ritroso la propria vita è per Eleonora d’aiuto per ritrovare infine se stessa e mettere pace nel suo animo, per Marco rivedere criticamente il tempo trascorso con una moglie troppo spesso scontenta e frustrata, significa identificare i punti di debolezza di un matrimonio troppo condizionato dall’influenza dei membri di una famiglia assai invadente. È dunque qui il punto centrale del romanzo: solo la consapevolezza può essere d’aiuto nel superamento di crisi profonde, quando l’amore perdura, nonostante tutto. Molto attento è l’esame dei sentimenti infantili e adolescenziali, del rapporto spesso problematico con i genitori che si stenta a riconoscere come educatori, della relazione difficile con gli amici, e della difficoltà a inserirsi in gruppi già formati e consolidati. Tutto ciò Antonella Di Martino descrive con sensibilità e professionalità, in questo romanzo di piacevole lettura che fa riflettere e commuovere!
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Il tempo d’una vita è sempre troppo breve.
In un romanzo breve Sylvie Schenk racconta la vita di Louise sin dalla adolescenza, ne descrive i sentimenti, le aspirazioni, le esperienze con una tecnica narrativa che è forse la cosa più originale del libro. Si tratta infatti di una autobiografia in seconda persona: è la stessa Louise che guarda a se stessa come a un personaggio altro da sé al fine di offrire una descrizione quanto più obiettiva dei fatti e degli eventi. Siamo negli anni cinquanta, gli echi della seconda guerra mondiale non sono ancora del tutto spenti e i giovani che vivono tra la Francia e la Germania ne sentono tutti i drammatici effetti. È dunque nel breve corso di una vita che si riassume la storia del mondo e si affrontano questioni di coscienza. È così che Louise si dibatte tra Henri e Johann, tra le sue radici francesi e il nuovo mondo di cui è entrata a far parte.
Tutto nella vita di Louise scorre velocemente, gli anni passano con una rapidità sconcertante, lasciando l’amara sensazione di non aver potuto rispondere ad alcun quesito, non aver potuto risolvere alcun problema, in modo particolare non aver potuto allontanare dai figli la pesante eredità delle colpe dei padri. Questo è senz’altro il tema più interessante del romanzo che tuttavia è stato forse sopravvalutato dalla critica che lo ha considerato un piccolo capolavoro.
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La solitudine dell'uomo senza dei
“La casa dei nomi” di Colm Toibin ripropone in una prosa limpida e essenziale la storia tragica di Agamennone, Clitennestra, Ifigenia, Elettra e Oreste. In contrasto con un re, Agamennone, timoroso degli dei, sleale e infido al punto da ordire il più basso degli inganni ai danni della bellissima figlia Ifigenia, che offre come vittima sacrificale nel rito propiziatorio in occasione della guerra imminente, emerge la possente figura di Clitennestra, ferita nel suo orgoglio di moglie e di madre, che scatena la sua furia senza limiti, pronta a vendicarsi con ogni mezzo del tradimento patito. È la stessa regina a raccontare il mutamento del suo animo, a descrivere come da sposa fedele e orgogliosa si sia trasformata in donna vendicativa e violenta.
Accanto a Clitennestra le due figlie: Ifigenia, da un lato, fragile e forte al tempo stesso, consapevole dell’orrendo sacrificio di cui sarà vittima, ribelle eppure passiva, costituirà il motivo scatenante della vendetta della madre e Elettra, determinata e dotata delle qualità necessarie per esercitare il potere, pur soffrendo nella sua solitudine e nel suo isolamento.
Se dunque le donne di questo romanzo ereditano dalle eroine di Euripide, di Eschilo e di Sofocle la forza e la passione, esse tuttavia sono personaggi estremamente umani, lontani dalla logica schiacciante e riduttiva della fede divina alla quale soggiacere, Oreste, che rappresenta il futuro del regno, al contrario, presenta fragilità incolmabili, soprattutto se visto accanto ad Egisto, il classico uomo nuovo, senza scrupoli e senza reali legami affettivi. Non c’è dubbio che nel confronto con i classici greci, il romanzo di Toibin é più vicino alla realtà contemporanea, proprio per la semplicità della forma espressiva priva della solennità della rappresentazione teatrale. Il tema politico, predominante nella tragedia greca, è qui solo accennato. Ciò che conta è l’animo dei personaggi, le loro passioni, la loro lotta per la giustizia, in un mondo non più condizionato e dominato dal potere degli dei.
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Tu e io, io e tu
È un racconto brevissimo, geniale nella sua originalità “Il mio romanzo viola profumato” di Ian McEwan che nell’edizione Einaudi viene associato, non a caso, al saggio “L’io” pronunciato dall’autore per il conferimento del premio Bottari Lattes Grinzane 2018.
È la storia di un tradimento, di uno dei tradimenti più vili che calpesta i vincoli sacri dell’amicizia e della lealtà. È di un vero e proprio crimine che si macchia Parker Sparrow, scrittore mediocre ma ambizioso, che sottrae all’amico fedele Jocelyn Tarbet, scrittore di successo, un manoscritto di grande valore artistico, che con opportune modifiche egli presenta come suo, rovesciando la sorte che era loro toccata fino a quel momento. Lo scrittore mediocre raggiunge il successo, lo scrittore di successo, accusato di plagio, viene dimenticato e cade nella detestata e detestabile mediocrità. Eppure l’inganno e l’ipocrisia giocano ancora il loro ruolo determinante, al punto che tutto possa continuare come prima, mutatis mutandis.
Questa breve storia porta in primo piano il tema del rapporto di ogni individuo con il proprio ego. Se poi ci si muove nel campo dell’arte, questo tema è assai più pressante e significativo.
McEwan traccia abilmente le linee entro le quali l’artista opera, più che uno studio psicologico il suo è uno studio antropologico. In un mondo così concentrato sull’esaltazione dell’io, come quello in cui viviamo - si pensi alla funzione dei social che permettono a chiunque di mettersi in vetrina ed esaltare o esporre la propria personalità e all’uso così frequente dei selfie - non c’è assolutamente da meravigliarsi se anche il mondo dell’arte amplifichi e moltiplichi questa tendenza all’esaltazione del proprio io. McEwan ricorda come nella narrativa l’uso della prima persona risale già a secoli addietro, basti pensare alla Clarissa Harlow di Richardson che altro non è che un romanzo autobiografico. E, aggiungerei, cosa dire del Robinson Crusoe? E come non pensare al Dottor Jekill e Mr. Hyde di Stevenson, nel quale l’io addirittura si sdoppia? Dunque il rapporto autore-protagonista ha sempre posto interessanti spunti critici ai lettori più attenti. La presenza dell’io in ogni opera d’arte è determinante. Lo stesso Flaubert dichiarava: “Madame Bovary c’est moi”. Nell’arte figurativa non possiamo ignorare la funzione dell’autoritratto. Ricordiamo anche solo Van Gogh o, tra le pittrici più amate, Frida Kahlo. D’altronde McEwan si sofferma su un punto molto interessante. L’individuo nella sua storia umana dall’infanzia alla vecchiaia, sviluppa caratteri e sentimenti diversi. Egli è tante persone diverse nel tempo, che trovano una unità e una composizione alla fine del percorso esistenziale. Non c’è dubbio, comunque, che se si volesse dare una valutazione morale sulla esaltazione dell’io, non potremmo fare a meno di sottolineare che la maggior parte dei mali dei nostri tempi deriva proprio da un individualismo esasperato, che porta ad ignorare i più deboli e ad esaltare tutto ciò che attiene alla sfera del successo e della ricchezza.
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Chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna.
“Chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna. […….] Ma neanche una mano amica! E dove attingere un soccorso?” È con Arthur Rimbaud che si identifica uno dei due protagonisti del romanzo di Kenzaburo Oe, “Il bambino scambiato”. È l’arte come finzione e menzogna che è al centro dell’opera di Goro, regista di successo, e di quella di Kogito, romanziere insignito del premio Nobel.
Ma non sono solo le citazioni tratte da “Une saison en enfer” che riportano al grande poeta maledetto quanto gran parte dell’atmosfera che si respira nel romanzo, quella narrazione ondivaga di anime sperdute su un bateau ivre. E se a Rimbaud si fa riferimento per rappresentare il viaggio dei personaggi attraverso il mistero della vita, alla ricerca di una verità rassicurante, è a Chagall che viene spontaneo pensare per quelle immagini che ci conducono in una dimensione onirica e lieve, priva di gravità. Il tentativo di Kogito, nome simbolico di cartesiana ispirazione, di rimanere in contatto con l’amico Goro, che si è lanciato in un estremo volo per chiudere la sua esperienza terrena, si effettua attraverso l’ascolto di una serie di cassette registrate dall’amico, contenenti ricordi del passato. Kogito interagisce con l’amico scomparso, con l’intento di stabilire un contatto con il mondo “outside overthere” .
Questo sembra essere il tema centrale del romanzo: tenere vivo il contatto con il mondo scomparso, anche a costo, come si evince dalle parole della mamma di Goro, di partorire nuovi figli per sostituire quelli defunti, non senza trasmettere loro tutte le esperienze e le conoscenze del bimbo defunto, in un ciclo ininterrotto di vita. In questa prospettiva si chiarisce la funzione misteriosa del changeling.
Un testo non semplice, ricco di riferimenti alla cultura occidentale e alle leggende dell’antico Giappone.
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L’antieroe del novecento
Bardamu come Roquentin o Ulrich, Bardamu come Mattia Pascal o Zeno, Bardamu in viaggio attraverso la vita come il piccolo insignificante Leopold Bloom, è certamente ancora una volta il simbolo dell’antieroe del novecento, colui che, quale Picaro moderno, è testimone della mediocrità, della corruzione e della perdita di valori della società del suo tempo. Dagli orrori della guerra, al cinismo di una borghesia priva di scrupoli, alla vita alienante delle metropoli industriali, ai desolanti sobborghi della periferia parigina, Bardamu è attore e testimone in una narrazione che ha come scopo la demistificazione d’ogni realtà edulcorata. Siamo ben lontani non solo dai protagonisti ottocenteschi di Walter Scott, ma anche da quelli molto più vicini alla realtà, come i personaggi del ciclo dei Rougon Maquart. Il novecento è il secolo disilluso, è la terra desolata popolata dai Prufrock e dai discendenti di Bartleby, è il secolo dilaniato dalle più terribili guerre e sta all’artista denunciare la condizione umana ormai vicina a una perdita totale di speranza. In Céline la speranza è vanificata da un’unica assoluta certezza che è la certezza della morte. Il viaggio di Bardamu lo porta attraverso la notte della vita, attraverso la sua oscurità, attraverso i suoi luoghi putrescenti e maleolenti. E i personaggi che lo accompagnano mostrano essi stessi i loro limiti, le donne con le quali stabilisce rapporti non riescono a dargli un amore duraturo e stabilizzante, perché questa è l’epoca dell’ incertezza, della insicurezza fisica e psicologica. “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.”
L’opera di Céline, rivoluzionaria nel suo contenuto, lo è ancora di più nella forma espressiva che sovverte ogni ordine e regola grammaticale e sintattica, un linguaggio anarchico che riflette quello colloquiale molto vicino all’argot. Forma e contenuto, dunque esprimono con chiarezza l’esigenza di ribellarsi agli schemi precostituiti degli eredi del Parnasse.
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And in short I was afraid
È di nuovo il tema dell’ambiguità al centro di Berta Isla, l’ultimo stupendo romanzo di Javier Marias, è l’uomo prigioniero della sua solitudine, condannato a vivere passivamente una vita senza speranza di futuro. C’è tutta l’opera di T.S.Eliot in queste pagine, da The love song of J. Alfred Prufrock, ai Four Quartets fino a The hollow men. Il personaggio di Tomás, infatti, così come ci appare dalla descrizione in prima persona di Berta, sua moglie, è molto simile al Prufrock di Eliot, con la sua incapacità di compiere scelte determinanti per la sua vita, con quella sua spiccata tendenza alla simulazione che è propria dell’attore e che lo rende però più simile al buffone che a colui che sia capace di turbare l’universo. Il dramma di Tomàs consiste in una perdita di identità che lo emargina dal mondo dei suoi affetti per immergerlo in quel mondo di falsità, prevaricazione e violenza in cui vivono gli agenti segreti. La rassegnazione che contraddistingue Tomàs lo induce a trascinare una vita-non vita, nella quale tutto ciò che accade semplicemente non accade, e tutto quello che esiste semplicemente non esiste. Ed è il rapporto col tempo che rende possibile tutto ciò, un tempo che si dilata e resta indeterminato: “Tomàs pensò, ricordò: - La storia è una trama di momenti senza tempo -(T. S. Eliot – Four Quartets)”. La progressiva perdita di speranza trasforma la vita di Berta, che affronta con coraggio la solitudine e i momenti di disperazione con quel senso di soffocamento che è proprio di chi soffre: “ Quel verso ora risuonava dentro di me: - Questa è la morte dell’aria diceva -. E in effetti non era come se mi mancasse l’aria, era qualcosa di peggio; come se l’aria non circolasse più, come se non ci fosse più in tutto l’universo e avesse cessato di esistere. E al termine di qualche verso che non capivo e che perciò non ricordavo Tomàs aggiungeva: - Questa è la morte della terra. - (T. S. Eliot – Four Quartets). Le frequenti citazioni tratte dalle opere di Eliot inducono a pensare che tutto il romanzo sia stato congegnato come una trasposizione in prosa dei versi del poeta, attraverso la realizzazione di personaggi che vivono nell’epoca contemporanea le stesse ansie e le stesse angosce dell’uomo del primo novecento. Marias ha costruito anche tecnicamente un romanzo perfetto, affidando alla narrazione in terza persona la parte che racconta la vita di Tomàs lontano da Berta, e alla voce di Berta il racconto della loro vita in comune e della sofferenza di entrambi. Ed è ancora con i versi di Prufrock che Tomàs descrive infine se stesso : “ I grow old…I grow old…I shall wear the bottoms of my trousers rolled”. Sentirsi vecchio e svuotato di speranze, lo rende simile a un fantasma, a una sorta di Hollow Man. La sua vita come quella di Berta, rimarrà per sempre sospesa, una vita come tante altre, solamente in attesa.
No! lo non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo;
?Io sono un cortigiano, sono uno ?
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due,?
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo, ?
Deferente, felice di mostrarsi utile,
?Prudente, cauto, meticoloso;
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
?Talvolta, in verità, quasi ridicolo – ?
E quasi, a volte, il Buffone.
Divento vecchio… divento vecchio… ?
Porterò i pantaloni arrotolati in fondo.
(T. S. Eliot – The love song of Alfred J. Prufrock )
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Nomen omen
Il destino di ogni individuo è certamente segnato dal luogo in cui nasce, dalla famiglia a cui appartiene, dalla cultura che ne condiziona le scelte, anche se non si può dire che questi elementi siano sempre definitivamente determinanti grazie al libero arbitrio di cui ciascuno può disporre.
“Chi è nato tondo nun po’ murì quadrato” è un detto che ricorre spesso nel romanzo di Fortunato Cerlino, “ Se vuoi vivere felice”. È lo stesso personaggio di Fotunato a spiegarne il significato: “ La prima volta che ho sentito questa frase me l’ha detta Tonino Naso ‘e cane. Significa che nessuno, per quanto lo desideri, potrà mai sfuggire alle sue origini, che sono anche il suo destino.” E le origini di Fortunato sono nella periferia più povera di Napoli, dove l’assenza delle istituzioni e la mancanza di lavoro costituiscono un terreno fertile per il radicamento della delinquenza più feroce. Generazioni di ragazzi trascorrono la maggior parte della giornata sulla strada, acquisendo dimestichezza con la prepotenza e la prevaricazione, per conquistarsi il rispetto dei coetanei. Si formano così O’ Lión , O’ Bulldog e Naso ‘e cane. Qui l’amore si impone non si conquista, l’odio e il rancore sostituiscono la solidarietà . Pur appartenendo ad una famiglia povera ma onesta, la frustrazione quotidiana del piccolo Fortunato lo induce a compiere piccoli furti nel grande Euromercato che appare a tutti come una sorta di Leviatano, con la sua mostruosa quantità di merci che offre al pubblico, sollecitando al consumismo. La consapevolezza di non essere in grado di affrontare e soddisfare i desideri indotti dal mondo circostante, genera rabbia e rancori nell’ambito familiare e fuori di esso. Fortunato che pure ha toccato il fondo nel momento in cui ha sottratto i soldi nascosti dalla mamma per il battesimo dell’ultimo nato, ha sempre coltivato un sogno, ha sempre sperato di diventare un celebre cantante, o un attore o uno “strologo”. Ed è il sogno che salva Fortunato, è il presagio contenuto nel suo nome che si fa realtà, quasi a dimostrazione che il miracolo, a cui spesso si allude nel corso del romanzo, può effettivamente verificarsi. Si, perché negli ambienti più poveri e degradati dove la speranza di una vita migliore si affievolisce con il passare dei giorni, ci si rifugia spesso nella superstizione.
Con una malinconica nostalgia del passato, quarantacinquenne, Fortunato ritorna a visitare Pianura, quella periferia abbandonata al degrado, per ritrovare se stesso, per dialogare col bambino che era stato, con l’ansia e il timore di non ritrovarlo più perché il tempo e il successo hanno cambiato tante, troppe cose. Ma il bambino Fortunato è sempre lì, in attesa di ricongiungersi con l'adulto in una prospettiva di serenità. È l’ora di lasciare svanire i rancori, di dare spazio a vite future, alla speranza e all’amore. È questo il messaggio del Fortunato/Savastano, è questa l’altra faccia di Gomorra.
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L’illusion du vrai
“Gli autunnali” di Luca Ricci non è solo un romanzo sull’amore e sull’innamoramento. È molto di più . Come spiega lo stesso autore in una nota aggiunta alla fine dell’opera, la storia deve molto all’arte di Guy de Maupassant. Ogni capitolo, infatti, è preceduto da una citazione tratta dal racconto “La chioma” del novellista francese. Ciò tuttavia non significa che manchi di originalità. Tutt’altro. Elemento fondamentale è il rapporto del personaggio col tempo. Il tempo ne condiziona la vita, le scelte, il lavoro, il tempo che con il suo scorrere inesorabile conduce fin troppo rapidamente a quell’età di mezzo che introduce alla parabola discendente della vita. E non a caso ritorna più di una volta l’immagine della foglia d’acero che con i suoi colori autunnali meglio di altre rappresenta l’approssimarsi della fine di un ciclo di vita. “La foglia d’acero si mosse – e credetti sinceramente che fosse la fine, che il picciolo avrebbe ceduto - , ma poi si mise a dondolare su se stessa. [……………] La foglia, dopo qualche altro tentennamento, si staccò e cominciò a girare. Turbinò nell’aria come una giostra, poi toccò terra e si sbriciolò troppo in fretta.”
Affascinato dalla bellezza del passato, deluso dalla banalità del presente e spaventato dal nulla che lo attende nel futuro, il protagonista de “Gli autunnali” rimane affascinato dalla fotografia di Jeanne Hébuterne, compagna di Amedeo Modigliani, che trova in un libro acquistato in un mercatino. L’amore per il passato si trasforma in una passione, un’ossessione che l’uomo materializza al punto da trasformarla in una realtà di cui diviene prigioniero. Da quel momento infatti egli è prigioniero di se stesso e dei luoghi in cui vive, del condominio in cui abita, del labirinto in cui si muove la sua mente. Nello stesso tempo la crisi esistenziale in cui si dibatte è la crisi artistica dello scrittore che rimane inerte di fronte alla pagina bianca.
La decadenza fisica si accompagna dunque a una decadenza artistica: tutto ciò nella città simbolo di splendore e declino a un tempo, in quella stessa Roma che non può non far pensare ad alcuni versi de Les antiquités de Rome di Du Bellay :“[…]Ne sentez vous augmenter votre peine/ quand quelquefois de ces costaux Romains/ vous contemplez l’ouvrage de vos mains/ n’etre plus rien qu’une poudreuse plaine?”
Siamo infine di fronte al grande enigma del rapporto verità- finzione, laddove la finzione assurge a metodo di indagine e conoscenza della verità. Bello e stimolante.
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I tanti volti del Male
“[…..]non siamo mai sazi di padre, nessuno di noi. La fame di padre ce la trasciniamo per tutta la vita. Non ne abbiamo mai abbastanza, non tanto del padre vero [….] ma proprio di quelli vicari, o immaginari. Dio, il medico dell’Asl, il poliziotto buono, il capo. Qualunque capo: del branco, del governo, dell’ufficio. Anche il prof, perché no? [….] e il parroco, naturalmente.
Se c’è uno scrittore che conosce e sa descrivere il mondo dei giovani, quello è Raul Montanari.
Nel suo ultimo bellissimo romanzo Montanari ci pone di fronte ad alcuni tra i temi più scottanti e problematici della società contemporanea: primo tra tutti il rapporto genitori/figli, insegnanti/allievi, genitori/insegnanti, ma anche l’evidente degenerazione e accentuazione del bullismo dovuto all’uso spregiudicato e delinquenziale dei moderni mezzi tecnologici, il diffondersi delle droghe pesanti tra i giovanissimi, con una conseguente alterazione della personalità che scaturisce il più delle volte in violenza fisica e psicologica. Nessuna superficialità nel trattare argomenti così impegnativi e così seri. Ogni personaggio ha uno spessore psicologico che lascia trasparire uno studio approfondito del carattere da parte dell’autore. Ciò fa sì che ci troviamo di fronte a una galleria di personaggi simili ai molti che malauguratamente si incontrano oggi un po’ dovunque.
Il luogo in cui la storia si svolge è molto importante: una piccola bella valle poco lontano da Milano, un microcosmo isolato dal resto del mondo, dove tuttavia non regnano armonia e pace ma la prepotenza e l’arroganza di un gruppo di persone che prevarica il resto della comunità . La scuola media inferiore, nella quale giunge Marco, per esercitare la sua professione di insegnante, è,come sempre accade, specchio della società civile che popola la valle.
Marco non è e non vuole essere un eroe. Anzi è l’antieroe per eccellenza che tuttavia, consapevole dei suoi limiti, trova l’unico coraggio credibile in tempi come questi, un coraggio che non prescinde da un misto di paura e di viltà, per affrontare con dignità una situazione difficile. A lui, cresciuto ed educato da un padre manesco e gretto e una madre meschina, si contrappone Rudi, il capobranco, spavaldo e prepotente. È molto interessante notare come questi due personaggi abbiano reagito diversamente ad un rapporto del tutto negativo con i genitori. Marco, umiliato nell’infanzia e spesso maltrattato, ha sviluppato un grande desiderio di autonomia e indipendenza, ha puntato sull’impegno e ha potuto staccarsi con dignità dall’ambiente familiare, senza avere mai assunto il padre come modello di vita. Rudi, al contrario, pur mortificato nell’ambiente familiare da un padre rozzo e prepotente, vede nel genitore un modello da seguire e sviluppa e accentua quell’aggressività che lo annienterà. Il rapporto genitori/figli viene dunque attentamente analizzato dall’autore anche negli altri personaggi.
Caduta ogni barriera di rispetto e autorità anche per l’intervento negativo e controproducente dei genitori che si schierano in difesa di figli problematici e ribelli, il rapporto insegnante/allievo diviene una continua sfida, un continuo gioco di provocazione. L’arroganza dei padri altro non è che la manifestazione di un consapevole fallimento del loro ruolo di educatori.
Fin qui si potrebbe sostenere, a ragione, che il problema del rapporto generazionale è sempre esistito anche nel passato. Oggi, tuttavia, le cose sono cambiate, perché sono intervenuti fattori nuovi che hanno contribuito ad aggravare la situazione in modo allarmante: la droga e il cyberbullismo.
L’assoggettamento del più debole, la violenza psicologica e sessuale sono purtroppo fenomeni che si stanno diffondendo pericolosamente, come testimoniano le cronache di questi tempi. L’orrore che ne scaturisce non può certo cancellare quello generato dalle guerre, dalle persecuzioni e le stragi, ma di sicuro non è meno rilevante. E qui il personaggio dell’ambiguo maggiore Novak è emblematico.
La brutalità giovanile e la violenza della guerra, temi di grande attualità su cui riflettere. D’altronde è questo il fine della letteratura: raccontare delle storie che ci facciano riflettere, porci di fronte ai problemi reali della nostra società, perché se ne possa prendere coscienza e si possa in qualche modo contribuire ad affrontarli se non risolverli.
Un romanzo molto molto bello, una storia che ci riguarda tutti.
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Adieu Volodia
Uno stupendo romanzo breve che narra del lungo viaggio di Mathias verso la Siberia, per accompagnare l’amico Vladimir alla sua ultima dimora.
Il treno attraversa un paese sconfinato e il paesaggio rimane come cristallizzato negli occhi del viaggiatore. Col treno procedono i pensieri, i ricordi e la nostalgia dell’amore, dell’ebbrezza delle droghe, della mente offuscata. È un percorso intellettuale attraverso la letteratura che racconta e racconterà in eterno la vita dell’uomo. Riaffiorano il mito del giovane Dean Moriarty di Kerouac e dei personaggi di Conrad, storie di amicizie indissolubili e amori condivisi.
Si attraversa la Russia della grande cultura da Tolstoj a Esenin a Majakovskij, la Russia degli Zar e della rivoluzione ma anche la desolazione e la solitudine della Siberia. Come lo scorrere dei grandi fiumi, inarrestabile procede il flusso dei pensieri di Mathias, nel suo sofferto monologo interiore.
Grande è il rimpianto per quei momenti di confusione e ambiguitá che hanno caratterizzato un amore che non sapeva scegliere, perché scegliere vuol dire escludere. E infine giunge il sonno, come elemento ristoratore, come fuga definitiva dal dolore, dalla realtà e dalla vita.
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Quando la Storia diviene grande narrativa.
“Resto qui” di Marco Balzano: un romanzo dalla prosa essenziale, che non fa uso di inutili metafore, ma che va diritto al cuore nel descrivere fatti, situazioni, sentimenti. Anche l’amore, come l’odio e il dolore sono sussurrati, non urlati, ma non per questo meno forti. Personaggi veri, pur nella loro fittizia creazione artistica, che restituiscono credibilità ai luoghi e alle vicende storiche: tali sono Trina e Erich, Michael e padre Alfred, Ma’ e Pa’. Lo sfondo è quella parte del nostro paese più vicina al confine con l’Austria e con la Svizzera, dove il bilinguismo è stato per un lungo periodo più un problema che un vantaggio. Siamo a Curon in Val Venosta, dove durante il ventennio fascista e negli anni della seconda guerra mondiale la popolazione si sentiva più affine e vicina alla Germania che all’Italia e insegnare il tedesco era reato. Paradossalmente il Reich veniva visto come garante di libertà e benessere. L’illusione tuttavia sarebbe svanita con lo scoppio della guerra. Questa la situazione lacerante per molte famiglie del luogo, come quella di Trina e Erich, che dopo aver visto impotenti sparire la giovane figlia che segue gli zii attratta dal mito nazista, assistono all’arruolamento del figlio Michael nell’esercito del Fuhrer. Essi stessi, costretti a nascondersi nei boschi, dopo la diserzione di Erich, ormai disgustato dalla guerra, faranno infine ritorno nel loro paese ormai segnato dalle vicende belliche, dopo avere sofferto povertà e fatica, fame e solitudine.
La vita a Curon è ormai minacciata dalla costruzione imminente della diga che cambierà l’aspetto di tutto il territorio e sottrarrà la terra all’agricoltura e alla pastorizia, spazzando via case e masi.
“Il silenzio fermo delle montagne era sepolto sotto il rumore incessante delle macchine che non si fermavano mai”.
Anche la fede viene messa a dura prova, non resta che trovare in se stessi le risorse e le energie per andare avanti: “ La domenica siamo andati a sederci sulle panche della chiesa per l’ultima messa . Sono venuti a tenerla decine di preti da tutto il Trentino […..] È stata una messa che non ho ascoltato. Troppo presa a conciliare l’inconciliabile: Dio con l’incuria, Dio con l’indifferenza, Dio con la miseria della gente di Curon […..] Nemmeno la croce di Cristo si conciliava coi miei pensieri, perché io continuo a credere che non valga la pena morire sulla croce, ma è meglio nascondersi, farsi tartarughe e ritirare la testa nel guscio per non guardare l’orrore che c’è fuori.”
Solo la torre del campanile, così come oggi la si può ammirare, emergerà infine dalla valle allagata, simbolo eterno della violenza dell’uomo sull’ambiente.
La vicenda dolorosa di personaggi tenaci e coraggiosi diviene dunque il pretesto per parlare dell’arroganza del potere e dell’ipocrisia della politica.
Un libro bellissimo, profondo e commovente.
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La difficoltà di essere vittime.
“Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo.”
Si, chiedere perdono non è facile, specialmente quando si raggiunge, dopo lunga riflessione, la consapevolezza di avere commesso tragici errori, di aver procurato dolore immenso ad altri, di averne tragicamente mutato le sorti e le prospettive di vita.
Nel suo bellissimo romanzo “Patria” Fernando Aramburu descrive il dramma che sconvolge la vita di due famiglie basche, legate da profondi sentimenti di amicizia, che si trovano improvvisamente schierate politicamente su fronti opposti. Non c’è nulla che possa dividere o unire più della passione politica e trovarsi su campi avversi può significare distruggere anni di concordia, di affetto reciproco, di leale confidenza. È quanto accade alle famiglie di Joxian e del Txato, all’indomani dell’assassinio di quest’ultimo a opera dell’ETA, nelle cui fila milita Joxe Mari, figlio di Joxian e Miren. Di solito ciò che più colpisce in un attentato terroristico è l’efferatezza del crimine, la morte delle vittime colpite, ma poco ci si sofferma sulla sofferenza delle vittime sopravvissute, su come la loro vita cambi, sconvolta da una vicenda così tragica. Sui familiari superstiti, poco si dice o quanto meno se ne parla brevemente e superficialmente. Ma il terrorismo è un atto che di per sé si estende ad un più vasto numero di persone e non è solo mirato a generare paura nella popolazione innocente, è una azione portata avanti con un pretesto ideologico esasperato e male interpretato che trova il sostegno di una parte contro un’altra e travolge soprattutto i familiari, vittime silenti. Quale sarà la vita degli orfani, delle vedove, dei padri?
Aramburu scrive con equilibrio e pacatezza, denunciando, attraverso i suoi personaggi, l’inganno di ideologie che diffondono l’odio e combattono con la violenza, eppure non risparmia pagine che denunciano le vergognose torture alle quali lo stato democratico sottopone i sospetti.
Splendide le figure femminili di questo romanzo, da Bittori a Miren a Arantxa a Nerea. Figure dal carattere deciso, volitive, pronte ad affrontare i momenti più difficili con coraggio e caparbietà , facendo dell’orgoglio un punto d’onore, dal quale non recedere mai. E nella tragicità della vicenda, i personaggi maschili mostrano più di una fragilità, da Joxian a Gorka, che trova nella poesia un rifugio che lo tenga lontano dalla violenza della vita. E Joxe Mari, il terrorista, colui il quale aveva combattuto e sbagliato per seguire un falso ideale è quello che paga con la perdita della libertà e porterà indelebili sul suo corpo i segni dei suoi errori e della abietta repressione di un regime che si dice democratico.
Un romanzo coinvolgente, che indigna e commuove, che conduce con la passione dei suoi personaggi in un mondo di esperienze memorabili.
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Maschere, avatar e il “gorgo” veneziano.
Tre personaggi, tre storie, tre approcci diversi alla realtà. Un gioco di maschere, in una città, Venezia, nota per le sue “bautte”. È, infatti, proprio il tema del rapporto realtà e apparenza che sembra essere più interessante in questo romanzo semplice e tuttavia complesso allo stesso tempo. Il mondo del famoso telecronista sportivo, Nereo Rossi, convinto di essere ormai alla fine dei suoi giorni, a causa di una malattia degenerativa, è diverso sia da quello del professore Cazzavillan che sogna di diventare scrittore di successo, sia da quello del giovane tuttofare, Carletto Zen, a caccia perenne di attempate ricche signore che possano offrirgli facili opportunità di vita migliore. Il tutto sullo sfondo del “gorgo” commerciale veneziano. Ciascuno di questi personaggi offre di se stesso un’immagine che differisce da quella che effettivamente costituisce la sua essenza. Ognuno, in fondo, gioca un ruolo, entra in una finzione scenica, quasi fosse protagonista di un dramma teatrale. Ognuno si dibatte tra l’illusione e la realtà e la personalità di ciascuno rimane temporaneamente sospesa in questo gioco di maschere che diviene il mezzo per conoscere e analizzare se stesso.
Nel caso di Cazzavillan, l’aspirante scrittore, la problematica dell’identità diviene assai più complessa, nel momento in cui si trova ad agire nei panni del suo avatar in un videogioco, per salvare il figlio adolescente che rischia di rimanere tagliato fuori dal mondo, come uno dei numerosi hikikomori della nostra epoca. Ed è proprio il videogioco che è “fatto di nulla, impastato di non-essere, che dà la dimensione dell’illusorietà del mondo degli avatar, che “ si muovono in paesaggi artificiosi [……] dove le immagini fingono di essere tridimensionali, solide e profonde. Ma la terza dimensione non c’è […..] non c’è il volume.”
Alla forza delle parole si rivolge anche il celebre cronista Nereo Rossi, quelle parole che sono state lo strumento del suo lavoro, che hanno saputo creare una realtà ricca di immagini per chi le ascoltava. Ad esse si rivolge per rimanere attaccato a un mondo sfuggente e mutevole. Qui, come ne “Il brevetto del geco” Tiziano Scarpa allude alla forza del mezzo espressivo e della letteratura, alla quale va restituita quella dignità che spesso le viene negata. Non è un caso che l’autore affidi al personaggio di Cazzavillan un giudizio sul genere “noir” in un più ampio discorso sul romanzo.
Su questo panorama narrativo, con questi personaggi che mostrano più di un limite caratteriale, più di una debolezza umana, si affaccia severo il cipiglio del gufo. Nessuna immagine avrebbe potuto esprimere con maggiore efficacia la presenza vigile della coscienza che segue ogni percorso di vita con gli stessi occhi spalancati e seri del gufo che emergono da “sporgenze fatte di penne che partono dalla sommità del becco e proseguono fino alle orecchie [….] rendendo lo sguardo del gufo ancora più torvo: come se lo spazio del viso non gli fosse sembrato sufficiente a contenere tutto il suo sdegno.”
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Distopia si, distopia no.
Inizierò dal giudizio conclusivo. Non mi è piaciuto. E cercherò di spiegarne i motivi, quanto più dettagliatamente possibile.
Se il cinquecento e il seicento videro la pubblicazione di opere quali Utopia (1518) di Thomas More, La città del Sole (1602) di Tommaso Campanella, o ancora New Atlantis (1623) di Francis Bacon, come risposta a quelle istanze e aspirazioni al cambiamento generate dalla crisi profonda della società medievale e dal declino del sistema feudale, opere che hanno rappresentato il sogno utopico della realizzazione di una società ideale, dove regni la pace e domini la cultura, il ventesimo e il ventunesimo secolo, al contrario, hanno visto e vedono tuttora la pubblicazione di romanzi che sono stati definiti distopici. Già questo dovrebbe farci riflettere. Ciò fa supporre, infatti, che nell’epoca in cui viviamo stiamo perdendo gradualmente la capacità di sognare o di prospettare un futuro migliore per le generazioni a venire. Tralasciando le opere di Huxley (Brave New World, 1932) e di Bradbury (Fahrenheit 451, 1953), il romanzo distopico più celebre è certamente quello che iniziò George Orwell nel 1948 e che fu poi pubblicato l’anno successivo con il titolo 1984, un’opera che nacque dalla consapevolezza di quella crisi dei valori del socialismo, tradito nella sua realizzazione nei paesi comunisti e fascisti. Scritto ardito per l’epoca ma scaturito dall’osservazione della realtà contemporanea. Una distopia, infatti, per quanto preconizzi un assetto politico e sociale immaginario, non prescinde dalla realtà da cui trae spunto.
È del 2015 il romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione, che ha fatto molto discutere, per il quadro allarmante che prospetta per la nostra società e per la cultura occidentale in declino, dominata ormai dal Partito della Fratellanza Musulmana. La lettura di questo romanzo, all’indomani degli attacchi a Parigi al giornale Charlie Hebdo e al Bataclan risulta di grande impatto emotivo. Dunque anche in questo caso la distopia fantapolitica trova le sue radici nella realtà della nostra epoca.
Veniamo ora al romanzo di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, riedito da Ponte alle grazie, dopo il successo della serie televisiva proposta da Hulu. Esaminiamo ciò che non convince in questa creazione distopica.
La storia è ambientata nella Repubblica di Galaad, che altro non è se non la trasformazione e la degenerazione degli Stati Uniti in una repubblica a regime totalitario, in cui le donne fertili sono diventate schiave allo scopo di procreare figli per coppie sterili, una sorta di contenitori da riempire per incrementare le nascite. La donna perde così ogni diritto fin qui acquisito, diviene uno strumento, tutto il suo passato e i suoi legami affettivi azzerati. Tutto ciò per rispondere alle esigenze di questo stato totalitario e oltretutto teocratico.
Il paradosso, che pure è alla base di tutte le opere fin qui citate, non ha in questo caso un fondamento giustificato. Se nel caso di Orwell e di Houellebecq la distopia trae origine da una situazione politica e sociale che ha un fondamento nella storia recente, come si può preconizzare una riduzione a tale schiavitù del genere femminile in un paese in cui esso ha lottato per raggiungere un livello di emancipazione avanzato seppure non perfetto? Siamo consapevoli del fatto che un deprecabile sessismo strisciante si sia impadronito di alcuni ambienti e sia dilagato trasversalmente nella stessa società americana, eppure una situazione quale quella immaginata nel romanzo della Atwood sarebbe impensabile in qualsiasi paese occidentale, che ha combattuto per i diritti civili, per la parità di genere, per il testamento biologico o le unioni civili, un paese in cui si può liberamente parlare di fecondazione assistita e utero in affitto. Che in molti paesi la donna viva in una realtà che la rende schiava e la priva di ogni diritto civile, una realtà che la usa e ne abusa, che la condanna persino alla lapidazione in caso di adulterio, è cosa tristemente nota, ma ipotizzare uno scenario simile in un futuro prossimo in un qualsiasi paese occidentale, priva, a mio avviso, la distopia di quella caratteristica indispensabile alla sua “credibilità” e cioè del riferimento ad una situazione sociale e politica davvero profondamente allarmante.
In quarta di copertina del libro della Atwood si legge una nota tratta da Vanity Fair: “Molti sostengono che sia una lettura di vitale importanza nell’era di Trump, forse anche più preveggente e forte di 1984.” Ora se è pur vero che abbiamo ascoltato inorriditi gli apprezzamenti dell’attuale Presidente americano riguardanti il genere femminile, ricordiamoci però che la ribellione e la protesta si è fatta sentire poco dopo con la denuncia dello scandalo Weinstein.
Ecco perché giudico l’opera della Atwood una distopia totalmente avulsa dal contesto sociale e politico attuale. Perché la distopia deve avere radici nella realtà, a meno che non se ne faccia una satira politica come nel caso della Modesta Proposta di Swift, anche se pure in quel caso non si può ignorare il retroterra politico e sociale dal quale l’autore aveva tratto spunto.
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Due donne, due mondi in contrapposizione.
Una narrazione incisiva, un’opera dura, difficile da definire romanzo, “La porta” di Magda Szabó fu pubblicata nel 1987. Due i personaggi principali al centro delle vicende raccontate, due donne forti e volitive, l’una l’opposto dell’altra. È il mondo del lavoro intellettuale della scrittrice Magda, che viene in conflitto con il mondo del lavoro manuale di Emerenc, domestica dal carattere scontroso e dispotico. Il rapporto individuo/società, vivi/morti, verità/ finzione, giustizia/ingiustizia è ampiamente affrontato e approfondito sullo sfondo appena accennato della drammatica storia dell’Ungheria del Novecento. Nelle parole di Emerenc, delusa dalle riprese del film alle quali aveva assistito, tutta l’amarezza di chi considera l’arte inganno e artificio: “Non c’era niente di vero, eravamo noi che muovevamo gli alberi, di cui si vedevano solo le chiome, usando dei trucchi, qualcuno aveva scattato le fotografie dall’elicottero che girava in tondo sopra il set, nemmeno i pioppi si muovevano, mentre lo spettatore avrebbe dovuto credere che l’intera foresta saltasse, ballasse, volteggiasse. Quella non era altro che menzogna, orrore.” Alla scrittrice l’arduo compito di spiegare la funzione dell’arte: “ Credeva forse che suscitare l’illusione della realtà non fosse arte?”
Nella personalità complessa e enigmatica di Emerenc il dualismo religiosità e ateismo trova una giustificazione nella sua spontanea attitudine cristiana di soccorrere il prossimo in difficoltà al di là di ogni professione di fede religiosa o politica, lei così scettica su una possibile vita dopo la morte, vuole tuttavia erigere una tomba monumentale per la sua famiglia: “Allora a che serve una tomba, Emerenc? Perché vuole riunire sua madre, suo padre, i gemelli in quella favolosa tomba? Se fosse come lei dice, basterebbe la malva sul bordo delle fosse. La gramigna.” “ Lei e la sua famiglia possono stare in mezzo alla malva, ma io e i miei morti no. I morti non sentono, ma pretendono rispetto e noi dobbiamo darglielo…”
In fondo, nonostante l’apparenza, è l’amore che muove Emerenc, che ne condiziona ogni azione, che ne scatena la passione e a tratti l’odio. È l’amore che la induce a chiudere il mondo fuori della sua porta di casa, a prodigarsi per tutti senza ammettere nessuno nella sua Città Proibita. Ed è proprio per aver troppo amato che si sente ripetutamente tradita, lei che alla base di ogni azione e ogni legame pone il concetto di lealtà e solidarietà.
Un libro profondo che indaga sugli enigmi dell’esistenza umana, nel tentativo di dare risposte agli interrogativi più inquietanti che da sempre affliggono l’umanità.
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Tra ottocento e novecento
Casa Howard (Howards End, 1910), Camera con vista (1908) e Passage to India (1924), sono le opere di maggior successo e certamente le più significative di Edward Morgan Forster, uno scrittore che forse meglio di altri rappresenta il grande mutamento culturale e sociale in atto nel primo novecento, ancora legato in parte ai canoni estetici e morali del secolo precedente, ma già portatore delle istanze innovatrici destinate ad affermarsi definitivamente qualche decennio più tardi.
I personaggi di Casa Howard nella loro diversa collocazione sociale e culturale rappresentano il difficile cammino verso l’integrazione e il superamento di ogni pregiudizio.
Il mondo di Margaret e Helen, culturalmente evoluto, fatto di sostenitori delle dottrine socialiste, del suffragio universale e della parità di diritti delle donne è diametralmente opposto al mondo dei Wilcox, esponenti della ricca e altolocata borghesia, legata ai propri privilegi, non priva di atteggiamenti ipocriti e paternalistici.
Eppure persino tra Margaret e Helen esistono differenze sostanziali: la prima, pur essendo teoricamente emancipata, non sa rinunciare ad alcuni atteggiamenti di subalternità nel rapporto con il marito Henry Wilcox, rimanendo così ancora legata alla figura della donna ottocentesca, fino al decisivo atto di ribellione. Helen al contrario si schiera con decisione e costanza a favore di ogni libertà al punto da scegliere di avere un figlio dal giovane Bast, proletario perseguitato dalla sfortuna, personaggio che sembra uscito da un romanzo di Dickens.
Non è un caso che le figure femminili di questo romanzo siano portatrici di valori positivi, vicine a quelle tratteggiate dalla penna di Virginia Woolf, mentre quelle maschili mostrano tutti i limiti di una cultura superata e di una società vecchio stampo.
In questo romanzo Forster dimostra quanto gli siano cari i temi sociali, i rapporti tra le le classi, così come in Passage to India mette l’accento soprattuto sui rapporti tra le varie nazionalità. Il metodo per giungere alla comprensione della realtà consiste nel connettere elementi distanti e contrastanti, come del resto dimostra lo stesso sottotitolo di Casa Howard – Only connect.
È indagando nella coscienza dei personaggi che Forster cerca di penetrare il significato della vita e di rappresentarne il dramma. Un’ opera che formalmente è ancora legata agli schemi ottocenteschi ma i cui contenuti la inseriscono a pieno titolo nella realtà novecentesca.
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Murakami, Calvino e il picaro giapponese.
Leggere “Kafka sulla spiaggia” dopo aver letto le “Lezioni americane” di Italo Calvino è un’esperienza del tutto singolare, per certi versi entusiasmante, è come seguire l’applicazione e la realizzazione d’una teoria del romanzo. Non è un caso che Murakami abbia scelto come protagonista della sua opera un ragazzo quindicenne, un Huck Finn giapponese, un picaro discendente di Lazarillo, affine ai tanti descritti dalle letterature di tutto il mondo, un po’ Dean Moriarty, un po’ giovane Holden. La formula del romanzo picaresco ha sempre appassionato gli scrittori, nella misura in cui esprime al meglio quell’esigenza di ricerca e quel desiderio di conoscenza, che porta il protagonista perennemente on the road. Il movimento è dunque il punto centrale di questo romanzo ed è proprio il movimento che ci induce a fare riferimento a quelle che potremmo definire delle categorie che Calvino identifica come componenti essenziali di un racconto. Egli infatti definisce i concetti di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità, che fanno del racconto e del romanzo uno strumento di conoscenza della realtà. Ebbene, queste componenti sono tutte presenti nel romanzo di Murakami, quasi avesse egli stesso seguito lo schema delle Lezioni americane. “Kafka sulla spiaggia” è stato indubbiamente costruito con uno schema preciso nel quale spesso ad un personaggio ne corrisponde un altro che è parte di una storia apparentemente parallela, come nel caso di Tamura Kafka e di Nakata, storie che si dipanano autonomamente ma che finiscono per convergere e completarsi. Qui si evidenzia quella caratteristica di molteplicità di cui parla Calvino, proprio per questa scomposizione della storia in episodi paralleli, al cui interno, con alcune digressioni, si inseriscono altre brevi storie. La scomposizione della materia dà come risultato quella leggerezza creata appunto dalla scrittura e che è strettamente legata alla mobilità. D’altra parte anche il sogno, così presente nella vita di Tamura Kafka, è qualcosa di leggero e impalpabile e diviene esso stesso mezzo di conoscenza. Kafka e Nakata, sono alla ricerca della verità, si muovono verso una meta sconosciuta che sia rivelatrice del significato della vita. È un viaggio che ha luogo attraverso l’uso della metafora e la letteratura rivela qui la sua funzione esistenziale. Il viaggio di Nakata procede alla ricerca di quella pietra che rivelerà il confine tra la vita reale e la vita al di là della vita, dove il tempo è immobile e gli orologi non hanno ragione di esistere. E la pietra può essere trovata solo da Nakata che rappresenta la purezza, l’essere incontaminato, che non serba ricordi e fugge da una realtà terribile della quale non vuole fare parte. Con Nakata, con la sua capacità di parlare ai gatti, siamo nella sfera visionaria e fantastica che fa dell’immaginazione un altro strumento di conoscenza, in questa ottica il personaggio del colonnello Sanders è raffigurato proprio come una sorta di cavaliere inesistente, simile a quello di Calvino, “un’armatura vuota che si muove e parla come se ci fosse dentro qualcuno” (Calvino – Lezioni americane - Visibilità) egli è in sé, forma e non sostanza, l’espressione stessa della leggerezza.
Proprio il ritrovamento della pietra, quella pietra che non poco ricorda la pietra filosofale, simbolo di una esperienza interiore vissuta per un fine spirituale, permette l’apertura di quella porta attraverso la quale Kafka passerà per completare la sua esperienza di conoscenza di sé e del mondo. Un viaggio quasi dantesco, un’avventura simile a quella di Alice, che gli permetterà di ritornare tra i vivi, ormai consapevole dei limiti del mondo che lo circonda, ma pronto ad accettarlo. Sarà il momento in cui Tamura Kafka si ricongiungerà con il suo alter ego, con il ragazzo chiamato Corvo, la sua coscienza, che lo ha costantemente seguito nel suo lungo e avventuroso viaggio.
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Coraggio e senso di giustizia salveranno il mondo
I racconti di Murakami ci proiettano in un mondo al confine tra immaginazione e realtà rendendoci difficile distinguere l’una dall’altra e evidenziano l’inganno in cui conduciamo le nostre vite.
In “Ranocchio salva Tokyo” il protagonista Katagiri è un piccolo borghese che non spicca né eccelle per le sue qualità. E’ un piccolo uomo mediocre, scrupoloso nel suo lavoro, che si distingue solo per il suo senso di giustizia. È nel suo delirio onirico che egli si confronta con il gigantesco Ranocchio che chiede il suo aiuto per salvare Tokyo da un devastante terremoto che sarà provocato da un disgustoso enorme lombrico che dimora in profondità sotto la città. La lotta tra il bene e il male, tra giustizia e iniquità sarà combattuta fisicamente da Ranocchio con l’appoggio morale di Katagiri.
“Come dice Nietzsche, la saggezza più grande è non avere paura” ricorda Ranocchio. Ed è questo l’atteggiamento di Katagiri nell’ esigere i crediti per la società finanziaria per cui lavora. Qui è palese la critica di Murakami nei confronti di certi ambienti della finanza che troppo spesso portano avanti un gioco duro e senza scrupoli.
La battaglia tra il male e il bene sarà uno scontro violento tra il buio e la luce. “Questa cruenta battaglia si è svolta tutta nell’immaginazione. È quello il nostro campo di battaglia. È lì che vinciamo e siamo sconfitti. Naturalmente siamo tutti esseri limitati e alla lunga finiremo per perdere. Però, come aveva intuito Hemingway, il valore definitivo della nostra vita non sarà determinato da come avremo vinto, ma da come avremo perso.”
Né è il solo Hemingway a essere citato da Murakami: egli fa riferimento alla Anna Karenina di Tolstoi e al Sognatore delle Notti Bianche di Dostoevskij per il grande significato simbolico dei personaggi.
Come da un lato Anna risolve il suo lacerante conflitto interiore, lanciando se stessa e i suoi sogni contro la brutale realtà della locomotiva, e dall’altro l’uomo di Dostoevskij viene abbandonato da quel Dio che egli stesso ha creato, così il mondo immaginario di Katagiri si scontra con quello reale, non meno terrificante, che egli identifica infine proprio con la locomotiva di Anna Karenina.
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Dimensione pubblica e privata nel concetto di dign
Stevens, l'impeccabile maggiordomo inglese al servizio di Lord Darlington, è il protagonista del magnifico romanzo di Ishiguro "Quel che resta del giorno". Il tema del viaggio, così caro alla letteratura anglosassone, dà forma ad una narrazione in prima persona, ricca di flash-back, che ci consegna un ritratto esaustivo del personaggio e mette l’accento sui punti di forza e di debolezza della cultura e della società britannica.
Al centro del romanzo è il concetto di dignità.
Dalla sua condizione particolare di maggiordomo, Stevens definisce la “dignità” con la “capacità di non abbandonare il professionista nel quale si incarna”. È la dimensione privata che viene soffocata e repressa per assolvere in modo impeccabile ai doveri professionali. Non manca, a questo punto, una considerazione severa sul comportamento e sulla attitudine di coloro che non appartengono al Regno Unito: “Gli europei non sono in grado di fare i maggiordomi, perché come razza non sanno mantenere quel controllo emotivo del quale soltanto la razza inglese è capace […..] in una parola, la dignità è qualcosa che trascende simili personaggi”. E qui è palese l’atteggiamento discriminatorio rispetto al continente del quale spesso i britannici hanno dimostrato di non sentire di fare parte.
Il tono di Ishiguro è qui sottilmente ironico come in molti altri brani del romanzo. Egli non risparmia infatti il personaggio dell’americano Mr Farraday, succeduto a Lord Darlington nella proprietà di Darlington Hall. Il nuovo padrone di Stevens non ha lo stile e il tratto del Lord inglese, tratta il maggiordomo con fare troppo confidenziale e grossolano. “Sono certo- dice Stevens- che egli stesse semplicemente dilettandosi in quel tipo di tono scherzoso che negli Stati Uniti è segno, non vi è dubbio, di una intesa corretta e amichevole fra datori di lavoro e dipendente, e alla quale ci si dedica come ad uno sport affettuoso.”
Con il procedere della narrazione assistiamo al graduale mutamento del personaggio Stevens, che, avvitato dapprima su se stesso in una situazione di ambiguità, si snoda verso una più chiara e definita posizione. Lo stesso concetto di “dignità” in lui così fermamente e indiscutibilmente radicato viene progressivamente riconsiderato alla luce degli eventi che mettono in discussione la personalità di Lord Darlington, offuscata dalle ombre cadute su di lui in seguito alle sue frequentazioni e al suo sospetto collaborazionismo con il nazismo. E sarà lo stesso Stevens a porsi in fondo il quesito se sia giusto adempiere fino in fondo ai propri compiti mantenendo un rigoroso riserbo, mettendo a tacere la propria coscienza, in breve soffocando la propria personalità, oppure reagire in nome di quell’onestà intellettuale che è parte integrante della coscienza. Qui entrano in collisione rigore e onestà, e ci si chiede quale etica debba prevalere, quella che ha sede nel mondo della libertà o quella pubblica che privilegia la forma rispetto al contenuto. Lo stesso Stevens darà una risposta tacita, nel momento in cui non considererà più punto d’onore l’avere servito Lord Darlington. Egli comincia a porsi degli interrogativi sin dal momento in cui impone a miss Kenton il licenziamento di due domestiche ebree. E sarà proprio il confronto con Miss Kenton a scuotere in fondo la sua coscienza troppo a lungo repressa. Sarà per lei che intraprenderà il suo viaggio, che si rivelerà un momento di crescita spirituale anche se avrà avuto luogo in quel tempo della vita in cui la luce sta per spegnersi.
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La memoria ha bisogno di radici
“Nelle grandi città , le persone che si sono perse di vista da tempo, o che non si conoscono, si ritrovano una sera su una terrazza per poi perdersi di nuovo. E nulla è davvero importante.”
In queste righe il vero tema del romanzo di Patrick Modiano “ Dall’oblio più lontano” uscito in questi giorni edito da Einaudi. Una storia semplice, apparentemente banale, che vede come protagonisti un giovane ventenne che vive della vendita occasionale di libri vecchi, una donna, Jaqueline e un uomo, Gerard Van Bever, di cui non si sa nulla, che si mantengono con le vincite al gioco nei casinò di provincia e di piccoli traffici poco chiari. Ciò che accomuna questi personaggi è la mancanza assoluta di radici stabili. Ognuno fugge da un passato al quale si accenna solo brevemente o che si ignora del tutto. Tre individui che gestiscono la loro libertà senza tuttavia riuscire a raggiungere uno stato di serenità che possa garantire loro un minimo di felicità. Il loro è un continuo vagabondare per le strade di Parigi, con qualche sosta nei bar, dove spesso allacciano relazioni casuali e superficiali con sconosciuti, senza tuttavia colmare quella profonda solitudine che non li abbandona. E i loro giorni senza meta trascorrono pervasi dal profumo penetrante dell’etere, facile rifugio nei momenti peggiori. Sullo sfondo di queste vite senza passato e senza futuro, una Parigi descritta dettagliatamente, itinerario per itinerario. Una Parigi che è l’unico punto fermo, l’unica certezza per queste esistenze alla perenne ricerca di una identità . Ed è proprio l’assoluta mancanza di identità la caratteristica principale del protagonista, di cui non conosciamo neanche il nome. E d’altronde anche per Jaqueline il nome ha carattere di provvisorietà: dopo essere scomparsa per lunghissimi anni, ella riappare con un nome diverso, Therèse. Dunque la realtà è ingannevole quanto mutevole. L’unica certezza che resta è la città con la sua toponomastica, con i suoi percorsi immutati, l’unica possibile sede di una memoria che svanisce se non radicata nel passato e proiettata verso il futuro.
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Fata turchina, ti prego....
“Fata turchina, ti prego, fammi diventare un bambino vero”. Sono queste le drammatiche parole di David, il bambino-robot, protagonista del film di Spielberg “AI - intelligenza artificiale” ed è a questo film, con tutti i dovuti distinguo, che fa pensare il bel romanzo di Ishiguro “Non lasciarmi”. Film e romanzo hanno infatti alcuni temi in comune, primo fra tutti quello della autoregolamentazione della ricerca scientifica, che pur nella legittima e auspicabile corsa verso il progresso non può ignorare i limiti che l’etica impone per non degenerare e generare mostri. Secondo, non meno importante, quello dell’esistenza di un’anima che condiziona la vita, i sentimenti e i rapporti umani.
Nel romanzo di Ishiguro seguiamo le vicende di tre giovani, Kathy, Thommy e Ruth, cresciuti e educati in un collegio, Hailsham, immerso nella campagna inglese. La voce narrante è quella di Kathy, che solo poco alla volta svela al lettore, anche attraverso un linguaggio specifico, tecnico, di condividere con i suoi compagni e amici una realtà del tutto particolare e insolita: essi sono dei cloni, creati su dei modelli, definiti “possibili”, per divenire donatori di organi. Al collegio e ai suoi insegnanti è affidato il compito di educare questi giovani oltre alle consuete discipline, anche all’arte, alla musica, alla pittura. In realtà essi crescono nell’ignoranza della sorte che li attende. E’ la mancanza di radici ciò che colpisce immediatamente, l’assenza di un affetto materno, fondamentale nella crescita di ogni individuo. E’ la stessa mancanza che porta il piccolo David di Spielberg a cercare disperatamente la fata turchina che lo trasformi, come Pinocchio, in bambino vero, la sola condizione che lo renderà accettabile agli occhi della mamma. Nel romanzo di Ishiguro non è esplicitamente sottolineata questa assenza di affetto materno, ma lo stesso fatto che i cloni sono sterili, mette l’accento sulla provvisorietà delle loro esistenze, portate avanti senza legami stabili. Tuttavia in questa crudele condizione umana, tra i giovani di Hailsham si stabiliscono vincoli affettivi profondi, e si riproducono tutte le condizioni che segnano la vita quotidiana del genere umano. L’amore si radica profondamente nell’animo di questi esseri, che, tuttavia, nel momento della presa di coscienza, se ne separano, ormai consapevoli di una impossibile realizzazione nel futuro, visto che il ciclo di ognuno di loro si concluderà in breve tempo, un tempo che fugge con inesorabile crudeltà .
Siamo dunque nuovamente di fronte al quesito se sia possibile scindere la sfera spirituale e sentimentale da quella fisica, se sia accettabile un progresso che porti alla creazione di esseri, che siano artificiali, o riprodotti da cellule umane, dotati di sensibilità e sentimenti. La risposta non può che essere sempre la stessa. Il progresso e la ricerca non possono essere arrestati. Fatti non fummo a viver come bruti, a condizione di seguir la “conoscenza” senza ignorare la “virtute”.
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Addie e Louis, Jane e Robert
Fa sempre discutere la realizzazione di un film la cui sceneggiatura sia tratta da un celebre romanzo. È l’immagine contro la parola, la parola contro l’immagine. Non c’è dubbio che il cinema agevoli la fruizione di un’opera, con la sua immediatezza e con il fascino degli attori. Ciononostante il potere dell’espressione verbale è di gran lunga superiore quando si tratta di un grande scrittore che affida alla parola storie, pensieri e riflessioni che possono eventualmente essere penalizzate dal “movimento” cinematografico. Si, perché il cinema, anche il più statico, è pur sempre movimento. Non a caso gli anglosassoni lo chiamano “movie”.
Ora il bel libro di Kent Haruf, “Le nostre anime di notte”, racconta una storia originale e delicata, che si dipana intorno a due personaggi principali, Addie e Louis, che vivono anche loro a Holt, cittadina immaginaria del Colorado, come i protagonisti della trilogia. Il tema centrale del romanzo è sicuramente il tempo, con la sua velocità e la sua lentezza, con il suo inesorabile scorrere verso una meta senza ritorno. E il tempo è quello che scandisce i giorni della vecchiaia di Addie e Louis, come i giorni dell’infanzia di Jamie, e quelli degli errori di Gene e Holly. Il peso degli anni fa sì che Addie e Louis pur nella loro naturale lentezza fisica, si affrettino a vivere e a godere di quelli che considerano ormai gli ultimi giorni della loro vita, quasi con frenesia, consapevoli dell’opportunità che offre loro ancora una volta la vita. Avvicinarsi, condividere e colmare il vuoto delle loro vite, li induce a sfidare le maldicenze della gente, scettica sulla reale possibilità di trascorrere insieme delle ore a raccontarsi la propria vita, i propri errori, i rimpianti, senza pensare al sesso. Anche qui il tempo è inesorabile, perché non concede di portare indietro le lancette, di correggere ciò che si è sbagliato. E la solitudine, quella stessa solitudine che Addie e Louis cercano consapevolmente di colmare, affligge l’animo del piccolo Jamie, e accentua l’arroganza e l’egoismo di Gene.
Ancora una volta Haruf è riuscito a incantare il lettore con la sua prosa semplice, densa di contenuti profondi, a tratti malinconica: “ Ci divertiremo un sacco a parlare, eh? Disse lei.
Anch’io voglio sapere tutto di te. Non abbiamo fretta, disse lui.
No, prendiamoci tutto il tempo che ci serve.”
Ecco, Addie e Louis cercano di fermarlo il tempo, quanto basta per vivere un’illusione.
Difficile esprimere con la stessa delicatezza e con la stessa efficacia queste espressioni e questi sentimenti attraverso l’immagine, anche se certamente i volti di Jane Fonda e Robert Redford sono perfetti per questi personaggi, superato un certo sforzo per non vederli ancora correre a piedi nudi nel parco.
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Il debito sarà pagato
“Ora ti dirò una cosa, e spero che la capirai. Tu non sei più un uomo. Sei un soldato. Le tue necessità di conforto non hanno alcuna importanza e, tenente, anche la tua vita non ha molta importanza. Se vivrai, ti resteranno dei ricordi: è tutto quello che avrai. Frattanto devi ricevere ordini ed eseguirli. La maggior parte degli ordini sarà spiacevole, ma questo non è affar tuo. […….] Avrebbero dovuto costruire la tua anima con la verità e non menarla a spasso con le bugie. [….] Ma tu hai accettato i tuoi doveri. Vuoi adempierli oppure no? Non possiamo prenderci cura della tua anima.” Nelle parole del colonnello Lanser la fredda logica che regola il comportamento dei militari in guerra. Non sono solo la contrapposizione oppressore/oppresso e l’antitesi efferatezza/pietà i temi principali di “La luna è tramontata” di John Steinbeck: vi è altresì una chiara e netta condanna della guerra e della follia in cui trascina gli uomini fino a causarne spesso una totale perdita di umanità .
Il dramma rappresentato nel romanzo investe vincitori e vinti, militari e civili, i primi prigionieri di un codice che impone loro di mettere a tacere ogni istinto di pietà, ogni debolezza umana, i secondi altrettanto condizionati da quel concetto di dignità che costituisce l’ultima possibilità di mantenere il rispetto di se stessi.
In questa prospettiva vanno considerate le due figure centrali del romanzo, il sindaco Orden e il Colonnello Lanser. Entrambi rispettano un personale codice d’onore, poco importa se vi credano oppure no.
Emblematico è il titolo del romanzo: siamo alla fine di una lunga giornata, sta per nascere un nuovo giorno. È la fine della vita che emblematicamente viene ricordata con le parole di Socrate pronunciate negli ultimi momenti dal sindaco Orden all’amico Winter: “ Critone, debbo un gallo ad Asclepiade” e Winter risponde con le parole di Critone: “Il debito sarà pagato”. La vita, dunque, così come viene rappresentata qui da Steinbeck, trova un riscontro nelle parole di Socrate così come vennero interpretate da Nietzsche: essa è una malattia, per guarirne bisogna sacrificare un gallo ad Asclepiade e con la morte arriverà la guarigione. Unico riscatto per un’umanità che ha perso ogni punto di riferimento che la riconduca sulla via della dignità e del rispetto.
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Wyomare, attraversare non-luoghi.
Wyomare, vagabondare da un non-luogo ad un altro non-luogo, è il destino di quell’umanità ai margini della società, che non riesce a entrare in sintonia con se stessa e con il mondo che la circonda. È di questa umanità che ci racconta Smith Henderson nel suo romanzo di esordio, “Redenzione”, un testo di 562 pagine, scritto, sembrerebbe, per essere facilmente trasformato in una sceneggiatura cinematografica. Ed è infatti di sceneggiatura che si occupa principalmente Henderson, che attualmente sta lavorando alla serie tv tratta da “Il figlio” di Philipp Meyer.
La storia che vede al centro il personaggio di Pete, assistente sociale che si occupa soprattutto di proteggere bambini e adolescenti da ambienti familiari degradati e squallidi, è descritta a tinte fosche. Non mancano scene di violenza nelle quali anche la legge varca ogni limite e diviene fuori-legge, così come con un realismo a volte sconcertante si racconta di abusi e prostituzione. I rapporti umani sono problematici, il mondo che ci viene descritto è instabile e inquieto. Il destino si accanisce su Pete, che non riesce a prendersi cura né dei suoi protetti, Cecil, Ben, Katie, né della sua stessa figlia Rachel. Tradito in amore prima dalla moglie, poi da Mary, in contrasto con il fratello Luke, perennemente ricercato dalla polizia, il mondo di Pete è davvero desolante.
Non c’è dubbio che la realtà con cui vivono a contatto coloro che si occupano a tempo pieno della salvaguardia e del recupero dei più deboli sia per certi versi davvero allucinante. Sapere che al di là della sicurezza e del calore di case apparentemente serene possano esistere situazioni così dure e difficili lascia interdetti circa la freddezza con la quale l’opinione pubblica tratta l’argomento.
Il pregio di questo romanzo è dunque nell’atto di denuncia di Henderson teso a superare quell’indifferenza di cui tutti siamo colpevoli.
Da un punto di vista strettamente letterario, il romanzo è penalizzato dalla lunghezza, è a tratti prolisso, dà molto risalto alle descrizioni di ambienti esterni e poco ai sentimenti dei personaggi. È ciò che ne fa un testo idoneo a una realizzazione cinematografica.
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Sul far della sera
Il crepuscolo è quel momento della giornata in cui la luce è appena accennata nel cielo: è il momento che coincide con l’alba o che è appena successivo al tramonto, è il breve spazio tra il giorno e la notte, e, metaforicamente, tra la vita e la morte, simbolo d’una lieve speranza. Con questo termine carico di significati e suggestioni, Fabio Cremonesi ha tradotto il titolo dell’ultimo romanzo della trilogia di Kent Haruf “Eventide”. Per meglio comprendere la scelta di questo termine sia da parte dell’autore che del traduttore, è utile fare riferimento a una intervista di Luca Boldrini a Fabio Cremonesi che così si esprime riguardo al titolo del romanzo: “Eventide significa crepuscolo, ma è un termine ancora più alto; ha una forte connotazione religiosa, oltretutto, perché è il titolo di un inno molto conosciuto dai cristiani americani, e in questo senso si avvicina il termine crepuscolo all’idea di fine vita.” Ed è effettivamente all’inno “Eventide – Abide me” scritto da H.F.Lyte e musicato da W.H.Monk che Cremonesi si riferisce.
D’altra parte la componente spirituale e religiosa è costantemente presente nell’opera di Haruf, come si è visto sia in “Canto della pianura” che in “Benedizione”.
Ancora una volta ci troviamo a Holt, questa piccola cittadina immaginaria del Colorado, in cui la vita scorre con i ritmi rallentati tipici della campagna, dove le ore di una giornata sono scandite dai doveri pastorali e dagli obblighi casalinghi. Qui la vita del singolo si intreccia con quella del vicino, la sorte dell’uno è parte integrante della vita dell’altro, come nel caso di Raymond soccorso e aiutato da Guthrie e da Maggie. Quelle che sembrano banali vicende quotidiane sono raccontate con un realismo che rende sorprendentemente interessante la lettura, perché in fondo è la vita dell’uomo qualunque che viene descritta come se fosse stata vissuta dallo stesso autore. Né Haruf trascura alcuni dei temi che più affliggono la società moderna, come le violenze sui minori e gli atti di bullismo tra i giovani.
Ma su tutto prevale quel drammatico senso di solitudine che ognuno cerca di superare come meglio può, a volte aggiungendo errori ad errori, perché l’uomo non è mai pronto ad affrontare il silenzio d’una casa o il buio di stanze non vissute.
Eppure al di là delle difficili prove alle quali la vita sottopone ogni singolo individuo, si apre talvolta uno spiraglio di luce, non importa se sia al tramonto della vita e non all’alba, quella leggera luce porta con sé una speranza, anche se è una speranza non priva di illusione.
Con spirito laico mi piace riportare il testo dell’inno “Eventide – Abide me”:
1. Resta con noi il giorno ormai declina, resta con noi e avremo la tua pace.
Sola speranza nella nostra vita, resta con noi Signore, resta con noi.
2. Dono d’amore, pane che dà vita, ospite dolce di chi crede in Te.
Luce e conforto all’esodo dell’uomo, resta con noi Signore, resta con noi.
3. Rifiorirà in Te la Creazione, nel grande giorno della tua venuta.
Verrà quel giorno aurora senza fine, immensa gioia per l’eternità.
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Un testo fondamentale per chi ama la letteratura.
Traspare tutta la passione dello studioso di letteratura in questa analisi critica di Alessandro Piperno sul fine della narrativa, sul rapporto scrittore-lettore e scrittore-personaggio.
Il lettore e lo scrittore si trovano ovviamente su campi diversi: molto più libero e autonomo il primo, assai più condizionato il secondo ora da specifiche scelte editoriali ora dall’esigenza di rispondere al gradimento del pubblico.
A chi si chieda quale sia il fine della narrativa, Piperno dissolve ogni dubbio: i libri non possono cambiare il mondo, un romanzo non può dare risposte agli interrogativi più grandi. Le opere letterarie hanno il fine di raccontare delle storie e non possono andare oltre. Né d’altra parte si può in senso assoluto identificare autore e personaggio, o lettore e personaggio. Ciascuno occupa il suo spazio e ogni immedesimazione è illusoria e fuggevole. Si pensi, afferma Piperno all’ironia con cui la Austen ha tratteggiato alcuni dei suoi personaggi più riusciti. Sarebbe difficile identificare la scrittrice con uno di loro. “Un personaggio, se davvero è grande, merita di esistere a prescindere dal suo inventore.”
Non è facile stabilire la qualità di un romanzo. Non ci sono canoni estetici universalmente validi. Solo il tempo può decretare il successo di un libro. Non c’è da meravigliarsi se di un romanzo, col tempo, si stenti a ricordare la trama, o i personaggi. Ciò che rimane è spesso l’atmosfera, sono le sensazioni che ha suscitato. Lo stesso romanzo, riletto dopo molto tempo può apparire del tutto diverso. È dunque il tempo il fattore più importante nella valutazione di un’opera. Altrettanto difficile è dare la definizione di classico. Classico, dice Piperno, si può definire quell’opera che porta un rinnovamento, come il discorso indiretto libero usato da Flaubert.
Per ciò che riguarda l’originalità, non c’è da meravigliarsi se ogni autore attinge a piene mani da altri autori, presi a modello o semplicemente ammirati. D’altra parte il romanziere di successo è colui che scrive solo di esperienze vissute, colui, cioè che fa riferimento a quella che Proust definiva “la patria interiore”.
Interessanti sono le pagine dedicate alla tecnica dell’incipit, diversa secondo i tempi e gli autori. C’è chi introduce l’eroe o l’eroina del romanzo dopo aver scritto pagine che potessero in qualche modo prepararne l’ingresso, come nel caso di Tolstoj e della sua Anna Karenina, o chi preferisce introdurlo subito, in medias res.
Dopo questa interessante parte introduttiva che funge da prologo, Piperno si sofferma sugli otto autori di cui, dice, non potrebbe fare a meno, analizzandone alcune caratteristiche che li hanno resi unici. Abbiamo così otto brevi brillanti saggi su Tolstoj, Flaubert, Stendhal, Austen, Dickens, Proust, Svevo e Nabokov.
“Il manifesto del libero lettore” è dunque un testo piacevolissimo e utilissimo che avvicina lo studioso di letteratura allo scrittore e al lettore, amplia i confini della pagina scritta, offre l’opportunità di approfondire, comprendere, valutare.
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E' la vita, semplicemente
Ha un’abilità rara, Kent Haruf, a descrivere la vita nella sua complessità, al punto da semplificarne ogni passaggio, ogni momento di crisi o di speranza, perché è l’esistenza dell’uomo semplice che gli interessa, di quei tanti “uno qualunque” di cui è popolato il mondo.
Come in “Canto della pianura”, anche in “Benedizione” ci troviamo a seguire le vicende di alcuni abitanti della cittadina di Holt, luogo immaginario situato in Colorado.
Vita e morte, lotta e resa, desiderio di riscatto e di perdono sono al centro di questo romanzo toccante e coinvolgente. E’ il momento d’un bilancio finale per Dad, che trascorre con dignità e consapevolezza gli ultimi giorni della sua vita circondato dall’affetto di una moglie devota e di una figlia affettuosa, che lo accompagnano fino al momento del doloroso inevitabile distacco. È in questi momenti che l’uomo trova il coraggio di essere sincero con se stesso e di riconoscere gli errori commessi. Così Dad non può più ignorare di essere stato colpevolmente intollerante verso la diversità del figlio Frank, che, sentendosi emarginato già in seno alla famiglia, si allontana per non fare più ritorno. E di intolleranza e intransigenza Dad si è reso colpevole anche nei confronti del commesso del suo negozio che lo aveva derubato. È in questi momenti che ciascun individuo vorrebbe riacquistare un po’ di umanità e di indulgenza, ma giunti al traguardo non si può tornare indietro, si può sperare solo in una “Benedizione”. Non a caso Haruf inserisce prima dell’inizio del romanzo questa definizione: Benedizione, atto con cui si consacra, invocazione di beatitudine.
Il problematico rapporto generazionale tra padri e figli coinvolge anche il personaggio del reverendo Lyle e suo figlio John Wesley, ma ciò che appare assai interessante in questo romanzo è l’attualità del sermone di Lyle che scatena le ire della comunità intollerante essa stessa e non disposta a porgere l’altra guancia.
“Se dicessimo ai nostri nemici: Siamo la nazione più potente della terra. Possiamo distruggervi. Possiamo uccidere i vostri bambini. Possiamo trasformare le vostre città e i vostri paesi in un ammasso di rovine, e quando avremo finito non riuscirete più nemmeno a ricordare come erano prima. Abbiamo il potere di togliervi l’acqua e prosciugare la vostra terra, di privarvi delle basi dell’esistenza [……] Ma se invece dicessimo: State a sentire, invece di fare queste cose, vogliamo farvi dei doni, di nostra iniziativa, con generosità. Tutto il denaro pubblico degli Stati Uniti, tutto l’impegno e le vite umane che avremmo impiegato per distruggere, vogliamo impiegarli per creare”.
Tutto il romanzo è basato sul concetto della tolleranza, sulle possibilità che la vita offre a ciascuno di vivere in pace e sulle occasioni perse per realizzare un sogno di convivenza serena nell’ambito delle più piccole e delle più grandi comunità, fino a coinvolgere il mondo intero troppo preso in un disastroso gioco al massacro.
Nel tono malinconico dell’opera ispirato da un profondo senso di rimpianto si coglie tuttavia un accenno di speranza per un futuro migliore.
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Leggere Calvino oggi
Rileggere oggi La trilogia degli antenati di Italo Calvino è un’esperienza quanto mai illuminante sulla condizione in cui versa l’uomo contemporaneo. “Il cavaliere inesistente” giunge dopo “Il visconte dimezzato” e “Il barone rampante” ed è forse il più complesso dei tre. Se nelle intenzioni dell’autore era di tracciare le linee fondamentali di quello che sarebbe divenuto in seguito l’uomo moderno, si può dire che l’esperimento sia stato tra i più riusciti, nella misura in cui egli ha con efficacia creato personaggi-simbolo della dissociazione della personalità, della inconciliabilità tra l’individuo e la realtà circostante.
Non a caso Agilulfo, il cavaliere inesistente, è coscienza senza fisicità, laddove Gurdulù, il suo opposto, è fisicità senza coscienza. Il primo agisce secondo schemi fissi, il secondo muta atteggiamento e persino nome col mutare delle situazioni e delle azioni che si trova a compiere.
Agilulfo e Gurdulù sono le componenti scisse dell’individuo moderno che stenta a ritrovare una sua unitarietà, indispensabile per la realizzazione di un rapporto armonico con il mondo che lo circonda.
Né il gioco degli opposti e dei contrari si limita ad Agilulfo e a Gurdulù: Bradamante è l’amore come sfida e conquista mentre Sofronia è l’amore tenero e pacifico; Rambaldo è rappresentazione del mondo dell’esperienza in contrapposizione a Torrismondo espressione del mondo teorico e morale.
Né mancano in questo romanzo di impronta cavalleresca i tradizionali colpi di scena, con le pagine dedicate agli emozionanti momenti di “agnizione”, di riconoscimenti che riconducono alcuni personaggi entro gli schemi di una diffusa morale tradizionale. In quest’ottica va visto il rapporto Sofronia -Torrismondo, non già madre e figlio, bensì figlia del re di Scozia e di una contadina l’una, della regina e del Sacro Ordine del Gral l’altro. Ecco superato, dunque, il rischioso nodo narrativo dell’incesto.
Il progressivo svelarsi del personaggio narrante di suor Teodora, inoltre, e la sua identificazione con Bradamante danno al romanzo una connotazione di metaromanzo, di una disquisizione, cioè, e di una analisi sulla condizione di alienazione e scissione di personalità dell’uomo contemporaneo, che oggi, più di ieri, in epoca di globalizzazione appare estremamente allarmante.
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La semplicità della grande letteratura americana
Che Kent Haruf abbia avuto a cuore di descrivere con semplicità la semplicità complessa, si perdoni l’ossimoro, della vita di una piccola comunità americana di una cittadina del Colorado, appare evidente sin dal titolo del romanzo “Plainsong”, che oltre al riferimento dotto di un canto piano diffuso nel medioevo, come precisa in una nota introduttiva il traduttore Fabio Cremonesi, significa “canto semplice e sobrio”.
Siamo infatti di fronte a una narrazione scorrevole e coinvolgente che introduce una serie di piccoli quadri di vita quotidiana in cui il vero protagonista è l’uomo-antieroe, lo stesso che abbiamo imparato ad apprezzare e ammirare nei quadri di Hopper. Alla descrizione della vita provinciale della piccola cittadina Holt, si alternano immagini di vita di campagna, ora serena e contemplativa, ora feroce e spietata. Tutto secondo la visione realistica del mondo di uno scrittore che rifugge da qualsiasi esagerazione romanzesca.
E’ in questa prospettiva che vanno considerati i personaggi, in ognuno dei quali il lettore può riconoscere parte di sé. Così Guthrie, insegnante e padre di due ragazzi, si trova solo a dover assolvere a una duplice complicata funzione di educatore, mentre Ella, sua moglie, in un perenne stato depressivo rinuncia al suo ruolo di moglie e di madre. Ike e Bobby poco più che bambini, imparano ad affrontare la vita con silenziosa sofferenza per l’abbandono della madre e ad avere come unico punto di riferimento la figura paterna.
Splendido è il personaggio di Victoria Roubidaux. Il senso di responsabilità di questa adolescente divenuta donna bruscamente fa da contraltare all’egoismo di sua madre che non esita a respingerla perché incinta, come stupendi sono i due fratelli McPheron rozzi allevatori dal cuore d’oro, che accolgono Victoria e la assistono. Né mancano personaggi negativi, quali Beckman e Dwayne, che rappresentano il lato ignobile dell’uomo.
Una contrapposizione di personaggi e di valori, dunque, che non può semplicisticamente ridursi a una rappresentazione del bene e del male. E’ un ritratto del mondo in cui viviamo con i suoi contrasti e le sue contraddizioni. E ciò che rende ancora più interessante la narrazione di Haruf è che lo scrittore non segue i personaggi nel loro iter psicologico, ma lascia al lettore la facoltà di interpretarne i pensieri e i sentimenti, conferendogli così un ruolo attivo nel romanzo. E’ la stessa tecnica già usata nella grande letteratura americana da Hemingway che sosteneva che nei suoi romanzi ciò che era immediatamente evidente altro non era che la punta di un iceberg. Al lettore interpretare tutto ciò che rimaneva sottinteso.
Un romanzo che ha come protagonista l’uomo che nella sua singolarità riesce tuttavia a rappresentare la collettività nella sua “normalità”, un’opera che rifugge dalle rappresentazioni romanzesche e si fa cronaca di vita vissuta.
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Tra precarietà e speranza
“Dio non abita all’Avana”di Yasmina Khadra, pseudonimo dello scrittore algerino Mohamed Moulessehoul, è un romanzo d’amore che ha come sfondo la Cuba di Castro, una terra in cui speranza e passione si alternano a amarezza e delusione, dove il sogno è indispensabile per vivere e sopravvivere, dove precarietà e mediocrità possono essere presupposti di un’esistenza serena.
Ed è proprio in condizione di precarietà che il protagonista, Juan Del Monte Jonava, conosciuto dal suo pubblico come Don Fuego, conduce la sua vita, condividendo con parenti ed amici i disagi derivati dalla instabile situazione sociale ed economica venutasi a creare nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Batista.
La vita di Juan, dunque, si trascina nella duplice difficile rincorsa d’un sospirato successo planetario come cantante, da un lato, e d’un amore impossibile dall’altro. Nessuna sicurezza per questa umanità negletta, né nell’ambito della famiglia, né nel lavoro. La casa diviene il rifugio di diseredati che ora si amano e si soccorrono a vicenda, ora si detestano e si sopportano. Juan è consapevole che la via del successo passa attraverso l’amara esperienza dell’umiliazione e del compromesso, che il gioco è in mano ai potenti che si muovono secondo interessi particolaristici.
Ciò che ne deriva è un senso di angosciosa ambiguità che pervade situazioni e personaggi. E ambiguo più che mai è il personaggio di Mayensi, la giovane bellissima di cui Juan si è invaghito: ella è ora la vittima innocente di lascivi desideri, ora la ferma e aggressiva pianificatrice del proprio destino.
In questo mondo senza certezze anche la fede cede e Dio è “una moneta fuori corso”. Eppure proprio in questo mondo la speranza e il sogno sono gli unici a sopravvivere e l’esperienza più amara e la sofferenza non riusciranno ad annientare lo spirito dei più audaci a dispetto delle vicissitudini.
“In verità non perdiamo mai del tutto ciò che abbiamo posseduto per lo spazio di un sogno, perché il sogno sopravvive al proprio fallimento.”
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La storia nello spazio di una vita
Ogni individuo è legato al luogo, ai luoghi e all’ ambiente da cui proviene, in cui cresce e forma il suo carattere. Il luogo e l’ambiente sono la sua città interiore. Non importa quanto grande essa sia, la sua dimensione coinciderà con la sua storia.
Ogni individuo, dunque, ha in sé un bagaglio culturale ereditato suo malgrado, destinato a condizionare, almeno in parte, le sue scelte. In questo nostro paese così vario nella sua composizione regionalistica, con il nostro frequente migrare da un luogo a un altro in cerca di una stabilità materiale che possa trasformarsi in stabilità interiore, assistiamo a un inevitabile incontro/scontro di culture che non sempre riescono ad amalgamarsi.
I dialetti, nella loro unicità espressiva, sono certamente patrimonio da difendere e coltivare e frequenti sono, a questo proposito, le espressioni dialettali che Mauro Covacich inserisce nel suo ultimo libro, una sorta di biografia, più che un romanzo, un excursus della storia della città di Trieste, vista attraverso gli occhi dell’autore/protagonista, che racconta le vicende travagliate della sua città dai primi del novecento ai giorni nostri. Tanti sono i personaggi celebri citati: su alcuni l’autore si sofferma a lungo, ne descrive la vita nel periodo trascorso a Trieste, come nel caso di Joyce, di Svevo, di Bibalo. Si sofferma sulle condizioni di vita della città durante il fascismo, le lotte partigiane, la persecuzione degli oppositori al regime, cita la vergogna della Risiera trasformata in lager, e accenna a questo proposito al bel libro di Claudio Magris “Non luogo a procedere”. E proprio Magris è tra i molti intellettuali di rilievo che vengono ricordati nel romanzo, come Svevo e Saba. Ne deriva un’immagine di una città di grande spessore culturale, vittima delle alterne vicende storiche che l’hanno ora esaltata ora mortificata. La narrazione di Covacich soffre purtroppo di una certa disorganicità, non tanto per i salti temporali frequenti, ma per la difficoltà che il lettore può talora incontrare a collegare gli eventi in un filo logico che possa restituire un insieme armonico e coerente. Ciò a scapito dell’originale presupposto di dimostrare che ciascun individuo è e si identifica con la storia dei suoi luoghi, che divengono e sono la sua città interiore.
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I figli della miseria
“Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.” Così descrive l’arminuta, la ritornata, protagonista del bellissimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, il vuoto generato in lei dall’abbandono. Respinta incomprensibilmente da una madre amorevole, strappata, ancora adolescente, a una vita confortevole e immersa, poi, in una realtà scomoda, dura da accettare come luogo di appartenenza, fatta di miseria e miserie, di volgarità e squallore, l’arminuta sopravvive nell’ansiosa ricerca della verità, di una verità accettabile che non sia irreparabilmente mortificante.
Così inizia la sua crescita, dolorosamente divisa tra l’amore per colei che ha sempre chiamato mamma e lindifferenza per “la madre” l’estranea che l’ha ceduta nonostante l’avesse messa al mondo. Così sradicata, senza più punti di riferimento questa adolescente ferita, rientrata a far parte di un mondo di diseredati, stabilisce nuovi vincoli affettivi con i fratelli, privilegiando la sorella Adriana che riesce in piccola parte a colmare il vuoto abissale lasciato nel suo cuore dal tradimento delle due madri.
La vicenda, ambientata in un Abruzzo aspro tra gente che si esprime quasi solo in dialetto, rende magnificamente l’idea dei luoghi e delle tradizioni locali. Donatella Di Pietrantonio è riuscita a toccare tutte le corde del sentimento, senza mai eccedere, con sobrietà e equilibrio: ci ha regalato un romanzo bellissimo, scritto benissimo, con uno stile molto particolare, che avvince e incanta.
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Una difficile integrazione
“Immaginate che cosa vuole dire vivere in mezzo a noi come se si avesse un doppio fondo, vivere contemporaneamente due realtà diverse ed opposte? E quando voi, seduti in poltrona il venerdì sera tornate a parlare di queste cose, non potete fare a meno di parlarne, e cianciate di gruppi d’élite, di votati al suicidio, di fanatici frustrati, a me viene da ridere o da gridare […..] . Ma di chi credete di parlare? Oggi lui è operaio nel mio garage, sottomesso e paziente, sorridente e fedele. E domani una belva feroce.”
Questo è certamente uno dei brani più significativi del primo romanzo di Abraham Yehoshua, L’amante, un’opera complessa il cui messaggio va ben al di là della semplice trama. La scelta di una narrazione polifonica ha certamente contribuito ad offrire al lettore la possibilità di valutare con maggiore obiettività una realtà che muta con il mutare del punto di vista del narratore. Non è tanto dunque la storia in sé che ci interessa, non la ricerca continua da parte di Adam di quell’amante perduto, l’unico che abbia restituito a Asya, sua moglie, una certa gioia di vivere e quell’entusiasmo spentosi nel corso degli anni, durante una vita non priva di affanni e dolori, quanto piuttosto interessa l’ambiente in cui ha luogo la vicenda, i personaggi eterogenei che la animano e che sono portatori di culture e valori diversi. Tra Haifa e Gerusalemme, la vita di Adam, Asya e Dafi, scorre a fianco a quella degli operai di Adam, arabi palestinesi, disciplinati e silenziosi lavoratori, orgogliosi e riluttanti ad una totale integrazione. Il punto centrale è proprio questo ed è molto bene espresso nel personaggio di Na’im, desideroso inizialmente di raggiungere quel benessere che il mondo ebraico sembra potergli offrire e garantire, per poi staccarsi lentamente da esso e rientrare a poco a poco nel suo mondo. Sullo sfondo la guerra arabo-israeliana del 73, conosciuta anche come guerra del Kippur, una guerra che appare incomprensibile, confusa e ambigua attraverso la descrizione che ne fa l’amante Gabriel, che appare in queste pagine, in tutta la sua mediocrità, come un potenziale o reale disertore, un opportunista, come colui che ritorna in patria solo per usufruire dei vantaggi che gli si offrono, ma la cui dignità è messa in discussione. Ogni personaggio dunque appare nella sua dimensione di antieroe, da Adam a Dafi, figlia ribelle, a Asya, fredda pur se sognatrice, a Na’im, che impara presto l’arte dell’opportunismo. Un romanzo senza eroi, dunque, che tuttavia sembra suggerire una possibilità di convivenza pacifica e civile. Non si deve dimenticare che Yehoshua, insieme con Oz e Grossman è stato tra i firmatari della petizione per il riconoscimento dello stato della Palestina. Ciò dimostra come in definitiva questa soluzione non solo non si ritenga impossibile, ma soprattutto si ritenga auspicabile.
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L'amore assoluto
È un lungo racconto sull’amore assoluto l’ultimo libro di Edoardo Albinati, sull’amore libero da vincoli affettivi e istituzionali, sulla sua possibilità di realizzarsi e sopravvivere al di fuori degli schemi tradizionali che regolano la nostra società.
L’avventura di Clementina e Erri presi da una passione travolgente si consuma in un fine settimana in un’isola che offre una cornice spettacolare arricchita di profumi e colori. Scelgono consapevolmente la strada dell’adulterio, senza indugiare in ripensamenti e rimorsi, assaporando ogni minuto di un amore trasgressivo e travolgente.
Il tema non è certamente nuovo: la letteratura è ricca di amanti adulteri che sono stati vittime della passione, da Paolo e Francesca a Madame Bovary, a Tristano e Isotta e Lancillotto e Ginevra. Ciascuno di questi amanti paga il prezzo della sua colpa. Nel racconto di Albinati si vuole riscattare la passione dal senso di colpa, in un tentativo di legittimare il desiderio e la pulsione sessuale. Eppure la vicenda di Erri e Clementina riesce a sopravvivere solo lo spazio di un fine settimana, perché l’amore assoluto non ha lunga vita. L’amore è legame affettivo, è progetto di futuro, è casa, è esigenza di stabilità, si basa sulla lealtà e la fedeltà reciproca. Clementina aveva sempre sostenuto che non sarebbe mai stata di nessuno, sin da quando era giovanissima. Ma amare ed essere amati non vuole dire perdere possesso di sé, quanto piuttosto conservare il rispetto dell’altro e per l’altro, evitare l’umiliazione dell’inganno. È in fondo a questa conclusione che giunge Clementina nel momento della separazione da chi le aveva offerto la possibilità di vivere un’esperienza unica ma non ripetibile:
“Abbiamo riscosso un credito, io non sapevo nemmeno di averlo, ma ora è stato pagato. Sono stati due notti e due giorni bellissimi. Ma non credo che si ripeteranno.”
Un libro che fa riflettere sulle opportunità che la vita offre, sulle occasioni che si vorrebbe cogliere, sui limiti imposti dalla coscienza e dalla morale. Con una storia che sembrerebbe essere un inno all’amore libero, Albinati riesce a dimostrare che al contrario l’amore ha bisogno di vincoli e legami.
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Oltre la porta una speranza di vita
La porta come metafora del passaggio da un mondo divenuto ostile e pericoloso verso un luogo che offra una possibilità di vita dignitosa, la porta che apre altresì la via a disillusioni e amarezze, a una lotta accanita per un’integrazione non sempre realizzabile, la porta confine di scambio di culture che può essere causa di perdita di identità, di affetti e di legami profondi: questa è la porta che Saeed e Nadia, i protagonisti di Exit West di Mohsin Hamid, decidono di varcare in cerca di un mondo migliore in cui vivere e amarsi. La porta di Nadia e Saeed ha lo stesso fascino della porticina di Alice, ha lo stesso valore simbolico, e tuttavia essa non conduce a un mondo fantastico, ma si apre su un’umanità composita fatta di chi protegge con estremo rigore i privilegi e il benessere che si è costruito e di chi di questo benessere vorrebbe essere in qualche modo partecipe. E se al di là della porta che si è varcata esisteva violenza e sopraffazione, violenza e sopraffazione non mancano neanche nel mondo del “pacifico” e ricco occidente. E dunque le speranze di Nadia e Saeed sono destinate a infrangersi contro la realtà in cui si trovano immersi. Le loro identità rischiano di annullarsi, il loro amore, la passione si trasformano prima in affetto profondo poi in indifferenza. La vicenda umana di Nadia e Saeed diviene la vicenda del migrante in assoluto ed è emblematica della solitudine a cui va incontro chi abbandona il proprio paese, la propria cultura, con la speranza di mettere radici tra gente di religioni e tradizioni diverse, mantenendo intatti i propri usi e costumi. In realtà il dramma del migrante non viene mai percepito nella sua interezza e il romanzo di Hamid ha il pregio di prospettare al lettore il quadro di desolazione e il rischio di abbandono che minacciano chi coraggiosamente e disperatamente va in cerca di un mondo non tanto migliore quanto vivibile.
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“Presto fu tardi nella mia vita”
Sono queste le parole - presto fu tardi nella mia vita – che meglio esprimono il concetto dell’inesorabile e implacabile scorrere del tempo, dell’inutilità di ogni sforzo di fermarne gli effetti devastanti. Ormai donna matura, Marguerite Duras, rievoca gli anni della giovinezza, quando, acerba quindicenne, già attraente e consapevole della sua femminilità, diviene l’amante di un ricco giovane cinese, in quella terra straniera e paludosa che era l’Indocina dove lei piccola bianca di origine francese era guardata con diffidenza e tollerata per puro opportunismo. Il suo amore non ha futuro, nulla nella sua vita a Saigon sembra offrirle una prospettiva di felicità . Il rapporto controverso con la madre, irrequieta e instabile, che ora ama ora detesta, la paura malcelata di essere vittima di un fratello propenso alla violenza, la tenerezza sofferta per un fratellino il cui cuore si arrenderà, il più debole, il cui destino è segnato, perché al mondo non c’è posto per i più deboli, tutto impedisce a questa adolescente di guardare alla vita con fiducia e serenità. Gli incontri con l’amante hanno luogo in un ambiente spoglio e squallido, con pareti imbiancate e un giardino con piante morte per il caldo. “È un luogo triste, il relitto di un naufragio.” Le descrizioni riflettono la tristezza interiore del personaggio. Aleggia ovunque il senso della morte, come nelle foto fatte scattare dalla madre, che divengono immediatamente celebrazioni di un passato mistificato. Nel simbolismo diffuso in tutto il racconto assumono rilievo la presenza del fiume, sempre in movimento, che scorre inesorabile come il tempo e tutto può travolgere, e, in contrapposizione ad esso la staticità della palude indocinese, metafora della palude dell’anima. Un grande piccolo libro che descrive un amore negato, sentimenti sofferti e repressi, dolore e rinuncia: eppure è nella conclusione che la forza dell’amore vince su ogni altro evento della vita, pur rimanendo un amore legato a un ricordo, un amore legato al passato.
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“Niente istiga alla violenza quanto un tacito diss
Tacere o rendere manifesto il proprio dissenso fu il dilemma che si pose Sandor Marai nel vivere e subire gli eventi storici che travolsero il suo paese a partire dal maledetto giorno in cui Hitler portò a compimento l’esecrabile disegno dell’Anchluss. In questo intenso libro di memorie e considerazioni dal titolo “Volevo tacere”, Marai opta per un resoconto obiettivo dei fatti, ricostruisce la storia dell’Ungheria, analizzando le cause che impedirono il vero progresso del paese dalla fine dell’impero austroungarico, cause da rinvenire nella mancata riforma agraria che lasciò il paese in un immobilismo economico di tipo feudale, per troppo tempo. Marai ripercorre le vicende della Repubblica dei Consigli, che si era formata con Bela Kun dopo la caduta dell’impero, rievoca l’intervento dell’esercito controrivoluzionario di Horthy che d’autorità ripristinò la monarchia e stabilì un regime autoritario. Ciò al fine di offrire al lettore quelle basi necessarie per capire quanto sia stata travagliata la storia di questo paese, già prima dell’ annessione dell’Austria alla Germania. Marai si sofferma con un chiaro sentimento di profonda nostalgia su quanto felice fosse nel momento dell’Anschluss la sua condizione di intellettuale, giornalista e scrittore di successo, accolto con entusiasmo nei salotti della Budapest che contava, ignaro di ciò che il destino andava preparando per il suo paese. Eppure l’Ungheria conobbe un periodo di anomala tranquillità proprio quando tutt’intorno infuriava la guerra. Il nazismo tuttavia minò gradualmente ogni libertà di pensiero e di opinione, rendendo gli organi di stampa mezzi di informazione pilotata. La vera tragedia dell’Ungheria inizia dunque, secondo le memorie di Marai, con la dichiarazione di guerra alla Unione Sovietica, e, in seguito, agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. E qui si inserisce un bel ritratto di Laszlo Bardossy, che all’epoca governava il paese, un uomo che aveva sorpreso Marai anni prima per la sua cultura e che era sembrato un sincero liberale. Gli eventi tuttavia trasformarono anche lui, come molti altri in un collaborazionista del regime nazista. Ma il tragico destino dell’Ungheria non avrebbe avuto termine con la caduta di Hitler. L’Unione sovietica impose il suo regime con altrettanto spietato rigore, attaccando quella classe borghese già abbastanza fustigata. Qui Marai si lascia andare ad un’analisi interessante sulle cause che hanno individuato proprio nella borghesia il bersaglio della destra populista prima e della sinistra rivoluzionaria poi. “I detrattori desiderosi di annientare la borghesia portavoce dello squadrismo intellettuale, politico ed economico prima fascistoide e poi comunista, rappresentavano il borghese come nelle vignette satiriche: un grassone dalle dita inanellate…” “Il borghese veniva attaccato da ogni parte, in maniera aperta o velata, come se non fosse altro che uno sfruttatore e un difensore del sistema capitalista. C’è da credere che questi fustigatori della borghesia non avessero mai sentito parlare di come la borghesia europea si è formata, di come ha sviluppato il suo mondo e il suo pensiero, delle grandi esperienze dell’umanesimo e del Rinascimento.” Ed è con rincrescimento che Marai osserva come con il tempo il termine borghese si fosse trasformato in epiteto ingiurioso. Egli conclude queste osservazioni con un auspicio: “ è mia convinzione che, nel mondo massificato, il sistema di produzione capitalistico potrà offrire una vita soddisfacente agli individui e alla collettività soltanto stringendo un’alleanza umanista con il socialismo.” Una realtà da cui siamo ancora molto lontani.
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La solitudine del più grande tra i peccatori
Molto discussa l’ultima opera di Walter Siti “Bruciare tutto”, per il tema indubbiamente scabroso, che affronta con impietoso realismo. Ed è proprio l’impietoso realismo che turba le coscienze e rende la lettura difficile e, in alcune pagine, persino sgradevole. Eppure, io credo fosse proprio questo l’effetto che Siti volesse raggiungere. Perché, è innegabile, che il tema della pedofilia sia oltremodo spiacevole, in quanto attiene alla perversione più odiosa che possa manifestarsi nel comportamento sessuale di un individuo. Se poi l’individuo è un rappresentante della Chiesa, la deviazione si carica, se possibile, di aspetti ancora più deprecabili. In realtà al centro di questo romanzo è la desolante solitudine spirituale e morale in cui si dibatte il personaggio di Don Leo, consapevole dell’abietta inclinazione che mina profondamente il suo equilibrio psichico. La sua consapevolezza lo avvicina e al tempo stesso lo allontana da Dio, di cui avrebbe bisogno, ma al quale si rivolge talvolta con rancore e con dolore. Il dramma di Don Leo, descritto senza indulgenza, ma con compassione, è ben lungi dall’essere un’assoluzione. L’autore non si identifica mai col personaggio, anzi ne prende le distanze, per poterne meglio analizzare e descrivere i turbamenti dell’animo. Ancor più desolante è il personaggio del giovanissimo Andrea, vittima di un vuoto affettivo lasciato da genitori egoisti e ignoranti, abbandonato a se stesso da Don Leo che vede in lui la materializzazione della sua depravazione. E’ un mondo di emarginati e reietti quello che descrive Siti, adattando il linguaggio ai personaggi, usando espressioni dialettali laddove necessarie. Fin qui il tema trattato in tutta la sua scabrosa sostanza. La polemica sorta intorno all’opera, tuttavia, mi sembra inopportuna. Premesso che è opportuno respingere qualsiasi valutazione di opportunismo commerciale nella pubblicazione di questo romanzo, non si può ignorare che l’argomento è, purtroppo, di grande attualità ed è inutile affermare che esso andrebbe dibattuto solo nelle sedi più idonee da professionisti e religiosi adeguatamente preparati. L’argomento è scabroso e spiacevole, alcune pagine del romanzo sono sconvolgenti, ciononostante l’indignazione che esse suscitano nel lettore è la giusta reazione, la più auspicabile che l’autore potesse attendersi. Il dramma umano che qui si rappresenta è duplice: esso riguarda la sfera religiosa, il rapporto con Dio e con la fede, e la sfera sessuale odiosamente deviata, fino alla più amara delle conclusioni, che non ci sia nulla in tutto ciò che meriti di essere salvato, che l’unica soluzione possibile in questo deserto spirituale sia bruciare tutto.
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La vicenda umana e la “ragion di stato”
Scritto da Sciascia nei mesi immediatamente successivi al delitto Moro, L’affaire Moro è un lungo saggio che può essere letto come opera letteraria, come lo stesso autore auspicava. Egli infatti ricostruisce lo scenario del rapimento di Aldo Moro, ne descrive i giorni della prigionia, così come ha potuto desumere siano stati dalla lettura e dall’esame attento delle numerose lettere che il Presidente della DC aveva indirizzato a colleghi di partito, autorità dello stato, familiari. E’ l’uomo che sta a cuore a Sciascia, è il dramma umano che gli interessa porre in primo piano, il dramma di un leader che aveva avversato politicamente e di cui ora, per onestà intellettuale, sente l’esigenza di farsi interprete delle ore angosciose della prigionia. Ciò soprattutto nel tentativo di respingere il falso e ipocrita rigore del potere. Ed è infatti sulla pretesa duplice personalità di Aldo Moro che insiste l’autore, rivendicando all’uomo la libertà di esprimere il proprio pensiero e i propri sentimenti in quella singolare e atroce condizione di individuo privato della libertà e condannato a morte dalle Brigate Rosse. Respinge, Sciascia, la farisaica convinzione del partito di trovarsi di fronte a un uomo costretto con la forza a scrivere parole dure, in molti casi di condanna, per i colleghi di partito, respinge l’idea che la personalità del politico e quella del prigioniero non coincidano. Egli anzi afferma che colui che si era voluto definire un grande statista diviene grande solo nel momento in cui riesce a sopportare il supplizio della prigionia e della condanna, egli non è grande quando parla di stato e di ragion di stato, ma lo è quando identifica lo stato con la famiglia. “Lo Stato di cui si preoccupa, lo Stato che occupa i suoi pensieri fino all’ossessione, io credo, l’abbia adombrato nella parola famiglia.”
Il rifiuto da parte delle forze politiche a procedere a uno scambio di prigionieri sarà determinante per la condanna a morte di Moro. Il rigore non sarebbe mai stato applicato così scrupolosamente in passato, è l’accusa del Presidente DC.
Procede dunque Sciascia a un’analisi del testo di ogni singola lettera che sia giunta o pubblicata, un’analisi così approfondita utile a offrire spunti e indizi che possano portare al suo ritrovamento. L’esempio più significativo lo abbiamo nell’affermazione di Moro di trovarsi in un “ dominio pieno e incontrollato”. In queste parole si potrebbe leggere un suggerimento che aiuti a ritrovare il luogo della sua detenzione, un condominio, fino ad allora incontrollato dalla polizia. Sciascia dunque riconosce a Moro una dignità umana che supera di gran lunga le qualità del politico. Egli giunge ad affermare che l’uomo diviene veramente onorevole solo nel momento del massimo isolamento e della più grande solitudine. Ed è la pietà, quel sacro concetto di pietas, che suscita la figura sofferente del recluso ormai rassegnato alla morte. Non sono poche le pagine di critica che Sciascia dedica ai partiti, alla Democrazia Cristiana, al Partito Comunista e a tutto l’arco costituzionale, che aveva subito lo scomodo affronto del rapimento Moro. Con coraggio egli evidenzia tutto ciò che si sarebbe potuto fare e non fu fatto, spiegandone anche quelli che egli individuò come i motivi. Né tralascia alcune analisi di tipo sociologico, come quando esamina le affinità tra BR e mafia. Un libro assai interessante che illumina su molti aspetti oscuri di una delle vicende più tragiche e vergognose della nostra storia, pur non potendo ovviamente offrire interpretazioni assolutamente certe e definitive.
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Un’autobiografia come romanzo horror triste e dive
Un’autobiografia insolita quella che ci propone Michele Mari, con il titolo “Leggenda privata”. Dichiaratosi costretto da una non meglio identificata Accademia dei Ciechi a scrivere la storia della sua vita, l’autore si premura di avvisare i committenti e i lettori che il suo sarà un romanzo dell’orrore, “un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo.” Egli infatti afferma di essere nato “da un amplesso abominevole” tra un padre in parte Mosè in parte John Huston e una madre spesso vista come un ultracorpo talvolta triste, talvolta sorridente, talvolta urlante. È così che Mari inizia il suo racconto, che prosegue rievocando le umili origini dei nonni paterni emigrati dalla Puglia verso il nord d’Italia, e descrivendo con spirito critico ma pieno di malcelata ammirazione l’impegno eccezionale del padre Enzo a divenire un grande e noto designer. La personalità paterna dominante nell’ambito familiare viene vista dall’autore in età adolescenziale come incompatibile con il carattere della madre le cui fragilità saranno d’ostacolo a un’unione duratura. Il racconto non concede nulla al patetico, pur lasciando trasparire una certa sofferenza giovanile. Mari riesce a creare una serie di personaggi tra il fantastico e il grottesco, ai quali non dà nomi precisi, ma che definisce con originalità Quello dalle Orbite Vuote o Quello che Gorgoglia o anche Quello che Biascica, tutti membri dell’Accademia dei Ciechi. Ma il suo cuore di adolescente è preso da una giovane cameriera vista e ammirata alla Trattoria Bergonzi che egli definisce quella “cum quej sokkol” colpito da quei talloni rosei divenuti per lui un sex-symbol. Della ragazza non sa il nome vero: egli la chiama “Donatella-Ivana-Loretta”. Le sue fantasie erotiche si alternano a incubi fantastici che si ripetono lungo tutta la sua vita. Il racconto e, in senso più lato, la letteratura è il mezzo per demistificare le paure dell’inconscio. Il vocabolario di Mari è opportunamente diversificato: dalle espressioni dialettali dei nonni, al linguaggio colto e ricercato, risultato di studi letterari e di frequentazioni intellettuali con personaggi del calibro di Montale, Buzzati, Jannacci e Gaber. Originale e inattesa è la conclusione del racconto, che trasforma legittimamente l’autobiografia in romanzo. Molto belle le fotografie tratte dall’album di famiglia dell’autore, che aiutano a immaginare l’atmosfera e l’ambiente in cui si sono svolti i fatti narrati, e che ci danno altresì un’idea di quale potesse essere realmente il carattere dei personaggi.
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L’illusorio ideale d’una terra promessa
Pubblicato per la prima volta nel 1973 e edito solo ora in Italia da Feltrinelli, “Tocca l’acqua, tocca il vento” è un romanzo-non romanzo, un’opera in cui l’autore, Amos Oz, si serve dei personaggi per esprimere il suo pensiero filosofico sulla natura dell’essere, in un linguaggio spesso immaginifico, che sembra talvolta procedere a singhiozzo, con frasi brevissime e un uso frequente di punti fermi, raccogliendo così l’eredità di Marquez e di Joyce al tempo stesso.
Ciò che rende assai originale questo libro non è, tuttavia, solo lo stile così particolare, ma è la stessa figura dell’ebreo in fuga dalle persecuzioni in atto nell’Europa degli anni quaranta, che si allontana da ogni stereotipo a cui la letteratura ci ha abituato. Pomeranz, il piccolo orologiaio polacco con la passione per la musica e la matematica, abbandona la moglie e il suo paese, in cerca di un mondo migliore, in cerca di quel mondo ideale che egli identifica con Israele, con la terra promessa. La sua scelta lo allontana da Stefa, la bella moglie che subirà le prevaricazioni e le violenze degli oppressori russi, che la costringeranno a collaborare con loro. Non c'è tuttavia ombra di pietismo in questa narrazione. Ciò non significa che nel trattare vicende e personaggi ci sia un freddo distacco, quanto piuttosto una esplicita volontà di metterne in risalto la dignità.
In questo fiducioso e illusorio viaggio verso una terra che possa restituirgli la pace, Pomeranz, che ama definirsi figlio di vergine, con un chiaro riferimento alla figura di Cristo, matura quelle idee filosofiche alle quali lo aveva iniziato la moglie Stefa, idee che ci riportano con tutta evidenza alle teorie ontologiche di Heidegger, suo maestro. E dunque i personaggi di questa vicenda hanno una opinione soggettiva del tempo: “ Anche gli oggetti materiali, a sondarli nel profondo, non sono che vaga sembianza. In breve: le idee non si potranno mai cogliere con i sensi né i corpi concreti afferrare con il pensiero. Ne consegue che nulla esiste.” Pomeranz percepisce il suo stesso corpo come un’energia passeggera.
E’ così dunque che Oz rappresenta la disgregazione dell’anima e del corpo dell’ebreo degli anni quaranta, così descrive la perdita di quella integrità spirituale e psicologica che ha reso più difficile la possibile realizzazione di un mondo poggiato su basi concrete. Ed è in questa prospettiva che si può interpretare anche il titolo di questa opera: Tocca l’acqua, tocca il vento, acqua e aria, due elementi essenziali alla vita, che rischiano in ogni istante di sfuggire se non trattenuti con saggezza e prudenza.
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