Opinione scritta da pirata miope
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UN MONOGRAMMA!
“Il processo” di Kafka, scritto a intervalli dall’autore fra il 1915 e il 1917 senza mia portarlo a termine, è uno dei “classici” che ogni tanto, in periodi diversi della tua vita, devi rileggere. E via via che gli anni passano ti accorgi che anche tu come il protagonista del romanzo, Joseph K. sei sempre più un semplice monogramma: avevi un cognome con vocali e consonanti ora sei solo più un suono, una voce flebile che si perde nel nulla. Già perché esattamente come nel libro, valori, persone, fedi, ideologie e speranze si dispongono attorno a te in una girandola grottesca ed assurda, in cui l’unica nota stonata sembri essere tu con la tua affannosa pretesa di capire, di spiegare, di cercare una logica: il motore della vicenda, l’accusa imprecisata mossa da un fantomatico tribunale al funzionario di banca Joseph K, personaggi ambienti e situazioni .riflettono infatti l’angosciante mancanza di senso nella quale venendo al mondo precipitiamo. Ci portiamo dietro una colpa ancestrale di cui abbiamo smarrito il ricordo oppure determina il nostro destino di vittime una divinità tanto imperscrutabile quanto malvagia? Il peregrinare dell’accusato fra sordide stanze, soffitte e ambigui avvocati è una penosa discensio ad inferos senza possibilità di riemersione. Eroi tragici, sostiamo fino alla morte davanti a una porta sbarrata, aprendosi per assurdo la quale, ne troveremmo infinite altre a precluderci la conoscenza della legge immodificabile e indiscutibile a cui siamo sottoposti. “Allegorie di cui qualcuno ha portato via la chiave interpretativa”, cosi definisce la critica la prosa kafkiana e le pagine dello scrittore ceco sono in effetti soprattutto la traduzione in uno stile algido e spietato di uno stato d’animo d’impotenza di fronte al dolore dell’esistere. Kafka non concede ai suoi eroi stralunati neppure il conforto della lirica e della poesia, eppure forse anche lui è vinto dalla pietà :chi è infatti colui che nella notte si affaccia a una finestra e pare protestare nell’ ultimo istante di vita di K.?
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STATE ALLEGRI!
“Piccola bussola etica per il mondo che viene” di Fernando Savater è un aggiornamento di “Etica per un figlio” scritta venti anni fa per fare da supporto agli insegnanti di etica, materia introdotta in Spagna come alternativa all’ora di religione. Oggi come allora il filosofo si rivolge soprattutto ai giovani, che devono affrontare l’ingresso nella vita adulta. alle domande dei quali egli risponde, rinnovando la tradizione della diatriba cinica, nella quale per dare efficacia all’argomentazione si immaginava la presenza di un interlocutore con cui dialogare. Savater continua a ritenere l’etica, intesa come scelta razionale del tipo di vita che ciascuno vuole vivere, uomo fra gli uomini, un punto di riferimento saldo di fronte alle perenni problematiche dell’esistere e a quelle interenti alle rivoluziona tecnologica del terzo millennio: se si affrontano questioni come l’amore, l’amicizia, la morte e la solitudine ci si rende conto che l’umanità che naviga in internet e dimora sui social network non è diversa da quella di duemilacinquecento anni fa, ne è esempio il fascino universale delle poesie di Saffo. Il filosofo evita il tono saccente del maestro, tanto più che le sue certezze non sono molte: egli ad esempio non ha fede in Dio, ma neppure ne esclude l’esistenza, cosi come è convinto che la felicità non sia alla nostra portata e che sia piuttosto saggio accontentarci dell’allegria. Agnosticismo, abdicazione dai dogmi, trovare appagamento nel probabile, vivere seguendo la ragione, paiono quasi una rivisitazione in chiave contemporanea dei precetti della varie filosofie classiche. Tanto più che egli trae da loro la concezione dell’uomo come animale sociale: da qui la sensibilità nei confronti dei diritti dei più deboli, soprattutto in tempi di crisi economica, l’attenzione alla politica, e l’invito a partecipare alla cosa pubblica.
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COME IN UN QUADRO DI HOPPER
John Wilder, il protagonista de “Disturbo della quiete pubblica” di Richard Yates ( 1926-1992), uscito nel 1975, te lo immagini, come in un quadro di Edward Hopper ( 1882-1967), seduto al tavolino di un bar alla periferia di una metropoli americana, il bicchiere in mano, lo sguardo perso nel vuoto: forse pensa al passato, ai genitori milionari, alla sua giovane amante, alla moglie, al lavoro, ai suoi sogni di diventare produttore cinematografico, al troppo alcool, alla paura di tornare delirante nel reparto psichiatrico di un ospedale dove è già stato ricoverato e dove probabilmente finirà i suoi giorni. Egli si sente come uno dei tanti sconfitti che vede quando per tornare a casa percorre chilometri in metropolitana. John non ha bisogno di cercare un perché al proprio malessere: esattamente come nel quadro di Hopper la sua malattia è in ciò che vede attorno in un mondo desolato illuminato solo dalla luce artificiale. Ma riesce difficile leggendo il romanzo di Yates, già autore del più noto “Revolutionary Road” e annoverato fra i “padri del realismo sporco” comprendere se sia l’indole o il destino a fare precipitare John da un quieto benessere borghese nel precipizio dell’alcool e della follia. Sorte e personalità si intrecciano del resto in un’esistenza segnata da una fragilità interiore, incapace di trovare “«ordine nel caos»”: in realtà l’animo ferito consente a John di mettere a nudo il vuoto e la menzogna degli universi che attraversa, compresa la Los Angeles del cinema, e delle persone con cui stringe rapporti intimi come la ricca e capricciosa amante Pamela e i suoi amici intellettuali.. Significativa è la sua lettura tutta epidermica del mito kennediano: se Kennedy incarna il fascino e la bellezza dei vincenti, lui sta con il suo assassino e con le forse oscure che parlano attraverso di lui.
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i BEI GIALLI DI UNA VOLTA
I bei gialli di una volta! Si avrebbe voglia di esclamare, una volta chiuso i “Diabolici” uscito nel 1954 e scritto a quattro mano da Boileau e Narcejac, che scrissero per Hitchcock la sceneggiatura di “Vertigo/la donna che visse due volte”. E come vedere un film in bianco e nero, dove la nebbia e la notte costituiscono la trama e danno corpo ai personaggi che vi si aggirano come fantasmi,vittime delle loro allucinazioni, in preda ai loro deliri. Non ci sono né serial killer pieni di inventiva né detective perspicaci, persino il delitto non si capisce bene se sia avvenuto davvero o sia solo il frutto dell’immaginazione di chi lo ha commesso. E la stessa durata del libro è quella di un respiro appena prolungato dal battito di un cuore rallentato dall’ansia: da raccontare c’è poco in effetti. Mireille la donna uccisa dal marito Fernand e dall’algida amante di lui la dottoressa Lucienne per riscuotere il premio di un’assicurazione è davvero morta? L’omicidio è descritto nei minimi dettagli nella prospettiva dell’assassino, cosi come il viaggio in auto nel cuore della notte con il cadavere nel bagaglio, poi il mattino dopo tutto muta: il corpo non c’è più e Mireille si fa viva….E a quel punto assieme a Fernand anche il lettore precipita nel caos: il cosiddetto delitto perfetto scaturisce dalla follia di anime malate, scaturigini insane dell’angusto ambiente piccolo borghese e provinciale in cui vivono.
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MACERIE INTERIORI
Ismet Prcic è emigrato dalla Bosnia in guerra e ora alle soglie del terzo millennio si trova nella California meridionale: ma chi è Ismet Prcic? E’qualcuno che è stato tradito proprio da se stesso, quando nel 1995 la BBC gli fa vedere da uno schermo televisivo in Inghilterra le immagini di un Paese il suo, la Jugoslavia, mentre viene soppresso dalla crudeltà della Storia. Nel momento in cui la sua città, Tuzla, la famiglia, il primo amore e il suo mondo tutto se ne sono andati in frantumi sotto le bombe e i colpi dei cetnici, lui ha voltato loro le spalle, rifiutandosi di assistere a un‘agonia irreversibile. Tuttavia andarsene non ha significato salvarsi ma semplicemente condannarsi a una condizione di esule in una terra dove persone e cose non riescono ad avere consistenza e stabilità. “Schegge” è lo sforzo forse vano di tornare indietro, di recuperare ciò che è perduto, di trasformare l’assenza in presenza: l’impresa sconfina nel delirio, nell’allucinazione, giacché il ricordo, il rimpianto di non esserci stati possono essere pagine scritta, rievocazione, diario intimo ma non vita reale. Questo processo di interiorizzazione di un evento bellico percepito sotto pelle più che vissuto rende originale la rappresentazione delle guerra: le macerie di cui si parla in “ Schegge” sono nell’intimo, sono i sensi e l’animo a essere ridotti a un cumulo di rovine, crolli di città e stragi restano sullo sfondo ridotti a pochi cenni essenziali. Ecco perché le memorie disordinate di Ismet si confondono con quelle di un suo alter ego, Mustafa, incarnazione del senso di colpa o ricordo di un soldato conosciuto per caso e mai dimenticato: Mustafa l’esperienza delle trincea l’ha vissuta, è stato costretto dai cetnici a tagliare la gola al fratello per non essere ucciso. Ismet e Mustafa siano o no la medesima persona fanno parte di un’umanità che intraprende “ viaggi epici dal nulla al nulla” nella speranza che “ ci sia qualcuno, qualcosa là fuori”, che quando sdraiati sulla schiena guardiamo il cielo quello sia il “volto di Dio”.
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EPPURE, EPPURE...
Mentre leggi il romanzo d’esordio di Lisa Ballantyne l’unica domanda che non ti viene voglia di porti è se il bambino con la faccia a forma di cuore, che assomiglia a una femminuccia, educato, ricco, sia davvero un assassino. Un suo compagno di giochi viene trovato morto in un parco di Londra, un testimone racconta di averlo visto litigare con lui, subito lo arrestano e lo processano. Non ti viene voglia di interrogarti sulla sua presunta colpevolezza, perché il tuo punto di vista coincide con quello di Daniel, il giovane avvocato chiamato a difenderlo per il quale in qualunque modo siano andate le cose è una barbarie far salire un bambino sul banco degli imputati. Per di più sarebbe un trauma per il nostro orizzonte d’attesa scoprire che un undicenne ha ucciso con un mattone un altro bambino e senza nessun motivo particolare. Abbiamo forse letto S.Agostino, “ Il signore della mosche”,tuttavia niente ci ha ancora convinto che male ed infanzia possano convivere. Eppure, eppure.. carnefici undicenni esistono se la stessa Ballantyne ha raccontato di essersi ispirata per il suo personaggio a una graziosa bambina inglese accusata di aver ucciso senza ragione alcuna per farlo. La questione è sostanzialmente irrisolvibile, ma “Il colpevole” preferisce assumere le vesti di un racconto a tesi: la violenza perpetrata ha le radici nella violenza subita. Ne è conferma il contesto famigliare insano di Sebastian da cui scaturirebbe la sua eventuale mostruosità. Per rimpinguare la teoria della malvagità come frutto di una distorsione nelle condizioni di partenza la Ballantyne racconta in parallelo il difficile riscatto a cui approda Daniel grazie alla madre adottiva Minnie. Analoghi dunque i presupposti, a fare la differenza l’incontro fortunato o quello sbagliato.
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IL SOGNO DI MATTIA PASCAL
Forse Mattia Pascal, il noto personaggio di Pirandello in fuga dalla propria identità, sognava un mondo in cui avere un nome e un cognome non avesse più un valore certo, e si potesse con naturalezza trasmigrare da condizione e continenti ad altre condizioni e ad altri continenti: L’universo in cui vive Andrea Luna, protagonista del romanzo di Fabio Geda, insegnante precario in Italia, barbone a New York e infine clandestino nel deserto messicano, è leggerissimo, svapora senza peso davanti agli occhi di chi lo abita. Andrea non trova e nemmeno cerca appigli nei luoghi dove fa la sua apparizione prima dell’ennesima ripartenza verso un altrove purchessia: ad allontanarlo dalla città d’origine dove vive stabilmente con la moglie Agnese, lavorando come docente a tempo determinato, non è la sofferenza, anzi è il sentirsi sospeso in un limbo dove dolori ed emozioni lo raggiungono attutiti. Lo stato d’animo non muta a seconda dei cieli sotto cui emigra. A spingerlo verso una strada senza ritorno è una mostra al Metropolitan di New Yord e in particolare un quadro: “Il figliol prodigo” di Rembrandt. In quel dipinto infatti Andrea trova la chiave per dare senso alla sua esistenza di anima errante incapace di trovare un ubi consistam: per essere qualcuno e qualcosa, occorre che qualcun altro ci accolga dopo un lungo peregrinare. Ed è la disponibilità ad accogliere lo sconosciuto che bussa alla porta a dare significato al concetto di identità: non si nasce, essendo qualcuno, ma lo si diventa, lo si conquista sul campo e mai definitivamente.
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GIUDIZIO SOSPESO
Non è difficile emettere una sentenza definitiva su Oliver Ryan, l’antipatico protagonista del noir della sceneggiatrice dublinese Liz Nugent, classe 1967, qui al suo esordio nella narrativa. Non è difficile, perché prima di arrivare in fondo alla storia, siamo chiamati ad ascoltare un gran numero di testimoni che ci dipingono lo scrittore di successo dai modi garbati e di bell’aspetto come un mostro e infine a confrontarle con la versione dei medesimi fatti dello stesso Oliver. Stando a quanto ci dicono gli altri egli è indubbiamente un “mostro”: cosi lo definisce Veronique che ha avuto modo di conoscerlo da giovane come ospite/ lavoratore nella sua azienda vinicola, e più o meno tutti sono concordi nel darne un’immagine ferocemente negativa. L’amante vicina di casa Moya, un’attrice mediocre non più giovane, ci racconta le umiliazioni da lui subite durante gli anni della loro relazione, l’amico gay di gioventù di lui innamorato vanamente ricorda il dolore suo e quello della sorella Laura, una giovane piena di vita, da Oliver abbandonata e spinta al suicidio, il fratello autistico della moglie Alice racconta con il suo linguaggio infantile la malvagità del cognato che lo ha cacciato di casa e ha costretto l’amata sorella ad abbandonarlo in un istituto. Ma forse la testimonianza più schiacciante è la voce costretta al silenzio della moglie Alice, una donna generosa e fedele al coniuge, costretta in un letto d’ospedale in coma dalla violenza dal marito. Eppure il giudizio a un certo punto resta sospeso: la parte visibile del ritratto è di molto inferiore a quella nell’ombra. Tanto più che neppure lo stesso Oliver sembra conoscere fino in fondo se stesso, anzi dopo aver tentato inutilmente di venire a capo del suo stesso enigma pare aver rinunciato a risolverlo. Infatti la sua versione dei fatti non smentisce quanto gli altri raccontano ma dietro la verità indubitabile degli eventi vi è una malvagità che sarebbe troppo semplice ridurre a mero opportunismo. Oliver del resto non può ambire neppure ad essere il classico malvagio ammaliante nella sua efferatezza totalizzante: egli infatti ha sofferto da bambino, perché il padre l’ha abbandonato per una nuova famiglia, ha amato sinceramente la giovane Laura, si è affezionato in Francia a un bambino e al nonno di lui. Una sorta di bontà inespressa ne mette in crisi lo statuto di cattivo al di là della tragedie provocate dai suoi calcoli cinici. Se neppure il colpevole difende la propria innocenza, la sentenza di condanna è sicura, eppure non si può fare a meno di pensare a una frase di Salvatore Satta, noto giurista« Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo»
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TERRITORI DI CONFINE
Si hanno mille curiosità, quando si prendono in mano le corpose memorie del marine David Tell: si vorrebbe capire cosa spinge una persona normale a votarsi anima e corpo al grottesco teatro dell’assurdo, illustrato con tanta crudele efficacia da Kubrick in Full Metal Jacket, film del 1987. Si potrebbe pensare infatti che alla radici di una tale scelta vi siano ignoranza, patriottismo, povertà, volontà di autoaffermazione, desiderio di fuga dalla società, culto della virilità, sublimato dalla vita in caserma, e infine il mito eterno del soldato invincibile. Io sono un’arma non vuole essere né un romanzo né un film, quanto piuttosto un documento preciso nei minimi dettagli su cosa possa significare fare parte del corpo scelto dei Marines e su chi sono coloro che ne fanno parte. La persona che dice io usa per evidenti ragioni uno pseudonimo, ma il suo racconto di una chiarezza e semplicità disarmanti non consente dubbi sulla sua veridicità. In primo luogo sorprende il fatto che la maggior parte dei marines riveli un’istruzione e un’intelligenza superiori alla media, e non provenga dalla arretrate zone rurali del Paese né dalle classi povere. Da questo punto di vista David è figura esemplare. Ma per quale motivo un giovane del tutto normale, accetta di rinunciare alla propria individualità per un’ideale che lo costringe a un’esistenza di duri sacrifici senza affetti? David ripercorrendo con il senno di poi le tappe della sua formazione riconosce l’irrilevanza dei motivi che lo portano a diciotto anni su una strada senza ritorno: condividere il destino di un gruppo di amici del liceo, sentirsi puntare contro da un teppista una pistola in un vicolo, sono sufficiente a convincerlo. L’esperienza di David spiega poi come la riduzione a robot/ macchina di morte consenta di accettare una situazione incompatibile con l’essere umano: il confine fra il soldato e l’uomo è l’arma a marcarlo. Il protagonista vive gli estenuanti addestramenti dei corpi speciali e le crudeltà gratuite a cui viene sottoposto dai superiori senza superare mai quei confini: egli infatti sopprime il guerriero automa per restare essere umano, quando sente il rimpianto degli affetti lasciati a casa, quando in cuor suo condanna le ingiustizie subite da sé e dagli altri. Poi a un certo punto entra nel territorio accessibile esclusivamente a chi è diventato arma e solo allora, nella sua ultima missione in un luogo imprecisato, vedendo gli effetti del trauma irreversibile sul volto di un compagno, si accorge di aver perso con la coscienza se stesso a 22 anni. Ed è l’urgenza di riappropriarsene a ispirargli la lunga confessione/ testimonianza di Io sono un’arma.
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SONO QUI MA NON DEL TUTTO
Chissà dove vivono i tanti personaggi che si incrociano confusamente ne La fortezza, scritta da Jennifer Egan nel 2006 prima del più noto Il tempo è un bastardo? Di sicuro come capita a uno di loro Danny, mentre attraversa Washington Square a New York e parla al cellulare con un amico dal Perù, essi si sentono a casa, solo quando sono «da qualche parte ma non del tutto». Ma anche tu durante la lettura del romanzo ti trovi in un luogo ma non del tutto: all’inizio ti aggiri tra i sotterranei e nel mastio di un castello medievale in Europa assieme a Danny, un newyorkese senza lavoro, sempre on line, e a una stramba contessa fantasma, ma in realtà scopri di essere in un’aula di un carcere di massima sicurezza dove Holly, un ex tossica, tiene un corso di scrittura creativa, e contemporaneamente nella cella con Ray, uno dei suoi allievi, ad ascoltare la voce dei morti da una specie di radiolina inventata da un suo compagno di cella, e infine ti trovi a seguire le peregrinazione di Holly che, innamorata di Ray, che le ha lasciato un manoscritto con le avventure di Danny al castello da lui composte, affronta un lungo viaggio per cercarlo proprio in quel luogo. Riconoscibile chiaramente l’impronta dell’autrice de il tempo è un bastardo: là lo spaesamento scaturiva dalla confusione dei segmenti di tempo, qui dalla continua dislocazione degli spazi. Là il punto d’appoggio dell’intreccio era costituito dalla musica ovvero dagli intervalli fra le note, qui invece dall’intrecciarsi di realtà virtuale e realtà immaginaria. La fuga avanti e indietro nel tempo, l'immersione nell’immaginazione e nei territori creati dalle nuove tecnologie vanificano la consistenza di oggetti, persone ed avvenimenti. In effetti la trama è di una nudità sorprendente, se spogliata dei debiti nei confronti di vari topoi letterari, tratti da Kafka, dal romanzo gotico, dalle storie di formazione, e infine dal racconto sperimentale, un classico del post moderno, con l’intervento diretto dell’autore che si fa personaggio, mettendosi sullo stesso piano delle sue creature. Un’antologia di situazioni estrapolate qua e là da testi vari che non può non far venire in mente l’universo biblioteca di Borges. Cosa racconta dunque La fortezza? La stessa cosa che racconterà Il tempo è un bastardo: la morte del concetto di identità.
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LA TESTA DEL MORTO
Nell’Esodo si racconta che gli ebrei in fuga dall’Egitto vagarono per anni per raggiungere la terra promessa, trasportando con sé le ossa di Giuseppe. Tremila anni dopo un gruppo di profughi partiti da un Paese dell’ex-blocco sovietico alla ricerca di un mondo migliore si trascina per la steppa, portando con sé la testa di “Africa”, un etiope massacrato dagli altri durante il viaggio perché diverso. Quel truce reperto rappresenta il legame indissolubile che unendo passato e presente sintetizza il senso della storia dell’uomo, al di là delle differenze fra popoli ed epoche. A quell’oggetto inquietante guarda Simon Beg, il non più giovane commissario, da poco scopertosi ebreo, protagonista del romanzo, per trovare un’identità e un senso alla sua esistenza solitaria di difensore dell’ordine a Michailopoli, una decadente città di frontiera, dominata dalla corruzione. Se l’ossessione del cadavere di una ragazza nel deposito della stazione della polizia lo perseguita, elevandosi a simbolo del malessere del mondo, l’incontro con i profughi ridotti a larve dall’interminabile girare a vuoto nella steppa gli pare una miracolosa occasione di fare la conoscenza con l’eterno peregrinare dell’essere umano in balia di una natura spietata e dei suoi stessi impulsi. Quale messaggio portano e a chi quegli individui a stento sopravvissuti al digiuno forzato e alla disperazione per essere stati ingannati sulla meta promessa? Lo scrittore olandese Tommy Wieringa (1967) nella prima parte del romanzo ne descrive l’angoscioso camminare in mezzo al nulla, ma di loro rivela ben poco: la maggior parte non ha neppure un nome proprio, si chiamano “ la donna”, “il ragazzo” “ il bracconiere” “ il nero” e sono esattamente quello che la stessa definizione evoca. Fra loro nessun affetto, nessuna solidarietà: ciascuno soffre il proprio martirio da solo, il prossimo è nemico o preda. Nella loro essenzialità rappresentano l’alba dell’uomo, così come l’inquieta ricerca delle proprie radici di Simon Beg, ne è il punto d’arrivo. La figura del capro espiatorio, il diverso da eliminare per purificare il gruppo, è una costante di ogni condizione umana e la testa del morto, macabro bagaglio portafortuna, che l’umanità porta con sé camminando verso il futuro.
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Di COSA PARLIAMO?
Quando apri la prima pagine di "Democracy" fai fatica a capire se stai leggendo un romanzo, un poema, un diario intimo, un esperimento letterario o più semplicemente « i cocci di un romanzo»: le prime frasi sulla “luce dell’alba durante i test sul Pacifico” che “ti fa quasi pensare di aver visto Dio” sono un verso, immediatamente dopo ti viene raccontato il colloquio fra un uomo e una donna, ma l’effetto è quello di una registrazione inceppata causa l’apparecchio guasto. E’ un po’ come se la scrittrice non avesse ancora scelto uno stile, e non riuscisse a produrre altro che una frase smozzicata, un procedere incerto fra le parole che non può fare a meno di puntellarsi sulle ripetizioni. E nulla cambia, anche quando lo scenario si amplia: gli esperimenti nucleari condotti dagli Stati Uniti negli anni 50, la guerra del Vietnam, la CIA, il colonialismo, la politica, "Vogue", e come labile filo conduttore la passione di una vita fra Inez Victor, moglie di un senatore, e Jack Lovett, faccendiere o spia nel sudest asiatico. Fa anche capolino nel fitto intreccio la figura dell’autrice con il suo ribadire che i tasselli del puzzle sono stati messi insieme fra mille dubbi: il risultato è una verità a tal punto a brandelli da lasciare emergere più le ombre che le luci. Non ci si deve comunque sorprendere troppo, tenendo conto che si tratta di un modo coerente di concepire la scrittura: le radici sono nella prosa scarnificata all’estremo di Hemingway, nel minimalismo di Carver, ma anche nelle teorie del New Journalism, il movimento sviluppatosi negli anni 70, di cui la Didion ( 1934), giornalista e scrittrice, è stata definita la Maestra. Democracy, considerato un classico della letteratura americana del ‘900, è il manifesto programmatico di un rinnovamento radicale nello stile: posto che di una verità oggettiva negli accadimenti si debba sempre dubitare, il giornalista, diventato romanziere, deve rinunciare a una versione definitiva ed insindacabile degli eventi. Se si lasciano affiorare i dettagli, le suggestioni, ci si accorge che la realtà è molteplice a seconda di chi la vive e ciò la rende sfuggente, inafferrabile, persino per chi ha la presunzione di raccontarla. Il relativismo cela però un messaggio subliminale, evocato dal titolo: parole ed immagini dietro di sé hanno il vuoto e spesso si mutano nel contrario di quello che vorrebbero significare. Allora di cosa parliamo, quando parliamo di democrazia?
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LA VITA E' UNA COSA MERAVIGLIOSA?
Esme ha ventitrè anni, studia storia dell’arte, vive a New York ma non vi è nata: ha lasciato la sua Inghilterra, per una borsa di studio alla Columbia. Ma proprio perché non è cresciuta lì, ora la metropoli cosmopolita, metamorfica a seconda dei quartieri, si offre al suo sguardo come se uno dei suoi adorati pittori l’avesse dipinta per lei: sono le sfumature della luce, i dettagli, a conquistare la sua anima candida e a farle confondere la realtà con le apparenza. Si perché “la grande Mela” è anche una strega malvagia, che ti apre le porte del suo Eden e ,una volta che ci sei entrato, ti accorgi che è l’inferno. Ma proprio nel momento in cui deve descrivere il passaggio dall’eden all’inferno la penna dell’autrice esordiente dimostra la sua fragilità. Acuta nell’afferrare le impressioni della protagonista/voce narrante,.non va oltre l’epidermica esposizione di emozioni, non costruisce un lineare percorso conoscitivo sulla esperienza vissuta. Il che non sarebbe un gran male, se non fosse che la storia raccontata ti dà l’impressone di essere stata scritta a meta: Esme infatti si innamora con il classico colpo di fulmine di Mitchell, bello e ricco, e nonostante lui la umili, lei continua a sentirsi legata a lui. Per quale oscuro? In realtà come non conosce se stessa, Esme ignora anche la verità più profonda delle persone che le stanno accanto: la vicina di casa, Stella, il potenziale consolatore, Luke, sono comparse. E veniamo poi al punto nodale evocato come nodo portante dal titolo: la libreria “La civetta” dove Esme trova lavoro e amicizia, quando scopre di essere incinta e il fidanzato l’abbandona. Nella realtà sappiamo che la Meyler ha salvato meritoriamente numerose librerie di New York, ma nella sua pagina esse si limitano a costituire un riparo dalle intemperie amorose, la luce nel buio, verrebbe quasi da dire il pretesto per potere esclamare «vivere è una cosa meravigliosa».
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LA MATERIALITA' DELL'ASSURDO
Il dolore non si può descrivere, se non come un odore, una piaga immarcescibile, uno spettro, scaturigine dei tuoi rimorsi, o una prigionia della mente nella malattia: tutti i protagonisti dei nove racconti dell’esordiente Adam Haslett sono anime non sopravvissute al dolore. Non c’è stagione della vita che non sia troncata, senza una ragione, dall’insorgenza del male: l’adolescente ritratto da “Il principio del dolore” dopo il suicidio della madre, esige dal coetaneo di cui è innamorato brutalità e violenza, come se i pugni dell’amico potessero scacciare la sofferenza che l’opprime; l’anziana Elizabeth di “Volontariato” continua nel ricovero che la ospita il doloroso colloquio con il fantasma di una donna morta un secolo prima dopo aver messo al mondo un figlio, la stessa cosa che è successa a lei, e per la quale non riesce a perdonarsi. La fanciullezza del dodicenne di “Premonizione” è deprivata precocemente della speranza: il dono/maledizione di presagire l’evento luttuoso prima che si verifichi lo fa vivere “ come se il mondo di tutti i giorni, tutto quanto gli era familiare, si fosse rivelato una dimora minuscola e affollata, satura di rumore e di chiacchiere. Una casa su una pianura deserta”. E in quella casa su una pianura deserta abita l’umanità depressa ritratta da Haslett: l’assurdo de “Il principio del dolore” è materiale, concreto, una lente deformante paradossalmente poetica per chi la possiede, per chi le cose le vede “dalla parte sbagliata di un telescopio”. L’assurdo è dunque la verità delle piaghe maleodoranti del ragazzino infetto da una gravissima psoriasi di “La fine della guerra” o in “Devozione” quella delle parole delle lettere nascoste in un armadio di un uomo lontano, barriera ideale per un fratello e una sorella che lo hanno amato nello stesso momento tanti anni prima.
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LEGGE O GIUSTIZIA?
Forse in nessun altro luogo vi è più bisogno di un Dio o di chi ne faccia le veci che all’inferno fra i peccatori: nella prigione di massima sicurezza di Staten a Oslo Sonny Lofthus,un giovane eroinomane, lì rinchiuso per omicidi non commessi, ascolta le confessioni dei suoi compagni carcerati e li benedice, invocando per la loro la misericordia «di tutti gli dei e le dee della terra». Il barlume di pietà che gli altri intuiscono in Sonny è forse la sola cosa viva nell’animo devastato di lui: il suicidio del padre, poliziotto accusato di corruzione, lo ha spinto all’autodistruzione prima attraverso l’eroina poi addossandosi la colpa di crimini perpetrati dalla banda criminale del “Gemello”, in cambio della droga. La medesima vocazione alla giustizia oltraggiata che lo ha spinto all’annullamento della coscienza lo riporta in vita, quando viene a sapere che il genitore è stato ucciso. La resurrezione inevitabilmente porta con sé la necessità di guardare lucidamente l’inferno che ha inghiottito suo padre e lui: se tutti gli dei del cielo e della terra non possono concedere altro che misericordia, l’unica giustizia riparatrice è l’arcaico” occhio per occhio, dente per dente”. A quell’abisso nessuno scampa: alcuni vi precipitano per vizio, come il cappellano pedofilo, o per avidità e volontà di dominio, come il Gemello e i suoi sgherri, gli innocenti lo abitano perché costretti.. “Il confessore” racconta la lotta efferata degli uni contro gli altri: la società inquinata non ammette per nessuno il bene, ma, se nella anime pure esiste, esso diventa ossessivo desiderio di vendetta La giungla non concede il lusso del libero arbitrio: la scelte è fra l’essere vittima o carnefice.
Il crime di Nesbo ha dunque come sfondo problematiche etiche da dramma classico: il conflitto fra legge e giustizia, quella che «sta sopra la legge». E il dubbio accompagna il lettore mentre scorrono veloci le sequenza d’azione: chi si assume la missione di ristabilire una verità, come Simon, il poliziotto sulla soglia della pensione, o lo stesso Sonny, “Il Budda con la spada”, chi è veramente, quale realtà si cela in fondo ai loro occhi? Neppure l’amore dei loro angeli salvatori, le donne, riesce a vederla….
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LA STORIA DI SEMPRE
Nel libro di Jennifer Egan i personaggi sono tanti, legati da vincoli più o meno labili, tuttavia non sono loro la voce narrante: a farli scorrere davanti agli occhi del lettore come su un nastro trasportatore aventi e indietro è appunto il tempo “bastardo”. E’ lui che dall’alto della sua omniscienza di divinità irremovibile da tragedia greca li blandisce e poi li attende al varco per chiedere il conto: mentre li osserva liceali smarriti nelle droghe psichedeliche ed innamorati della persona sbagliati, persi nei giorni del “sai che m’importa”, insinua il controcanto di un domani “altro”, tragico o farsesco. Un produttore musicale, conquistatore di ragazzine raccattate con l’autostop, i figli di lui a un safari in Africa, una giovane donna cleptomane in fuga nei vicoli di Napoli, un bambino autistico e il suo diario di una serata in famiglia tutto in power point, uomini e donne di successo o falliti, per sempre prigionieri della stagione o del momento irripetibile nei quali la loro esistenza ha preso forma, i “punti fermi “di proustiana memoria, ciò di cui andiamo in cerca nel luoghi e nei volti altrui senza ritrovarli più. “Il tempo è un bastardo” ( Minimum fax 2011) inevitabilmente rifiuta l’etichetta di romanzo: è piuttosto un album di canzoni da ascoltare e riascoltare per afferrarne il senso o meglio il ritmo. Ma qual è il senso di un universo umano che nella sua logica spietatezza pare non averne alcuno? Le pagine della Egan hanno solo una risposta da dare a una domanda eterna ed è non diversa da quella trovata dai grandi classici del passato, da Seneca a Proust, se non nell’ibridismo di registri della postmedernità: la coscienza rievocativa, “il pellegrinaggio” dentro noi stessi, là dove gli eventi si sono cristallizzati. Nella pause di una canzone, suggerisce la scrittrice, tutto resta in sospeso ed è l’istante magico del ripensamento, del ricordo, quella di sempre, in cui ciascuno riemergendo canta, romanza, racconta in prosa arida da verbale, verseggia, filosofeggia, o disegna nelle forme fantastiche di una pagina di power point la propria storia.
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VECCHIE CARTOLINE
Farfalla nera vive in un villaggio dell’Africa, viene violentata dai guerriglieri e ingannata dall’amato si vendica in modo atroce. Si tratta però della protagonista di uno dei tanti racconti che il commissario Berté scrive al computer nei ritagli di tempo del suo lavoro di poliziotto. Una donna, una delle tante, che inquietano con la loro presenza conturbante o la loro assenza allarmante la mente del protagonista del romanzo di Emilio Martini, pseudonimo di un vero funzionario di Polizia: c’è l’amata Marzia, felicemente coniugata, c’è la professoressa Groppini, la preside assassinata, la collega attraente e ci sono le fugaci e sensuali apparizione di un istante, la cameriera slava, la liceale dal sorriso radioso, le figlie abbronzate della vittima, l’editrice senza peli sulla lingua. All’universo femminile si contrappone quello maschile, fatto di sfruttatori di mogli ricche, potenziali assassini, seduttori di minorenni, padri indifferenti o mariti lontani o fedifraghi. Alla più o meno rigida divisione in sessi si intreccia quella in classi sociali, altrettanto classicamente invalicabile in un paese della provincia ligure somigliante a “una vecchia cartolina sbiadita dal tempo”: la vittima dirigeva un prestigioso liceo privato ed è fra le ipocrisie dei ricchi che devono indirizzarsi le ricerche del detective che si porta con sé le sue debolezze ed idiosincrasie. Ed è soprattutto su queste ultime che si focalizza la scarna pagina di Martini ed è proprio la visione schematica del protagonista a essere confortata dalla scoperta dell’assassino. Le vecchie cartoline sono sbiadiate ma di esse continuiamo a riempire i nostri album
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UN'IMPROVVISA FOLLIA
Deeti, una vedova in fuga dalla famiglia del marito, solo quando sta per imbarcarvisi, capisce il perché ,molto tempo prima di conoscerne l’esistenza, l’Ibis, una goletta a due alberi, le sia apparsa in una miracolosa visione, mentre era immersa nelle acque del Gange: la nave è “padre-madre...l’antenata adottiva e progenitrice di stirpi a venire”. La Ibis è in effetti la vera protagonista di “Mare di papaveri” primo romanzo di una trilogia, nel quale Ghosh canta l’epopea della liberazione dell’India dal dominio inglese e dalle sue stesse tradizioni millenarie ed oppressive. Per questo a mettersi in viaggio per riappropriarsi di un’identità perduta e violata è un intero popolo di vittime oppresse: la povertà, il sopruso, l’iniquità di un sistema corrotto, accomunano in un tacito patto di solidarietà genti di etnie e lingue diverse, la contadine Deeti, il raja d’antichissima schiatta defraudato nei suoi beni e condannato ai lavori forzati, l’orfana francese appassionata di botanica costretta a sposare un vecchio giudice moralista e corrotto, il commissario di bordo dal corpo di donna, incarnazione della venerata zia defunta, e infine i lascari, il variopinto e variegato equipaggio di marinai d’ogni razza. Lo scrittore individua il significativo punto di trapasso fra l’India arcaica e l’India contemporanea in un preciso evento storico: il romanzo inizia infatti nel 1838, quindi la “guerra per l’Oppio “ imminente fra Gran Bretagna e Cina. fa da sfondo all’Odissea della Ibis. Il mare di papaveri accompagna così i profughi nel loro cammino lungo il Gange verso una meta ancora indefinita: i petali da cui si ricava la droga connotano ossessivamente il paesaggio dell’intero Paese,” il paradiso fumoso”, metaforica catena dalla ingannevoli virtù affrancatrici impossibili da spezzare. “Mari di papaveri” e’ un’opera di grande respiro, che, almeno agli occhi del lettore italiano non è in grado di coglierne la complessità linguistica derivante dalla mescolanza di idiomi inseriti nei dialoghi, aspira alla classicità del grande romanzo realista dell’8OO alla “Guerra e Pace”. Ma verso dove va l’India di oggi, o per meglio dire, dove va l’umanità con il suo carico di bizzarrie, passioni e odi? Gli esuli dell’Ibis hanno trovato scampo in uno spazio angusto dove lo scudiscio in mano al capitano oppiomane è l’unica legge vigente e dove non resta loro che contemplare la costa che si allontana con rimpianto: “nelle ceneri del passato di ognuno luccicano tizzoni di memoria ardente….facendo della loro presenza lì, nel ventre di una nave che stava per lanciarsi nell’abisso qualcosa di incomprensibile, di inspiegabile, se non come un’improvvisa follia”
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COMMEDIA SENZA BUSSOLA
La commeda di costume inglese ( “comedy of manners”) alla Jane Austen ormai ha perso la bussola: i personaggi fanno le loro parti, improvvisando senza più un copione a disposizione, la ridente campagna, in procinto di essere invasa dalle villette a schiera, nasconde nelle radure boschive giochi sadici di fanciulli feroci, presi in prestito dai film dell’orrore, e guai a capitarvi per sbaglio mentre si passeggia. Nella commedia messa in scena da Cameron in “Coral Glynn” (2012) si cerca invano il baricentro: ognuno degli attori manca appunto di forza di volontà, a cominciare dalla protagonista, Coral Glynn, infermiera senza mezzi capitata in una dimora aristocratica per assistere la padrona di casa moribonda. La sua dovrebbe essere la classica figura di donna povera in lotta contro il pregiudizio sociale in nome dell’amore: infatti Clement, il figlio dell’inferma, morta la madre, attratto da lei, le chiede di sposarla e lei accetta. L’intreccio alla Jane Austen dunque parte, tuttavia non approda da nessuna parte: le distanza sociali sono un ricordo del passato, cosi come sentimenti quali l’amore, la passione e il bisogno di realizzare se stessi si concretizzano in nient’altro che in “una sensazione di vuoto...di qualcosa-una luce, o un suono dentro, nel profondo” che si affievolisce, si spegne e lascia soli nel buio. Un eco nel profondo che non è più in grado di fare da guida per nessuno: “come si fa a sapere se si vuole qualcosa o no?” si domanda Coral e questo vale per Clement, per Robin, di lui innamorato, per la di lui moglie, Dolly, per Laslo, l’amante londinese di Coral. Cosi si fugge da un destino segnato o da un ruolo prestabilito, ma non si sa se si vorrebbe farlo: si agogna a non rimanere soli, ma non si sa se si preferisce la solitudine, si tradisce l’amico di una vita, senza essere sicuri di averlo voluto. Morta la ragione e il cuore, non resta che andare là dove ti porta l’impulso: cosi il vento scompiglia le pagine del libro, cose e persone si dispongono alla rinfusa e si mettono in posa per una conclusione....
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PREMONIZIONI
I falò dell’autunno sono i fuochi accesi nei campi che purificano la terra, la preparano per nuove semine. Li vede in sogno nell’agonia che precede la morte la vecchia nonna della protagonista, Thèrèse, e li vede la stessa Thérése, poco prima della conclusione definitiva della sua storia. In realtà quei bagliori visibili nelle campagne preannunciano la catastrofe a cui l’uminità tutta è condannata: le due guerre mondiali sono la condizione rivelatrice della natura umana nel bene e nel male. La vita in trincea, descritta con pennellate icastiche dalla Némirovky, uccide con inutili atti d’eroismo, i generosi come il medico Martial, ed educa al disamore gli adolescenti ancora da formare come Bernard. Il male visto e respirato vanifica la capacità reattiva nell’intera società: il risultato è che essa diventa una "grande fiera, dove entrava chiunque lo volesse" e dove sono ammirevoli e degni di essere modelli coloro che "la danno a bere agli altri restando mediocri in tutto", come Raymond Détang, uomo politico e faccendiere fortunato. Esistono certo a fronte di arrivismo e cinismo amore, generosità, fiducia nel prossimo e speranza in un domani migliore, qualità che caratterizzano, Thérése: tuttavia la virtù ha armi spuntate contro il fascino di cui si ammanta chi ha il cosiddetto successo e la passione disperata di lei nei confronti del marito Bernard, conquistato dal “bel mondo” ed indifferente, la consuma e fa invecchiare nel grigiore. Neppure l’aspirazione alla purezza del figlio adolescente è salvifica: egli nauseato dalla realtà va a cercare la morte in guerra, portando con sé la fotografia del defunto Martail, simbolo di una integrità morale da lui mai conosciuta. La prosa della Némirovky, autrice morta in un campo di concentramento e riscoperta meritoriamente dall’Adelphi, corre veloce, mira all’essenziale, e non sorprende neppure che il mondo ritratto sia anche quello nel quale viviamo noi, dove i falò dell’autunno sono persino inutili.
UN DETECTIVE DAVVERO DETECTIVE
L’autore di best seller David Hewson non svela più di tanto del suo investigatore, l’ispettore romano Nick Costa e dei suoi collaboratori Peroni e Falcone: del primo, in attesa di un figlio dalla sua compagna, sappiamo ad esempio solo che l’esperienza gli ha insegnato a non fare affidamento in un‘inchiesta sulle prove scientifiche, spesso inesistenti, e a contare invece sullo studio delle personalità e delle motivazioni che le spingono ad agire. Può capitare cosi che il lettore senta la mancanza del poliziotto filosofo aduso a riflettere sulle condizioni sociali ed esistenziali del mondo, che gli tiene compagnia nella maggior parte dei gialli presenti in libreria. In realtà ad avere ampio spazio ne “ Il settimo sacramento” è il crimine stesso: l’autore infatti fino alla conclusione del romanzo interrompe il resoconto della ricerca del colpevole noto protraendo per molti capitoli la narrazione dello stesso delitto che risulta cosi essere non un semplice punto di partenza ma il cuore stesso del libro. In effetti il misfatto ha le sue radici in un remoto passato e non consiste in un semplice assassinio bensì nello svolgimento di una sorta di misterioso rituale in onore di un antica divinità pagana d'origine persiana, Mitra, venerata soprattutto dai soldati: quando Costantino il grande dopo la battaglia del Ponte Milvo del 312 d. C entra a Roma e fa del cristianesimo l’unica religione dell’Impero, il suo esercito fa strage dei seguaci del culto del dio. . Le tracce del massacro vengono riportate alle luce da un arrogante e strano archeologo, Giorgio Bramante, e la scoperta si rivela essere una maledizione per lui, per un gruppo di studenti e per la sua stessa famiglia, in quanto in seguito a una misteriosa escursione nei sotterranei della città con un gallo da sacrificare a Mitra suo figlio Alessio scompare. Ma quale fascino può esercitare una religione antica basata sul rispetto rigoroso delle disciplina e delle gerarchie sull’uomo contemporaneo? O la devozione fanatica a un culto anacronistico è un semplice pretesto per sfogare i propri istinti? Mentre si segue la cerimonia nel labirinto sotto terra, già l’immaginiamo che, sciolti i nodi della complicata vicenda con l’immancabile sorpresa delle ultime pagine, l’unica risposta starà nella bizzarria della natura umana.
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LEZIONI DI STILE
Maugham nella raccolta di racconti “Storie ciniche”, scritti fra le due guerre mondiali, dà senza averne l’aria una motivazione al suo stile levigato e sarcastico: la vita è oltremodo fantastica, e bisogna avere un senso dell’umorismo tutto speciale per trovarla divertente. E per cogliere il lato umoristico dell’esistenza, la misura breve del racconto, l’antologia di casi esemplari, è l’ideale: brevi ritratti colti nell’espressione divertita con cui ostentano all’alta società intellettuale e cosmopolita inglese dell’epoca la loro paradossalità, riuscendo sempre ad avere “l’ultima parola” al di là del bene e del male. Si tratta di donne di mezza età, dall’aspetto insignificante, come la protagonista del racconto “Jane”, che conquistano ragazzi giovanissimi e poi disinvolte li abbandonano per un altro: il segreto del loro fascino è la sincerità che, talmente insolita da risultare comica per la gente, le fa trionfare nei salotti chic di Londra. Anticonformista al pari delle sue sconcertanti eroine Maughan cerca la lezione di stile nel degradare la tragedia a una posa: in “la pelle del leone” il protagonista muore per recitare fino in fondo la ridicola parte del gentiluomo, in “Prima della festa” alcolismo e omicidio turbano la pace di una famiglia rispettabile la quale, però, convinta che al male ci si fa l’abitudine, non rinuncia a recarsi al ricevimento vestita di tutto punto; la probabile assassina illibata di “la coppia felice” è pronta ad uccidere per sposare l’uomo amato, ma non ad avere una relazione illecita con lui. Osservatore satirico della natura umana, uguale ad ogni latitudine, l’autore introduce se stesso come testimone, diretto o indiretto, delle storie ciniche narrate, individuando in una sorta di saggezza inevitabilmente amorale il trait- d’union fra personaggi ed azioni imprevedibili: il senso morale non è altro che un atteggiamento stantio, non ha risonanza alcuna nell’animo animo, tiene lontano innaturalmente dall’amante in “La virtù” o dal cibo in “Le tre donne grasse di Antibes”, e si risolve in inutili disastri. La bandiera dell’etica sventola a vuoto, sopravvive allo scompiglio solo il bon ton del narrare conversando.
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GRANDEZZE
GRANDEZZE
Difficile capire cosa effettivamente sia l’onore di Roma nel complicato contesto che il romanzo storico di Cervo sintetizza e dunque a quale virtù particolare alluda il titolo: probabilmente l’Urbe, come avviene nelle pagine dei grandi storiografi latini rappresenta uno Stato, basato sulla legalità e l’ordine, contrapposto alla tirannide e al banditismo della barbarie. Il romanzo si riferisce in effetti ad eventi documentati dalle fonti storiche che attestano le grandi difficoltà dell’aquila romana a tenere sotto controllo un territorio vastissimo e incontrollabile: siamo nel 280 d.C, .l’imperatore Probo è in Oriente a combattere gli Isauri, le zone più calde d’Occidente, ovvero le Gallie, sono in subbuglio, in balia di mediocri aspiranti alla porpora imperiale, nonché di bande di briganti assiepati sulle montagne. L’arduo incarico di far fronte a una situazione esplosiva viene affidato al legato imperiale e alla sua Ventiduesima legione. In realtà Cervo con un stile di scrittura accurato nelle descrizione dei luoghi e preferendo alle derive sentimentale di eroi ed eroine l’illustrazione della condizioni di vita di villaggi e borghi apporta una felice variazione alle convenzioni del genere paralettario: è significativo che i nemici della legge, quali il beone Bonoso, proclamatosi imperatore per caso, e l’ambizioso Proculo restino sullo sfondo per emergere solo nel momento della caduta, relegati a puro sintomo della malattia dell’Impero. Ugualmente nell’ombra resta il campione della legalità, Valerio Metronio. Mentre i maschi sono lontani alle guida degli eserciti sono le loro donne, a vedere, con occhi più lucidi, la realtà e alle loro personalità complesse lo scrittore affida il ruolo di testimoni e vittime: Viturga deve difendersi contro la violenza del fratellastro bandito, la consorte del legato imperiale, la liberta Idelnia, affronta con coraggio il viaggio per portare la figlia fuori dalle guerra. E a fare il punto della situazione vi è il filosofo Marsilio che nella pause dell’azione inserisce riflessione da letteratura alta: a lui le vette delle montagne raccontano “dell’incredibile piccolezza, e, ,insieme, dell’ineffabile grandezza di tutto ciò che è umano”
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LAUDATOR TEMPORIS ACTI
Il male è sempre esistito ovunque, è comprensibile, è persino un’estremizzazione del senso di giustizia: questo il commissario Wallander lo sa, come fin dall’inizio della complicata indagine è certo che prima o poi troverà assieme al pluriomicida le ragioni umane dell’efferato crimine. Anche il lettore fin dalle prime pagine del romanzi ha modo di conoscere in qualche modo i pensieri del serial killer donna e la tragedia personale che la spinge ad uccidere. Ciò che invece inquieta, fino al punto di fare scoppiare in lacrime l’esperto poliziotto sono le forme in cui si manifesta l’impulso omicida: un vecchio poeta, innamorato degli uccelli, viene trafitto in un fosso da alcune canne di bambù appuntite, un ricercatore universitario viene rinchiuso in un sacco vivo e gettato in mare, un fioraio, con la passione delle orchidee, viene accecato e il suo corpo dilaniato legato a un albero. Wallander non riconosce più la realtà: si trova immerso in un film dell’orrore inspiegabile che fa vacillare ogni sua certezza, proprio nel momento in cui la sua vita privata pare imboccare la giusta direzione. Ne “La quinta donna” pertanto l’urgenza di fermare la macabra pellicola predomina: nella corsa contro il tempo non c’è spazio, diversamente da quanto avviene per gli altri libri della serie dedicati al commissario della Scania, né per la contemplazione del paesaggio né per i sentimenti e neppure per l’elaborazione dei tanti lutti. Si arriva cosi alla soluzione del caso, e la domanda sconvolgente viene rimossa con la spiegazione che il pensoso eroe di Mankell dà a se stesso e a chi legge, assumendo la tradizionale veste del laudator temporis acti: il gusto della perversione nasce, quando in Svezia le persone non si aggiustano più le calze da sole, e la meritata punizione prima o poi arriva per tutti.
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IL LAMPO SERPENTINO DI UN ISTINO
Il titolo del romanzo di Hollinghurst fa riferimento a un trattato di estetica del 1753 di un pittore inglese Hogarth, nel quale il “bello ideale” coincide con la “linea serpentinata”. Ed è proprio “il lampo serpentino di un istinto” a connotare lo stile di vita ossessivo di Nick e dell’ambiente alto borghese del quale egli,compagno di università del figlio di un deputato Tory, si trova ad essere ospite: la linea serpentina è un miraggio, un vicolo tortuoso, un fantasma che appare e scompare, e di cui tutti i personaggi del libro e lo stesso scrittore sono, in misura più o meno consapevole, vittime. Nick, il protagonista, giovane letterato, aspira a tradurre le sue esperienze di vita nello stile elegante, tutto volute ed intarsi, del suo ammirato maestro, Henry James, e lo stesso Hollinghurst, fedele alle prospettiva del suo eroe, adegua il modo di scrivere a quello del grande scrittore americano. Tuttavia fra la realtà e le aspirazioni nobilitanti dell’arte c’è uno scarto, sforzarsi di colmarlo porta a una perenne frustrazione: i quadri d’autore e i preziosi arredi della prestigiosi dimore aristocratiche fanno da beffardo sfondo ai sordidi esperimenti nel sesso promiscuo, nella droga e nei cinici intrallazzi politici. Siamo infatti nella Londra degli anni 80, quelli dell’Aids, delle speculazioni finanziarie, ben simboleggiati nel libro dalla Thatcher: idolatrata dalla ricca borghesia, la Lady di ferro fa la sua epifania di goffa dea senza carisma a una festa e danza con Nick. Ammaliato dai bagliori dell’alta società Nick, novello Proust, si trova a condividerne i riti mondani, i vizi nascosti e le bassezze umane: egli è troppo coinvolto, per essere giudice degli smarrimenti emotivi ed esistenziali che egli stesso prova. Il ritratto d’ambiente minuzioso viene filtrato pertanto da un sensibilità estremamente permeabile agli stimoli erotici, sentimentali ed estetici: la scoperta dell’amore con Leo e della libertà sessuale, la sofferta relazione con il bellissimo e autodistruttivo Wani, la problematica amicizia con la depressa Catherine e con la famiglia di lei, gli fanno scorgere la “doppia curva della bellezza” in sé e negli altri. Nel percorrerla alcuni si fermano a metà e si perdono, altri vanno fino in fondo, si salvano, e all’angolo di una strada illuminata dalla luce del crepuscolo ne riconoscono l’ombra evanescente.
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Affiora anche il tema dell'omosessualità e dell'Aids.
PRIMA DI SPOON RIVER
La malvagità di solito è celata: mafiosi, corrotti ed evasori fiscali non portano in faccia le stimmate della cattiveria. Al contrario la crudeltà di Olive Kitteridge, insegnante di matematica in pensione, è ben visibile: è un modo speciale di essere, di pensare, di guardare agli altri, è la piccola “esplosione” che ti permette, rubando ad esempio per dispetto la scarpe alla nuora saccente, di sopravvivere a ciò che il destino ti impone, un marito subito, un amore negato, un figlio ostile se non addirittura assassino, l’alcolismo, l’inedia o una malattia invalidante. Ed è la qualità che la rende degna agli occhi di Elizabeth Strout di svolgere il ruolo di coscienza critica di un villaggio del Maine, Crosby: la scrittrice ce la fa conoscere all’inizio di scorcio nel primo racconto, dove è la consorte scorbutica di un farmacista infelice che vive di rimpianti, e poi, con il procedere del libro, via via che si affacciano sulla scena gli abitanti del microcosmo e vengono alla luce segreti e tragedie, ne fa uscire dall’ombra il lato intimo, ed è il suo sguardo disincantato a dare alle cose la trasparenza e la profondità dell’acqua dell’Oceano, che domina il paesaggio. Pertanto Olive è sì la protagonista del romanzo, ma non nel senso convenzionale: si può dire che essa faccia da tramite fra l’autrice e l’oggetto della narrazione, consentendo alla Strout di evitare l’algida neutralità del racconto minimale alla Carver. In effetti “Olive Kitteridge” non è propriamente un romanzo: si narrano momenti isolati della vita di Olive dalla maturità fino alla vecchiaia, ma i capitoli, dedicati a questa o a quella figura, sono autonomi, e in molti la protagonista vi fa una comparsa momentanea, casuale. Persino le parti in cui Olive viene chiamata in causa, gli stati d’animo di lei, fanno da filtro alle persone con cui viene a contatto, il marito, il figlio, amiche, conoscenti ed ex allievi. Si tratta di una sorta di “Antologia di Spoon River” nella quale il poeta abbia trascritto le voci del villaggio un attimo prima che la luce eterna si spenga su di esso. Olive non offre alibi o illusioni a nessuno, tanto a meno a se stessa: arrivata quasi alla fine del percorso niente la consola delle perdite, se non che “il mondo la confondeva” e per questo “non voleva ancora lasciarlo” .
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FORTUNA CHE I POPOLI HANNO BISOGNO DI EROI
Sam per sette anni fra il 1983 e il 1990 ha fatto di mestiere il “simulatore” ovvero ha diretto un ufficio del SIS inglese il cui compito era quello di “disinformare” e “demoralizzare” i servizi segreti dei Paesi avversari con l’uso di menzogne: i moderni guerrieri non lottano certo rispettando un codice d’onore, anzi l’inganno è uno strumento necessario per difendersi in un mondo corrotto dall’ideologia marxista. Davanti a un busto di Marx nella secolare Università di Schiller dove il filosofo aveva insegnato nel 1841, uno della vittime della distopia da lui ispirata non può fare a meno di esprimere il desiderio che costui “fosse crepato a quel tempo”. E sono i tentativi rivoluzionari degli studenti e degli operai parigini ad accendere la fantasia del giovane libico Hakim al-Mansur e a spingerlo a diventare un pericoloso terrorista al servizio del folle Gheddafi. La fanatica devozione ai dogmi del partito o della “causa” trasforma gli essere umani in automi votati alla carneficina o all’autodistruzione: neppure il pensiero di Dio spegne la sete di sangue di padre O’Brian, soldato spietato dell’IRA. Se di tali demoni l’”impero del male” si nutre, il regno del bene ha a disposizioni uomini interiormente feriti o stanchi ma coraggiosi e paradossalmente leali: a Sam non è consentito essere onesto con i nemici russi o libici, tuttavia per amici e collaboratori fedeli non esista a rischiare la propria vita. Tuttavia a rendere credibile gli eroi di Forsyth non sono tanto le qualità morali, che lo scrittore lascia scaturire dall’azione, quanto la precisione con cui vengono descritti il contesto storico e i sistemi operativi dei servizi segreti. Le avventure del “simulatore” e dei suoi sodali sono così un continuo susseguirsi di pericoli sventati all’ultimo momento. Ma ora la “Guerra Fredda” è finita, e per Sam è il tempo della pensione e della malinconia: mentre lui è a pesca, Saddam invade il Kuwait. Fortuna che i popoli hanno sempre bisogno di eroi…
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PONTI SULL'ABISSO
La cometa di Halley, “tutta sola nell’abisso del cielo”, corre per l’universo e raggiunge il sistema solare ogni 76 anni: al suo passaggio è legata l’apparizione di un poeta, ma l’epifania di un artista è la possibilità di sfiorare l'enigma del cosmo che l’umanità non è in grado di cogliere. Come ne “La chimera” la biografia documentata di Dino Campana(1885-1932), ricostruita rigorosamente da Vassalli, dimostra quanto la Storia umana sia un meccanismo che stritola le creature più fragili ed innocenti: e lo stesso nucleo familiare a perpetrare l’assassinio fisico e morale dei più deboli con la complicità dello società. Per mettere in atto i suoi delitti, dovuti a miopia o pregiudizio, parenti ed istituzioni si servono di etichette, quali “strega” o “matto”: cosi l’esistenza di Dino inizia “storta” fin dall’infanzia a Marradi, il paesino toscano nel quale il ragazzo cresce odiato dalla madre, incompreso dal debole padre, e oggetto di schermo da parte dei suoi compaesani. Le manifestazione di squilibrio e le reazioni scomposte non sono sintomi di malattia, bensì del disagio di un’anima troppo sensibile per integrarsi in un ambiente angusto. Vassali ha la felice idea di non considerare la vocazione alla poesia come una semplice reazione all’emarginazione: la vena artistica resta un mistero, di cui i contemporanei sono incapaci di cogliere l’afflato. Esemplare è il disprezzo per i “Canti Orfici” dei letterati illustri dell’epoca, Papini, Soffici, Marinetti e i futuristi; e c’è da dubitare che per la sua stessa amante, la “divoratrice di uomini”, Rina Faccio, in arte Sibilla Aleramo, esaltate in futuro dalle femministe, egli sia stato qualcosa di più di un’effimera stravaganza di donna alla moda. Solo chi ignora cosa sia davvero la poesia può stupirsene del resto: essa è “un ponte sull’abisso: un messaggio lanciato a chi non c’è da chi non torna più indietro”. Una cometa appunto che è passata una notte, ha illuminato il cielo, ma tu dormivi…
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A chi ama le seguenti tematiche: l'emarginazione dell'artista, da Euripide ad Alda Merini.-arte e malattia-
RECINTI
Maupassant nel suo romanzo del 1885 racconta l’esemplare ascesa sociale di Georges Duroy nella Parigi delle cosiddetta Terza Repubblica. Nella pagine del libro non vi sono giudizi etici da parte dell’autore ma l’assenza di una chiave morale esplicita è qualcosa di più di una rigorosa applicazione dei dettami del naturalismo che imponeva l’eclissi dello scrittore dai fatti narrati. Il lettore viene infatti escluso dalla vita intima di tutti i personaggi della vicenda non per una scelta di poetica: se la buona borghesia della metropoli è un enorme recinto dove ciascun animale del gregge si muove in base all’impulso un mondo interiore nobilitante sarebbe una menzogna. La domanda inquietante in chi legge è infatti questa: a cosa è dovuta la carriera fulminante del mediocre Georges? Egli non ha meriti o talenti, non ha l’intelligenza cinica del genio del male, e neppure l’aspetto di lui colpisce in modo particolare. La sua fortuna inizia da un incontro casuale per strada con un ex commilitone e sono sempre le circostanze casuali presentandogli davanti a determinare le sue mosse. Il segreto del successo di lui lo intuisce una bambina affibbiandogli il nomignolo di “Bel ami”: egli offre a uomini e donne ciò che essi, più o meno inconsciamente, vogliono, egli è l’anima segreta di ciascuno di loro. E’ per il direttore del giornale nel quale lavora il giornalista disonesto e manipolatore di notizie, per la virtuosa moglie di lui il desiderio di trasgressione erotica represso da una fragile religiosità, per l’amante fedele che tutto gli perdona egli è l’allegro compagno di letto a cui tornare sempre e comunque. Georges non è che uno specchio riflettente il volto deforme del nostro vivere in comunità: non basta questo, ahimè, a fare il grande seduttore?
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ELEGIA
“Si ricorda questa o quella persona e ci si chiede come starà, ed ad un tratto ci viene in mente che essa non passeggia più sui marciapiedi, che la sua voce non risuona più nel concento universale” inizia così il capitolo primo della parte undicesima de “I Buddembrook”. La storia della famiglia di agiati commercianti di Lubecca è già andata avanti: molte cose sono già avvenute, nascite, traslochi, matrimoni, divorzi, morti e molte pagine del diario di famiglia, custodito come una sacra reliquia, sono già state riempite. Ormai il romanzo si avvia alla conclusione e l’autore a questo punto svela al lettore la musa ispiratrice, ciò che trasforma una comune cronaca familiare in dolente elegia: l’azione corrosiva del tempo. Ogni morte dei componenti della famiglia è un passo avanti verso il baratro del nulla: il primo atto del dramma è la morte del nonno, il console Johann, colui che privo di dubbi esistenziali, ha reso gloriosa la ditta; l’ultimo è il decesso per tifo dell’adolescente Johann, detto Hanno, più artista che uomo d’azione, prototipo dei tanti inetti che caratterizzano la letteratura del ‘900. Con Hanno la caduta è irreversibile, ma la decadenza si avverte già chiaramente nei conflitti interiori che caratterizzano suo Padre Tom: egli soffoca i suoi dubbi nel silenzio, cerca risposte in Schopenauer, litiga con il fratello e con il figlio, per sostenere di fronte al mondo un immagine di uomo forte che in realtà non ha. Il buon nome borghese è l’imperativo morale in nome del quale i Buddembrook, uomini e donne, rinunciano ai sentimenti: la crisi scaturisce nel momento in cui il passare degli anni ne rivela l’inconsistente anacronismo. La sola ancora di sopravvivenza è l’energica superficialità di Tony: essa si consola per i matrimoni falliti, i suoi e quelle della figlia, per la scomparsa precoci dei cari, con lo sfogo del pianto a dirotto. La lunga saga nient’altro ha insegnato, a lei e a noi: asciugarsi le lacrime sulla guance cascanti un istante prima che scenda il buio.
ESERCIZI DI PARALETTERATURA
In "Le pietre della luna” gli ingredienti del romanzo d’avventura ci sono tutti, ma sono amalgamati in un racconto a cornici concentriche: nella Roma contemporanea una giovane studiosa decifra un antico manoscritto nel quale un frate spagnolo vissuto nel 600’ racconta la lotta di un suo antenato, il legionario Giunio della città di Luna e della Vergine Vestale Clelia contro l’iniquità dei potenti. nella Roma dell’imperatore Diocleziano. Quasi in parallelo la storia ci porta alla Germania di Hitler, a un sommergibile scomparso che nell’anno 1995 la scrittrice Laura, esperta di recuperi sottomarini, tenta di riportare alla luce con i suoi segreti; in ballo c’è la salvezza del pianeta Terra. A tenere insieme spazi e tempi cosi diversi sono degli antichissimi cimeli, tre statuette d’oro che, passando di mano in mano, attraversano i secoli e nel romanzo svolgono la funzione di bussola d’orientamento per il lettore. Il montaggio alternato di microsequenze che interrompono l’azione sul più bello ricalca l’antica e nobile tecnica dell’entrelacement: è un vecchio trucco, oggi abusato anche nel cinema e nelle fiction in Tv, utilizzato già nei poemi epici quali ad esempio l’”Orlando furioso” per far sì che chi legge spinto dalla curiosità non abbandoni il testo. Dunque Buticchi svolge un appropriato esercizio di paralletteratura che non chiede niente di più di quello che concede.
ACTION MOVIE E E PSICACOGIA
Nel giallo dello scrittore danese Birkegaard si prospetta un' illogica guerra, del resto destinata a sfociare in amore, fra i cosiddetti “lectores” e i “recettori”. I primi sono in grado, attraverso la lettura di un testo, di esercitare un enorme potere su chi li ascolta, gli altri invece hanno la capacità di captare immagini e visioni di chiunque stia leggendo. . Entrambi fanno parte della medesima realtà misteriosa e sfuggente che il protagonista Jon impara gradualmente a conoscere quando il padre morendo gli lascia in eredità una libreria antiquaria chiamata “I libri di Luca”. Entrare in contatto con i libri significa scoprire il fascino e il rischio dell’avventura e Jon, prima avvocato di successo, si trova coinvolto in prima persone in un romanzo dall’intreccio complicato ed avvincente: delitti orribili, sette segrete, rituali arcaici, tradimenti, amori, luoghi esotici e infine la mitica biblioteca d’Alessandria d’Egitto. Prima è perplesso, poi, via via che la storia procede, scoprendo in sé le peculiarità del lettore appassionato si trasforma da individuo in personaggio/eroe. “I libri di Luca” è dunque un thriller piacevole, che sfrutta abilmente metafore e tematiche concernenti il potere psicagogico della parola, posto già a tema dal sofista Gorgia. Come una pistola, un libro ti uccide o ti salva la vita: Birkegaard ha avuto l’idea brillante di farne un film d’azione.
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BALLERINI NEL VORTICE
Per raccontare l’avventura dell’uomo del terzo millennio DeLillo si rifà all’archetipo dell’Odisseo omerico e alla rivisitazione del medesimo da parte di Joyce nell’”Ulysses” del 1922: nell’antico poema l’eroe per recuperare l’identità perduta di re di Itaca e di padre/marito doveva attraversare il mare, sconfiggere Ciclopi e Sirene, nella realtà contemporanea lo spazio dell’avventura si restringe a una città-esemplare, New York, e all’interno di una limousine. Le peripezie dell’eroe avventuriero, il miliardario Eric Packer, sono ridotte al viaggio di un giorno per le strade caotiche della metropoli alla ricerca di un negozio di barbiere, e la geografia dell’avventura ha le dimensioni dello schermo di un computer nel quale il protagonista vede attraverso l’andamento dei mercati finanziari l’esito delle sue scorribande speculative. In un mondo dove il solo spettro che si aggira è il capitalismo, lo “sgattaiolante” Odisseo ha perso la sua principale virtù, ovvero la capacità di adattarsi alla realtà, per modificarla, plasmarla e farne racconto mitico. Eric, prototipo del finanziere dominatore dei destini del pianeta, è andato ben oltre la realtà: ne ha creato una fittizia a propria immagine e somiglianza ed essa ha finito con il divorarlo e con il farne una propria grottesca emanazione, ha voluto come Icaro salire al cielo ma il sole ha bruciato le sue ali di cera. Il mostro non abita più l’isola sperduta nel mare inesplorato, ma vive in perfetta simbiosi con il paesaggio urbano. La metamorfosi ha coinvolto non solo il protagonista del romanzo e le sue donne, ma persino la sua immagine speculare ovvero il suo assassino o i suoi deformi contestatori armati di topi, la probabile unità monetaria di un'imminente rivoluzione. Dominati e dominatori fanno parte delle creature alienate che vivono un universo confuso, dove neppure la percezione del tempo è netta. Il poeta dell’oggi dunque à costretto a dar voce al delirio, a una verità che sconfina con la visione onirica: “Cosmopolis” è cosi il diario allucinato nel quale si seguono momento per momento gli atti di un incubo in cui chi sogna si confonde con chi è sognato. Ulisse ha dato il primo impulso al progresso, ma della civiltà sopravvive solo un “vortice” e dei giovani che ballano “per non svanire nell’aria” un attimo prima che il loro futuro fallisca.
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A chi ha amato l"Ulysses" di Joyce. Interessante il confronto fra l'Odisseo, il romanzo di Joyce e "Cosmopolis"
PORTICINA SOCCHIUSA
Trollope è uno scrittore inglese d’epoca vittoriana, meno noto in Italia di Dickens, ma, secondo molti critici, degno di essergli accostato. Egli fu amministratore delle poste e fece protagonista dai suoi romanzi, tutti raggruppati in cicli, la realtà da lui meglio conosciuta: la vita di provincia. “La canonica di Framley” appartiene al “ciclo dei Barsetshire” cosi chiamato dalla contea immaginaria dove è ambientato. La storia raccontata, come sempre in Trollope, non ha eroi né negativi né positivi: il bene e il male nell’animo degli uomini non sono valori assoluti e non sfociano mai in azioni clamorose. In un universo deprivato di slanci emotivi da una regolamentazione ferrea delle gerarchie sociali il peccato è rappresentato dall’orgoglio di casta e la virtù dall’esserne privi: chi è povero, come il Reverendo Crawley, vive nella vergogna di esserlo, chi, come i Grantly, ha un posto elevato vorrebbe tramite il matrimonio salire ancora, e un generale disprezzo circonda chi è escluso dell’Olimpo. Ma che Olimpo è mai, quello abitato da dei meschini che occupano il loro tempo in pettegolezzi, in visite di cortesie ipocrite, riducendo religione e politica a riti futili? A mettere in crisi il microcosmo inamovibile è l’anticonformismo garbato delle due eroine del romanzo, la ricca signorina Dunstable e la modesta Lucy Robarts: esse si prendono quello scarsa libertà concessa loro dalla società vittoriana e si scelgono l’uomo da sposare. L’emancipazione dalle convenzioni che fa di loro delle paladine protofemministe alla Jane Austen altri sono costretti ad acquisirla con un doloroso itinerario interiore: Lady Lufton deve comprendere cosa l’aspetto dell’”insignificante”futura nuora nasconda, il canonico Mark Robarts deve rischiare di perdere i beni causa la firma apposta su una cambiale per compiacere un politico importante prima di arrivare a riconoscere il proprio ruolo accanto all’amata moglie. Le ambizioni, giuste e sbagliate, rimescolandosi, rendono frizzanti i dialoghi e l’intreccio della commedia: in fondo al palcoscenico la porticina sull’inferno si è solo socchiusa.
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LIBRI SENZ'ANIMA
I libri, soprattutto quelli sepolti fra gli scaffali di librerie dimenticate da tutti, hanno un’anima segreta e ogni volta che qualcuno li apre essa risorge dalla polvere: questo si ribadisce spesso ne “Il gioco dell’angelo” dell’autore di bestseller Zafòn. Ma dopo aver letto il romanzo, è naturale chiedersi se esso abbia davvero un’anima e quale essa sia. La tortuosa trama ruota attorno all’idea classica dello scrittore che vende se stesso a un enigmatico “Principale”, editore fantasma/demone dagli strani poteri, in cambio di vil denaro e della miracolosa guarigione da una malattia. Ma non si tratta certo di un’astratta riflessione su argomenti quali il rapporta arte/mercato o di una rivisitazione in scala minore del “Faust”, quanto piuttosto di un pretesto per infarcire la trama di un miscuglio di ingredienti eterogenei: le peripezie del protagonista del romanzo, uno scrittore dalla scarsa fortuna, David Martin( come “Martin Eden”?) si svolgono negli anni Venti in una città tenebrosa, i cui luoghi privilegiati sono le biblioteche nascoste in quartieri miserabili, i cimiteri, le case fatiscenti con stanze segrete, i bordelli. In questo spazio confinante con l'inferno, ove il vento “sferza con il respiro di una maledizione”, si aggirano come ombre spettrali poliziotti corrotti, demoni incerti, sosia, morti veri ed apparenti, fanciulle bellissime dal destino tragico, stelle del varietà decadute, miliardari infelici, adolescenti volitive dal talento artistico precoce e infine librai votati alla sacra missione di custodi degli arcani del sapere. La fine del rocambolesco viaggio ne “I misteri di Barcellona” ha una degna conclusione nella sua inverosimiglianza. Del resto è già nelle premesse: i libri per avere un cuore non necessitano di verità.. purchè il cuore palpiti.
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A chi ama le storie fosche e complicate
IL FOLLETTO RICONOSCENTE
Il protagonista del romanzo della Libutti, Stefano, da bambino, passa le ore “con il naso appiccicato alla finestra a fissare le gocce” di pioggia e “ a immaginarci dentro l’universo intero”, la qual cosa preannuncia il futuro scrittore. Infatti è tale chi sa scorgere l’universo intero in una particella insignificante e tramite il processo creativo rende partecipi gli altri della sua visione. La costruzione di un mondo “parallelo” è una reazione alle frustrazione di un esistenza negata, una sorta di strategia di attacco e difesa come per una partita a scacchi, hobby prediletto da Stefano? Il rapporto arte/ vita è problema complesso, tuttavia i casi come quello di Stefano/ Thomas Jay nella loro schematica esemplarità sembrano darci una facile risposta: l’abbandono dei genitori, la segregazione nella celle di una prigione, l’emarginazione sociale stimolano il talento, basta leggersi “Diario di un ladro”di Genet o “L’educazione di una canaglia” di Bunker per averne conferma. Tuttavia a differenza dei suoi probabili modelli Thomas non descrive l’inferno carcerario né la realtà al di fuori di lui: i suoi libri sono allegorie non realistiche ambientate in isole dove “non sorge mai il sole” o dove tutto “è in bianco e nero”, il cui scopo è far nascere “il sorriso sul volto del lettore”. Coerentemente “Thomas Jay” ovvero la sua supposta autobiografia inviata in forma epistolare ad Ailie, una donna conosciuta un tempo, non è affatto tale: l’ estenuante percorso di autoanalisi dell’anima reclusa in cerca di redenzione inibisce il racconto degli eventi. Stefano in realtà è stato battezzato Thomas Jay da Max, il proprietario di una lavanderia che l’ha accolto ed amato da adolescente: questi è il nome di un folletto che si perde nella notte e non riesce più a ritrovare la strada di casa. Il tuffo nella coscienza del folletto ’ergastolano” non consente alla fine grandi risultati conosciutivi, se non appunto la gratitudine nei confronti di chi ci ha aiutato a trovare ciò che eravamo destinati a trovare.
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Vale comunque la pensa di leggere i modelli lontani a cui il romanzo rimanda: le opere di Genet e di Bunker
PER STRADA
Esiste un modo per raccontare la fine della civiltà, dopo l’Olocausto nucleare? La scomparsa dei saperi, ha depauperato la lingua: i periodi si troncano, il pensiero si scarnifica in frasi brevissime, la parola è un respiro rattenuto nell’atmosfera mortifera per le radiazioni. Avoledo ne“Le radici del cielo”, capitolo italiano del ciclo fantascientifico dello scrittore russo Glukhovsky, al fine di rendere immediatamente percepibili gli orrori della distopia a cui i romanzi di fantascienza ci hanno abituato, ha elaborato un’architettura stilistica scheletrica, e per questo ansiogena, epidermica: in un pianeta deprivato della luce e dei colori, agli uomini ridotti a vivere nei sottosuolo per comunicare non restano che i residui di idiomi oramai morti. E ritrovando in sé il lessico perduto il protagonista del romanzo, Padre John, racconta in prima persona a un’improbabile posterità il suo viaggio da Roma a Venezia in compagnia di una scorta armata e di una scienziata: essi devono trovare e riportare indietro il Patriarca che possa convocare un Concilio ed eleggere un nuovo Papa, ovvero il simbolo di un possibile ripristino di un ordine spirituale/etico. Un uomo di fede è la guida morale più rassicurante per accompagnare il lettore inorridito nell’inferno italico, popolato di mostri e di pochi sopravvissuti obbligati a banchettare con le carni di bambini. La raccapricciante metamorfosi del mondo conosciuto include paesaggi, città, persone e dal disgusto si salva solo la dignità di una domanda: se esiste Dio, come una realtà del genere può essere anche solo immaginata? Dio ci ha messo per strada e noi pensiamo o sogniamo o ci illudiamo di arrivare alle radici del cielo: questo pensa John/Avoledo.
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Per chi è interessato ai seguenti percorso: il viaggio nell'immaginario dall'Odissea a "La strada" di Mc Carthy.
Utopie e distopia dalla riflessione filosofica alla narrativa fantascientifica.
LA TOMBA DEL BOSS
L'epopea della banda della Magliana, raccontata da De Cataldo in stile giornalistico con concessioni al letterario nel delineare i personaggi, sarebbe un inverosimile polpettone romanzesco imbastito dal più prevedibile degli scrittori, se non fosse che a esserne autore è una buona parte della Storia italiana degli ultimi decenni del secolo appena trascorso: lì sono le nostre radici e quell’universo disturbato di banditi da quattro soldi, di soldi facili, di faccendieri disonesti, di funzionari di Stato complici di stragi, di mafiosi e di politici corrotti funge da specchio a quello che siamo ora. L’intreccio del romanzo è allora inevitabilmente arzigogolato: la facile ascesa di un gruppo di delinquenti di borgata si rivela il sintomo più stridente della malattia cronica di un Paese inquinato nel profondo. Del resto la scalata “ai piani alti” non avverrebbe se i componenti la banda non fossero degli uomini mediocri, inconsapevoli strumenti dei manovratori dietro le quinte e soggetti a laeder privi di autentico carisma quali il Libanese, Il Freddo, il Dandy, vittime delle loro stesse debolezze. A muovere la vicenda sono infatti le ossessioni, vagamente dostevskjiane, di ognuno dei protagonisti: la fissazione del Dandy per l’eleganza e per l’inquieta prostituta Patrizia, l’urgenza spasmodica del commissario Scialoja di punire i malvagi e di penetrare l’anima e il corpo di Patrizia, il bisogno inconscio di Patrizia di colmare il vuoto che le rode l’anima, il senso di colpa nei confronti del fratello perduto e la paura della solitudine del Freddo. Alla violenza dei potenti si contrappone la volontà autodistruttiva dei deboli, il fratello amato del Freddo, Gigio, e l’amico del cuore di Patrizia, il patetico Ranocchia, che come il protagonista de “La donna ragno” di Puig, si consola nei suoi fantasiosi racconti di sogni assumendo il ruolo della divina Marlene. Un mondo senza possibilità di salvezza per nessuno, dove la gloria è una triste impronta sul volto di ex attore noto devastato dalla cocaina o una tomba di un boss in una Chiesa da cui i fedeli distolgono gli occhi.
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IL VERO PARADISO
Suor Ottavia Salina, paleografa di fama mondiale, la protagonista de “l’ultimo Catone” la sua complicata storia di formazione non ha tempo di viverla fino in fondo: assieme a un rude capitano della Guardia Svizzera del Vaticano, soprannominato la Roccia, e il professor Farag Boswell, un esperto archeologo dagli occhi azzurri, deve scoprire chi e cosa si nasconde dietro la misteriosa setta dei “Custodi della Croce” che rubano reliquie dalle Chiese e imprimono strani simboli sui corpi di coloro che capitano loro a tiro. Le avventure del terzetto di eruditi è all’altezza della cultura del gruppo: a fare da guida è infatti il “Purgatorio” di Dante che suggerisce in forma di gioco enigmistico come camminare sui carboni ardenti senza farsi male o uscire da un labirinto silvestre, dopo giorni e giorni di inutili giri a vuoto; anche i luoghi, teatro delle rocambolesche peripezie, conservano le vestigia della Storia passata, da Atene, Alessandria e Ravenna, fino all’Etiopia, anticamente centro di una gloriosa civiltà. Prima ancora di arrivare alla soluzione del mistero, Suor Ottavia scopre in sé, pur non avendo avuto molto tempo di cercarla a lungo, la verità che toccandola da vicino scuote la sua esistenza fin dalle fondamenta: la vita “non è fatta di blocchi bianchi e neri, ma di un mosaico multicolore dalla combinazione infinite, un cumulo di ambiguità, di sfumature interscambiabili…” E in virtù di queste sfumature interscambiabili che le ipotesi più azzardate diventano plausibili, persino che si possa visitare, intraprendendo un tour un po’ faticoso nel cuore del continente africano, il vero Paradiso di Dante.
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A chi è interessato ai seguenti percorsi: la desacralizzazione del mito sacro nell'immaginario paraletterario-
REALISMO DELLA PERCEZIONE
Una macchia nera in fondo agli occhi è il solo marchio indelebile della razza dei Malou: oscure sono le loro origini, considerato che del capostipite la sua stessa famiglia non possedeva neppure una fotografia. Si trattava di un analfabeta, proveniente da un luogo imprecisato dell’Est Europa, che aveva fatto il cavapietre in un paesino della provincia francese e aveva sposato un’ubriacona. Il di lui figlio, Eugène, è un avventuriero, imprenditore senza successo, che accumulando debiti dà alla famiglia un lusso precario. Il suo suicidio costituisce il punto di partenza del romanzo: è il momento in cui entra in scena il diciasettenne Alain, l’ultimo rappresentante della stirpe, colui che costituisce “il terzo anello della catena”, “il futuro, di cui suo padre non sapeva niente”. L’autore nel descrivere il passaggio del ragazzo all’età adulta penetra a fondo lo stato d’animo ondivago di chi sente l’urgenza di costruirsi un’identità in un mondo che non pare offrigli appigli: Alain vive abbandonato a se stesso, respinto dall’egocentrismo edonistico della madre e della sensuale sorella, disprezzato dal paese; cerca pertanto le tracce del genitore defunto, considerandolo l’unico punto fermo in una realtà ambigua e sfuggente. Quello di Simenon è una sorta di realismo della percezione: persone e cose si stagliano nella loro concretezza, ma subito su di esse cala lo sguardo ipersensibile di un osservatore nascoste che ne enfatizza i dettagli emotivamente rilevanti, come ad esempio le luci discrete accese dietro la finestre che fanno pensare alle “candele di un tempo”. L’anonima voce si fa quasi subito da parte per lasciare spazio all’interiorità sofferta del protagonista: i momenti saliente della tragica vicenda sono come avvolti dalla nebbia ed è la vista offuscata dell'adolecente Alain, ovvero di chi da una crescita imposta precocemente dalle circostanza è costretto, dopo aver messo a fuoco sforzandosi oggetti ed individui, a rifiutare o a scegliere. E alla fine del lungo percorso chi diventerà l’ultimo Malou? Un avventuriero come il padre o qualcosa di diverso? Il suo romanzo di formazione non prevede una conclusione, forse per lasciare a chi legge l’illusione che un destino non sia mai prestabilito.
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AL DI LA' DEL BENE E DEL MALE
Difficile non considerare l’ultimo corposo romanzo di King una sorta di testamento spirituale. L’incipit, se la si legge con attenzione, è una dichiarazione di poetica: a mettere in moto l’azione è la lettura da parte del protagonista, Jake, insegnante di liceo, del racconto autobiografico in un tema di un massacro compiuto da un padre violento. C’è chi scrive “sulla difensiva”, riflette Jake, e sono i più; c’è invece chi riesca a scrivere “in attacco”. Lo scrittore autentico è dunque colui che aggredisce e mette in discussione le certezze del lettore e lo spinge a concentrare lo sguardo sulla realtà fino a scoprirne il buco” nascosto, quello che consente di penetrare in una dimensione altra, quella dove lui stesso convive con l’orrore e la follia. Avviene in tutte le opere di King, ma in “22/11/’63” l’esplorazione del caos è ancora più radicale: non si tratta più delle fogne di una città o dei fantasmi sepolti nell’albergo sulla montagna, bensì si chiede all’eroe protagonista di sconfiggere il tempo e la Storia, tornando attraverso una scala magica nel 1958 e impedire l’assassinio di Kennedy. Il clown malefico di “It” ha lasciato una sua impronta su Derry e Derry è la prima tappa del docente proveniente dal futuro: lì non vi sono che presagi, il segno che il male ha inquinato irrimediabilmente la città dell’uomo. Tuttavia il nemico vero di Jake è senza volto e non ha bandiere : è il passato che non ha altro scopo se non la preservazione di sé al di là del bene e del male. La lotta contro un’entità astratta, il cosiddetto caso, non è ad armi pari: l’uomo è mosso dalla volontà utopica di raddrizzare i torti perpetrati dalla Storia, può vincere o perdere, il destino vince solamente perché non ha direzioni precise da rispettare. L’ansia comunicata al lettore dall’eroe benefattore dell’umanità protagonista del romanzo non deriva tanto dalla curiosità di sapere come “andrà a finire”, ma dal dubbio sul senso della missione. È sufficiente l’anelito al bene per modificare la sorte dei popoli e degli individui? Forse si, forse no, tuttavia ciascuno di noi può scegliere se abitare a Derry, la città di It, o condividere con i “buoni” incontrati per strada l’idillio di un “anti-Derry”, un minuscolo villaggio sperduto, dove adolescenti ed adulti ballano la sera della festa.
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A chi è interresato alla seguenti tematiche: i confini dei generi letterari nella letteratura contemporanea-la lotta dell'eroe contro il destino: dall'epica classica alla paraletteratura contemporanea
GIOVENTU' BRUCIATA
La vicenda è ambientata all’epoca della Thatcher ma la precisazione non è importante. Lo sfondo dell’epico scontro fra il bene e il male ai nostri giorni infatti non può essere che la metropoli contemporanea, assunta come macrocosmo simbolico di una società inquinata dalle fondamenta: in “Nessun Testimone” le vittime del serial Killer, chiamato Fu, sono dei giovani bruciati, dediti alla prostituzione e al furto, già padri a tredici anni, figli della periferia miserabile di Londra, quelle che di tanto in tanto si fa sentire per i subbugli nei reportage televisivi. La scrittrice Elizabeth George, considerata una delle regine del giallo di matrice anglosassone, opta per la prassi consueta del montaggio alternato: come se assistessimo a una partita di ping pong, da un lato abbiamo il punto di vista dell’assassino, dall’altro quello della squadra dei detective incaricati delle indagini. Lo sguardo dell’autrice consente di penetrare nel delirio del mostro ma ogni tentativo di razionalizzazione sfugge: dal probabile trauma scaturiscono la psiche disturbata e il bisogno di dare sacralità con un macabro rito ai delitti. Parallelo all’universo sconvolto del criminale vi è quello altrettanto malato e quindi complice della città: centri di recupero, alberghi per pedofili, giornalismo d’accatto costituiscono il contesto torbido con cui è costretta a combattere la “virtù” pragmatica dei buoni, l’ispettore Lemley, Barbara Havers e il sergente di colore Nkata. La sfida richiede lucidità, per conservare la quale occorre sia rattenere l’indignazione morale sia mettere in gioco il proprio problematico privato. Fin qui niente di particolarmente nuovo, se non fosse per la dilatazione dei tempi: nel corso della lettura la tensione si allenta, si smarriscono a volte perfino le file dell’intreccio ma ne emerge un quadro chiaro del disagio urbano contemporaneo. Il giallo classico ha perso i suoi connotati per diventare l’erede della narrativa verista: nel vecchio maniero non arriva più il mago dell’intuizione alla Conand Doyle o all’Agatha Crhristie, felice di giocare la partita a scacchi con il diabolico avversario.
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STUPORE
E’ arduo per il lettore italiano penetrare i segreti dello stile-e le allusioni a un preciso contesto- di un corpus poetico in polacco, tuttavia se l’acqua è limpida il fondale lo si intravede. “La gioia di scrivere” raccoglie testi scritti dalla Szymborksa fra il 1945 e il 2009, pertanto riassume un percorso, poetico ed esistenziale, esemplare: i versi filtrano le esperienza più traumatiche del secolo appena trascorso e di quello appena iniziato, dall’Olocausto all’11 settembre. L’utopia comunista, sposata in gioventù dalla poetessa, è stata smascherata: della“la città da me abitata”scrive”mi frana di dosso pezzo/ a pezzo la cinta muraria”. Il tempo e la storia avviliscono persino il mito e la poesia che lo celebra: Omero “lavora in un istituto di statistica”, dalle virtù profetiche di Cassandra “non ne viene nulla” e di sé dice di essere “Sisifo, incatenato all’inferno della poesia” Tuttavia nel fiume di Eraclito che tutto divora i versi sono pesci dalla “ scaglie fugacemente argentate”, e se cosi è vivere non è una condanna, bensì un miracolo, per quanto effimero concesso a chiunque: basta guardare le cose di tutti i giorni semplicemente per come esse sono, l’amore o una pecora, e persino il “silenzio senza respiro “ della morte è la “ musica passabile” di una “piccola scintilla”. Dalla visione delle quotidianità, scaturisce lo stupore, la felicità di essere parte palpitante di un prodigio senza spiegazioni. E allora si conquista la commossa ironia del “vecchio professore" saggio che tutto ha perduto, ma che non finisce mai di meravigliarsi, guardando il cielo “quando la sera è tersa “ di quanti” punti di vista ci siano lassù”.
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A chi è interessato alle letteratura polacca contemporanea e alla cultura dell'est europa ex comunista in generale.
RIESUMAZIONI
Per quale scopo disseppellire eventi remoti, si chiede Vassalli nella prefazione del suo romanzo storico. Perché per cercare la chiave del presente occorre “uscire dal rumore” e “andare in fondo alla notte”: da lì, dal passato remoto, il presente si staglia più nitido. La storia di Antonia, la “strega di Zardino” appartiene al 600’ , la si può evincere consultando gli archivi di un processo promosso dall’inquisizione contro un’adolescente vittima del pregiudizio e condannata dalla sua stessa bellezza. La lettura di quei documenti scarni ci fornisce il ritratto di una giovane contandina “dalla rabbia e dalla disperazione eroiche”, il resto è sufficiente cercarlo appunto “in fondo alla notte”: di quel mondo non esiste ormai più nulla, neppure di Zardino, il minuscolo villaggio del Novarese, rimangono più le tracce visibili. Eppure possiamo ipotizzare, studiando le fonti antiche, un ambiente dal punto di vista antropologico rimasto immutabile nei secoli: le voce nata durante l’inverno in una stalla e amplificata, la credulità dei poveri e il cinismo manipolatore dei potenti, l’astio nei confronti della diversità, l’odio prodotto dai dogmi della religione o dell’ideologia producono migliaia di vittime innocenti, scoperti solo per caso dalla curiosità dello scrittore/ ricercatore. Un barlume di coscienza riesce così a emergere nei “vinti” come il disilluso vescovo Bascapè o la stessa Antonia prima di finire sul rogo: un’"energia insensata" scuote le cose del mondo, ma comprenderlo non impedisce di esserne travolti.
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AGONE TRAGICO
La “Porta” di Magda Szabò più che un romanzo è un agone da tragedia greca, ovvero un incontro scontro fra due donne: una è scrittrice di fama, l’altra, Emerenc, è invece una figura mitica, una statua di pietra, cresciuta come una piante dalle solide radici nella terra d’Ungheria. Questa è dunque nata dalla memoria di un Paese che “ricopre morti” e “sconfitte”, quella, narratrice in prima persona, l’ha assunta come domestica. Condividono pertanto per anni la medesima casa, eppure una porta chiusa le divide: è quella dove Emerenc protegge con rigore feroce dalle intrusioni estranee un passato tragico, una sorta di museo individuale dove accanto a vecchie foto vive un esercito di gatti randagi. Per penetrare nell’anima segreta dell’anziana domestica la scrittrice devo solo attraversare un pianerottolo: lo fa in “una notte virgiliana” e quel percorso di pochi metri è appunto per lei una discesa nel regno dei morti. Lì le ombre parlano un'altra lingua, fanno altri gesti, hanno reazioni antitetiche alle sue di donna religiosa, colta e razionale; una sapienza secolare ha insegnato loro a dubitare dell’umanità e persino di Dio, per questo hanno eretto una barriera. Il romanzo della Szabò è appunto lo sforzo sovrumano attuato dalla narratrice per sfondare il muro. Tuttavia l’irruzione nell’universo precluso, inevitabilmente violenta, non comporta salvezza né per chi viola né per chi è violato: sopravvive alla frantumazione il senso di colpa dal quale può nascere solo la scrittura.
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GEOMETRIA POETICA
“Ho bisogno di un compagno reale per il mio viaggio immaginario” scrive il protagonista del romanzo epistolare di Grossmann alla figura evanescente di donna che vista per caso nei corridoi di un liceo lo ha colpito. Lei è una professoressa, non particolarmente bella: eppure lui inizia a inviarle lettere, la "penetra", confessandosi e offrendosi nel ruolo di confessore. La voce di lei affiora nella seconda parte del libro, sotto forma di un diario, costituito da frammenti più o meno lunghi. Solo nelle terza parte brevissima, punteggiata di frasi di poche righe in grassetto, simili alle gocce di pioggia che in quel momento cadono, i due sfondano la parete che li divide e diventano una presenza concreta l’uno per l’altra. Un romanzo d’amore? Forse, se non fosse che l’universo interiore evocato da entrambi si frantumerebbe se si incontrassero nella realtà materiale. Essi scrivendo diventano “persone musicali”, il loro rapporto è “una geometria poetica” Sbalzati in un’altra dimensione essi rivedono passato e presente come avvolto nell’ovatta: i coniugi, i figli, il lavoro,i viaggi, i conflitti con il proprio alter ego costiusicono i connotati di una esistenza tutto sommato non straordinaria. Ma appunto come tutte le esistenza comuni essa “vive di ciò che non ha”: ecco allora affiorare il fantasma di Kafka, richiamato dal titolo( "Che tu sia per me il coltello" può essere considerato una riscrittura delle "Lettere a Milena")come modello di una parola esulcerante, riflesso di una condizione di disordine psichico dietro la quiete delle apparenze.
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SENZA PIETAS
Come un Verga, privato della sua pietas, Solzenicyn si eclissa dietro l’alienazione dei suoi personaggi: la brutalità del totalitarismo comunista toglie alla letteratura le qualità catartiche e consolatorie, relegandola al ruolo di documentazione neutra di un esistente immobile, senza prospettiva di futuro. La condanna di Ivan Denisovic consisterà infatti nel reiterare fino alla morte la sua giornata nel campo di lavoro staliniano. Ed è un'eternità, dominata dall’ossessione di ripararsi dal freddo, di placare la fame e il bisogno di sonno: ricordi, emozioni e pensieri sono scomparsi dalla mente di Ivan. La soppressione dell’individuo ha depauperato anche lo scrittore che dovrebbe cantarne in qualche modo l’epopea: cosi lo stile non è altro che una registrazione fredda, persino monotona, di momenti insignificanti. Se Ivan è una vittima, il protagonista del terzo racconto “Alla stazione”, il tenente Zotov, “l’uomo sovietico” sta dalla parte dei carnefici: anche qui i diktat dell’ideologia corrodono la coscienza fino a costringerla alla più disumana delle azioni. “La casa di Matrjona”, racconto posto al centro della trilogia, è la ricerca di un’alternativa alla distopia staliniana nella mitezza della vecchia contadina Matrjona, simbolo dell’anima russa, il “Giusto senza il quale non esiste” la terra nostra: il suo destino è segnato però dall’emarginazione, persino le esequie di lei offrono un triste spettacolo della meschinità della natura umana. Il male è più forte del bene, lo dimostra la Storia, ma di entrambi se ne serba memoria, anche se le voci sono “rauche” e “ discordi”
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COME UNA LAMA
Henrik, generale anziano a riposo, assomiglia al suo castello isolato in mezzo alle foreste gelate dei Carpazi: anch’ègli è “un mausoleo di pietra in cui languono le ossa di diverse generazioni”. Non c’è più nessuno a tenergli compagnia, tranne la balia di 91anni e i ritratti delle persone care ormai defunte. In realtà il tempo per lui si è fermato esattamente quarantun anni fa, quando l’amico Konrad se n’è andato via per sempre. Ora per una svolta del destino, la vita può riprendere dal punto esatto in cui si era interrotta. Ma non è un inizio, quanto piuttosto un ritorno al passato, un ricucire gli strappi lasciati aperti, un rischiarare le zone in ombra. Per questo Konrad è tornato e per questo a lui è destinato il monologo di Henrik davanti al cammino in una notte buia. Il generale ripercorre la loro storia, in fondo non inconsueta: due amici, uno povero ed artista, l’altro ricco e militare in carriera “vanesio”, la moglie di quest’ultimo da lui incompresa, ormai morta…Cose c'è stato fra loro? I due amici si sono allontanati ma l’ossessione per la verità li lega e li ha spinti a ritrovarsi dopo decenni come se si fossero dati un appuntamento. E la verità non consiste nei fatti nudi e crudi: essa è qualcosa di impenetrabile, ha a che fare con la passione che il tempo attutisce”senza riuscire ad estinguerne le braci”, la medesima che in quel momento sta trascinando gli uomini in un conflitto mondiale. Lì in quel grumo di sentimenti in conflitto fra loro occorre fare luce e non è detto che sia possibile. La paralisi apparente del protagonista, attore monologante, è allora la più intensa e più intima delle esperienze, quella che si condensa nel ripiegamento su se stessi. Un’introspezione crudele, spietata, rievocata da Màrai con un stile tagliente come una lama capace di assottigliare emozioni e stati d’animo.
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QUALCUNO DEVE PUR FARLO
Per calarsi nello spirito dei romanzi gialli di Mankell occorre avere davanti agli occhi il paesaggio della Scania, Svezia, luogo ideale, secondo le guide turistiche, per un gita in bicicletta: campi sterminati, colline ondulate, foreste e orizzonti liberi, l’idilliaco dono di madre Natura agli uomini. Ma a deturpare l’amenità del panorama è il male portato dagli uomini e proveniente dalle zone più lontane e meno civilizzate del pianeta, qui la Repubblica Dominicana, in altri romanzi il Sud Africa o la Lettonia. La pioggia e le tempeste di neve, compagnia costante delle inchieste del commissario Kurt Wallander, sono un segno dell’ira del cielo nei confronti ella bassezza umana: così ne “La falsa pista” la bellezza dell’estate scandinava fa da beffardo controconto alla tragedia che si svolge in terra. Un’adolescente dandosi fuoco trasforma in un inferno un campo di colza e da quale ancestrale universo viene nell’evoluta Europa del Nord un assassino scalzo che con una ascia scotenna e cava gli occhi alle sue vittime: che senso ha il suo arcaico rituale e cosa lega gli assassinati e le loro repellenti abitudini segrete? Un percorso tortuoso per raggiungere la verità: ogni indizio e ogni intuizione costituisce una trappola, una falsa pista appunto. Ma gli esiti sono scontati fin dalle prima pagina del romanzo: la scoperta del colpevole è in fondo un dettaglio irrilevante, rispetto all’atmosfera permeata dalla certezza che non ci sarà mai giustizia in nessun luogo. “Com’ è prendere un assassino” chiedono all’eroe di Mankell e lui ha la risposta pronta: “Freddo, grigio e miserabile” Egli sa che non ci saranno trofei da esibire nella sua lunga carriera: lo sa perché la sua esistenza è una sequela di conflitti irrisolti con la ex moglie, con la figlia, con il padre, con il proprio lavoro, appena mitigati dalla dolcezza comprensiva della senilità,.
L’esperienza amara ha tolto a Wallander ogni arroganza filosofica: se gli si chiedesse in nome di chi o di che cosa egli combatte il male, non avrebbe risposte da dare. Si limiterebbe a rivolgere una sguardo triste, afflitto dicendo “Qualcuno deve pur farlo”.
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DA EROI A UOMINI
C’è un nobile ateniese, esule, ammiratore di Socrate, ma soprattutto innamorato del mito di Sparta: a differenza della culla della democrazia dov’ è nato lui, garante dell’eguaglianza, Senofonte sogna la città del Peloponneso, famosa per i suoi guerrieri, dove l’educazione dei bambini consiste nell’addestramento al furto e all’omicidio di uno schiavo. L”Anabasi “ è pertanto una fuga da una realtà detestata, perché restrittiva nei confronti di chi non si sente “uguale agli altri” ma superiore per virtù e stirpe: è un 'occasione d’oro quindi quella prospettata dall’amico Prosseno che stava raccogliendo mercenari in tutta la Grecia per conto di Ciro il Giovane per partecipare a una spedizione in Asia per spodestare dal trono il fratello Arteserse. Tuttavia il motivo ideologico si nasconde assai bene fra le righe di un’ opera che delle idee politiche dell’autore si nutre assai poco. Il viaggio di ritorno per rivedere il “mare” dei diecimila mercenari greci, costretti a marciare in territori ostili, da tutti i punti di vista, dopoché nella battaglia di Cunassa del 401 a.C. morì il principe che li aveva assoldati e i loro generali furono massacrati si svolse davvero come Senofonte ce lo racconta? Pare che un'altra “Anabasi” scritta da un tal Sofoneto, per noi perduta, dia una versione molto diversa di quegli eventi, ridimensionando drasticamente il ruolo di Senofonte. Ma nel mondo antico gli storici non sono tenuti a comporre manuali degni di fede: devono essere al contrario narratori e pittori. L’”Anabasi” è di fatto un romanzo, un reportage, crudo, senza concezioni alla retorica, la cronaca di una drammatica odissea di un manipolo di disperati, destinati a morire assiderati o di fame, se non avessero imparato che salvarsi la pelle rende gli eroi uomini.
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