Opinione scritta da antonelladimartino
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La più perfida delle soluzioni
Fa rima con cuore, è la più perfida delle soluzioni e la più liberatoria delle trappole: stiamo parlando dell’amore, ovvio. Si lascia leggere senza troppe difficoltà questo romanzo in cui predominano i toni rosa, grazie alla narrazione gradevole, sostenuta da un ritmo vivace e dalle solide fondamenta di una storia autentica, trasformata in romanzo da una passione sincera.
Nonostante la passione e lo stile fluido, la qualità della scrittura è discontinua: si inciampa nelle contraddizioni, nelle inverosimiglianze. Abbondano inoltre i corsivi, che sottolineano il peso di riflessioni e suggestioni e morali di una fiaba dal finale dolce e che troppo spesso cadono nel caramello scontato:
“Quando ami davvero qualcuno, sei in grado di scalare una montagna, superare un oceano, digiunare per giorni o gettarti nel fuoco, pur di averlo vicino”.
I sintomi dei malesseri adolescenziali sono stati già scritti e già visti, ma non mancano le sorprese, gli spunti forti. Forti le inserzioni che fanno riferimento alle vicende reali che hanno ispirato l’opera e che contribuiscono a dare spessore alla trama. Forte il personaggio di Enrica, con le sue barzellette scientifiche e la sua vivacità. Forti le descrizioni delle crudeltà burocratiche: il lettore può assaporare il gusto amaro e devastante dell’ingiustizia.
La storia comunque trascina, anche se l’interiorità dei personaggi è spesso opaca, anche se infastidiscono le ingenuità tra cuore e amore e ricordi e fughe e sogni. Una lettura comunque consigliabile, soprattutto a chi ama il rosa e la commozione, l’azione e il sentimento, la lacrima pesante e l’ironia lieve.
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UN AMORE A TELA DI RAGNO
Che cosa succede quando la fiaba finisce e la principessa va a vivere felice e contenta nella sua reggia?
Lila, la principessa cattiva, si è accorta subito di aver donato bellezza e intelligenza al principe sbagliato, che si è trasformato in orco già durante la festa di nozze. Lenù, la principessa buona, arriva al traguardo dopo aver attraversato un bosco buio e senza fine: ha dovuto sudare sette camicie sui libri e tessere oro dalla paglia, ma infine ha sposato il figlio del re di un reame lontano dal rione e ha coronando anche il suo sogno infantile scrivendo senza fatica un romanzo di successo. Ma anche questa fiaba è destinata a finire.
“Il matrimonio mi sembrava un istituto che, contrariamente a quanto si pensava, spogliava il coito di ogni umanità.”
Il sesso si rivela una delusione, la maternità divora il corpo e la mente, il successo letterario si sgretola in fretta e su tutti gli affetti, dall’amore all’amicizia, si stende un incantesimo maligno che impedisce di comunicare, di chiedere, di rispettare. Lenù voleva fuggire dalla plebe, ma il rione torna da lei, fondendosi e confondendosi nella violenza degli anni di piombo: parolacce, mazzate, sopraffazione, morte. E malodore.
L’autrice riesce a raccontare con efficacia la storia di quegli anni “formidabili”, che abortiscono nella lotta armata: lo sguardo perduto e colto della principessa buona illumina di luce cruda le contraddizioni di quel periodo, mentre la voce lontana di Lila l’accompagna come ombra e ossessione, minaccia e pietra di paragone costante.
Lenù, prigioniera del suo matrimonio, della sua famiglia di origine e anche del suo antico legame di amicizia, cerca un altrove dove fuggire, ma ritrova la chimera della sua giovinezza: Nino, il rubacuori che ha dato il colpo di grazia al matrimonio di Lila, dopo aver seminato con noncuranza figli e rimpianti torna a prendere anche lei. Come finirà la seconda fuga di Lenù? Che conseguenze avrà l’abbandono? Che ne sarà dell’amicizia geniale? Lo scopriremo alla prossima puntata, anche non stiamo seguendo una serie televisiva: sullo sfondo, scorrerà ancora la storia del nostro paese, raccontata da una prospettiva d’eccezione.
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IL MALODORE
La forza trascinante di quest'opera scaturisce innanzi tutto dall’intensità dei personaggi, permeati di storia e di sentimenti primordiali. Lila e Lenù, la strega cattiva e la brava ragazza: la narrazione smaschera fin dall’inizio questi due stereotipi, per confrontare la superficialità delle etichette con la complessità interiore. Lila e Lenù possono essere anche le due facce della stessa medaglia ovvero i poli opposti di una stessa persona, ma il gioco degli opposti interiori si rivela anch’esso complicato: è la buona Lenu che odia la madre e vuole fuggire a ogni costo dal quartiere, mentre è Lila, la "rompicazzi", che continua ostinatamente ad amare le radici e la famiglia.
La storia delle due amiche si snoda all’insegna dell’ambivalenza, tra affetto e competizione; complicità e incomprensione. In questo secondo romanzo della trilogia gli ultimi anni della loro adolescenza maturano a velocità vertiginosa nello stesso minuscolo rione napoletano dell’infanzia: un microcosmo governato da leggi arcaiche, semplici nella loro crudeltà. Intorno a loro, ritroviamo all’inizio lo stesso coro di personaggi indimenticabili, forgiati dalla storia delle loro famiglie e del loro quartiere, in lotta tra di loro e contro la miseria; ma in seguito Lenù varca i confini del rione per scoprire parte degli infiniti mondi della nostra Italia recente, la loro lenta evoluzione, le loro brutture, i loro passaggi nascosti.
La scelta lessicale è curata e insolita come nelle altre opere della stessa autrice; in particolare ho notato un sostantivo che ricorre spesso: il “malodore” che insegue i personaggi e le tappe delle loro storie. Il malodore del rione torna nella vita di Lila quando ripudia il cognome nuovo impostole dal matrimonio: la ricca signora Cerullo, appendice inglobata nell’identità del marito, vive in un appartamento con tutti gli agi; Lila Cerullo, espulsa dal ruolo di moglie, torna nella stessa sporcizia vissuta nell’infanzia. Il malodore, marchio della povertà e del dolore, è un incubo destinato a tornare.
Nessuno sa chi sia Elena Ferrante, ma investigare è inutile: la forza delle sue parole scritte rende superflua qualsiasi altra rivelazione.
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LA SOPRAVVIVENZA DELL’INNATURALE REGIME
«Perché in Iran hanno fatto la rivoluzione? Stavano così bene quando c’era lo Shah!»
Anni fa, poco tempo dopo l’insediamento del sanguinario regime teocratico di Khomeini, mi è capitato spesso di ascoltare luoghi comuni simili a questo. Certo, una rivoluzione non causata da motivi economici è difficile da comprendere; ma bastano già i crimini della Savak, la feroce, onnipresente e onnipotente polizia politica dei Pahlevi, a rendere l’idea di che cosa fosse, davvero, la vita ai tempi dello Shah. Fatemeh Amini era una donna, appartenente di Mojahedin. “La crocefissero nuda. Fu fatta passare supina sulla fiamma ardente, mentre subiva le frustate di quindici agenti accaniti. Di Fatemeh erano rimasti pelle e ossa, e il cattivo odore delle sue ferite infettate si sentiva in tutto il carcere di Evin. Praticamente paralizzata morì dopo cinque mesi di tortura.”
L’opera di Esmail Mohades narra la storia del popolo dell’Iran, che iniziò la lotta per il cambiamento del sistema feudale e la democrazia già alla fine del XIX secolo. Ci racconta gli uomini e le idee della rivoluzione costituzionale persiana, la nascita e la sconfitta del Fronte Nazionale di Mohammad Mossadeg, i principi politici e la sofferta ricerca ideologica dei Mojahedin, le radici di una rivoluzione tradita, il sacrificio di uomini e donne generosi, l’influsso nefasto del corpo dei Pasdaran. E poi l’influsso devastante delle potenze straniere, in particolare degli USA, la neonata superpotenza che dopo la seconda guerra mondiale aveva bisogno di un trasformare l’Iran nel “gendarme del Medio Oriente”.
“Due fattori negativi impedirono il realizzarsi del sogno iraniano: l’inadeguatezza di chi si trovava a capo del movimento e le interferenze straniere che si esercitavano proprio attraverso pedine interne.”
Pagina dopo pagina, scopriamo che storia dell’Iran è segnata da scelte politiche all’apparenza “realistiche”, che si sono rivelate controproducenti per tutti, morti e sconfitti, burattini e burattinai. Anche dopo la caduta dello Shah, il “Grande Satana” non ha mai smesso di trattare sottobanco con i protagonisti del regime teocratico: con il carismatico Komehini e con i suoi sanguinari e ipocriti successori, fondamentalisti che hanno calpestato i principi della loro stessa fede per mantenere il potere, senza fare mai nessuno sforzo reale per affrontare i problemi del paese. Gli aguzzini degli ultimi regimi iraniani hanno usato le guerre, le condanne a morte, il fanatismo, le stragi, la produzione di armi nucleari per nascondere la loro inconsistenza morale, culturale, umana. Dopo i morti delle manifestazioni iraniane del 2009, la crisi profonda del settore mediorientale costituisce l’ultimo frutto di una catastrofica miopia politica.
L’autore ci porta fino all’Iran di oggi, ancora e sempre poco conosciuto dal mondo occidentale, che pure ne ha segnato la storia in modo indelebile. Le pagine di questo saggio, ben scritto nonostante qualche pagina un po’ farraginosa e uno stile non molto scorrevole, ci consentono di conoscere e comprendere il valore di un popolo che meriterebbe davvero un futuro migliore.
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ALLORA RUBI, INVECE DI PERDERE TEMPO
Breve, ma denso. Vite diverse, visuali opposte, valori perduti s’incontrano, si scontrano e si rimescolano in una buffa tragedia, che si snoda veloce come un giro di danza.
I due personaggi principali ricordano i compagni di viaggio di Dorothy, alla ricerca del mago di Oz. Lei è tedesca, è ricca, ha girato il mondo. Ha classe, gusto, intelligenza. Le manca il cuore. Lui è italiano, è povero, e conosce soltanto la sua Rimini. Pochissima intelligenza. Gusto inesistente. Una classe tutta sua. Ma il suo cuore alimenta un’ostinata voglia di vivere.
Lei è stata derubata delle sue illusioni di alto livello, necessarie per vivere. A lui hanno portato via il poco che aveva, più che sufficiente per sopravvivere felice e contento. Lei è una vera principessa, fuori dai giochi. Lui è un perdente, imprigionato in un labirinto senza uscita. Lei cerca la sua ultima menzogna. Lui non sa che cosa sta cercando, ma s'impegna con passione.
I protagonisti scambiano testimonianze sui loro mestieri di vivere e sulle loro scelte di morte, confrontano livelli di consapevolezza e tecniche di illusione, intrecciano richieste e proposte impossibili. Qua e là, nei monologhi e nei ricordi, emerge il ricordo di antichi valori forti, seppelliti insieme alle generazioni perdute. Al centro della scena, invece, emergono i nuovi sensi di colpa che avvelenano le esistenze: il vero peccato è non essere belli; non essere ricchi; non saper esercitare la nobile arte della menzogna. È forse il solito mago di Oz, quel vecchio ventriloquo, che continua a ingannarci?
Il gioco tra i due, narrato con un ritmo trascinante, sembra senza vie di uscita; ma arriva il terzo incomodo, armato del coraggio necessario, che trova la soluzione migliore, per tutti. L’inverosimiglianza c’è, ma si adegua perfettamente all’insieme, soprattutto nei cambiamenti bruschi di dialoghi e stati d’animo.
Quanta vita, quanta memoria, in poche pagine. Massimo Carlotto ha ottenuto una molteplicità di sapori mescolando pochi ingredienti: non perdete questa piccola storia nobile, costruita con ironia e sentimento.
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I SOGNI POSSONO MORDERE
I SOGNI POSSONO MORDERE
Non ho mai avuto molta simpatia per le etichette e le rigide suddivisioni tra generi e sottogeneri, ma leggendo questo romanzo mi sono resa conto possiedono una funzione non disprezzabile: preparare il lettore al nuovo mondo che sta per sperimentare. Chi apre questo romanzo aspettandosi un thriller rischia di rimanere deluso o disorientato, ritrovandosi immerso in un genere completamente diverso.
Secondo una recensione citata in copertina (The Guardian) l’autore “rinnova con estremo gusto il genere thriller”; secondo me, invece, si tratta di qualcosa di più d’una semplice divagazione. Non è stata una sorpresa leggere che l’autore ha vinto il Philip K. Dick award: gli immaginari dimenticati di Michael Marshall Smith somigliano ai replicanti e gli androidi cari al grande autore di fantascienza, ma poco hanno da spartire con “il mondo oscuro del crimine americano” annunciato dalla stessa citazione.
Come i replicanti furibondi e disperati di Dick o i teneri cloni di Kazuo Ishiguro, gli “immaginari”, le creature “più umane dell’umano” di turno si ritrovano a costruire ipotesi e abbozzare risposte sulle stesse domande, molto care anche ai loro autori. Chi siamo? Dove andiamo? Che cos’è la realtà? Quali sono i confini del sogno e dell’immaginazione?
Gli "immaginari" si distinguono tra loro, si organizzano, si specializzano, creano miti e tassonomie per dare un senso alla loro esistenza. Provano odio o ammirazione nei confronti del “mondo delle persone reali”, che li ha dimenticati, rifiutati, esclusi. Anche loro ci mostrano i lati più oscuri dell’umanità, quindi il peggio possiamo fare per noi stessi.
Il sangue e la morte non mancano in questa storia dal ritmo disuguale, dallo stile che tocca vette di eccellenze e goffaggini stupefacenti, che incuriosisce senza costruire una vera e propria suspense, che promette e a volte mantiene. L’azione a tratti si perde, si appesantisce, si annacqua in pagine e pagine e pagine di descrizioni. I personaggi rivelano il loro spessore e i loro segreti all’improvviso, nel mezzo della trama, in focalizzazioni rapide e illuminanti, che costituiscono la parte migliore del romanzo.
“Sui marciapiedi si riuscivano a vedere anche delle persone che andavano su e giù, si fermavano, aspettavano, vivevano. Non avevo dubbi che alcune di loro fossero reali. Ma non avrei saputo dire quali o se la cosa avesse qualche importanza.”
Personaggi reali e immaginari si muovono in ambienti urbani, soprattutto strade folli e affollate, dove il moto perpetuo delle persone e della riflessione ci conduce a contatto con i confini, dove realtà e immaginazione si confondono e si costruiscono a vicenda.
“Dopotutto, ognuno di noi contiene moltitudini, chi siamo stati o forse chi abbiamo amato o ucciso.”
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SIAMO TUTTI PRECARI
“Eh già, ci sono anch’io. Il deus ex machina. Il giovane disoccupato, precario nel corpo e nello spirito. Il tacchino-madre.
L’unico, vero e inimitabile proprietario del cumulo di pietre che hai appena visitato.”
Ho estratto qualche riga dalle ultime pagine per introdurre questo romanzo dalle caratteristiche poco romanzesche, che narra lo scontro tragicomico tra le due fazioni interiori di un italiano di giovane età, una delle tante vittime dell’attuale, serissima, crisi economica. La lotta interiore, come capita spesso, si infila nei panni letterari di due personaggi antagonisti: speranza contro rassegnazione, voglia di reagire contro voglia di morire, Brando contro Aceto. Il cane Charlie anima con la sua vitalità canina la convivenza all’interno di un’unica mente, un muro di neuroni in bilico tra l’essere e il nulla.
L’invasione progressiva del nulla nella quotidianità è rappresentata con efficacia. La mancanza di occupazione può portare prima alla morte civile e in seguito, non di rado, alla morte fisica, a quei suicidi in giovane età difficili da capire, forse perché la spiegazione è fin troppo semplice: non si è davvero giovani quando non si hanno prospettive davanti, l’età anagrafica conta poco o niente se si ha l’impressione di non avere uno spazio in cui muoversi, se qualsiasi sforzo sembra inutile.
Il nulla, però, forse è troppo poco per un romanzo. La testimonianza è ben scritta e il ritmo è ben costruito, ma l’ironia non decolla, spesso non funziona.
Interessante la postfazione del professor Renzo Carli, sulle cause e la natura della sfiducia nel futuro così diffusa tra le nuove generazioni. Forse può suonare assurdo domandarsi per quale motivo questa generazione di giovani tacchini “choosy”, “sfigati” e “bamboccioni” non abbia fiducia nelle proprie possibilità. Ma la domanda è doverosa, soprattutto quando la risposta sembra fin troppo ovvia.
Leggiamo questo libro, comunque. Forse siamo davvero tutti precari.
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QUESTO MI SALVA
L’autrice usa la sua arte per attirarci in una tranquilla scampagnata nell’oscurità della memoria; tra giardini e cimiteri ridenti, tra fiori, alberi e bruchi entriamo insieme a lei nelle stanze in cui si è consumata una grande tragedia familiare.
Sono tre le generazioni di vittime, carnefici e sopravvissuti che incontreremo in questa breve vacanza. Attraverso la morte e la malvagità scopriremo che la forza di vivere deriva da piccole, semplici cose, che però vanno coltivate.
“L’essere stati abbracciati, coccolati. Il fatto di possedere tanti buoni ricordi di giornate belle. Essere stati nutriti bene, accolti con gioia quando si dicevano le prime parole venute in mente, sentirsi figli di qualcuno, aver dormito raggomitolati in un futon caldo, aver vissuto in questo mondo con la convinzione di essere accettati.”
“Spiriti”, “magia”, “possessione”, “fantasmi” sono parole che impregnano la storia dei protagonisti. Indicano qualcosa che esiste, qualcosa di terribile, qualcosa che però appartiene soltanto alle persone: la parte oscura di noi è troppo complicata per essere spiegata con parole quotidiane.
“Penso che siano parole che esistono per comodità, perché rendono più facile spiegare certi fenomeni.”
“Le persone sono molto più torpide di come pensi tu.”
La crudeltà è esplorata con garbo, insieme alle sue conseguenze. Il ritmo lento tende con eleganza la corda delle suspense, seminando indizi vaghi, svelando con grazia le dimensioni di quella tragedia, quel trauma che costituisce il fulcro della storia. Le descrizioni delle cose e degli ambienti suggeriscono e poi definiscono i personaggi con forza sconcertante. Poche pagine bastano per narrare la tragedia e la resurrezione di una famiglia, sciogliendo in poche mosse i nodi stratificati nel tempo da generazioni di errori e orrori.
La semplicità costituisce la forza di questo breve grande romanzo: una perla, dai colori caldi e sfumati. Non avevo mai letto nulla di Banana Yoshimoto; questo primo assaggio mi ha conquistata.
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LA SUA TESTARDAGGINE TIPICAMENTE PIEMONTESE
L’illusione di potere s’incarna in uno dei personaggi più eccentrici e straordinari di Philip K. Dick: il dittatore Gino Molinari, “un misto di Lincoln e Mussolini”. Molinari è un piccolo uomo, che compensa la debolezza della carne con la sua “testardaggine tipicamente piemontese”. Molinari è un dittatore che riesce a essere al tempo stesso spietato e sensibile, talmente sensibile da patire i dolori, i desideri e le speranze dell’umanità intera. Molinari è un mostro politico, che mette in atto la mostruosità della politica.
Forse la trama è ispirata da una precisa localizzazione: l’Italia nella seconda guerra mondiale, dilaniata da forze belliche e sociali di gran lunga superiori alla sua. Ibrido sospeso tra grandezza e goffaggine, il dittatore italiano rifiuta i trapianti di organi per nutrirsi unicamente della personalità ostinata e della carne fresca di un’amante ragazzina; ma quando la morte arriva, si svela il suo asso nella manica: ha cercato e trovato i suoi doppi nei mondi paralleli, per superare i suoi limiti umani e guidare il suo popolo in una guerra contorta, dove gli alleati sono peggio dei nemici e gli esiti si moltiplicano insieme alle dimensioni spaziotemporali.
Il protagonista del romanzo, il medico esperto in trapianti d’organo Eric Sweetscent, è un uomo fragile, dilaniato dai rapporti distruttivi: con la moglie; con i potenti per cui lavora; con la guerra che incombe nello spazio e nel tempo. Intrappolato dal vortice della storia e della sua vita personale, il nostro eroe tormentato è costretto a viaggi frenetici nel futuro e nei mondi paralleli, forse infiniti, che compongono un multiuniverso caotico e assurdo, confezionato su misura per le complessità dell’anima. L’esperienza più rivelatrice del viaggio è l’incontro con il proprio duplicato: Eric si ritrova di fronte, esposte a una luce spietata, le sue miserie. Una consapevolezza innaturale e terrificante, che lo costringe a scegliere: essere pessimi o non essere.
Dick ci racconta un’umanità sull’orlo del caos e della disperazione, ma salvata dal cieco desiderio di vivere. È l’amore per la vita, infatti, che ci costringe a compiere il male per poi rimuovere memorie e responsabilità, che ci spinge a proseguire il nostro cammino al di là dell’etica e della consapevolezza.
“Gli esseri viventi non sono stati creati per capire ciò che compiono.”
Una delle sue opere migliori, sospesa tra ottimismo e pessimismo.
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SCONFITTE SOLITARIE, MIRACOLATE DAL RICORDO
Nei primi mesi della nostra vita percepiamo, amiamo ed esploriamo senza usare le parole. Impariamo presto a dare un nome alle nostre esperienze: le parole stesse sono indispensabili per costruire un mondo riconoscibile e a misura umana, che sia in grado di includere l’esistenza degli altri e dell’altro. Ma rimane, comunque, il ricordo implicito dei tempi in cui la parola non c’era. E insieme al ricordo rimangono, esili ma tenaci, spazi e dimensioni che la parola riesce soltanto a sfiorare.
Se non possiamo raccontare, o possiamo raccontare poco, la parola deve allargarsi a richiamare e ricamare, per girare intorno a ciò che non è stato ma poteva essere, a ciò che è stato ma non si può dire, a ciò che forse non è reale o forse lo è troppo per i nostri sguardi limitati.
Il racconto a volte è presente anche in quest’opera “in bilico tra follia e realtà”. La vita e la morte si fanno strada a poco a poco, sempre sotto un velo tenue: storie dai contorni molto forti, violenti; storie che non seguono la linea abusata del tempo. Altre volte la traccia temporale si annulla, lasciando spazio ad altri tipi di strutture, che stimolano memorie, sinestesie, echi di significato: residui solidi di ciò che solido non è.
Non si leggono d’un fiato, le parole di questo librino. Si gustano a poco a poco, come un liquore molto forte. Distillato per gli intenditori.
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UNA LEGGERA DIFFERENZA
“Per decenni si era detto che i paranoici erano incapaci di amare, ma questo non era vero. Il paranoico amava come ogni altra persona, sia donando qualcosa di sé agli altri, sia prendendo qualcosa da loro. Ma c’era una leggera differenza in questo suo amore.
Il paranoico lo sentiva come una varietà di odio.”
Le differenze sono davvero minime in quest’opera di Philip K. Dick, impregnata di angoscia e di speranza. Come in altri romanzi, c’è poca differenza tra uomini e robot. Non c’è troppa differenza nemmeno tra il pianeta terra e Alpha III L2, una luna popolata da ex ricoverati che hanno costruito una società suddivisa in caste, basate sulle malattie mentali.
Ogni città, su Alpha, porta un nome dalle radici terrestri: Adolfville, la città dei Para, si riallaccia molto correttamente alla paranoia di Adolf Hitler, mentre gli Schizo abitano Giovanna d’Arco e i Poli (perversi polimorfi?) devono accontentarsi di Hamlet Hamlet. Gli altri collegamenti non sembrano altrettanto corretti: i Mani, che oggi risulterebbero affetti da disturbo bipolare di tipo I, abitano le Alture da Vinci (Leonardo da Vinci bipolare?); per non parlare degli Eb, malati di ebefrenia, residenti in Gandhiville. Ma a parte le inesattezze in campo psichiatrico dell’autore, la sua visione che vede Para e Mani occupare le classi dirigenti della luna risulta esatta: non pochi politici italiani possono vantare una diagnosi compatibile.
Le contraddizioni della Guerra Fredda dispiegano il loro potenziale in questo grandioso affresco, dallo stile un po’ zoppicante: ma il ritmo annacquato e qualche malfunzionamento non tolgono molto a questo romanzo, che scava senza pietà nel fango sociale e antropologico degli ultimi secoli. Non c’è molta differenza, infatti, tra amici e nemici e alleati di questa guerra lunare: la saggezza aliena sconfigge senza speranza la disarmonia degli umani e dei loro robot.
Infine, come era prevedibile, anche la protagonista femminile del romanzo, psicologa, si scopre gravemente ammalata. Ma non fa molta differenza. In un lieto fine da incubo, l’amore trionfante, l’angoscia e la speranza sfumano nella malinconia, mentre l’astronave aliena si staglia nel cielo per regalarci una pace dal sapore amaro.
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IL GIOMETRA PERSO NEL RICORDO
No, non è un refuso. Andrea Vitali ha scritto proprio così: giometra. Non a caso l’autore gioca con questo neologismo molti capitoli: la storpiatura del sostantivo costituisce una precisa scelta stilistica e un astuto espediente narrativo, utile per dipingere la maschera di un personaggio e la sua meschina anima borghese.
Lessico colloquiale; frasi brevissime spezzate per aumentare l’enfasi; ritmo lento anzi lentissimo per inseguire i personaggi da vicino e studiare la loro vita, come un entomologo studia le formiche. Se il grande antropologo Claude Lévy-Strauss sosteneva che l’uomo va studiato come si studiano le formiche, l’autore sembra aver imparato la lezione, trasformandola in una narrativa che mette sotto la lente d’ingrandimento i minimi gesti, le espressioni, le caratteristiche ambientali in cui si muovono i nostri scarafaggi, dotati di una varia ma non stupefacente umanità.
Nei personaggi di Vitali l’essenza sembra precedere l’esperienza: c’è chi nasce con un “caratterino pieno di aghi”, chi “con i maccheroni in testa”, chi con le scarpe da lavoro ai piedi, chi “giometra”, inesorabilmente attratto dalle figure nello spazio. Non si tratta di essenze definite, intendiamoci: le stesse note possono comporre infinite canzoni.
Questo romanzo racconta l’Italia piccola, quella della profonda provincia, quella dei primissimi anni settanta che somiglia, nei problemi e nelle ossessioni, alla stessa che si è trascinata fin qui oltre i duemila: abbiamo passato la soglia da un pezzo, perdendo i pezzi. I decenni sono svaniti, ma i soliti ritornelli sono rimasti: nascono dalle note dei nostri genomi e dalla cultura del nostro paese; suonano provinciali anche nelle città più grandi, figuriamoci nei piccoli centri. E così, tra un sorso di rosso e una forchettata di brasatino, le miserie e le prevaricazioni e i ricatti e le furbizie e le incomprensioni dei rapporti tra i diversi sessi, età e classi sociali sfilano sornioni, sotto la solita spessa lente d’ingrandimento.
Mentre l’autore segue il cammino delle sue formiche con tenera ironia, il mistero della carta d’identità si risolve e si dissolve in un fine quasi lieto, nella tranquillità di una caldissima estate. Andiamo a vedere come va a finire.
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CHE SIA QUESTO L’AMORE?
Il lieto fine non c’è, ma l’eleganza e la sensualità rendono attraente l’ombra di questo bosco fiabesco; ogni racconto è, infatti, un piccolo capolavoro da assaporare con i sensi: gli orchi e le streghe ci svelano le trappole e gli inganni del loro amore, che può sembrare davvero autentico, ma nasconde sempre un gioco dal cuore crudele. Se vogliamo gustare fino in fondo ogni perla di questa raccolta, dobbiamo andare oltre i sensi per interrogare la memoria, che di sicuro ritroverà i visi e gli agguati degli orchi che tutti noi, principi o principesse alla ricerca dell’amore, abbiamo già conosciuto, affrontato e, talvolta, sconfitto.
La formula delle fiabe deriva da una sapienza antica, sperimentata nel fortificare e istruire adulti e bambini: ci incoraggia ad affrontare i mostri emotivi che ci minacciano dall’interno e dall’esterno. Ma questa raccolta, limitata nel numero di pagine, ci offre molto di più del solito bosco, consentendoci di viaggiare nello spazio e nel tempo reali: Francesca Diano ci presenta vittime e carnefici di tipi, età e dimensione diversi, spaziando con garbo dalla provincia italiana al cielo oltre l’atmosfera.
La lettura è caldamente consigliata: per la scrittura colta, senza sbavature; per la scelta lessicale sopraffina; per lo spessore che si nutre dell’esperienza personale dell’autrice.
“Armonie di sapore, di aroma, di colore che si coagulano in un ghiacciato procedimento misterioso, i cui algidi passaggi sono misurati fino al minimo gesto, a comporre in un tutt’uno morbido e rappreso una divina beatitudine.”
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NELLE ACQUE DEL FIUME SURREALTÀ
Il primo vero protagonista del libro è Londra, entità vorace e senza fondo, che brucia e incanta, eccita e delude, prende e si lascia prendere. Il suo ritratto emerge da visioni, allucinazioni, emozioni, odori che invadono gli incubi e i sogni senza acquistare mai una dimensione stabile. Vale la pena conoscere questa capitale così diversa, dove si può essere diversamente bianchi, dove le ingiustizie provocano rivolte e le rivolte possono essere delle “gran figate”.
Nei primi capitoli manca la profondità dei personaggi umani e sembra che questa dimensione manchi all’intera città: considerata la complessità della superficie, non sembra necessaria. La narrazione riprende la stessa struttura caotica delle strade, dei pub e dei party londinesi: i personaggi brillano e brulicano negli stili, nei comportamenti, nella musica, nei colori, negli umori. Il “Dizionario di Johnny” è utile per favorire la localizzazione.
Uno dei luoghi londinesi più suggestivi è il “mondo incantato” dei servizi sociali inglesi, il Departement of Social Security (DSS), che offre ottime possibilità ai parassiti urbani più astuti. Mirko, avvocato fallito e infantile di origini bolognese, ha trovato a Londra il suo ambiente ideale.
“Di lavorare non ne voleva sapere. Sempre alla ricerca di un osso da succhiare, sgraffignava ovunque finché non trovava una nuova carcassa da spolpare, che nella maggior parte dei casi riusciva a scovare tra i fascicoli dei sussidi governativi e tutti gli altri aiuti statali opportunamente celati tra le scartoffie.”
Andando avanti con l’intreccio, tra l’assurdo e il tragicomico la personalità della voce narrante prende forma: Johnny, fragile e ostinato artista, sguazza poco felice tra le sue contraddizioni, che sono le stesse della sua amatissima città d’adozione. Johnny ama le superfici; ma cerca l’interiorità. Conosce e utilizza con maestria l’arte di sopravvivere discretamente con piccoli furti e truffe al DSS; ma non sfugge sensi di colpa. Apprezza la musica, il sesso, l’arte e la bellezza; ma ne ricava poco.
Il nostro eroe, che potrebbe lavorare ovunque ma non ne ha voglia, si sente ancora troppo giovane per legarsi a una sveglia: meglio rimbalzare da un party e l’altro, assumere varietà mirabili alcool e stupefacenti, vagare stordito tra interni ed esterni. Sembra che non sappia dove andare, ma di fronte a una precisa domanda, noi lettori scopriamo che lo sa. In seguito, con ampio ritardo, lo scopre anche lui: sul finire delle pagine il ritmo ormai stanco della narrazione esce dal limbo e accelera, spinto dal desiderio.
Questo suo primo romanzo del fotografo Luca Desienna ha la struttura di un lungo reportage: i capitoli scorrono come immagini in un album fotografico. La scelta lessicale è vasta e varia, spesso cruda. La qualità dello stile alterna fiammate di eccellenza a cadute nel fango della banalità. Ma anche questo è Londra.
“É una bella donna che non te la dà e mai te la darà”.
“La metropoli dell’illusione, dove ti fanno credere che tutto è possibile se compili l’apposito modulo.”
“Il sensato è affondato. Dimenticato. Ora sei mio e farai quello che voglio io.”
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Davey, Davey, Davey
- Il titolo -
Quello d’origine era una sintesi efficace: “Letters from Skye”. L’italica versione, “Novemila giorni e una sola notte”, è tutt’altra cosa: devono essere state le dure leggi del marketing a forgiare questo risultato discutibile. Comunque sia, non pare che le modifiche abbiano causato danni: il romanzo ha già ricevuto un'ottims accoglienza.
- La storia -
Romantica, senza dubbio, ma non per questo banale o sdolcinata. Tutti i colori si declinano in varie tonalità e innumerevoli sfumature: questo rosa antico è elegante, sobrio ma non troppo.
L’autrice ha confezionato con cura e passione una bella storia d’amore, d’altri tempi e di luoghi lontani, resa coinvolgente proprio grazie ai giochi di tempo e di spazio: lo zucchero c’è, ma si stempera con generose spruzzate di ironia e di suspense. Due guerre, due continenti e due generazioni costruiscono intreccio stimolante, ben accompagnato dalla raffinatezza della scelta lessicale e dalle ambientazioni incisive, che stimolano l’immaginazione e la curiosità.
- Le guerre -
La prima e la seconda guerra mondiale s’intrecciano con garbo: narrate da punti di vista insoliti, contribuiscono a mettere in luce la complessità dei personaggi, che pur essendo davvero poco “attuali” riservano emozioni e sorprese fino alle ultime pagine. “Una lettera non è mai soltanto una lettera”: la parola scritta dispiega il suo fascino perenne di veicolo amoroso, insostituibile nel colmare le lacune del destino e gli spazi troppo estesi.
- L’amore a distanza -
Le storie d’amore sbocciate grazie alle nuove tecnologie, che tanti sospetti avevano suscitato tra psicologi e tuttologi vari agli albori di Internet, discendono da relazioni epistolari come questa: non sono mai state una novità.
Certo, ora lo scambio tende ad assumere forme e tempi diversi, ma rimane sempre la possibilità, per chi fosse seriamente interessato, di scoperchiare l’anima a distanza utilizzando la parola scritta, di andare “diritto al nocciolo”, scavalcando apparenze e convenzioni sociali. La creazione letteraria non può perdere una materia prima ricca come questa: oggi come allora, grandi amori e splendide amicizie e vecchi legami spezzati vivono grazie alla parola scritta, digitale o tradizionale che sia.
- Il finale -
Eccoci! Un finale lieto ma non scontato, degno di un buon romanzo.
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John Coffey era un gigante
No, non ho visto il film, ma quando sono arrivata alle ultime pagine ho aperto youtube per spiare i volti cinematografici dei personaggi di questo splendido dramma di amore, morte, ingiustizia e prigionia. John Coffey era perfetto.
King e Philip Dick, il grande autore di fantascienza, hanno qualcosa in comune: il talento nel creare personaggi fantastici più umani dell’umano. John Coffey, l’enorme guaritore nero e candido, mi ricorda un personaggio di un racconto di Dick, che non pensava perché non ne aveva bisogno: i suoi occhi vedevano il futuro, cose che noi ovviamente non possiamo immaginare. Coffey pensa poco e non riesce nemmeno ad allacciarsi le scarpe perché non soltanto sente, vede e legge il dolore e la malattia degli uomini, ma riesce ad assorbire queste orribili scorie come una spugna.
Coffey è un guaritore, un dono di un Dio, un angelo innocente: per questo l’hanno rinchiuso nel braccio della morte. Passa il suo tempo a piangere, non per la condannae, la morte è ciò che vuole, ma perché il suo dono straordinario lo costringe a sentire non soltanto il dolore, ma anche la cattiveria degli uomini e l’ingiustizia della condizione umana. Come l’occhio alieno, la visione dell’angelo guaritore è rivelatrice, desolante, spaventosa. Sì, esiste l’amore, ma i cattivi lo usano per uccidere e torturare gli innocenti.
“È così che va tutti i giorni. In tutto il mondo.”
Il dono di Dio muore nel novembre 1932 tra le braccia di Old Sparky, una vecchia sedia elettrica dal nomignolo terrificante e bonario. Intorno a lui e alla voce narrante vaga una girandola di personaggi che incarnano l’umanità di ogni tempo e l’America razzista e afflitta dalla crisi di quegli anni. Ma oltre il dolore e la cattiveria, l’affresco di King lascia spazio anche alla speranza, ai miracoli, alle piccole gioie incarnate da uno dei suoi personaggi più grandiosi: il signor Jingles, topolino giocoliere che ammaestra gli uomini e, anche se finisce sotto gli stivali del cattivo di turno, riesce a risorgere dalla morte zoppicante, ma con la stessa voglia di correre dietro al suo rocchetto.
Il ritmo, scandito dai rimandi dickensiani della narrazione a puntate, avvince come un valzer, scandito da ritorni e sorprese. Il protagonista ha superato il secolo di età per raccontare fino in fondo una storia che non poteva rimanere nascosta. La pena di morte è assurda, ma il miglio verde aspetta tutti noi, quindi è meglio aiutarci a vicenda, ad alzarci e a proseguire il cammino.
“Fragili come vetro siamo noi, anche nelle condizioni migliori. Ammazzarci l’un l’altro con il gas e l’elettricità e a sangue freddo? Che follia. Che orrore.”
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HITLER NON È ANCORA ARRIVATO
Varsavia, primi decenni del novecento. Lo stile impeccabile dell’autore ci conduce dai cortili alle stanze del ghetto ebraico, dove prospera un’infinità di mondi diversamente poveri. Il piccolo Arele cresce tra libri e dottrina nella casa del rabbino, oppresso dal peccato che si nasconde ovunque: nei cibi, nei tessuti, nelle parole. I ragazzi del cortile lo prendono in giro, ma lui ha l’amicizia di Shosha, bambina dolcissima resa ingenua da una misteriosa malattia. In casa di Shosha, Arele scopre i giocattoli, le matite per disegnare, i colori dell’allegria e i profumi del buon cibo: per la prima volta, prova una vita che non è soltanto un corridoio verso l’aldilà.
Il viaggio prosegue nell’età adulta di Shosha e Arele, che nonostante le amanti di lui e la diversità di lei si ritrovano, intrecciando un amore molto più che insolito. L’autore narra la storia d’amore e di morte con passione e mestiere. Le sue parole ci guidano nelle tre dimensioni dello spazio, ci restituiscono sensazioni ed emozioni già vissute, ci avvolgono nelle paure e nelle bellezze del tempo, ci trascinano all’interno nelle letture e intorno alle tavole imbandite.
Tra i suoi amici e le sue amanti, ricchi di mezzi economici e/o di spirito, Arele è soprannominato Tsutsick. Insieme a loro, spaziamo tra i frutti maturi del pensiero e della spiritualità di un popolo che attende la catastrofe. Insieme a loro conosciamo meglio il protagonista, alter ego dell’autore. Tsutsick deve affrontare un periodo storico terribile senza fede, senza ideologie, senza illusioni sulla bontà del genere umano. Tsutsick non crede più in Dio, non ha mai creduto in Stalin, non spera nei dissidenti comunisti e non riconosce nemmeno la bontà delle masse: l’uomo, anche quando è povero e debole, può essere più feroce d’una belva.
Tsutsick non si stupisce nel vedere il disprezzo iniziale di amici e parenti nei confronti di Shosha, la sua sposa, la giovane donna che ha conservato il candore e la generosità dell’infanzia, incapace di tradire e di odiare. Lei, che racchiude il lato buono dell’umanità, gli dona l’ultima fede possibile. Lei è tutto ciò che gli rimane. Per lei, Tsutsick arriva a rinunciare alla salvezza.
I personaggi di questo romanzo sono gestiti con l’astuzia d’un artista burattinaio: nei loro racconti, nei loro sogni e nelle loro paure incontriamo la filosofia del grande ebreo eretico Spinoza, i paradossi della morte, le contraddizioni della religione. Insieme a loro, stretti tra Hitler e Stalin, assaporiamo l’attesa della catastrofe, e comprendiamo un popolo che non può abbandonare i suoi affetti, che non ha mai combattuto prima. Ritroviamo anche un vasto assortimento di scelte e di pratiche religiose, la suggestione dei racconti popolari, la forza di una tradizione sempre viva.
Isaac Bashevis Singer, Premio Nobel per la Letteratura nel 1978, scriveva in yiddish. La sua scrittura è arte: colta e complessa, piacevole e sorprendente. Il mondo degli ebrei polacchi “prima di Hitler” è narrato con la grazia precisa di un miniaturista, ma anche con la sintesi di pennellate rapide e incisive, ma morbide anche nella tragedia. La storia di allora, ricostruita con tale sapienza, riesce a illuminare il presente.
Un capolavoro. Non perdetelo.
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Adesso voglio che paghino.
Le Vendicatrici, seconda puntata: questa volta al centro del palcoscenico c’è Eva, la romana dal cuore a volte troppo tenero. Accanto a lei, possessivo come una zecca, ritroviamo Renzo Russo, il marito, il bel lumacone che continua a far danni. Non c’è dubbio che sia un parassita infetto e pericoloso, ma in fondo non è poi così cattivo. E non è nemmeno privo di pregi e di sentimenti positivi. Che colpa ne ha se un’ossessione, molto più ostinata della forza di gravità, lo ha trasformato in una pietra rotolante? E lui rotola, sempre più veloce, sempre più disperato, trascinato fino al fondo di una morte violenta, che lo aspettava da un pezzo. Egoismo e fragilità distruggono e non di rado uccidono, se crescono insieme nell’ambiente sbagliato. Roma, con la sua disgregazione, è una riserva naturale per gli esemplari come Renzo, ma produce anche di meglio e, inevitabilmente, di peggio.
Il clan dei Mascherano è molto più di una famiglia amorale: è un gruppo dalla struttura antropologica complessa: non più nomade, residente in un quartiere fortificato come una cittadella medioevale. Serse è lo zio di tutti, il capo anziano che tiene saldamente in mano le redini delle attività criminali e delle tradizioni. La vita di un Mascherano non lascia spazio all’improvvisazione: è rigidamente codificata dal comportamento sessuale all’abbigliamento. Melody, la ribelle del clan, incrocia la strada di Renzo Russo. Lo scontro culturale produce esiti ramificati, e devastanti.
L’intreccio di questo romanzo è più complesso del precedente: il ritmo si fa talmente serrato, che ogni tanto si rischia di incespicare, ma ne vale la pena. Gli autori riescono a mettere in moto i singoli personaggi e i gruppi legandoli come marionette a case, strade, negozi, pubblici esercizi, pubbliche sciagure della loro città.
La conclusione ci consegna una famiglia molto unita e molto diversa dalle altre: le quattro protagoniste e i loro cari amici sono saldamente uniti dalle dolci catene degli affetti, della complicità e anche del lavoro. Senza dimenticare la vendetta, che ci lascia in sospeso fino al prossimo romanzo: quello di Sara, la guerriera.
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IL LENTO SCINTILLARE DEL DISTACCO
Questo romanzo contiene e intreccia molte storie in poche pagine. La storia di una donna, narrata dall’interno e dall’esterno, segnata dal suo nome e dalla sua origine. La storia di un’amicizia, variegata di affetto e complicità, ma anche di sensi di colpa e sottili incomprensioni. La storia di tre generazioni. La storia di una famiglia ricca. La storia di una famiglia povera, segnata dalla tragedia. La storia di un amore insolito, struggente. La storia di un incubo, l’incubo di una nazione. La storia di una vita e di molte vite. La storia di una malattia che si conclude con la morte.
C’erano una volta tre donne, stese sull’erba a prendere il sole. Non sembrano disposte a caso: la bionda, la castana in mezzo, la mora dall’altra parte. Tra la bionda, l’angelica Blanca e la bruna, la prosperosa la castana Sofìa sembra un tramite, un giusto mezzo. E in effetti è lei, che porta il nome della sapienza, a permettere la conoscenza e lo scambio tra le due donne. Attraverso l’amicizia di Blanca e Victoria mondi diversi e opposti si conoscono e si mescolano, attraverso la consapevolezza. Un incontro che provocherà reazioni e cambiamenti irreversibili. Forse l’inizio di una conciliazione.
“Le vere padrone della storia e del paese sono state le donne della mia specie, non quelle come Victoria, che accumulano proteste destinate a essere zittite non appena gira il vento. Né quelle come Sofia, alle quali è rimasta solo la durezza a causa del loro radicalismo.”
Blanca è una donna privilegiata. Ricca, bella e bionda. Nasce colma di doni, con il destino e il successo già garantiti dall’eredità di famiglia. Fa parte di quel genere di donne che non si espongono, che non scendono in piazza nei momenti più difficili. Donne nascoste, che sono in grado di sostenere con la loro forza insospettabile il destino di una nazione.
Candida come il suo nome, pura e ingenua come un’alba, Blanca potrebbe condurre una vita tranquilla e serena, se non avesse un difetto che non le sarà perdonato: è generosa, pronta a condividere i problemi degli altri senza chiedere nulla in cambio. La sua generosità la porterà a uscire dal “perimetro netto” che la società le ha costruito intorno. Le donne della sua specie plasmano la storia “da dietro le quinte” e non perdono mai la testa. Quasi mai.
Il linguaggio di questo romanzo ha un’eleganza evocativa adatta alla struttura narrativa decisamente non lineare, un vortice lieve che unisce con grazia i tempi e gli spazi, senza mai perdere il ritmo della danza, mantenendo sempre la sua forza. Un libro prezioso, dalla bellezza stilista rara, in grado di rendere gradevole un contenuto dal peso specifico altissimo. Da gustare, con calma e con passione.
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LO DEVI CAPIRE ANTONINO BARONE
In questo romanzo vanno in scena i mostri italiani. Hanno carne e ossa, un volto umano, un comportamento disumano. Sono il lato peggiore del nostro paese, ci appartengono. Ma non sono i protagonisti assoluti di questa storia: accanto a loro vivono anche gli angeli, miracoli di umanità poco visibili, che nascondono una forza insospettabile. E poi ci sono loro, le vendicatrici, le vittime unite nella ribellione. La loro vendetta non è un lusso, ma una necessità, una via obbligata per tornare alla vita.
Vendicatrici e mostri sono i protagonisti, principali ma non unici, di questa prima tappa di un ciclo che promette tragedie e commedie, crimini e rivincite, eccessi di vita e di morte in cui il femminile occupa i posti più in vista del palcoscenico. Il primo enorme, italianissimo mostro che incontriamo è maschio: gli bastano poche frasi e pochi gesti per farsi apprezzare in tutto il suo orrore. Antonino Barone è l’avidità fatta uomo, la corruzione che prospera e ingrassa senza limiti. Non vivrà a lungo, ma la sua presenza si estende all’intero spazio narrativo.Un eccellente ritratto di cravattaro, che evoca altri mostri di felliniana memoria, ma si distingue per le sue passioni anomale e lo squallore che lo circonde.
Antonino Barone possiede una caratteristica peculiare anche ad altri mostri del romanzo: tiene famiglia. Probabilmente non è vero che ognuno ha bisogno di qualcuno da amare, ma di certo l’amore per qualcuno si può conciliare senza problemi con la crudeltà, anche la sua estesa. Antonino Barone e la sorella Assunta formano una coppia insolita. Si amano davvero. Il resto del mondo per loro è una preda da sottomettere, da far soffrire, da torturare, da divorare. L’avidità li lega e li nutre entrambi. Uniti da una passione davvero insolita, i fratelli Barone celebrano il loro amore condividendo il pasto. La loro storia rappresenta il familismo amorale in tutta la sua carica distruttiva.
Sadica e corrotta, oppressa da una religione di riti e paura, Assunta perde il suo centro di gravità quando Antonino viene ucciso: sbalzata in un’altra orbita, è costretta a fare i conti con un vuoto di potere che sembra davvero incolmabile. Una volta indossati i panni di vedova nera, è dilaniata tra il bisogno di prendere il posto del fratello e il desiderio di vendicarlo. A mio parere è il personaggio più riuscito del romanzo: la sua lotta per la vendetta e per il potere conduce il lettore in un ambiente soffocante, governato da leggi inesorabili, privo di spazi liberi.
La prima vendicatrice, si presenta insieme alle altre, ma in questa tappa la sua storia occupa il centro del palcoscenico. Si chiama Ksenia e ci racconta la storia delle spose siberiane: fuggita da una terra di miseria e di maschi violenti, cerca in Italia un marito decente e una vita migliore. Trova Antonino Barone e sua sorella, che la usano come schiava sessuale e la massacrano di attenzioni. Sceglierebbe la morte se fosse possibile, ma l’alternativa è di gran lunga peggiore. Ksenia non ha scelta: subisce la sottomissione per forza; incontra l’amore e l’amicizia per caso; infine si ribella per ricominciare a vivere.
Lo stile semplice del linguaggio, l’ottimo ritmo, i dialoghi asciutti e realistici narrano senza eccessi una storia dai colori molto forti e una Roma autentica, vissuta tra corruzione e bellezza, vitalità e decomposizione. Prossimamente, arriverà il turno delle altre vendicatrici.
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COME SE AVESSERO VISSUTO SOLO A MATITA
Un titolo assurdo per un libro splendido. Il titolo originale, “Perla”, sarebbe stato perfetto; in alternativa, il testo offre molte espressioni in grado di suggerire il contenuto e lo stile del romanzo. E invece no. L’espressione scelta è presente nel testo, ma nel titolo risulta del tutto fuori contesto. Il titolo è stato appiccicato su questo capolavoro perché richiama ad altri titoli già noti, già venduti. Era davvero necessario?
Il romanzo è davvero splendido. Iniziamo dallo stile, che può vantare una bellezza insolita, in grado di soddisfare i palati più raffinati e i lettori più pigri: la scelta lessicale non è mai banale; le immagini e le allusioni hanno una forza coinvolgente; le frasi sono dei gioielli dalla lunghezza molto variabile, che tuttavia mantiene un ritmo variabile ma sempre sostenuto, mai stonato.
Le parole e i flashback scolpiscono personaggi stupefacenti nelle loro sfaccettature e ambiguità, che esprimono senza eccessi, con grazia ma senza sdolcinature le loro sofferenze, le loro speranze, la loro miseria. Il più riuscito è il fantasma che si nutre di acqua, un’entità umida e maleodorante e incerta, che assolve il compito di tutti i fantasmi: ricordare e far ricordare; rimediare all’incompiutezza della vita e delle sue memorie; rincorrere la giustizia; sollevare i veli della morte.
I flashback rincorrono senza tregua gli orrori del passato recente e gli incubi attuali, ambientati in un’Argentina vitale e commovente, che cerca di regolare i conti con il suo passato per costruire un futuro pulito. La storia di Perla, il piccolo tesoro salvato dall’orrore, si muove nel suo paese e nella sua città, Buenos Aires, restituendo al lettore l’atmosfera e il dinamismo del presente, le celle buie in cui si sono consumati delitti mai sopiti, gli incubi e le memorie delle vittime mai dimenticate.
Un grande libro, una storia tragica narrata con delicatezza: non perdeteli.
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LA NATURA CONFUSA E COMPLICATA DELLA VERITÀ
Questo romanzo può essere paragonato a una torta di pasticceria, ben farcita di creme e molto, molto dolce. Troppo dolce e troppo ricca per i miei gusti: non soltanto per l’eccesso di zucchero che rende stucchevoli alcuni dialoghi e il finale, ma anche per la varietà di ingredienti, che “si uccidono” a vicenda e non giovano alla degustazione.
In questa storia ci sono gli schemi tipici del feuilleton, che si presta bene a essere suddivisa in puntate per far affezionare il pubblico: segreti di famiglie allargate, occhi che rivelano paternità fasulle, nuovi legami e vecchi amori, delitti con o senza castighi, grandi riconciliazioni e gran finale lietissimo condito da abbracci e lacrimoni.
Ci sono anche i temi scottanti e molto attuali, che danno spessore e sapore all’intreccio: le guerre con il loro corollario di morte e malattia; gli scontri e gli incontri tra religioni e civiltà; i diritti umani e i diritti delle donne; il dubbio e il dogma.
Temi e schemi molto lontani tra loro, che si combinano a volte con eleganza, altre volte con goffaggine: dettagli inutili, dialoghi che non funzionano e troppe, troppe lacrime zuccherose.
La storia è popolata anche da una gran quantità di personaggi, che confondono facilmente la memoria del lettore. Non ci sono invece, o difettano di coerenza e di profondità, i caratteri dei personaggi. L’autore li inserisce attraverso dialoghi e sguardi incrociati; ma questi espedienti, anche se corretti, non riescono a dar vita ai personaggi, che si perdono nell’eccesso di lacrime e di eventi.
Nonostante gli eccessi, non sconsiglio questo libro per tre motivi: la gradevolezza dello zucchero è soggettiva; i contenuti sono molto attuali; l’intreccio è ben strutturato. Da consumare preferibilmente come dessert;-)
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Orecchie a vela, sempre tese
Questa è un’autobiografia, scritta senza quel distacco che molti ritengono necessario per questo genere di narrativa. L’autrice, scrittrice di successo e con una lunga esperienza di pubblicazioni alle spalle, racconta la sua infanzia, la sua crescita e l’evoluzione del suo mondo interiore.
La storia della bambina dell’iceberg ci consente di calarci nel mondo interiore di una bambina depressa, costretta ad affrontare un gran numero di abbandoni e di violenze. Ci illustra i suoi pensieri, le sue ribellioni, le sue difese. I sentimenti emergono soprattutto attraverso le immagini, i suoni, i singoli ricordi: colori, suoni, episodi, frasi. La sua scrittura semplice, a tratti povera, mi sembra uno strumento appropriato per narrare la storia della bambina dell’iceberg: riflette il colore di quei ricordi, il ritmo di una vita segnata dal dolore.
Anche la Trieste dei ricordi riflette il male di vivere. Gelo nel cuore e nella pelle. La bora spazza le case. Lo sguardo del padre riduce la vita a una misera lotta per la sopravvivenza. La paura della madre riduce i figli ad animali pericolosi da ammaestrare. L’autrice racconta con efficacia la lotta di una bambina sola, che deve trovare un ordine in un caos gelido: il suo sguardo attento non sa ignorare le contraddizioni e non sa fuggire di fronte alla crudeltà degli adulti, che infine si rivelano più fragili che crudeli. Non mancano i momenti in cui lo sforzo di comprendere genera equivoci divertenti, che strappano un sorriso dal retrogusto amaro.
L’autrice si definisce un’anima candida e si racconta con candore, senza timori, senza modestie. Le sue opinioni personali sono esposte con chiarezza, accanto al vissuto che le ha fatte emergere: leggiamo e scopriamo che cosa pensa Susanna Tamaro della vita, della natura umana, del mondo editoriale, della famiglia, di se stessa e anche della sua scrittura. Una scrittura lontana da manuali e incapace di pianificazioni. Una scrittura che vuole essere priva di sentimentalismi, ma attenta ad approfondire il sentimento. Una scrittura che ogni volta sembra “un miracolo”, che non può accadere su ordinazione.
“La vera scrittura sta altrove, giù in profondità, nel nucleo della terra, nel cuore di tenebra dell’uomo.” Non sono d’accordo con questa affermazione dell’autrice, o meglio lo sono soltanto in parte. Non sono d’accordo anche su altro, molto altro. Per questo motivo vi consiglio di leggere la sua autobiografia: una storia da ascoltare, una miniera di spunti su cui riflettere.
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Una nazione di sonnambuli
Questo è il primo romanzo di Willi Kraus, l’astuto e appassionato “Inspector-Detectiv” ebreo che indaga sui crimini sanguinosi all’alba dell’era nazista; ma io l’ho letto dopo il ”Nessun Indizio”, pubblicato successivamente ma collocato in una linea temporale anteriore. L’intreccio di tempi reali e narrativi mi ha consentito di valutare l’evoluzione del personaggio e della scrittura: “I sonnambuli” presenta un intreccio meno equilibrato e alcune ingenuità nella descrizione degli “scontri” sessuali del protagonista.
Ritrovare gli stessi personaggi ha rafforzato l’identificazione e amplificato la suspense, grazie alla narrazione ben impostata e sempre vivace. Rimasticare alcuni espedienti narrativi (come l’intervento di personaggi famosi, le indagini che si uniscono in un solo filone), invece, ha conferito un sapore stantio alla lettura. Rivivere l’architettura e i volti di una Berlino che non esiste più, invece, è rimasta un’esperienza unica: Grossman si è confermato un maestro nelle descrizioni d’ambiente.
Il thriller trova ancora la strada giusta per rappresentare il nazismo da una prospettiva insolita e rivelarne la caratteristica unica nella storia: l’odio razzista aveva assunto, grazie alla collaborazione attiva di studiosi e scienziati, pretese di scientificità, che avevano consentito la pianificazione razionale di un genocidio privo di moventi concreti.
Molto efficace la descrizione dell’incendio doloso del Reichstag, che allora mandò in cenere la speranza di intere generazioni. Vi consiglio di leggere questo insolito, ottimo romanzo storico per ritrovare un tempo e una città dal fascino unico, ma anche per rivivere la tragedia insieme ai sonnambuli di Grossman, così vicini all’avvento della catastrofe incombente, così profondamente immersi nel sonno nella ragione come molti, troppi protagonisti di quell’epoca.
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Impossibile non amare mio padre
Sì, avevo visto il film e l’avevo apprezzato. Ho apprezzato altrettanto il libro, anche per le differenze con il film, che era molto più sgargiante, picaresco. Il romanzo è più equilibrato, i suoi colori sono più tenui. La narrazione ha un ritmo tranquillo, che accoglie il lettore in modo sommesso. Lo stile è molto essenziale e senza fronzoli, ma anche sornione: crea un’atmosfera molto simile a quella delle fiabe. In effetti, questo romanzo potrebbe essere definito una fiaba a doppia lettura.
La voce narrante racconta un uomo attraverso le sue storie, o meglio racconta delle storie che lo rendono vivo. I personaggi delle storie e del romanzo sono simili a quelli fiabeschi, stilizzati: il gigante triste, il cane feroce, la donna del lago, la moglie bellissima promessa a un altro... Anche il figlio alla ricerca di un padre vero è molto fiabesco, una specie di Pinocchio al rovescio. Tutti si muovono come apparizioni di un unico sogno, sognato dall’egocentrico ma gentile e ridanciano protagonista.
Quanta importanza hanno le storie nella nostra vita? Sappiamo che il pensiero narrativo è fondamentale per la nostra identità. Quanto è reale la storia che viviamo? Non molto più di quelle che leggiamo, raccontiamo, invitiamo. Noi siamo la nostra storia, le nostre storie.
Sotto il protagonista traspare il contorno di un uomo che sembrerebbe di carne e ossa: un uomo che lavora, viaggia, intristisce con il passare degli anni; un uomo che volendo diventare grande si è trasformato in un grande racconto di racconti. Il finale è strepitoso nella sua semplicità.
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La debolezza deve essere spazzata via
Il titolo della recensione è una frase di Adolf Hitler, la stessa citata da Paul Grossman per introdurre il suo thriller investigativo. Un’ottima scelta. Questo thriller, narrato con grazia scorrevole, è ben costruito e ben ritmato, e può essere letto come un modo insolito di narrare la Shoah.
La storia esordisce nella Berlino scintillante del 1929, quando ancora la Germania sembrava in ripresa. Gli artigli della crisi non si sentivano ancora, ma la tragedia era alle porte. Il protagonista, un detective ebreo, intuisce già i contorni del mostro che sta calando su quello che è ancora, per poco tempo, il suo paese.
Le descrizioni della capitale tedesca costituisce uno dei punti di forza di quest’opera. Inseguendo le indagini scopriamo i monumenti, le strade, le piazze. Incontriamo gli artisti e gli intellettuali. Parliamo con bambini di strada, organizzati in bande. Giriamo tra i quartieri e quelli dove regna la miseria. Arriviamo anche al quartiere degli immigrati ebrei. Osserviamo la civiltà e il rispetto per le regole, l’amore per l’arte e la puntualità, ma anche la diffusa ostilità a qualsiasi forma di debolezza, il rigore nell’educazione dei bambini, l’antisemitismo dilagante dopo la Grande Guerra. L’autore conosce e racconta bene anche la psicoanalisi, che ancora non era stata messa al bando. Un’epoca riprende vita sulla carta, si svela nella finzione.
La cultura tedesca dell’epoca non fa soltanto da sfondo, ma si intreccia con vicende e personaggi. Nonostante l’antisemitismo diffuso, in Germania non c’era traccia dei pogrom che dilagavano nei paesi dell’est. La Germania era la terra dell’ordine. Il caos dei tempi nuovi si annuncia con il ritrovamento di un sacco di ossa. Sono ossa di bambini, lavorate come gioielli. Uno psicoanalista osserva che sembra un tentativo di ripristinare l’ordine dopo la distruzione. L’indagine scoprirà una storia familiare di morte e sofferenza, che riflette in un gioco di specchi quella che sarà la regressione sanguinaria di una nazione intera, la pianificazione razionale di un orrore del tutto irrazionale.
Questo bellissimo romanzo non è un passatempo. Il sangue di queste pagine non scorre come salsa di pomodoro: l’orrore rischia di lasciar traccia. Alcuni personaggi ricalcano i cattivi delle fiabe e del cinema: ci sono la cannibale e la strega cattiva, c’è perfino lo scienziato pazzo dalla risata crudele. Ma questi personaggi cari al nostro immaginario collettivo non sembrano usurati e non stonano in questa scena del crimine, che coinvolge anche la Storia.
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Un po’ troppo per essere amore
Una donna sconosciuta fa un gesto. Un uomo rimane colpito da quel gesto, semplice ma evocativo. Nasce qualcosa, un’esigenza di dialogo. Inizia così una corrispondenza insolita.
Iniziamo leggendo soltanto le parole di lui, che dà inizio allo scambio.
Lui cerca di mantenersi privo di identità, nella speranza di costruire un mondo nuovo, piccolo ed esclusivo, interiore ed estraneo alle mura di casa e al cielo del quotidiano. Lui desidera un mondo di parole, ritagliato su misura per due. Inseguendo i desideri, le parole danno voce ai ricordi nascosti, ai gemelli più oscuri, alle vergogne che non si possono condividere con chi condivide già la vita quotidiana, la carne, la tavola apparecchiata. Ma dei segni sulla carta forse possono sedurre come il corpo, anzi più del corpo. Le parole diventano nutrienti e preziose “come oro, grano e burro”. Un po’ troppo per essere amore.
I sentimenti, materia prima irrinunciabile per la narrativa, in questo romanzo non sono raccontati, ma trasformati in parole. E i segni sulla carta danno vita a qualcosa che è concreto, qualcosa che trasforma la materia in astrazione. Amore? “Un po’ troppo per essere amore.” Così il dialogo si interrompe; iniziano le parole di lei, che ci trascinano verso un finale drammatico, inaspettato.
La scrittura, sontuosa e lenta, avvolge il lettore in una stretta morbida ma insidiosa. Azzardo il solito paragone culinario: questo libro è come le ostriche crude, un piatto che può piacere alla follia o essere sputato nel piatto con disgusto. I personaggi, i drammi, il passato emergono lentamente dalle parole, che fuggono come le immagini di un film. Le emozioni e il coinvolgimento del lettore crescono insieme alle sorprese.
Non è un libro facile. Non è un libro per tutti, ma lo consiglio a tutti. Vale la pena provare.
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La mente consiste nell'idea del corpo
Neurologia, psicologia e filosofia sono le tre discipline, diverse ma affini nei loro obiettivi, che si intrecciano in questo saggio. Questa contaminazione produce molto più di una semplice somma. Lo scopo è ambizioso: indagare sulla natura e la genesi della coscienza, stabilire i rapporti tra corpo e mente, osservare la struttura delle emozioni. Prima di recensire il contenuto del libro, mi permetto di tentare una breve introduzione per chi non conosce o conosce poco la materia, anzi le materie.
La psicologia si è sempre divisa in approcci che sembravano inconciliabili: metodi clinici e sperimentalisti, psicoanalisi e comportamentismo, comportamentismo e psicologia della forma... E altre ancora. Questa enorme varietà può stupire, ma è giustificata dalla complessità del soggetto studiato e dal fatto che la psicologia è una scienza ancora molto giovane.
Nella lunga storia della filosofia possiamo rintracciare una dicotomia teoretica parallela a questa frammentazione: il monismo, che trova in Baruch Spinoza uno dei suoi massimi esponenti, e dualismo, personificato dal grande Cartesio (Descartes). Provo a definire, in sintesi, queste posizioni: secondo il monismo, dietro la varietà del reale si nasconde un unico principio (o un’unica sostanza); secondo il dualismo, invece, questi principi o sostanze sono due, completamente diverse tra loro. Questo stesso dualismo si ritrova in parte nelle scienze psicologiche e psichiatriche in generale: la dicotomia organicismo vs psicologismo ha avuto un ruolo fondamentale nel dividere studiosi e terapeuti .
Negli ultimi anni, la pluralità di approcci ha iniziato a produrre una sintesi: soprattutto tra psicoanalisi e neurologia i risultati iniziato a coincidere in un’unica visione, ancora problematica, ma già provvista di solidi contorni.
Se ancora non siete fuggiti, possiamo entrare nel vivo del libro:-) L’autore, neurologo e biologo, ci spiega linee la struttura dell’attività umana, che si divide in emozioni (che si osservano soprattutto a livello corporeo) e sentimenti (più complessi, situati a livello mentale). Le procedure sperimentali e i casi clinici sono illustrati a grandi linee, insieme alle coincidenze con i risultati ottenuti dall’osservazione psicoanalitica.
I dati più rilevanti sottolineati da quest’opera riguardano l’importanza del corpo e delle emozioni, nella costruzione delle immagini mentali, della mente cosciente e dei processi razionali. Da queste osservazioni, appare chiaramente che mente e corpo costituiscono una cosa sola (un solo principio, una sola sostanza); non esiste nessun dualismo. Questa visione “corporea” ed “emotiva” della mente non è nuova: Antonio Damasio ripercorre l’opera e la vita di Baruch Spinoza, puntualizzando i debiti di scienziati e pensatori moderni nei confronti del monismo di questo grande filosofo.
Sono passati diversi secoli da quando Spinoza aveva intuito, in contrasto con Descartes, che corpo e mente sono “attributi della stessa sostanza”: il filosofo aveva ottenuto risultati stupefacenti senza l’ausilio di percorsi sperimentali e clinici. Damasio indaga sulla sua vita per scoprire quali sono le circostanze e i presupposti che hanno consentito la maturazione di un intelletto così straordinario, “geniale e al tempo stesso esasperante”.
L’indagine si rivela feconda, mostrando la via per possibili e promettenti applicazioni di questa nuova visione unificante della mente umana. Non si può dire che sia un libro di evasione, ma secondo me vale la pena tentare, se ci sono curiosità e/o interesse. Il linguaggio è chiaro e amabile, ideale per rendere accessibile dei contenuti complessi.
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Chi ama, delira
“Who loves, raves”.
Il titolo di questa recensione, una delle tante citazioni inserite magistralmente nel romanzo, lo dobbiamo a Lord Byron. Un’opera dedicata all’amore insolito: al centro della scena c’è l’innamoramento che colpisce nell’età della ragione, della saggezza e della tranquillità, ma spazza via tutto come un tornado “umido e caldo”.
Le citazioni, gustose come grani di pepe, sono uno dei punti di forza di questo romanzo, che si uniscono alla scrittura dall’eleganza inappuntabile, alle osservazioni che stimolano la riflessione, ai tentativi di azzardare risposte parziali a questioni insolubili.
Sarah, la protagonista, è una donna sola e soddisfatta, che ha superato brillantemente una perdita precoce. La sua vita “assennata” è riempita dal lavoro, dalla passione artistica, dalle amicizie, dalle preoccupazioni familiari. Sembra che non manchi nulla, ma arriva Julie Vairon, un uragano che squasserà la sua esistenza e quella delle altre persone.
Julie è una bellissima donna romantica e intelligente dai mille talenti, un’eroina suicida morta da anni; ma la sua voce si fa ancora sentire. L’occasione galeotta, sempre indispensabile per scatenare passioni, arriva con l’allestimento di una pièce teatrale ispirata alla storia di Julie e costruita con le sue parole, la sua musica, la sua personalità più viva che mai. Ed è proprio “l’insidiosa intimità tipica del teatro” che suscita la tempesta, una fioritura improvvisa di passioni che portano nuove energie, ma anche nuove sofferenze nella vita della protagonista dei suoi amici.
Il tornado arriva, colpisce, passa e lascia dietro di sé ricordi, riflessioni, disvelamenti. Il mal d’amore può provocare anche la morte. Lo sappiamo, ma troppo spesso lo dimentichiamo.
L’autrice descrive con garbo e minuziosamente gli sguardi, le sfumature, gli intrecci, i movimenti degli occhi e del cuore. Queste descrizioni minuziose, però, rallentano la lettura e a volte fanno cigolare gli ingranaggi: i personaggi perdono vitalità, le emozioni si irrigidiscono.
Le pagine finali, in cui Sarah crede di scoprire che cosa si agiti dietro i deliri amorosi dell’età matura, sono forse le migliori dell’opera.
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Il nostro nemico
Il protagonista principale di questo romanzo è la paranoia, che racconta gli effetti del suo potere esplosivo. Poi ci sono la paura, il rancore, la discriminazione. E alcuni tra i dubbi ricorrenti dell’opera di Philip K. Dick:
- che cosa è umano, che cosa non lo è;
- che cos’è la vita, che cos’è la morte;
- che cosa può nascondersi dentro di noi;
- chi è il nostro nemico?
Le prime pagine del romanzo ci illustrano il mondo “di prima”, con le sue abitudini, la sua quotidianità e i suoi flagelli abituali: la paura della guerra, la paura del diverso, la paura del rifiuto. C’è anche la paura della morte, che in parte unisce le altre e annulla le differenze: ci si interroga tutti insieme sull’al di là, qualcuno propone delle visioni inquietanti, qualcun altro preferisce distogliere lo sguardo. In breve l’al di là arriva, ma non è quello che ci si aspettava.
L’al di là è il mondo capovolto e disgregato del dopo bomba. Le piccole cose che tenevano insieme la vita "di prima" non ci sono più: niente più benzina, niente più buon vino, niente più sigari di qualità. Per sopravvivere si mangiano topi crudi e si impara a produrre alcolici in casa. Il mondo è disgregato; l’unico filo che tiene ancora unita l’umanità è un sopravvissuto imprigionato in un satellite, che trasmette dall’alto vecchia musica e vecchie storie.
Le leggi che governavano “il prima” sono cambiate, non valgono più, sono da scoprire e da ricreare. Nemmeno gli animali non sono più gli stessi: il confine che li separava dall’umanità si è fatto più labile. Anche l’umanità è cambiata, e il confine con il sovrumano e l’oltre tomba si è fatto più sfumato: le radiazioni hanno provocato nuovi poteri inquietanti, nuove possibilità di comunicazione che non rendono la vita più facile.
Perfino gli affetti sono diventati più complicati, difficili da gestire; la disgrazia comune non ha unito i sopravvissuti. Le scale di valori sono cambiate: c’è chi riesce finalmente a far valere le proprie capacità prima inespresse, c’è chi si sente defraudato, c’è chi cerca la rivincita e il potere. Il mondo è capovolto, l'unico punto di riferimento che rimane identico è lui, il nostro nemico, che rimane sempre lo stesso, ancorato alle nostre debolezze e alla nostra stupidità.
Lo stile del romanzo, con i suoi ritmi spezzati, comunica a fior di pelle la catastrofe e l’inquietudine. I personaggi passano dal mondo di prima all’al di là trascinandosi come fardelli sempre più pesanti e incomprensibili. Ma la vita continua imperterrita; tra la disgregazione e lo stordimento, tra la fame di amore e di sicurezza, tra la paura e la voglia di costruire un futuro l’umanità sembra spronata da una indomabile coazione a ripetere l’oggi. Sulle macerie sorge il caldo sole della routine: tutto è cambiato, tutto è come prima.
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La vita come morte latente
«Da che parte stai, Israele o Palestina?» Sì, mi hanno posto la domanda. Secondo me, non ha senso. Io sto dalla parte di coloro che vogliono la pace. Non vedo alternative.
Questa breve introduzione non mi sembra fuori tema per introdurre questa raccolta di saggi, scritta dall’ottima penna di David Grossman.
“Hegel ha detto che sono i malvagi a fare la storia. A me sembra che in Medio Oriente conosciamo bene il rovescio di questa medaglia, e cioè che una certa storia può rendere malvagi”.
L’autore affronta diversi argomenti, che ci portano a riflettere su Israele e sulla guerra: il suo lavoro, della sua famiglia, del suo paese, il suo popolo, la storia; tutto riconduce all’ossessione di una pace che sfugge. Le riflessioni sono scritte con passione, ma non per questo difettano in lucidità: ci raccontano gli effetti deleteri di una storia fatta di guerre e persecuzioni; esaminano le deformazioni devastanti prodotte dalla paura, che incatenano e generano odio e schiavitù; esplorano le possibilità e gli orizzonti di un futuro senza guerra.
L’autore analizza le cause e i sintomi della malattia che ha cambiato i fondamenti etici e culturali del suo popolo, che dopo millenni di esilio e di esistenza inerme ha preso le armi e non ha più smesso di usarle. Il lungo conflitto, i confini sempre instabili dello Stato, la paura, l’odio e il senso di colpa hanno impoverito e svuotato di senso la vita, ma anche la morte.
“La consapevolezza dell’insostenibile leggerezza della morte, la cui più mesta espressione ho sentito una volta in un’intervista a una coppia di israeliani alla vigilia del matrimonio. Alla coppia fu chiesto quanti figli avrebbero desiderato, e la giovane, dolce sposina rispose prontamente che ne avrebbero voluto tre - perché, se uno viene ucciso in guerra, ce ne restano altri due.”
Un presente funestato da una guerra infinita, un passato di esilio e di persecuzione, un futuro immutabile: non è più una vita, ma una “morte latente”, come la definisce l’autore. In questa condizione priva di continuità, cambiare prospettiva è la chiave per immaginare un futuro migliore: è necessario guardare il mondo con gli occhi del nemico, proprio perché la pace sembra un obiettivo irraggiungibile.
“Non credo che un cambiamento drastico possa avvenire in tempi brevi, ma se anche ciò dovesse verificarsi nel giro di una o due generazioni, potrebbe contribuire a sanare la deformazione che ha portato Israele lontano dal suo stesso ethos.”
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Il signor Adolfo
La voce narrante è quella di un bambino, mai cresciuto a causa di una malattia precoce. Molto più ingenuo di un bambino normale, irrimediabilmente privo di malizia e di slealtà, lo sguardo del protagonista Gabriele è più straniante di un occhio alieno.
L’altro protagonista del romanzo è un anziano signore tedesco che si chiama Adolfo. Un nome, una storia: dopo i genocidi e le sconfitte del Terzo Reich, ben pochi genitori si azzardano a dare quel nome a un bambino. La personalità del signor Adolfo sembra mantenere le promesse: si tratta di un vecchio nazista, un assassino uscito da poco di galera. Un vecchio demonio, che guarda la vita attraverso le fiamme dell’Inferno.
Il titolo ha tratto in inganno qualcuno, quindi è meglio chiarire che il romanzo non ha niente di blasfemo. Una lettura frettolosa o aberrante è sempre possibile, quindi non mi stupirei (anche se spero di sbagliarmi) se Gabriele e Adolfo si fossero attirati, almeno una volta, l’etichetta di “personaggi stereotipati”. Il nazista feroce e il diverso buono ingenuo non sono certo delle novità, li abbiamo già visti. Ma la storia prende una strada imprevista e ci porta a superare gli stereotipi, anzi a ridurli in frantumi.
Pagina dopo pagina, scopriamo che non bisogna contare troppo sull’ingenuità dello sguardo di Gabriele: quando vuole, non soltanto riesce a capire, ma riesce anche riesce a cogliere più di qualsiasi sguardo “normodotato”. Adolfo è degno del suo nome: violento, cinico, razzista fino al midollo. Eppure, ci sorprende anche lui. No, non si redime, almeno non del tutto. Ma infine, chissà perché, ci scordiamo della sua cattiveria.
L’ironia e la crudeltà, svelate dall’ingenuità di Gabriele, lasciano il segno. Un romanzo molto piacevole, che stimola e coinvolge. Un romanzo che ha meritato diversi premi. E anche queste cinque stelle.
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La macchina del pensiero
Un grande classico. Un romanzo introspettivo, ma non privo di azione. Non mancano nemmeno le descrizioni, che avvolgono i sensi del lettore. Un romanzo in cui si può riconoscere chiaramente il disturbo dell’umore che affligge il personaggio principale; ma la “diagnosi” non spiega e non risolve: costituisce solamente un elemento in più, che contribuisce ad completare la complessità della storia.
Un romanzo pessimista, perché l’avventura porta a conseguenze tragiche. La crescita interiore trascina il protagonista fuori dal suo mondo, ma la speranza di trovarne uno migliore precipita in una delusione irrimediabile. Non si può tornare indietro e nemmeno andare avanti: la macchina del pensiero è ammalata. La fatica, la perdita dell’amore e il successo l’hanno guastata in modo irreparabile. Ma è anche un romanzo ottimista perché oltre la perdita del desiderio del protagonista, l’autore continua a mostrarci un mondo di cose belle e di nobiltà umana. E sempre, vicino o lontano nel ricordo, il mare.
Questo romanzo è anche la storia di un amore dagli effetti prodigiosi, talmente prodigiosi che infine superano e spezzano l’amore stesso. E poi c’è la storia di una vocazione fatale per la scrittura. Gli elementi autobiografici rivestono sicuramente un’importante fonte di ispirazione. Non stupisce, che questo romanzo abbia coinvolto aspiranti scrittori e scrittori “emergenti”. Il sistema editoriale descritto da London è lontano nello spazio e nel tempo, ma non è cambiato. Di certo non è migliorato.
Il linguaggio non è moderno, ma questo “fa parte della sua bellezza”. L’interiorità del personaggio avvince e sorprende: soprattutto nella prima parte, gli ingranaggi della macchina del pensiero sono narrati e osservati con maestria d’altri tempi.
Leggetelo. Non perdete questa perla di mare.
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Gli effetti residui
Ho iniziato a leggere questo libro carica di aspettative. Ho apprezzato molto le prime pagine, quelle che precedono la tana del coniglio: il personaggio principale, che emerge da pochi elementi del suo passato e del suo presente; la storia del bidello, che coinvolge con la narrazione “ingenua” in prima persona; la quotidianità di un insegnante che ama il suo lavoro, raccontata con freschezza.
Ho iniziato il viaggio attraverso la tana del coniglio carica di curiosità: l’espediente narrativo mi è sembrato poco originale, quindi privo di forza. Una reazione prevedibile, a pensarci bene. La fantascienza è uno dei miei generi preferiti e di viaggi nel tempo ne ho fatti tanti, letterari e cinematografici: ho una vasta esperienza di paradossi e contorsioni temporali. Non è facile sorprendermi.
Il viaggio con Stephen King, comunque, è proseguito a buon ritmo. Mi fido dell’autore. Mi piacciono le sue contaminazioni, i suoi dialoghi più reali della realtà, i suoi personaggi dalla carne viva, le sue descrizioni che connotano e catturano. Ma con il passare delle pagine anche il mondo temporale assumeva caratteristiche nuove, in grado di soddisfare anche le aspettative di chi ha già provato una grande varietà di futuri incerti e ritorni catastrofici. Il tempo di Stephen King si chiarisce pagina dopo pagina e rivela la sua complessità senza fretta, ma mostra il suo volto più inquietante soltanto alla fine.
Dopo aver lasciato un mondo fantastico dalla coerenza stupefacente, dopo aver conosciuto le radici e le pieghe profonde della civiltà americana e aver scoperto volti inediti della storia di quel grande paese, il ritorno alla quotidianità ci riserva qualche domanda a sorpresa. Siamo sicuri di comprendere la nostra storia? La storia di un paese, come la storia delle persone, non è facile da leggere. Un evento negativo può avere conseguenze positive. E viceversa. Quando e come si può decidere che abbiamo sbagliato a scegliere? Forse i rimpianti non hanno alcun senso. Nel mondo di King, è meglio lasciar perdere il passato, e far scoppiare eventuali bolle temporali. Nel nostro, conviene pensare al presente: vale la pena di sacrificarlo, per scommettere in un futuro migliore?
Le domande sono tante. Forse valgono più delle risposte. Un grande romanzo.
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Un esercizio di riflessione costante
Il saggio di Elsa Mescoli, che ci porta nel cuore dell’esistenza quotidiana delle donne di Luxor, ha il pregio di analizzare con cura i diversi aspetti di un ambiente molto complesso. La pratica su cui l’autrice si impegna a indagare e riflettere riguarda una pratica molto delicata e controversa, strettamente legata a quel contesto: la “circoncisione femminile”.
Il relativismo culturale è una teoria antropologica con cui non è facile confrontarsi: parente non troppo stretto del relativismo filosofico, è un “ismo” ad alto rischio di fraintendimento. Per esempio, alcune interpretazioni “estreme” del relativismo culturale possono portare a posizioni simili al dogmatismo: la stabilità della struttura sociale acquisisce un valore pari a quello del dogma, che annienta qualsiasi possibilità di confutazione. Altre volte l’intento di sottrarsi all’etnocentrismo può portare, paradossalmente, a esprimere giudizi e paragoni discutibili proprio sulla cultura di appartenenza dell’osservatore. In questo saggio, le intenzioni di osservare “attraverso uno sguardo quanto più possibile scevro di giudizi precostituiti”, mi nel complesso mantenute, ma non completamente.
Il primo punto che mi sembra contraddittorio riguarda il titolo: la scelta della definizione “circoncisione femminile” mi sembra appropriata allo scopo del lavoro di ricerca (calarsi in un contesto sociale diverso dal nostro), ma non credo, che il termine “mutilazione” contenga, come sostiene l’autrice, “la denuncia delle pratiche in questione”. L’espressione descrive da un punto di vista scientifico il tipo di operazione eseguita: anche se nel contesto non viene considerata tale, rimane una mutilazione. Ricordiamo che la mutilazione a volte può costituire un intervento necessario per salvaguardare la salute: per quale motivo dovrebbe contenere una denuncia? Certo, nel contesto in cui è praticata è definita positivamente differentemente, ma il dato oggettivo rimane: il corpo viene privato di una sua parte. Anche se le capacità di compensazione del corpo umano sono notevoli; anche se forse si dovrebbero studiare più a fondo le conseguenze sulla sessualità femminile; anche se, considerando il contesto in cui viene eseguita, non si può giudicare negativamente chi pratica la circoncisione; la natura dell’intervento rimane sempre la stessa. Inoltre, mi sembra doveroso sottolineare che la formula più invasiva di questa pratica, la circoncisione faraonica, implica un altissimo livello di rischio ed effetti negativi duraturi nella salute della donna, effetti che durano l’intera vita.
L’autrice mi sembra giudicare in modo poco obiettivo la scienza medica. Concordo con lei che a volte “i corpi subiscono una depersonalizzazione”, ma soltanto quando la scienza medica diventa paternalistica. Purtroppo, non si può negare che questo succeda spesso. Nella nostra società sono stati frequenti, e lo sono ancora attualmente, i casi in cui la pratica medica diventa uno strumento ideologico o di oppressione sociale: a parte i casi citati dall’autrice, si può ricordare per esempio l’abuso della lobotomia e dell’elettroshock in campo psichiatrico. Anche nel nostro presente e nel nostro paese i cattivi esempi non mancano; pensiamo ai casi di accanimento terapeutico sui pazienti terminali più sfortunati, che non possono beneficiare della “libertà di cura” prevista dalla Costituzione.
Un altro punto che trovo impreciso è il passo in cui l’autrice si oppone alla critica della circoncisione praticata sulle bambine: “La decisione riguardo all’operazione è sicuramente presa da altri sul corpo della bambina, ma questi altri sono i suoi familiari, e in misura maggiore spesso la madre, che stabilisce quali siano per la figlia (che venga circoncisa o meno) i requisiti fondamentali alla sua futura realizzazione come donna”. Anche in questo caso non è possibile giudicare dall’esterno la madre e le sue decisione. Non metto nemmeno in dubbio che, come suggerisce altrove l’autrice, in alcune situazioni il danno fisico causato dalla circoncisione rappresenti un male minore rispetto all’ostracismo sociale che la bambina subirebbe. Ma il fatto che la bambina non abbia possibilità di scelta non mi sembra irrilevante, soprattutto se lo paragoniamo alla chirurgia estetica come fa l’autrice: la scelta è fatta per conformarsi “ai modelli estetici creati dal contesto sociale”, ma rimane comunque una scelta (che secondo la legge del “consenso informato”, dovrebbe essere fatta anche in piena consapevolezza dei rischi e delle conseguenze).
Il caso della circoncisione femminile ricorda molto da vicino quello dei “loti d’oro”, la deformazione dei piedi praticata nella Cina prima del comunismo.
Anche in questo caso, la pratica veniva considerata necessaria per “abbellire il corpo femminile”.
Anche in questo caso, le madri praticavano la legatura dei piedi (molto dolorosa) a fin di bene, per consentire alla figlia un buon matrimonio.
Anche in questo caso, molte donne erano fiere dei loro piedi piccoli, li consideravano belli condividendo le aspettative sociali dell’epoca.
In questo caso (a differenza del contesto “in evoluzione” analizzato dell’autrice), però, non c’era alcuna possibilità di scelta da parte della madre: la pratica evitava un male maggiore, anche se menomava la capacità di camminare e poteva provocare morte, gravissime infezioni e altri pesantissimi “danni collaterali “.
La presenza di punti che stimolano la discussione rappresenta a mio parere uno dei pregi più significativi di questo ottimo saggio, ricco di descrizioni e osservazioni interessanti. In particolare, mi sembra incisiva l’osservazione che gli interventi “umanitari” contro la circoncisione femminile rischiano di innescare un effetto opposto a quello desiderato: una reazione contraria che rafforzi la diffusione della pratica, per contrastare interventi esterni considerati autoritari o paternalistici. Inoltre, fatto non disprezzabile, il testo è ben scritto, strutturato in modo chiaro e sintetico, ricco di dati significativi, utili per accedere a una più ampia comprensione della realtà complessa e dinamica in cui vivono le donne di Luxor.
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Calvo come una pista di pattinaggio per pidocchi
Pestaggi, omicidi, rivelazioni, abbandoni, ritorni di fiamma, depressioni, fattucchiere, malocchi, doppie personalità, morti che tornano, bambini angelici e madri diaboliche: un bel crogiolo di rosa, giallo e noir. Non manca niente, nemmeno l’amore impossibile ma possibile in famiglia, nel rispetto del più autentico stile soap. Per mantenere vive l’azione e l’attenzione, l’autrice farcisce il suo (buon) polpettone di ingredienti dai sapori forti, che soddisfano il palato, ma rischiano di irritare le mucose.
Il punto debole di questo romanzo? L’eccesso. Leggendolo mi è tornato in mente il mondo fantastico di Pennac: la stessa vivacità, la stessa sarabanda di trovate. Sfortunatamente, alle nostre tartarughe manca la fantasia bizzarra che sdogana l’eccesso e la mancanza di verosimiglianza.
Eppure, il romanzo funziona. Il punto forte? Le digressioni sull’epoca medioevale, gustose e istruttive. E poi c’è il ritmo veloce, avvincente, senza cadute di tensione: l’eccesso ci trascina a scartare una sorpresa dopo l’altra. E i personaggi? Ben costruiti, ben visibili, spiccano a colori vivaci sullo sfondo, non fanno grinze. E infine, le metafore: originali, talvolta spassose.
Per finire, servo in tavola un paragone culinario: questo romanzo non è da gustare lentamente come un piatto sublime di alta cucina, ma è da sbranare come una pietanza saporita, non priva di contenuti nutrienti, ma ricca soprattutto di spezie e profumi.
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Vivessimo in un paese serio
Per i titoli delle mie recensioni in genere estraggo qualche frase, breve ma significativa, dal testo da recensire. Il trucco, in genere, funziona. Per questo singolare e inquietante romanzo di Fenoglio ho dovuto combattere con l’imbarazzo della scelta: il testo contiene un ottimo assortimento di espressioni che non soltanto calzano alla perfezione l’opera, ma offrono anche una testimonianza incisiva su quanto poco sia cambiato nel nostro paese dal 1959 (la data di pubblicazione).
“Vivessimo in un paese serio” è un’espressione che ho sentito ripetere molte volte, da persone di inclinazioni politiche diverse. E non è l’unica. Molte sono le espressioni che testimoniano gli stessi rancori, le stesse discriminazioni, lo stesso odio di allora.
“Voi figlietti di papà...” “Terroni...” “Polentoni...” “Bagascioni di romani.” “Ma siamo tutti cattolici, evidentemente.” “Le donne sono uguali dappertutto.”
La storia narrata da Fenoglio è tutta nostra. La leggiamo attraverso gli occhi del protagonista, un giovane piemontese, allievo ufficiale alla fine dell’estate del 1943. Johnny ci conduce da una quotidianità di naja inconcludente e tragicomica fino allo sfascio dell’esercito italiano, provocato dall’armistizio (in realtà una resa quasi senza condizioni, realizzata e proclamata troppo in fretta) dell’8 settembre. Gli ufficiali, seguendo l’esempio delle alte sfere dello Stato, prima impartiscono una serie di ordini contraddittori, poi fuggono, abbandonando l’intero esercito italiano allo sbando. Un disastro. Uno dei tanti esempi di “eroismo” che conosciamo bene.
“Mica buffoni, criminali sono.”
Che fare di fronte al pessimo esempio che proviene dall’alto? Anche questa domanda sembra molto attuale. Allora i tedeschi erano davvero “quattro gatti”, ma l’esercito italiano era disorganizzato e privo di mezzi. C’è chi tenta di resistere all’attacco dei tedeschi, anche in assenza di ordini superiori. Si sa che è una battaglia persa in partenza. Johnny è uno dei pochi che non ritiene inutile resistere.
“Primavera di bellezza”, scrive l’autore, è una traduzione dall’inglese. Provocazione? Comunque, le incertezze non tolgono nulla all’efficacia della narrazione, che tra sorprese, anticipazioni e colpi di scena incalza, trascina e cattura il lettore senza possibilità di fuga. Il romanzo è corale: i personaggi sono caratterizzati da pennellate a volte rapidissime, ma sempre incisive. Lo stile è insolito, a volte difficile, mai banale: a mio parere la presenza di neologismi e di inserti in lingua inglese contribuisce a descrivere la confusione, la rabbia, la disperazione di quei giorni. È il nostro passato che ritorna, crudele nella sua attualità.
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Gelato al sugo di carne
La struttura di questo romanzo ricorda molto: “La bambina che amava Tom Gordon”, dello stesso autore. Due romanzi che parlano con rispetto dell’infanzia. Due romanzi costruiti sul niente. Due romanzi insoliti, appassionanti. Costruire sul niente (un niente relativo, ovvio) per qualcuno è un difetto. Per me è un’arte rara, che apprezzo molto.
Gran parte del romanzo è occupato dal personaggio principale: Jessie, una donna imprigionata in un letto da un paio di manette. Il marito, Gerald (sì, il gioco l’ha inventato lui), muore quasi subito. L’intera narrazione si svolge per la maggior parte in questa stanza da letto, che si trova in una casa isolata, molto isolata. Nessuno può aiutare Jessie a liberarsi. I ricordi, le emozioni e il corpo di Jessie; un cane e un’apparizione notturna costituiscono le presenze vive principali dell’intreccio. Poi c’è la stanza, con gli oggetti che contiene. Una mensola. Un bicchiere. Un telefono. E quelle manette.
Si tratta di un romanzo claustrofobico, senza ombra di dubbio. Costruito sul niente, imprigiona senza scampo il lettore. La tensione cresce e si trasforma, rende tangibile ogni minimo particolare, fa lievitare un piccolo spazio fino a trasformarlo in un mondo da incubo. Il corpo della protagonista, quasi immobile, si trasforma in un vortice di azioni, reazioni, sensazioni. E poi c’è la memoria; ma anche quella ruota intorno a un solo centro di gravità.
L’infanzia di Jessie. Il suo occhio infantile. King è stupefacente nel tradurre e raccontare il pensiero dei bambini. Per la piccola Jessie le emozioni adulte sono “stravaganti cocktail”, miscugli poco appetitosi di ingredienti non compatibili con il buon gusto infantile, come “gelato e sugo di carne, pollo arrosto ripieno di caramelle al gusto di agrumi”. Incatenata in un letto, Jessie può finalmente tornare a rivedere i personaggi della sua infanzia con i suoi occhi di adulta, per mettere in parole l’evento catastrofico che forse l’ha accompagnata fin là, in quel letto che la imprigiona e la tortura.
Lo stile di quest’opera è spesso eccellente e originale (ho apprezzato molto le espressioni messe in risalto dalle parentesi), ma a volte si perde e perde tono, soprattutto nelle similitudini troppo pesanti (”come se si fosse immersa in una piscina popolata di cuccioli di squalo e se ne fosse accorta appena in tempo da salvarsi le estremità inferiori”). Ma l’espediente narrativo che più ho apprezzato sono le “voci” della protagonista, che esprimono alla perfezione il dramma e il punto di vista femminile (un’altra delle caratteristiche più importanti del romanzo): “«Sei noiosa, Mogliettina», la interruppe Jessie. Non ricordava se avesse mai risposto a voce alta a uno di quei suoi interlocutori interiori. Si domandò se fosse un segno di pazzia. Concluse che non gliene importava un fico secco, non in quel momento.”
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Il vuoto aspirante della mia anima
“Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo.”
Amore?
No, questa non è una storia d’amore.
Lolita è la storia di una passione, di un’ossessione, di una vita bambina calpestata dall’egoismo, dalla brutalità, dalla fragilità vergognosa degli adulti.
Lolita è una storia inquietante, per i contrasti presenti in tutti i personaggi principali. Non ci sono buoni tra loro. Nemmeno la vittima, nascosta dietro la sua corazza di sfacciataggine, attira facilmente la simpatia e l’identificazione del lettore. Ma non ci sono nemmeno mostri assoluti e spaventosi, come quelli che costellano la narrativa noir dei giorni nostri.
I mostriciattoli che circondano Lolita spaventano proprio perché sembrano troppo umani.
Al primo posto c’è la madre, donna dai “solidi principi”. La “curata” e severa Charlotte esercita il suo dovere di madre, anche se vuole allontanare la sua creatura “bruttina” e “dispettosa”. La sua vera natura viene alla luce quando scopre il gioco del pedofilo che ha appena sposato:“... non rivedrai mai più, mai più quella miserabile mocciosa” urla prima di morire in uno stupido incidente.
Poi c’è la voce narrante, il pedofilo in persona. Monsieur Humbert Humbert è un miserabile senza dignità, ma anche un uomo colto e forbito, con un forte senso estetico. È consapevole della sua natura e dei suoi crimini, ma non si dimostra completamente cinico.
“E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia.”
Lo stile sublime, impeccabile dell’autore fa risaltare in modo estremo il contrasto tra forma e contenuto, tra senso di colpa e crudeltà, tra bellezza e sudiciume.
“...notavo spesso che, vivendo come vivevamo, lei e io, in un mondo di male assoluto, ci coglieva uno strano imbarazzo quando io cercavo di affrontare un argomento di cui avrebbero potuto parlare lei e un’amica più grande, lei e un genitore, lei e un innamorato vero e sano...”
H. sa di non essere sano. Sa anche di essere marcio. E non si illude nemmeno di essere un uomo adulto. Esprime alla perfezione la consapevolezza quando incontra Lolita per la prima volta.
“... mentre le passavo accanto vestito da adulto (un grande, possente, splendido esemplare di virilità hollywoodiana), il vuoto aspirante della mia anima riuscì a risucchiare tutti i dettagli della sua radiosa bellezza, che paragonai a quelli corrispondenti della mia promessa sposa defunta.”
Nascosto dietro i vestiti e le parole eleganti c’è un bambino immaturo ed egoista, un piccolo bruto consapevole della sua pochezza, pronto a qualsiasi orrore pur di nutrire il vuoto che lo tormenta. H. è la brutta copia del bambino innamorato che era stato. Non è un uomo in grado di amare, quello che passa accanto a Lolita. L’innamoramento, quello sì, lo possono provare anche le creature più vuote. La passione di H. è simile a quella di chi ama soltanto la bellezza esteriore, e niente altro: gli altri sono sempre oggetti, mezzi per raggiungere un fine egoistico, involucri vuoti da adorare o da distruggere.
“Lolita” è uno di quei capolavori che ha provocato, e provoca ancora, reazioni molto negative. Non mi stupisce che si possa odiare questo libro. Ma il vuoto non esiste soltanto nei libri o nei film dell’orrore. I mostri di Lolita li abbiamo già incontrati, anche se forse non li abbiamo riconosciuti.
Il vuoto è intorno a noi, e Nabokov ha trovato le parole per raccontarlo.
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U fumu!
Una breve tragedia comica, raccontata con brio. La narrazione è sapientemente condita dai termini dialettali, che aiutano a descrivere e a connotare con efficacia cinematografica personaggi, ambienti e tinte forti di un microcosmo con poche sfumature. Ho letto questo piccolo gioiello nel giro di una giornata, divertendomi a giocare con dialetto e relativo glossario. Mi sembra che il contesto sia in grado di fornire indizi più che sufficienti a una gustosa escursione nella profonda provincia siciliana, ma devo confessare che la lingua sicula non mi è del tutto sconosciuta: l’ho appresa dalla mia famiglia acquisita, di origini agrigentine.
La connotazione è senza dubbio uno dei punti più forti di questo romanzo, da leggere con attenzione anche tra le righe. L’autore offre la giusta chiave di lettura su un piatto d’argento: il torinese ingegner Lemonnier, che come l’occhio alieno della narrativa fantascientifica ci aiuta nella decodifica.
“Non erano le parole che dicevano, non erano i gesti che facevano, s’era persuaso l’ingegnere: bisognava stare attenti a come dicevano quelle parole, a come facevano quei gesti.”
Il lettore avvisato può cogliere e gustare ironia di ottima qualità, che come il companatico dei poveri aiuta a mandare giù l’amarissima riflessione antropologica, che traspare oltre semplicità della trama.
I personaggi di questo romanzo, ambientati in un paesino siciliano del fine dell’ottocento, sembrano nati oggi: il “fotte-made-man temuto” e odiato; la famiglia che si stringe compatta intorno a lui; i suoi simili pronti a gioire sulla sua tomba e a mangiare alla sua tavola; la massa dei più poveri esclusa dal gioco e unita nella miseria. Al di fuori della famiglia c’è il buio del cinismo più assoluto; solamente la vendetta è in grado di unire i simili in un’azione comune. Ma neanche la famiglia, unico baluardo in un ambiente altrettanto crudele ma molto più insidioso d’una jungla, si salva dal massacro.
“... qualche volta il sangue si ribella al proprio sangue senz’altra ragione perché l’uomo è l’uomo, e l’odio più forte e nascosto nasce tra fratello e fratello, tra padre e figlio.”
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Non scordiamoci il passato
Esuberante, generosa e fuori dagli schemi, dai confini e dai valori comuni: Hoda, il vaso rotto, è un personaggio difficile da dimenticare, ma soprattutto da contenere.
Il romanzo è ambientato tra gli ebrei canadesi di Winnipeg. Nelle prime pagine assistiamo all’arrivo dall'Ucraina del padre di Hoda, che entra nel nuovo mondo nascondendo la sua cecità dietro una Bibbia al rovescio. Insieme a lui ci sono la moglie gobba e la figlia, ancora in tenera età ma già molto robusta. Da allora in poi, saranno proprio i valori di una Bibbia capovolta a tessere l’esistenza comica e tragica, tenera e grottesca di questa famiglia di vittoriosi perdenti.
Hoda cresce nel contrasto tra la brutalità del mondo visibile, che la rende pragmatica, e la fede dell’amoroso padre cieco, che le dona ingenuità e voglia di vivere. Le vicende dell’infanzia di Hoda, narrate con voce bambina, denunciano le crudeltà in cui sopravvivono i bambini più indifesi: gli adulti ne abusano spesso, quasi sempre a cuor leggero, talvolta in buona fede. La bambina obesa, maltrattata dalla sorte e dai compagni di scuola (ma non dai genitori) si trasforma presto in una esuberante lavoratrice sessuale; non è arrivata al mestiere per vocazione, eppure vende piacere con allegria, senza rimorsi e senza rancore.
La scrittura poco scorrevole, a volte prolissa, comunque densa e priva di banalità, accompagna come un fiume la storia di Hoda: nel corso lento e continuo degli anni la vita si rinnova tra nascite e morti, guerre e ricostruzioni. Anche la protagonista cambia, si evolve con il passare delle fatiche, delle gioie, delle delusioni: la bambina che si prostituisce sperando ancora nel principe azzurro con gli anni perderà l’ingenuità e parte della sua sfrenata allegria, ma non la voglia di vivere.
Non può che essere lieto il finale di un romanzo che include miseria e sofferenza, ironia e crudeltà: il vaso si spezza e il cerchio si chiude, con l’inizio di una nuova vita.
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C’è sempre spazio per qualcosa di nuovo.
Ho scelto quest’opera proprio perché in genere leggo una fantascienza diversa: recensire un genere diverso da quelli preferiti è un esercizio sempre utile, inoltre si corre il rischio di imbattersi in qualche sorpresa molto piacevole.
La serie Star Wars, molto conosciuta e apprezzata soprattutto (ma non soltanto) da un pubblico giovane, si distingue da alcune caratteristiche: l’azione conta più della riflessione; gli elementi fantastici sono lontani dalle implicazioni metafisiche; la descrizione degli ambienti e dei personaggi è sempre molto accurata; la lettura è scorrevole e gratificante.
Gli autori di Star Wars hanno costruito mondi intuitivi ma non semplici: la loro complessità è vertiginosa, difficile da seguire per chi non è abituato a questo tipo di narrativa. Non c’è da stupirsi se le serie di fantasy e fantascienza multimediali sono opere collettive: più il mondo fantastico è complesso e prolungato nel tempo, più il lavoro di gruppo diventa arduo, difficile da padroneggiare.
Ho apprezzato questo libro. Gli ambienti, dall’interno delle astronavi agli esterni dei mondi alieni, sono connotati senza risparmio di suggestioni e trovate avvincenti. I personaggi, ben costruiti e senza sbavature, emergono dall’azione in modo eccellente, e i commenti dell’autore ci consentono di conoscerli ancora più a fondo. L’ammiraglio Thrawn, in particolare, è un magnifico cattivo, ricco di genio e di fascino: si distingue con classe, senza sfigurare, da quelli che l’hanno preceduto (non è facile il confronto con Palpatine e Darth Vader).
Timothy Zahn conosce bene l’arte di comprendere, espandere e costruire nuovi mondi che durino nel tempo: la sua scrittura è intrattenimento di alta qualità. In questa luccicante edizione speciale, che celebra il ventesimo anniversario, mi sarei aspettata un editing più accurato: ho notato qualche refuso, poco compatibile con l’occasione. Ho apprezzato invece le note dell’autore, che confida i retroscena, i meccanismi e alcuni trucchi del mestiere: molto interessanti, a volte divertenti.
In sintesi: una lettura consigliabile agli amanti del genere, ma anche a chi scrive per diletto o per mestiere:-)
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Elsa, sei ancora qui?
La varietà degli ingredienti è importante nella riuscita di una buona narrazione, ma per amalgamarli bene occorre un buon espediente: in questo romanzo è la reincarnazione che riesce ad amalgamare in modo sapiente storie e diversi periodi storici, personaggi esistiti e inventati, mondi interiori e nuovi mondi, mondi fantastici e mondi reali.
La protagonista è una povera ragazza ricca, fragile e “malata nell’anima”, che vive nell’epoca fascista. Elsa si muove in un ambiente altolocato tra segreti altolocati, follia e lucidità, sofferenza e riso. Ma attraverso i sogni, si intravede anche un mondo ancora più remoto, che preme per confrontarsi con il presente: Elsa è abitata da un’altra donna, un personaggio storico, che a volte sembra completamente diversa da lei, mentre in altri momenti si mostra anche troppo vicina.
L’altra donna non è l’unico fantasma a perseguitare la protagonista, che deve affrontare anche i morti di famiglia, ancora più nascosti ma non meno insistenti. Inoltre ci sono i viventi che la circondano: familiari, medici e altre figure in carne e ossa, a volte più inquietanti delle anime defunte. Oppressa da questa moltitudine di morti viventi e vivi sfuggenti, Elsa affronta un doloroso viaggio alla ricerca dell’autenticità, per uscirne finalmente integra, armata della chiarezza necessaria per vivere.
La storia, introspettiva ma non priva di azione e di colpi di scena, è ben strutturata e coinvolge con garbo il lettore; ho notato però qualche qualche sbilanciamento nello sviluppo dei personaggi, a volte troppo brusco. La scrittura è equilibrata, tanto ben adattata alla trama che si nota poco. Il ritmo è ravvivato anche da momenti di comicità, inaspettati e gustosi.
In sintesi, questo romanzo è un gradevole intreccio di livelli narrativi diversi, consigliabile a chi ama i romanzi storici ma anche l’introspezione, gli aspetti sociali e le accurate descrizioni di ambienti.
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Parween, una vera shaheed
Sarebbe stato meglio mantenere o tradurre alla lettera il titolo originale del romanzo: “Lipstick in Afghanistan”. “Le ragazze di Kabul” non mi sembra adatto per questo romanzo nato da un’esperienza reale, vissuta non a Kabul ma a Bamiyan, un villaggio del centro dell’Afghanistan. Bamiyan appartiene all’etnia hazara, che per la sua fierezza è odiata e perseguitata con particolare ferocia dai talebani.
La storia è davvero interessante, ma la narrazione non si dimostra sempre all’altezza: diventa esigua nel raccontare l’amore, goffa nel delineare la storia e il carattere dei personaggi.
Il rossetto che unisce le protagoniste principali, invece, mi sembra un simbolo azzeccato, molto efficace: rappresenta la femminilità che alcune ideologie vorrebbero uccidere o nascondere, la frivolezza che diventa rivalsa su un destino difficile.
I talebani del romanzo si comportano da bestie: distruggono e uccidono senza motivo, violentano e rubano con passione, trasgrediscono gli stessi comandamenti che impongono ai popoli che tiranneggiano. Posso capire il punto di vista delle protagoniste: non nutro nessuna simpatia nei confronti dei talibani, ma la bestialità degli uomini include sempre cause da spiegare, eccezioni da non sottovalutare.
Molto vivace e coinvolgente anche la descrizione delle tradizioni e dei costumi hazari, delle leggende di questo popolo e delle condizioni di vita dei volontari che lo conoscono da vicino.
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Quella musica sorda
Se questo romanzo capitasse sotto forma di manoscritto sconosciuto tra le mani di alcuni editor di mia conoscenza, rischierebbe di finire cestinato senza ripensamenti, bollato come noioso e privo di ironia, disprezzato in quanto triste e, peccato imperdonabile, appesantito da troppi aggettivi.
Certo, qualcuno potrebbe trovare noiosa la trama insolita di questo romanzo dalla struttura circolare, che attraverso la malattia e il dolore racconta la vitalità, la passione e il carattere di un personaggio insolito, circondato da personaggi altrettanto insoliti, molto lontani dal nostro quotidiano. L’insieme è dipinto a tinte forti, ma senza eliminare sfumature e ambiguità, completo nei dettagli che connotano e incidono con forza.
Non c’è ironia nella scrittura elegante e sontuosa, che non teme di raccontare emozioni in azione all’interno di un corpo quasi immobile. Stupisce, a tratti, la resa degli aspetti più assurdi che si scoprono nell’esperienza della malattia, esperienza che l’autore riesce a narrare senza pudori, senza enfasi.
Non sono temi allegri la malattia grave, la morte, così come non sembrano temi leggeri Dio, l’arte e la musica: eppure l’autore riesce ad affrontarli in modi alternativi: senza tristezza, ovviamente senza allegria, scavando nei modi più nascosti e inaspettati, sfiorando gli aspetti già visti, affondando nell’intimo di emozioni poco frequentate.
L’autore non raziona gli aggettivi, che non risultano inutili e non cadono in schemi stereotipati; ma se in certi punti eccedono, molto spesso si rivelano indispensabili nell’illustrare emozioni e immagini molto complesse.
Infine, al di là del valore dell’opera letteraria, c’è un aspetto interessante da un punto di vista “sociologico”: ambientato in epoca fascista, il romanzo descrive un’assistenza sanitaria dall’efficienza sbalorditiva, in cui la terapia del dolore era praticata senza badare ai pregiudizi bigotti molto attivi nel nostro presente. Certo, si tratta di del punto di vista di un personaggio molto altolocato, un privilegiato, ma mi chiedo quanto la realtà dell’epoca abbia influito nelle descrizioni della routine ospedaliera.
Insomma, non aspettatevi una lettura per lievi ombrelloni, ma un’avventura corposa, sfaccettata, del tutto priva di scarna sobrietà. Siete avvisati:-)
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Povere creature.
Ho la presunzione di avere una buona memoria narrativa, compensata da pessime memorie di altro genere: per esempio, scordo facilmente il nome degli autori, soprattutto se stranieri, tanto che sono riuscita a scordarmi di Kazuo Ishiguro dopo aver letto il suo splendido “Quel che resta del giorno”. Dopo questa lettura non lo scorderò mai più.
Il romanzo è distopico, ma non fantascientifico: potrebbe succedere anche adesso. I protagonisti, gli “studenti” mi hanno ricordato molto i replicanti di Blade Runner: esseri senzienti creati per essere sfruttati, umani quanto e forse più di noi, ma disumanizzati per evitare il rimorso. Se i replicanti non vengono uccisi, ma “ritirati”, gli studenti non muoiono, ma “finiscono il ciclo”. Se i replicanti sono rabbiosi e violenti, gli studenti sono stranamente remissivi: non cercano fughe o vendette, si limitano a sognare un improbabile rinvio del loro destino.
“A Madame non siamo mai piaciuti. Ha sempre avuto paura di noi. Come le persone hanno paura dei ragni o di questo genere di cose”.
Gli umani normali giocano appaiono di rado nella storia; la loro crudeltà non è mai descritta in modo esplicito, ma appaiono raccapriccianti agli occhi del lettore, così come nella finzione gli “studenti” appaiono raccapriccianti a loro.
Una grande storia narrata in modo superbo, tanto da stimolare l’inquietudine e, soprattutto la riflessione. Stimola anche una quantità domande scomode, che forse si possono riassumere in una sola: è possibile che succeda davvero? La risposta è ancora più scomoda: a pensarci bene, sta già succedendo, e non è la prima volta. Ci sono già, ci sono sempre stati, i luoghi chiusi in cui si tenta di affrontare la diversità con efficienza, ma anche con compassione: queste istituzioni illuminate sono Hailsham. E poi ci sono, ci sono sempre stati, anche i luoghi in cui i diversi vengono spogliati senza ritegno della loro umanità: istituti, prigioni, ghetti, lager. Centri di accoglienza. Sì, sta già succedendo, è sempre successo. Lo sfruttamento è sempre esistito, così come sono sempre esistiti i diversi, gli speciali, gli esseri umani privati della loro anima per giustificare qualsiasi forma di abuso e di sfruttamento.
Tra gli studenti di Hailsham, quelli che ancora conoscono la compassione, fioriscono anche l’amore e l’amicizia, fiori delicati che sbocciano nella paura e sopra il fango: la narrazione di queste emozioni costituisce la parte migliore, forse la più crudele del romanzo. L’autore tesse una trama che cattura come una tela di ragno; l’esito si intuisce fin dall’inizio, ma si disvela a poco a poco ai protagonisti e al lettore, fino a denudare il suo volto: non c’è rinvio possibile, l’orrore siamo noi.
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La morte era in agguato ovunque
“Raissa si chiese che differenza faceva se la uccidevano i russi o se la mandavano a morte i suoi fratelli”.
La Storia diventa storia, le persone vestono i panni di personaggi, ma possono riconoscersi nelle linee scritte di quest’opera che è davvero, come promette la quarta di copertina, “una testimonianza coinvolgente”.
La tradizione Cecena condanna le donne a un’assoluta sottomissione: anche le anziane hanno l’obbligo di alzarsi in piedi di fronte a qualsiasi maschio, anche un bambino. Per una donna cecena la strada percorribile è una e una sola: il matrimonio, sperando in un marito che non abusi del suo potere. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, dopo la guerra, dopo l’intervento dei fondamentalisti religiosi, la trappola culturale che incatena la condizione femminile è cambiata: è diventata ancora più crudele, troppo spesso mortale.
Nel mondo di Raissa non ci sono buoni; la parte peggiore prevale ovunque. La storia è raccontata bene, con chiarezza, senza eccessi: coinvolge, trascina, ci consente di accedere mondi molto lontani. Questa storia ci aiuta a capire che la guerra provoca la miseria di molti e l’arricchimento di pochi, quindi non può essere né santa né giusta, e che soltanto il desiderio egoistico e tenace di vivere può aprire spiragli di luce nel buio totale.
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Ci sono privilegi che non perdonano
La storia di una vita lunga quasi un secolo, che nasce nei primi anni del novecento, scavalca la seconda guerra mondiale e arriva ai giorni nostri. La protagonista è una donna ribelle ma non troppo, insofferente e spaventata, che fugge dal piccolo mondo dell’aristocrazia piemontese per inseguire un’esistenza solitaria ma autonoma in una piccola tenuta del senese, tra le meravigliose colline del Chianti. La fuga da un matrimonio combinato non le consente di trovare l’amore duraturo e sincero, ma riesce a trasformare una proprietà in rovina in un’azienda fiorente, che produce grandi vini, autentiche opere d’arte ottenute dalla terra.
L’ambiente, lontano nel tempo, è non soltanto descritto, ma anche fatto rivivere da una successione di immagini e di particolari, che raccontano di una vita fitta di privilegi e di costrizioni. Le convenzioni non erano una trama sottile agli inizi del secolo che ci siamo lasciati alle spalle, ma sbarre d’acciaio, che incanalavano la vita e circondavano anche i sogni.
Non è un libro per chi ama la velocità e l’azione. Lo stile richiede palati allenati, gusti ben definiti: ha un ritmo elegante, complesso ma fluente, molto curato nella scelta lessicale. I tempi della narrazione, complessi e distribuiti in modo non lineare, seguono il disorientamento temporale nella mente della protagonista, ormai molto anziana.
Il disvelamento procede sornione, trascina il lettore attraverso percorsi e linguaggi insoliti, stupisce con un finale che non ha niente di scontato. Non stupisce, invece, la disparità di giudizi ricevuti da questo romanzo, tipica delle opere che si distinguono per l’eccellenza.
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Una voce rauca da bambino vecchio
Un punto di vista insolito offre molti effetti collaterali gradevoli nella lettura di un romanzo: assaporare l’effetto d’insieme come se la si cogliesse al primo sguardo; apprezzare con maggior forza il valore di alcuni particolari; comprendere la realtà in modo nuovo.
Edito negli Oscar Mondadori, questo breve capolavoro contiene una preziosa presentazione dello stesso autore, che spiega di aver scelto “un’immagine di regressione” per raccontare la Resistenza. Non è dunque un caso se il protagonista un bambino senza infanzia, un orfano emarginato dai coetanei, che trova compagnia e calore tra i reietti adulti di un’osteria: Pin è un piccolo mostro simpatico dalla lingua lunga, che canta, strilla e insulta con “una voce rauca da bambino vecchio”. Il personaggio ha il compito dichiarato di rispecchiare la stessa immaturità vissuta dall’autore, che si autodefinisce “l’ultimo dei partigiani”; il lettore ci trova molto di più, fin dalle prime pagine.
Pin è un personaggio di rara bellezza: complesso e vivo, ben delineato nelle emozioni più profonde e nei comportamenti; un umile senza retorica, che non desta compassione ma ammirazione. Ha imparato molto sulla natura umana spiando la sorella prostituta, ma non ha perso la sua innocenza; la doppiezza e l’imprevedibilità degli adulti rimangono per lui scogli incomprensibili.
Pin finisce nella Resistenza per caso, entrando in un altro gruppo di reietti: il distaccamento del Dritto, un gruppo di “ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi”. Come si può facilmente intuire, la scelta di raccontare la Resistenza attraverso un gruppo così originale non è stata casuale: in questo modo l’autore riesce a rappresentare il meglio nel peggio, scavalcando stereotipi, generalizzazioni e retorica.
Non rimane molto altro da dire su questo romanzo, che non sia già stato detto da altri illustri commentatori o dall’autore stesso. Molti hanno criticato la rottura dell’unità stilistica con l’inserimento del dialogo tra il comandante Ferriera e il commissario Kim, due voci autorevoli che in effetti si distaccano in modo netto, nel linguaggio e nell’acume, dal resto della compagnia. La rottura c’è, lo stesso autore lo ammette, ma io devo ammettere che apprezzo sempre troppo questo tipo di “rotture”, proprio perché spezzano un ritmo uniforme e tradiscono le aspettative del lettore. Vi consiglio di non perdere la disarmonia di questo capolavoro: gustatela fino in fondo, ci troverete un retrogusto davvero unico.
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Un po' di follia non guasta.
Asinara Revolution è la storia di di una battaglia, raccontata dai due ragazzi che hanno fondato e gestito il gruppo Facebook “L’isola dei cassintegrati”. C’è molta realtà da scoprire in questo libro.
Innanzitutto, c’è la storia di una grande protesta operaia e dei suoi protagonisti. Da qui si innesta la storia del gruppo, che arriva a raccogliere più di centomila membri e riesce a raggiungere l’attenzione delle istituzioni e dei media tradizionali, quelli che operano “dall’alto”. Può essere molto interessante, soprattutto per chi non conosce l’ambiente, scoprire come può nascere, crescere ed esplodere un gruppo “virtuale”. Sì, le potenzialità dei social network sono davvero notevoli, per chi conosce bene il mezzo e la materia.
C’è la vita del gruppo virtuale, c’è quella del reality reale, c’è il lato peggiore della globalizzazione, c’è l’imperdonabile insipienza dei potenti, c’è la Sardegna, c’è l’Europa dei cervelli in fuga. E poi c’è l’Asinara, la sua storia, i suoi colori, la sua bellezza, i suoi asini albini “che ragliano alla luna”. C’è anche Enrico Mereu, ex guardia carceraria e scultore, che ha conquistato con coraggio il diritto di vivere nella sua isola: le sue sculture e la sua storia meriterebbero un libro intero.
La qualità della scrittura è buona nelle parti romanzate, ma nei dialoghi e nei racconti in prima persona non mantiene sempre il ritmo: la girandola di nomi e personaggi gira troppo in fretta, le scelte lessicali e l’ironia scadono qua e là.
In sintesi, un libro interessante, ricco di contenuti. Un libro da leggere. Consigliato soprattutto a chi vuole conoscere la vera storia e i segreti dell’Isola dei cassintegrati, per chi vuole scoprire qualcosa di più sulla Sardegna e sull’Asinara, per chi vuole conoscere le gesta di due giovani davvero “intelligenti, talentuosi e spregiudicati”:-)
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