Opinione scritta da DanySanny
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Simplex munditiis
Il manoscritto di questo romanzo breve è stato ritrovato per puro caso nascosto in una cartellina che l’Editore ha acquistato e che invece ha rivelato all’interno un testo notevole per acume, eleganza e capacità profetica. Purtroppo poco è dato sapere di Rosa Mangini, autrice sfuggente di quest’opera datata 1941 e probabilmente insegnante, vista la presenza di temi scolastici da lei corretti insieme al manoscritto. Rosa Mangini doveva essere una donna sicuramente colta: la conoscenza di almeno quattro lingue e la profonda e precisa percezione degli eventi storici, fanno pensare se non a un’intellettuale, almeno a una erudita pensatrice.
La prima difficoltà da superare per apprezzare questo libro è la lingua, che fedele ad una rappresentazione quanto più viva e realistica del mondo, ricorre spesso al dialetto della Bassa Padania, con precisa cognizione di modi di dire e luoghi ora conservati, ora scomparsi e divorati dalla fame del tempo. Eppure nel fiume apparentemente semplice e popolare di questo stile, si aprono improvvisi squarci di quieto lirismo, riflessioni insospettatamente profonde, scritte in un italiano di straordinaria scioltezza e che ricordano continuamente al lettore di non sottovalutare le pagine, ma di seguire con cura la storia. “Simplex munditiis”, semplice nell’eleganze, è il motto della poetica oraziana; ma potremmo dire altrettanto di Rosa Mangini. Ecco la scrittrice ci ricorda il gusto puro del raccontare, la grazia di un linguaggio che rifiuta evoluzioni artificiose o contorte spirali del pensiero, per approdare al tono fiabesco e pure crudo di una narrazione che, nella denuncia storica del fascismo, non rifiuta la calma di un paesaggio in collina in un giorno di sole.
La trama è semplice: un gruppo di giovani adolescenti affronta le giubbe nere di un fascismo sempre più colluso con i tedeschi, nel tentativo di proteggere la propria terra e la propria libertà da questa minaccia scura che, dapprima sfumata, si fa sempre più densa. E lo fa con la semplicità incisiva dei ragazzi, con uno scherzo che pure nutre in sé più coraggio della livida connivenza degli adulti. Nel mentre si intreccia una delicata storia d’amore, quella di due giovani che fioriscono sull’orlo della storia.
A voler sintetizzare il libro, quello di Rosa Mangini è un libro sulla Resistenza prima della Resistenza (che si svilupperà solo a partire dal 1943) e in questo si fa quasi profetico, come anche le intuizioni sul Partito d’Azione (che nascerò solo dopo la fine della scrittura del manoscritto e che invece viene già prefigurato) e soprattuto nella previsione delle nefande conseguenze dell’alleanza italo-tedesca. Eppure la piacevole sinfonia di questo libro è anche nei racconti del nonno di una dei protagonisti, nei suoi ricordi, nella memoria che si sedimenta e che con elegiaca malinconia sa ammantare il presente di una speranza mai vinta. Un libro dalla grazia delicata, tanto puro e limpido da sembrare, oggi, una rarità.
[Plauso finale all’editore che ha recuperato il libro, dotandolo anche di una prefazione e di una postfazione adeguate, nonché di un apparato di note che guida il lettore nell’intricato periodo storico e nelle insidie di un dialetto che talora è recalcitrante alla decifrazione]
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Naufragio nei simboli
Hugo von Hofmannsthal è un classico dimenticato: celebre librettista e autore teatrale, la sua vita è intrecciata a quella di un altro grande artista, il musicista Richard Strauss cui sarà legato da un lungo sodalizio artistico, fatto di tensioni, ma anche di capolavori. Se la sua Elektra è celebre, meno noto, ma per molti un caposaldo della letteratura del Novecento, è questo suo romanzo, “Andrea o I ricongiunti”, libro cui Hofmannsthal si dedicò per più di vent’anni e che pure resta incompiuto.
In una Venezia proteiforme e illusoria, città delle maschere, in uno spazio ariostesco e ingannevole che continuamente accoglie e nutre metamorfosi alchemiche, Andrea, un giovane tedesco, è chiamato al più classico dei viaggi di formazione, a scoprire cioè nel luogo geometrico in cui i destini si incrociano, la sua propria natura. La prima metà del libro, una sessantina di pagine, è quanto di compiuto resta: una scrittura limpida e veloce, di elegante e penetrante acume, in cui i personaggi compaiono e scompaiono in una intricata foresta di simboli. Ecco, l’Andrea è certamente un romanzo di metafore, organizzato su una rigida impalcatura intellettuale e dunque niente di quello che compare è semplice forma, o meglio, nel suo essere soltanto forma “esaurisce il problema”, richiedendo al lettore uno sforzo interpretativo non indifferente. Questa pagine regalano anche una scena di indefinita bellezza in cui due donne, quasi spiriti evanescenti, l’una angelica e l’altra demoniaca, compaiono senza soluzione di continuo ad Andrea, incarnando, nella loro fatua consistenza e inestricabile doppiezza, il tema centrale di questo libro: il continuo trapassare da uno stato all’altro, la necessità di assimilare il negativo per raggiungere la sintesi del positivo. Dove però avrebbe condotto il romanzo, il lettore è costretto a leggerlo nella parte successiva, articolata in frammenti fulminanti e talora di notevole bellezza, e che pure mancano, nella loro inorganicità, la capacità di rendere il romanzo pienamente intellegibile. Neanche gli appunti, sempre frammentari, che seguono nell’edizione italiana, riescono a compensare uno sforzo di lettura che si fa quasi titanico. Quello che si intuisce è che il libro sarebbe dovuto essere non dico mastodontico, ma certo corposo e che solo in seguito si sarebbe arricchito di personaggi enigmatici e di filosofiche profondità. Al centro il quadrilatero costituito da Andrea, il Cavaliere di Malta (intelletto platonico, guida spirituale, super-Io), l’ambigua Maria/Mariquita, angelo apollineo della forma da un lato e forma informe del dionisiaco l’altro e Nina, virginale presenza capace di conciliare corpo e spirito. Ecco tutti questi personaggi non rappresentano forse che emanazioni di Andrea, parti della sua anima, schegge di essere e personalità da riassorbire per raggiungere a più alti livelli di comprensione. A voler vedere lo scopo ultimo del romanzo, l’Andrea è un libro di ascesi mistica che riassume e condensa, se pure in forma disarticolata, la ricerca hofmannsthliana sul senso dell’essere.
Resta da chiedersi perché, nonostante tutti gli anni al libro dedicati, l’autore non sia riuscito a concluderlo. Molti vedono l’incompiutezza dell’Andrea come una cifra di valore dello stesso, così come accade per le ultime sculture di Michelangelo, volutamente non finite. Hofmannsthal non riesce a chiudere il cerchio, non riesce a trovare il linguaggio per dire quanto sarebbe seguito, o almeno non riesce a trovare parole adatte a ricondurre questa sapienza mistica e violenta al placido e semitrasparente fiume della sua prosa. Eppure a me pare che questa incompiutezza pregiudichi, e anche di molto, il gusto della lettura e che questo libro, nel suo simbolismo esasperato e nella sua lucidità così intellettuale, perda la carica emotiva necessaria per essere davvero apprezzabile. E credo anche che l’incompiutezza dell’Andrea sia la spia di una incertezza dell’autore, che forse non aveva raggiunto, lui per primo, piena contezza di quanto era intenzionato a scrivere. Nonostante questo, si intuiscono sia la grandezza dello scrittore e sia l’ambizione del libro e non mi sento dunque di sconsigliarlo, perché altri potrebbero trovare invece, in loro, qualcosa di molto in linea con la ricerca di Andrea e del suo tentativo, titanico, di essere lui stesso lo spazio dei rincongiungimenti di tante parti in un solo spirito.
Un plauso alla nota di Gabriella Bemporad all’edizione Adelphi, che non solo traduce divinamente il libro, ma conduce il lettore a una più intima comprensione.
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Il principio di indeterminazione di Dürrenmatt
Una delle mie passioni proibite e segrete è la fisica. Da buon studente di liceo classico, non ne sapevo molto, ma la dura legge dell’università mi ha costretto a compensare le lacune. Uno dei principi più affascinanti, almeno concettualmente, e che è oggi uno dei fondamenti della meccanica quantistica, è quello di indeterminazione di Heisenberg. Detto in maniera semplice, non siamo in grado di misurare contemporaneamente e con precisione la posizione di una particella e la sua velocità, perché per sapere dove si trova, devo illuminarla sempre di più e quanta più luce uso per osservarla, tanto più energia conferirà alla particella, che cambierà continuamente la propria velocità. E questo equivale a dire che su ogni evento, l’occhio dello scienziato-spettatore non è neutro, ma esercita continuamente un’influenza. Che, traduciamo ancora, ci ricorda (lo cito sempre, ma è uno dei principi cardine del Novecento) che il fatto è stupido e tutto è interpretazione. E, ancora in altri termini, che non c’è interpretazione senza indeterminazione, piccola o grande che sia.
A ben vedere questo brillante racconto di Dürrenmatt è tutto in questo, nell’incapacità di determinare con assoluta precisione la verità, perché tanto più la si illumina, tanto maggiore sarà l’ombra che su di essa si stende. In questo senso la realtà si trasforma in un ginepraio sempre più fitto, un cubo di Rubik che si risolve e disfa in continuazione. È una vecchia Pizia, smaliziata e cinica, limpida e pungente, a tentare di dipanare la coltre di nebbia che circonda il celebre mito tebano: Edipo, figlio di Laio, uccide il padre e sposa la madre; lei si impicca e lui si acceca. Eppure stavolta ogni personaggio in gioco (Edipo, Laio, Giocasta, Tiresia, la Sfinge) concede la propria testimonianza e ogni volta la storia si crea e disfa senza che sia possibile stabilire la verità, in un gioco di affermazioni, negazioni e ritrattazioni che hanno il ritmo seducente della vertigine. E quello che è ancora più divertente, è che comunque vada la storia, tra figli doppi e amanti e uomini evirati, la profezia che una vecchia Pizia ha snocciolato solo per soldi e per stupire con l’inverosimile, si avvera. E qui Dürrenmatt costruisce un curioso cortocircuito: se il mondo è figlio del caso e quello che accade è solo una delle infinite possibilità, com’è possibile che la Pizia, parlando a caso, abbia azzeccato? Ecco in fondo questo cortocircuito quasi si scopre un’identità: parlare a caso del caso può anche finire per essere una predizione. È che la verità è negli occhi di chi guarda, perché non esistono sguardi oggettivi. E così l’arte più sacra della Grecia, tanto più sacra perché sempre accompagna da una menomazione (la cecità di Tiresia, l’impossibilità di essere creduta di Cassandra), fa da controcanto e amplificatore a questo intrico impossibile. Di lato le consuete stilettate contro i totalitarismi e l’incredulità rispetto alla giustizia, ma certo quello che resta più godibile è lo stile frizzante, il senso brioso del ritmo, l’ispirazione geniale nella massima condensazione: è il principio di indeterminazione di Dürrenmatt.
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La blatta non ha sapore
Vorrei regalarvi, con questa recensione, almeno un frammento della gioia limpida e luminosa che questo libro mi ha regalato, anche se è faticoso e stancante, anche se quasi si vorrebbe che finisse quanto prima per riposare la mente e tornare a respirare. Clarice Lispector non è la scrittrice della grazia, come la Woolf, o la scrittrice della forza, come la Weil, ma quella della potenza: in lei la densità espressiva è più violenta della necessità letteraria e la pulsione viva che la nutre non conosce la pace calma di un amen. Lo stesso amen che per tutto il romanzo, senza mai dichiararlo, insegue la protagonista G.H., donna che in un giorno solitario scopre, nell’armadio della domestica, una blatta e che alla fine deciderà, dopo averla ferita ma non uccisa, di mangiare l’insetto. Se la trama è tutta qui, il libro è un percorso d’iniziazione, di ascesi mistica, un’esplorazione di profondità sconvolgenti che la conducono dalla repulsione più spontanea all’accettazione più sofferta, come se in quel liquido bianco e pastoso che esce dall’esoscheletro dell’animale si rivelasse il senso più puro del mondo. E già qui scopriamo il movimento più proprio di questo libro, il suo modulo espressivo: l’antitesi. Clarice Lispector ha superato le colonne d’Ercole del mondo che appare e si fa profeta difficile di un universo che presocratico, primordiale, umido e viscerale, un universo in cui gli opposti trapassano continuamente l’uno nell’altro e dove “Polemos”, padre di tutte le cose è solo l’ultimo gradino prima dell’amore più brillante. E noi seguiamo G.H., come adepti di un culto che ancora non capiamo, perché anche noi, come lei, sappiamo che la vita, così come è, è una prigione di segni e simboli e allora scortichiamola, per trovare in fondo, nel nocciolo della vita, nel nucleo incandescente dell’esistere, il sapore neutro della verità. O ancora, scopriamo che nel cielo più vuoto, abbiamo già oltrepassato la distanza tra il vero e il falso. Il miracolo, ci ricorda Clarice Lispector, è il millimetro che sta tra due millimetri consecutivi.
È celebre il comandamento di Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ecco, l’opera tutta della Lispector, e di questo romanzo in particolare, è una violenza continua dei limiti imposti dal filosofo: Clarice vuole dire l’indicibile, riappropriarsi della materia viva, cieca che anima il mondo, scoperchiare le apparenze dell’umanizzazione e affrontare il profilo neutro delle cose, dimenticare i lineamenti e i dettagli, perché solo nella purezza che i dettagli non permettono si raggiunge il massimo della comprensione. Ecco, prendete una tela di Mondrian, una composizione di quadrati rossi, gialli e blu: questo il linguaggio primitivo (e per questo stesso motivo preverbale) che Clarice ricerca. E ora, come Fontana, tagliate la tela e fissate il muro che sta dietro. Siete arrivati alla radice della poetica di questa scrittrice che, posso dire con tranquillità, è tra le più grandi del secolo scorso. Non è facile, mangiare la blatta, nutrirsi della sua materia bianca e insapore: e G.H. ci racconta tutta la difficoltà, la paura di perdere quanto di umano c’è in lei, il terrore di vivere nel caos, la paura sacra dell’uomo che scopre un abisso di inaudite proporzioni.
“Palerò in quel linguaggio sonnambulo che se io fossi sveglia non sarebbe linguaggio” e ancora “È un silenzio di blatta che guarda. Il mondo si guarda in me. Tutto guarda tutto, tutto vive l’altro; in questo deserto le cose sanno le cose. Le cose sanno talmente le cose che questo… questo lo chiamerò perdono se vorrò salvarmi sul piano umano. È il perdono in sé. Il perdono è un attributo della materia viva”.
“La passione secondo G.H.” è un libro mistico che un lettore imprudente potrebbe perfino cestinare. Ma Clarice è stata onesta, in lei capire è creare. E a ben guardare il titolo è come una citazione dei vangeli. “Dal Vangelo secondo Matteo”, dal “Vangelo secondo G.H." E arrivati a questo punto finalmente capiamo la passione prima avevano scambiato per un furore amoroso. No, qui la passione è quella della via crucis, la stessa che Cristo ha affrontato per scoprire infine, anche lui, Dio e la stessa che affronta G.H. per arrivare a mangiare il bianco informe del mondo. Via crucis che è dolore certo, ma un dolore che è la forma massima dell’amore. In questa sublime e fatale trasformazione, sta il senso del libro e anche il lettore, che ha subito nella lettura la stessa via crucis, orami crocifisso, può finalmente guardare il volto delle cose, essere il volto delle cose: mangiare la blatta è un’Eucarestia. Violentare Dio, per mangiare Dio e alla fine scoprire che si è un’emanazione di Dio anche se non si sa chi è Dio.
Un libro bellissimo, che so, e lo so davvero, non essere per tutti, ma che pure non posso non consigliarvi.
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Il dolore, sacro e intoccabile
Recensioni in una cartella
Per chi ha letto Le cronache di Narnia, anche da ragazzo, non sembrerà una novità l’attaccamento alla religione di C.S. Lewis, che nel dialogo con Dio e su Dio ha costruito non solo tutto il suo mondo fantastico (il settimo e ultimo libro della sua saga è praticamente un trionfo religioso), ma anche la continua ricerca di un senso della vita indefinitamente sfuggente. Il rapporto dell’autore inglese con la religione non è quello di una adesione acritica o di una accettazione passiva delle cose che accadono, piuttosto è una continua lotta contro la propria incredulità, una sfida inesausta alla propria fede. Nelle pagine di questo breve libro, diario per frammenti dell’elaborazione del lutto per la moglie scomparsa, il dolore della perdita diventa occasione non solo per rendere testimonianza di quell’alternasi continuo di emozioni contrastanti, rabbia, odio, disperazione, indifferenza in cui il lutto fa precipitare l’uomo, ma anche lo strumento per chiedersi dove è Dio in un mondo che ti si sgretola tra le mani. Dove è Dio di fronte all’uomo sulla croce e dov’è la fede quando tutto è dolore e sconforto. Ecco, la bellezza minuta di questo libro di Lewis, non eccelso, ma coinvolgente nella lettura, è il duplice binario su cui di muove: da un lato il dolore umano, troppo umano di una vita ridotta in brandelli, dall’altro la lotta di un uomo che per credere arriva a negare Dio, a immaginarlo malvagio, un vivisezionatore. Più di tutto di Lewis dobbiamo apprezzare l’onestà del credente che ammette di fronte all’atroce che la propria fede vacilla e che può anche dire, nello sconforto, che Dio non c’è, perché solo il credente può bestemmiare. Poi certo, tornare alla fede, come Lewis fa, può sembrare del tutto consolatorio, una scelta facile o ipocrita, ma chi siamo noi per giudicare gli strumenti che chi soffre sceglie per andare avanti. Non c’è nulla di più sacro e inviolabile del dolore per una perdita, un’iperlagesia dei sensi che una sola parola di troppo, un solo sguardo un po’ storto possono esacerbare. E allora rispettiamo le scelte di Lewis, seguiamolo, anche se il libro è troppo poco per reggersi da solo, anche se la struttura è raffazzonata, anche se non ci dice nulla di nuovo. Perché la verità è che di fronte alla perdita, la vita non è vivibile e ogni perdita è una nuova perdita. E siamo soli. O forse c’è Dio. Perché la domanda non è se soffra più l’ateo o il credente, la domanda è: dove siamo disposti ad arrivare, per sopravvivere?
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Una crudele mediocrità
Yasmina Reza è oggi considerata la più grande drammaturga vivente di lingua francese. E certo è innegabile che in lei il teatro è sempre messa in scena dell’opera e la scrittura ancella di un’esperienza in cui la recitazione e la vivificazione attraverso gli attori si compenetrano continuamente nel testo. Dunque al lettore che legga l’opera e non la veda rappresentata, è richiesto un certo grado di sforzo immaginativo per apprezzare al meglio sceneggiature altrimenti a rischio di una certa media monotonia. E invece a voler vedere bene, in questo libro della Reza, che inizia come una classica commedia da Sex and the City, le scene tra il grottesco e l’iperbolico non mancano e anche la risata, se possibile, riesce a volte a farsi libera e meno amara di quanto ci si aspetterebbe dall’autrice del famoso “Dio del massacro”. La trama è semplice, risale da subito sulle cosce di Andrea stese fuori della macchina del suo amante, nel parcheggio di un ristorante mentre litigano per la gelosia di lei e la lassità di lui. Peccato che mentre la nube sembra diradarsi, nello stesso locale si presenti una cara amica della moglie tradita del protagonista con annessi marito e suocera. L’imbarazzo manifesto, dapprima taciuto e dissimulato, cresce di scena in scena fino a esplodere nella tensione elettrica tra personaggi sempre più borderline e sovreccitati, chiusi in un solipsismo che, amaramente, non ha nulla di eccezionale e anzi è quello normale di un uomo in difficoltà economica, di una donna troppo puritana o di un uomo che non riesce ad avere il comando o ancora di una amante costretta a vivere ai margini della vita. E tutto per mantenere la facciata, la “bella figura” che dà il titolo al libro: non è tanto l’ipocrisia a interessare la Reza, perché questa viene data come connaturata, piuttosto al centro del mirino ci sono i meccanismi di autoinganno o i fragili equilibri della credulità, i meschini tentativi della preservazione personale e anche l’indefessa capacità umana di adattarsi a ogni disfacimento.
Yasmina Reza non si discosta molto da quello che sa fare: usare la commedia, distesa o cinica per scoperchiare la buona educazione delle relazioni umane e per far deflagrare un bagliore di cruda e sinistra verità. Lo fa bene al solito e con un gusto per la rappresentazione molto spiccato, ma i temi forse non troppo originalmente sviluppati restano tutti lì, sulla pagina, e conducono il lettore troppo vicino alla parola scritta per rendere le opere della Reza davvero memorabili.
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Le locuste divorano Hollywood
Per chi come me vive lontano da casa 10 mesi all’anno, tornare significa anche riscoprire la propria libreria, che ti aspetta insospettabilmente viva e seducente e scovare libri che magari ti eri dimenticato anche di avere. Come questo di N. West, “Il giorno della locusta”, comparso chissà quando e apparentemente molto distante dai miei gusti. Panoramica impietosa sulla Hollywood degli anni trenta, cinico e nichilista, il romanzo chiude la carriera sfortunata di uno scrittore poco apprezzato in vita e che invece oggi il Times pone tra i primi 100 del secolo scorso. Fitzgerald, amico di West (curiosamente i due morirono a un solo giorno di distanza), ha definito questo libro come il più bello scritto su Hollywood.
Quello che stupisce di più è come già nella prima metà del secolo scorso, l’idea della perversione dello spettacolo, della recita di cartapesta dei riflettori che abbagliano, ammaliano e portano alla perdizione orde di sfortunati invaghiti del sogno americano, fosse già così pervasiva e dell’acume con cui West ne intercetta i segni, le deformazioni, i lineamenti distorti. L’occasione è quella classica e semplice di un manipolo di uomini ammaliati da una donna capricciosa e bellissima proiettata all’ascesa e al successo. West è uno scrittore intelligente e anzi il romanzo, pur breve, è puntellato da scene memorabili, come quando Tod, il protagonista, rincorrendo la sfuggente signora, attraversa i set finti dei film in produzione, un regno di carta velina, plastica, trucchi, o come quando la sua ironia fa da controcanto ad una rievocazione della battaglia di Waterloo destinata a sopraffare la precaria stabilità della ricostruzione cinematografica, o ancora la crudele lotta tra galli, con becchi spezzati, ali tranciate, occhi cavati o la climax finale, con la descrizione di una massa informe pronta a mettere a ferro e fuoco Los Angeles, come nel quadro che Tod dipinge fin dal primo capitolo. Ora, pur tra tante scene belle, perché il libro non funziona? Sostanzialmente per l’incapacità di ricreare uno spazio credibile, di rappresentare personaggi con cui empatizzare, anche se negativamente, o in generale il gusto semplice del raccontare. Il giorno della locusta appare un po’ come un rosario: grossi grani separati da fili sottilissimi, con il baricentro tematico continuamente oscillante tra i personaggi e la critica sociale. Certo c’è continuità tra i protagonista e la folla che alla fine, come un banco di locuste affamate, mette a ferro e fuoco la città, ma il passaggio è troppo brusco, troppo studiato e consumato per essere accattivante. Quello che manca a questo libro è il collante, il non necessario, lo sfondo capace di ammaliare chi legge, un po’ come se dopo aver messo gli ingredienti in una planetaria, ci si fosse dimenticati di metterla in funzione. Non è un brutto libro, ma il senso è fin troppo chiaro, le svolte fin troppo strategiche e purtroppo il romanzo finisce per essere, un po’ come la gigantesca pantomima hollywoodiana, un esercizio ben imbellettato. Una maschera di Hollywood.
Morale: mai leggere libri che non vi chiamano. Lasciatevi scegliere.
P.s.: in questo libro compare, tra i personaggi, Homer Simpson, cui gli autori del cartone si ispireranno per il celebre personaggio oramai noto a tutti. Non a caso è anche il meglio caratterizzato e il più piacevole da scoprire.
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L'inferno giocoso delle possibilità
Due problemi mi appassionano molto: l’impossibilità del vero e la fallibilità della giustizia, le due facce di uno stessa medaglia che tentiamo di leggere per rispondere alla domanda: "cos'è l'essere?". La domanda può sembrare lontana dal testo di Dürrenmatt, ma scaviamo più a fondo a partire dalla massima nietzschiana “il fatto è stupido, tutto è interpretazione” e dalla sua evoluzione in Heidegger, “più in alto della realtà c’è la possibilità”. Nel momento in cui il dubbio sostituisce il pensiero come elemento fondativo dell’essere, la realtà delle cose è una parentesi di impossibile definizione. Certo il tavolo esiste, il gatto miagola, l’omicida ha sparato, ma tutti questi eventi, se non interpretati, non significano nulla. E poiché ogni interpretazione è la propria interpretazione, ne segue che l’oggettività del reale è impossibile.
Ora veniamo a questo romanzo, breve e brillante. La panne che inaugura la storia è in fondo l’aprirsi di diverse possibilità: il protagonista potrebbe scegliere di tornare a casa in altro modo, di dormire in una locanda, ma alla fine decide di chiedere asilo nella villa di un vecchio e corpulento signore. La panne è già qui l’irrompere del principio di casualità nella vita e quindi il motore di nuove possibili interpretazioni. Ma se è il caso a decidere tutto, allora la terra è muta del segno del destino e ancora più solo l’uomo nel suo incedere. Ora siamo nella villa, i vecchi si sono moltiplicati, sono quattro, tutti uomini di legge o legati alla legge, attualmente in pensione, che si divertono a rievocare i famosi processi della storia e a pronunciare condanne, assoluzioni , con un divertissement che ambiguamente oscilla tra l’ingenuo e il crudele. Quando capita, a processo viene chiamato un ospite di passaggio e allora il divertimento dei quattro cresce ulteriormente. Eppure il nostro protagonista, prima dubbioso e poi sempre più divertito, si professa innocente e il lettore davvero gli crede. Quando però tra portate pantagrueliche e bevute trimalcioniche (il Satyricon di Petronio non è un modello troppo distante) l’interrogatorio amicale prende piede, forse il nostro protagonista non sarà più così innocente. Forse ha commesso un delitto, forse è davvero un assassino, forse davvero ha premedito le mosse per l’ascesa economica. Eppure prima si era professato innocente. Il fatto è che, nel mondo del dubbio, i fatti sono stupidi ed è solo la ricostruzione a posteriori degli eventi, la loro interpretazione, che conferisce loro un senso. E la giustizia, che è in fondo ricostruzione di testimonianze, non è altro che un’interpretazione, ovvero una possibilità che può decidere anche della vita e della morte di qualcuno.
Fin qui "La panne" di Dürrenmatt sembra una riflessione quasi filosofica sulla verità e sulla giustizia, mascherata da una cena tra vecchi e portate meravigliose, anche divertente, quasi una commedia (e in effetti "La panne" è stata anche portata a teatro e al cinema, se pure talora con finali diversi perché, indovinate, il finale è una possibilità). Accade qualcosa di simile a quanto avviene in “Espiazione” di McEwan, in cui è l’interpretazione errata di un fatto a generare la catastrofe. Tuttavia il libro è anche una cruda riflessione sull’uomo, sulle leggi inappellabili che lo guidano. Con una svolta simenoniana, l’idea di un delitto, l’idea di un fatto tanto straordinario, può anche essere l’ultimo appiglio di un uomo altrimenti mediocre per sentirsi davvero vivo. E allora anche l’io, l’io che sa quello che ha fatto, può essere stupido e aprire se stesso allo spazio pericoloso delle infinite possibilità, come a dire che anche la confessione, il trionfo della giustizia, è stupida. E dunque sintetizzando, in 87 pagine Dürrenmatt racchiude più psicologia e filosofia che interi trattati, ma più di tutto è sublime la grazia narrativa, la trama ingegnosa, la trasfigurazione in storia dei concetti. Perché qui, davvero, l’ispirazione è sempre all’altezza del pensiero.
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Alla fine il vuoto
Molto ci sarebbe da dire su Pier Vittorio Tondelli e su questa sua opera prima, “Altri libertini”, pubblicata nel 1980 e riflesso crudo e cangiante di quella generazioni di giovani italiani dispersi nelle fanfare degli anni ’70, tra comitati, gruppi di intervento, aspirazioni artistiche, frustrazioni politiche. L’opera di Tondelli è, non a caso, continuamente in bilico tra la rappresentazione politica e quella sociale, o meglio, nel seguire i suoi personaggi, con la mollezza abbandonata di un trip da canapa, dipinge, suo malgrado, l'affresco di un certo mondo, fatto di droga, soprattuto, e di sesso, più di tutto. Tondelli è crudo nelle sue descrizioni, non risparmia nulla al lettore, tra travestiti che si prostituiscono per un quartino di droga, etero confusi o affetti da un insanabile machismo e gay che, incuranti di ogni malattia sessualmente trasmissibile, cambiano partner ogni mese, ogni settimana, ogni giorno. Di sesso omosessuale abbonda il libro, spesso sporco, stordente, un massacro volontario; tenero, raramente, quando una soffitta è riparo dal male del mondo e un abbraccio sembra tenere alla larga le tempeste più dure. Serve stomaco per oltrepassare certi passi, tra vene bucate e crisi di astinenza, stupri descritti così alla leggera, quasi fosse normale, come quando per salvare un amico che non si droga da troppi giorni e che ha perso il controllo di letteralmente ogni sfintere, un travestito non solo si prostituisce per ottenere una dose ma, appurata l’assenza di vene sul braccio del malcapitato, decide di masturbarlo in un bagno, con tanto di provocazioni erotiche, per trovare un vaso su cui fare l’iniezione. Non bisogna essere delicati per sopravvivere alla lettura, anzi inghiottire amarezza su amarezza e contemplare il silenzio, il vuoto sempre più famelico e spalancato che inghiotte ogni personaggio alla fine della sua storia, quel senso lacerante di un’assenza che è il lato oscuro da cui provano a fuggire, ma l’eterno aguzzino che li aspetta alla fine dei giochi, quando ogni illusione si è spenta e ognuno si ritrova da solo con se stesso.
Romanzo per episodi, sei in tutto, “Altri libertini” fu, ovviamente, accusato di oltraggio del pudore. Censurato, rese ancora più celebre il suo giovane autore e anzi ne fece l’emblema della comunità gay degli anni ’80, uno capace di scrivere su carta i timori e le agitazioni di un’intera generazione, la sua siderale impreparazione ma anche la sua voglia di contare qualcosa. Eppure Tondelli, scrittore a sua volta omosessuale, cui perfino la madre aveva detto che sarebbe finito come Pasolini e che morì poco più che trentenne per le complicanze dell’AIDS, non si riconobbe mai nel ruolo di intellettuale gay e anzi nell’edizione Bompiani successiva chiese di epurare le bestemmie e le scene più scabrose, come in un pentimento postumo che lo condurrà anche ad un riavvicinamento al cristianesimo prima della morte, nella sua odiata e bistratta, ma mai dimenticata, Correggio.
Cercando su Google, “Altri libertini” è spesso valutato più per il suo autore che non per l’opera in sé: alcuni, follemente, ne chiedono una “lettura gay”, altri ne vogliono una “valutazione politica”, altri ancora lo interpretano alla luce dell’autobiografia dell’autore. Tralasciando tutto questo, il merito maggiore di questo libro è certamente nel bellissimo stile che Tondelli dimostra di possedere, capace di variare nella mimesi linguistica più estrema, dal linguaggio giovanilissimo dei ventenni, alle pause liriche, fino al sarcasmo parodico dei modelli alti, passando per per tutta una gamma di toni e stili che lo rendono intellettualmente molto godibile. Per temi e contenuti, si salvano i primi tre episodi di questo romanzo antologico: gli ultimi tre, recuperando il modello droga-sesso gay-gioventù allo sbando non fanno altro che sfinire quanto già era stato detto e non aggiungono nulla, tranne forse nell’ultimo una serie di dichiarazioni poetiche abbastanza godibili. Un libro disturbante, che non sempre riesce a sfuggire al cliché più antipatico, violento e un po’ troppo ripetitivo, sicuramente non adatto a lettori troppo impressionabili e che sconta, a mio avviso, una certa protervia tutta giovanile e che in questa dimensione scricchiola oggi sotto il peso del tempo. Come ha da dire uno dei personaggi, nel solito tono casto e pudico del libro, “ho imparato più da un pompino che da vent’anni di esami”. Altri libertini docet.
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- no
L’Eszter che ci abita
All’inizio di tutto c’è un capriolo, fiero e ingenuo, come un animale silvano ridotto in cattività. L’anima di Angèla, ricca, bionda, generosa, l’immagine della bontà più pura e disinteressata. Eszter la invidia e disprezza, lei figlia di un padre avvocato troppo perso dietro alle sue piante per riuscire a guadagnare qualcosa, lei con le mani troppo callose, la vita troppo impegnata per una bambina della sue età, lei orfana dell’amore dei suoi genitori, troppo innamorati, troppo persi l’uno nell’altro per curarsi di lei. Muta d’affetto e di denaro, il vuoto la consuma e lascia spazio all’invidia, al rancore, all’insofferenza. La scava e indurisce, una lama tagliente. E così Eszter sceglie di liberare il capriolo, l’animale di Angèla, per dargli la libertà, si inganna, per rovinare la sua nemica, in realtà. Eppure quel capriolo, animale innocente, finirà sotto un treno e la colpa di quel crimine, di quella vita spezzata, sarà il peccato da espiare per tutta la vita. Anche quando oramai attrice ricca e affermata nella Budapest del secondo dopoguerra, Eszter si innamorerà di Lorenc, marito di Angèla e per un crudele gioco del destino sarà costretta a fare i conti con la sua Nemesi, nello scomodo e scricchiolante ruolo dell’amante.
Nella forma di un confessione schietta e impietosa, che non risparmia nessuna crudeltà, non ammorbidisce nessuna meschinità, in un tempo ondivago che fluttua tra passato e presente senza soluzione di continuo, ogni profumo o immagine, ogni atteggiamento o posa, un tono di voce o una particolare sfumatura del cielo, sono occasioni per un’esplorazione della memoria alla ricerca di un tempo che non è perduto, ma anzi perpetuamente ribadisce se stesso. Magda Szabò scrive bene perché tutto nelle sue storie, per quanto crudele o serio, non tradisce mai la volontà di raccontare, non cede mai all’esigenza di un messaggio da dare, ma anzi si deposita con grazia tenace nel lettore, come un impasto ben lievitato. E qui la forma particolare, tutta monologo e rimembranza, giova alla grazia del libro che andrebbe letto quasi d’un fiato, per non uscire mai da un’atmosfera morbida e ovattata. Come nel suo successivo “La porta”, al centro è la tensione tra due donne di classi sociali diverse, l’attenzione per la natura, il coraggio della franchezza, ma anche una gelosia che si fa odio e di un amore che, nato come una ripicca, diventa esperienza totalizzante e alla fine sincero. Quello che più colpisce è che mai si ha la certezza che la gelosia sia solo gelosia, che l’odio sia solo odio o l’amore solo amore, ma anzi tutto si continua e confonde e alla fine i peronsagai si stagliano sempre più vividi, con la loro irriducibile umanità.
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Carne dissolta: la sublimazione in Morselli
Guido Morselli ha pubblicato in vita solo un paio di libri: rifiutato da personaggi anche noti, come Calvino, Sereni ed Eco, la sua esperienza è la perfetta incarnazione dello scrittore incompreso, destinato a fama postuma. Personalità eclettica e distante dalle vie standardizzate della formazione culturale dell’Italia del primo Novecento, ha lottato per tutta la vita contro la seduzione del suicidio, la tentazione suprema del non vivere, perso nell’occhio nero della pistola con cui si toglierà la vita nel 1973, a 61 anni. Dissipatio H.G. (humani generis), il suo libro più famoso e oggi quasi di culto, fu concluso dell’autore pochi mesi prima del suicidio.
Un uomo, oramai stanco e sfinito, decide di togliersi la vita annegandosi in un sifone roccioso dove sarebbe stato impossibile trovarlo. Eppure proprio prima della fine, decide di cambiare idea, ritorna sulla strada di casa, si mette a letto, prova a spararsi con una pistola e si addormenta. Al risveglio si accorgerà poco a poco che tutta l’umanità è letteralmente dissipata, dissolta, perfino sublimata, e che è l’ultimo uomo ad aspettare un nulla di là da venire. Alla ricerca di qualche vestigia, di una parola umana, il percorso di consapevolezza del personaggio lo porta a oscillare tra due estremi indicibilmente distanti, la gioia d’onnipotenza, la monarchia fatta anarchia dell’unico uomo sopravvissuto, e la paura, il terrore, l’infinito sgomento della propria infinita solitudine. In un mondo in cui restano solo animali e piante, macchine indefessamente programmate per continuare la loro funzione nel tempo e oltre il tempo, il concetto di normalità sbiadisce e la truce pazzia di chi è sopravvissuto e non sa spiegarsi il perché può prendere la via della perdizione assoluta.
Il movimento del libro è del tutto paradossale: l’unico uomo che voleva morire resta in vita e viene chiamato a trovare un senso impossibile sulle macerie delle cose. Ma in fondo è sopravvissuto davvero, o magari è morto quello che vive è un mondo al di là del mondo? È l’ultimo eletto sfuggito al diluvio universale, nuovo Deucalione chiamato a ripopolare il mondo o l’ultimo dei dannati, condannato a un eterno contrappasso?
Il libro di Morselli affronta l’unico problema “camusianamente” rilevante, il suicidio e lo fa costringendo il personaggio ad un furioso alternarsi di stati angosciosi e placidi riposi, disperso tra dotte citazioni e ricordi, lui che non apre un libro da anni, dal Dostoevskij dei “Demoni” al Robinson Crusoe di Defoe, passando per Agostino, San Tommaso, Cartesio, Pascal e un’infinità di altri autori. Mi ha ricordato un film dello scorso anno, intitolato “Annientamento”, in cui un manipolo di donne è chiamato a esplorare uno strano bagliore arcobaleno che si sta sempre più espandendo e da cui nessuno è mai tornato. In questo bagliore la pulsione d’annichilamento che le anima, la pulsione di morte che Freud ravvisa nelle cose, conducono ognuna di loro alla dissoluzione. Così fa Morselli: la pulsione di morte del personaggio, la sua pulsione di morte, deve esplorare un universo nuovo, in cui vigono, giocoforza, altre leggi. L’esito è la paralisi, forse salvifica, forse infernale, di uomo che attende su una panchina un suo vecchio amico, uno psichiatra, forse un’allucinazione, forse una riconciliazione. E intanto la natura si riprende la terra, il petrolio si fa verde, l’asfalto di fa di polvere e una malinconia straniante e ondivaga come le maree lunari si affaccia, minacciosa o quieta, non è dato saperlo, alla fine del tempo.
C’è una freddezza irreale nelle pagine di Morselli, nella gelida lucidità con cui affronta il suicidio, col supremo distacco con cui crocifigge ai quattro angoli della logica il suo patimento. Una freddezza che ha molto della misura oraziana, ma che in più punti da marmorea si fa livida e che spesso sfrutta l’ironia e la leggerezza per smentire e depistare il lettore dal carattere proprio dell’autore: è cioè che nella ricerca volontaria di un solipsismo assoluto si nascondono i germi di un egotismo capace di realizzare, ancora secondo Camus, l’assunto originale di ogni suicidio: “bisogna amarsi molto per sucidarsi”. Che si sia d’accordo o meno, questo di Morselli resta un libro più bello nel suo significato generale che non nella lettura in sé, un libro scritto con eleganza, ma in cui solo raramente la poesia riesce a superare la patina dell’autocompiacimento.
Non credo sia un caso che di lui disse Piero Chiara: “Morselli era un uomo difficile, carico d’orgoglio, convinto di una sua superiorità intellettuale destinata a restare intangibile da parte degli organi editoriali e sdegnosa di ogni successo”. Eppure un autore che non mancherò di approfondire in futuro.
Essere uno zero
Per tentare di fare un passo appena nel complesso intrico di significati che potrebbe celarsi nello “Jakob von Gunten”, può essere d’aiuto al lettore un principio cardine della comunicazione e cioè l’impossibilitò di non comunicare. Il cupio dissolvi che anima il protagonista, ben condensato nella volontà di essere niente più che uno zero, costruisce una coreografia letteraria che continuamente si sottrae alle sue conclusioni, come in un continuo movimento della macchina da presa che rifiuta di mettere a fuoco il problema. Sgranato, sfocato, inintelligibile, il cuore impossibile del romanzo si trova in un altrove che esiste solo nella mente del lettore, abituato a indagare significati nascosti, simboli criptici, misteriose associazione. Eppure la verità è che in questo libro i simboli non significano nulla, sono idoli inconsistenti e tutto si radica in un pragmatismo inesausto che vuole condurre il lettore a non interrogarsi, non fare troppe domande. Lo costringe anzi a quello che gli studenti dell’istituto Benjamenta, Jakob in primis, fanno ogni giorno: ripetere a memoria nozioni inutili, studiare e ristudiare gli stessi concetti, occupare la mente per tenere il pensiero a bada. Quale è l’insegnamento che viene impartito nell’istituto? Quale è il segreto che si nasconde nelle stanze interne? Il fatto è che Walser, indefesso prestigiatore, costruisce lo spettacolo e suscita le domande, ma poi non spiega il trucco perché semplicemente non c’è trucco. Al cuore dell’istituto Benjamenta, al centro dell’esperienza di Jakob, non c’è nulla. Uno zero assoluto. E su questo vuoto si spalanca il libro.
Robert Walser è considerato uno dei più grandi autori svizzeri di lingua tedesca insieme al suo connazionale Dürrenmatt. Ha scritto migliaia di pagine, costellazione di microstorie che tentano di ricostruire un disegno e che allo stesso tempo demoliscono ogni possibilità di disegno. Non credo sia un caso che Walser fosse un autore molto amato da Kafka, che amava molto lo Jakob von Gunten e che nel suo “Il castello” recuperò l’idea di uno spazio geografico chiuso, il castello-istituto, che sfugge ad ogni semplice simbolismo o facile metafora. L’istituto Benjamenta non è né la vita, né la crescita, né un subdolo grande fratello, è piuttosto uno spazio indifferenziato in cui il pensiero lotta per negare se stesso, in cui la prassi è potenza di negazione. Walser passò ventotto anni in una clinica psichiatrica, distrutto, stanco come una stufa spenta e più volte ebbe a dire che nessuno poteva davvero pretendere di conoscerlo. E allora tutta l’enigmaticità delle sue opere, i significati reconditi, le interpretazioni più svariate, il vuoto cupo che lasciano al lettore, sono forse gli estremi esiti di chi sa che non c’è nessuna verità possibile, che il fondo delle cose è uno zero assoluto. E la manciata di vuoto con cui il lettore resta in mano è la voce di chi non ha saputo essere capito.
Detto questo, il romanzo in sé procede in modo del tutto particolare, abbastanza fastidiosamente, lo stile è quasi infantile, ma molto studiato, i temi accennati e mai analizzati. Resta un senso di inconsistenza, come se di tutto non fosse rimasto niente, ancora uno zero assoluto e allora l’unico modo per capire è analizzare il negativo del libro. Eppure il negativo del libro non basta a renderlo una lettura del tutto soddisfacente.
SCALA DI GIALLI ALLA CHRISTIE - 4
Il titolo originale di questo romanzo di Agatha Christie è “Crooked House”, che suona come “La casa sghemba” e in effetti la prospettiva da cui va guardato è storta, come la casa che è il cuore e la tomba del libro: sbilenca come i suoi abitanti, inquietantemente adagiata su un fianco. A bene vedere, tutto è il romanzo è la ricerca di una fusione tra carattere e ambiente, tra forma e personalità, quasi ad anticipare le più moderne teorie sulla criminalità: così quando un vecchio e ricchissimo signore di origine greca, Mr. Leonides, viene trovato morto, la sfilata dei personaggi sospetti e indagati si riflette continuamente nelle stanze labirintiche di questa casa dove niente è come appare, dove tutto è recita, sia essa per sfuggire a qualche dolore sepolto, sia essa la fragile facciata per preservare intatto uno scampolo ultimo di serenità. In fondo a Crooked House tutti sanno, tutti sospettato, ma nessuno dice, perché a volte la verità è più dolorosa di ogni capacità di accettazione e perché ci costringe ad ammettere che nessuna innocenza è senza peccato e che le ombre più scure si nascondono proprio là dove brilla il sole più intenso. E stavolta davvero, in una cantilena infernale, il finale agghiacciante fa calare il sipario più cupo su una storia che si fa fatica ad accettare.
Libro orfano di Miss Marple e Poirot, Crooked House scosse il pubblico dell’epoca, perché parve che la scrittrice stavolta si fosse spinta troppo oltre. E invece con suo disincanto, con la sua cruda lucidità, Agatha Christie ricorda, una volta ancora, che a volte i moventi sono futili bolle di sapone e che in certe morti non c’è la tiepida consolazione di un perché. L’unico grosso difetto di questo libro è la scelta di far raccontare la storia ad uno dei personaggi, quasi fosse un diario, ma lo stile ne perde in acume e in lucidità. Certo il finale compensa, ma peccato, perché poteva essere ricordato, per spessore e caratterizzazione degli ambienti, come uno dei suoi libri più belli: come nel paradosso di Zenone di Achille e la tartaruga, la Christie ci costringe a riconoscere uno iato insanabile tra la logica della ragione e l’accadere concreto della realtà.
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I poeti laureati non sanno il dolore
Dopo la pubblicazione di “Il formaggio e i vermi” di Carlo Ginzburg nel 1976 (appena ristampato da Adelphi), esempio oramai classico e, a detta dei miei amici storici, insuperato, di microstoria, la grande Storia, quella dei condottieri e delle battaglie, dei proclami e delle imprese, ha lasciato spazio, nelle linee di ricerca più recenti, ad una prospettiva mi verrebbe da dire manzoniana, e cioè l’idea di ricostruire un contesto culturale, lo spirito e la voce di un’epoca, non con mezzi puramente descrittivi, ma interpretando quei piccoli e umili uomini cancellati dai libri. Non è un vezzo, né tantomeno il tentativo di sottrarsi a un compito difficile, ma la necessità imperiosa di rimuovere le patine delle ricostruzioni, le barriere delle interpretazioni che ora a destra, ora a sinistra, hanno strumentalizzato la storia e ne hanno compromesso l’intrinseca forza pedagogica. Come a dire che arrivati agli anni 2000, la storia non può salvare nessuno se non aiuta a rivivere e ripercorrere, empaticamente, un’epoca. La lezione è sempre quella, eschilea, della conoscenza che si plasma attraverso il dolore. Ed è in questa ottica che si pone il libro di Anna Maria Balzano, il quale, pur nella sua brevità, condensa la vita di Caterina Martinelli, donna del popolo, madre alla ricerca di cibo per i figli, vittima impotente di una storia che travolge chiunque. La forza miniaturizzata di questo libro è proprio nella sua nuda e cruda trasparenza, nella sua impossibile (e pure ineccepibile) oggettività: è con il colpo di fucile che apre chiude il libro, con il silenzio ingiusto che lo segue, che il lettore si trova a dover vivere su di sé il dramma di una guerra che, a forza di essere detta, non è più sentita. E allora questo tempo breve che dà il titolo al libro ci appare con scomoda, pervasiva consistenza e ci costringe per una volta ancora a sentire su di noi il peso nauseabondo di un’umanità troppo spesso disumana.
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Rimbaud, la mia tenerezza
Mi limiterò, con questa recensione, al solo “Una stagione all’inferno”.
La scrittura di Rimbaud appare davvero come un miracolo, sospesa com’è fra una grazia apollinea e un fuoco che erompe e divampa dal mistero dionisiaco dei sensi. Nato in un piccolo paesino di provincia, troppo stretto, troppo asfittico per le sue ambizioni, Rimbaud troverà a Parigi una prima casa, quella del poeta Verlaine che lo ospita quando il ragazzo non ha ancora compiuto diciotto anni e che si ritroverà invischiato in una relazione tanto torbida quanto disfunzionale, stregato dagli occhi semiazzurri di un giovane che tiene nella penna la bellezza di un Dio che non conosce riposo. Da questa relazione nasceranno delle poesie, scritte a quattro mani, che riescono a rendere sublime anche quanto di più pornografico possa esistere, ma soprattuto una contaminazione letteraria che oltrepasserà non solo la pesante eredità baudeleariana, ma anche i confini del decadentismo e del simbolismo. Sarà quando Verlaine sparerà due colpi di pistola a Rimbaud, dopo una rocambolesca fuga a Londra, che le loro strade e le loro vite cambieranno per sempre: Verlaine, rinchiuso in carcere per tentato omicidio e omosessualità e Rimbaud, in fuga per l’Europa, fino ad arrivare in Africa dove deporrà la penna per sempre e morirà perso nel commercio degli schiavi.
La premessa biografica è indispensabile per capire la forza lucida e lacerante della scrittura di Rimbaud: non dimentichiamo che tutto quello che ha scritto, lo ha fatto tra i 18 e i 20 anni, dopo più nulla. “Una stagione all’inferno” è il frutto più compiuto, esasperato, doloroso, annientante di una sofferenza direi ontologica. L’abiezione, il disordine dei sensi, l’alterazione del proprio stato mentale con ogni droga possibile non è per Rimbaud fine ornamento edonistico, no, piuttosto è il tentativo di accedere a quel fondo inespresso del reale, alla pura consistenza delle cose che, nella loro pura datità, finiscono per essere trasparenti. Ma soprattuto Rimbaud vive con dolore l’assenza di Dio: l’inferno di cui parla è la terra degli dei fuggiti, la stagione della povertà estrema, quella in cui il peso di un destino soverchiante, metallico, minaccia di stritolare l’uomo. E allora, come è per Nietzsche, è l’uomo a doversi fare creatore, volontà di potenza, a dover mordere e rompere il ciclo dell’infinito. Eppure Rimbaud è troppo fragile per arrivare all’oltreuomo, in lui l’unica resistenza possibile è la carità, il pianto di chi non può aiutare barboni e prostitute, la cristica percezione della propria sconfortante, ineludibile, piccolezza. E allora questo ragazzo, che davvero ha posto lo sguardo su pensieri troppo complicati per i suoi anni, che prima di tutti conosce il laccio strangolatore dell’essere-che-ciecamente-accade, non può che tentare, con la sua lingua che è puro ritmo, di portare una scintilla di fuoco nel buio del mondo. Ma quale prezzo ha pagato, redivivo Prometeo, per tanta luminosa prescienza.
Quello che più ho amato di questo libro è tutto il silenzio che sta oltre le parole, l’infinita empatia che ho provato per Rimbaud e l’incommensurabile tenerezza che me lo rende tremendamente caro. Quaranta pagine che potreste leggere per capire la titanica, infantile e meravigliosa arroganza di voler stringere tutta la verità del mondo in un solo corpo e in una sola anima. E, curiosamente, una ricerca vicinissima a quella di una scrittrice come Clarice Lispector che, per una curiosa coincidenza letteraria, ho letto da poco.
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Clarice Lispector, Acqua Viva o Vicino al cuore selvaggio
Verlaine, Poesie
Baudelaire, I fiori del male
Scala di gialli alla Christie - 3
Una ricca zia muore di ischemia cerebrale, l’eredità va alla nipote, ma poco dopo muore la giovane dama da compagnia e tutti i sospetti cadono sull’ereditiera. In mezzo c’è un uomo e di parla di delitto passionale. Poirot è chiamato ad aiutare l’avvocato della donna a difenderla quando tutti gli indizi sono contro di lei.
Mescolando una storia classica alle aule di tribunale, Agatha Christie apre qui per la prima volta un genere destinato ad avere enorme fortuna, non solo al cinema (con lo splendido “Testimone d’accusa” di Billy Wilder), ma anche nelle serie tv, prime fra tutte “Law & Order”. Per altro la scrittrice conosce bene, con profondità d’istinto piuttosto che filosofico, la natura umana e non manca di scavare con precisione nelle pieghe fangose e spesso crudeli dell’animo. Inoltre questo libro, per quanto più debole dal punto di vista del giallo (mi pare ci siano due o tre buchi abbastanza evidenti, ma le trame, confesso, mi interessano relativamente), offre un interessante spunto di riflessione, molto moderno e, purtroppo, non sfruttato dalla Christie, che è invece scrittrice molto classica: l’idea cioè che ogni testimonianza è una visione soggettiva, interpretativa della realtà, e che quindi la verità sia a tutti gli effetti impossibile. E se la verità impossibile è la voce di un testimone in un processo penale, allora anche la giustizia vacilla pericolosamente. Buona parte del romanzo è occupata dalle indagini di Poirot che sente raccontarsi la storia via via diversamente da ogni personaggio. Questa prospettiva “cubista” è più nella malizia del lettore che negli intenti della scrittrice, mi rendo conto, ma presagisce linee di pensiero molto contemporanee (dal Bolano della “Pista di ghiaccio” all’”Espiazione” di McEwan). Interessante anche la riflessione sul fine-vita e sul suicidio assistito di cui più volte parlano i personaggi.
Insomma, dipende da quale occhio si vuole usare per leggerlo: “La parola alla difesa” non è un giallo perfetto, ma sicuramente ha più di qualcosa da dire e accompagna con gusto per qualche ora. (Mi disturba invece la scarsa cura dell’edizione italiana che sopprime la citazione shakespeariana da cui è tratto il titolo originale, “Sad cypress” o le sviste di traduzione, come to pretend tradotto come l’italiano “pretendere”, ma che significa in realtà “fingere”.)
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Mite agnello di Dio
Recensioni in una cartella
Racconto lungo, tra gli ultimi scritti da Dostoevskij, “La mite” si sviluppa a partire da un’intuizione scenica brillante, quella di un uomo che, ai piedi della moglie appena suicidatasi come una martire con una reliquia in mano, ricapitola e riflette sui passi che la hanno condotta a quella fine. Un uomo permaloso, cinico, egoista, una ragazza sposata per un motivo sfuggente e una fine che minacciosa già sembrava gravare su una coppia fragilissima. Non c’è amore in questa storia, ma il dramma di una relazione che li ha imprigionati, estenuati, contraffatti. Storia come tante, epilogo, purtroppo come tante altre. Dostoevskij fa parlare il marito in un lungo soliloquio, fatto di crescendi e fughe, balbettî, prosopopea e contraddizioni, a voler rappresentare una realtà di oggettività impossibile perché filtrata, distorta, da un uomo che ricostruisce la storia inseguendo continuamente un punto irraggiungibile. Ecco, per fare il punto l’uomo parla e per fare il punto Dostoevskij scrive: da un caso di cronaca che lo ha colpito, sviscera una storia personalissima di rancori e rimorsi, di sguardi e gesti violenti, ma anche l’epopea muta dello spirito santo, l’epifania di qualche Dio che è tutto dentro l’uomo e che fallisce la sua agnizione. Il problema questa volta è il modo con cui Dostoevskij scrive: concettoso, verboso, asfissiante, adeguato al personaggio, certo, ma incapace di reggere una narrazione che, per quanto non lunga, non ha altri eventi e voci al di fuori di quella del protagonista. Ne segue un testo fragile stilisticamente, che si contorce e allunga in modo non necessario e che alla fine raccoglie poca legna e tanta, troppa cenere. D’altra parte, nell’infinito macrocosmo dei suoi grandiosi romanzi, quella della “mite” è una storia già scritta. Questa è solo un’appendice.
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Scala di gialli alla Christie - 2
Per chi sa vederli, i libri di Agatha Christie sono sempre collegati da microscopici indizi che, disseminati nelle pagine, aiutano il lettore a districarsi nella matassa labirintica delle indagini e delle testimonianze. Il giallo della Christie è sempre “dramma” della parola e messinscena teatrale, lontana dalle sofisticherie moderne, un gioco di confronti e raffronti. Qui l’indizio c’è fin da subito, con Hercule Poirot in vacanza su un’isola della Cornovaglia che osservando i corpi stesi al sole, pensa inevitabilmente ad una macelleria. La storia è classica: una donna avvenente e fatale nella sua bellezza, Circe o Elena, viene strangolata su una insenatura del mare, ma tutti i sospetti più ragionevoli, un marito tradito, un amante deluso, una figliastra maldisposta sembrano avere un alibi di ferro. Diversi gli indizi ma molti, anzi moltissimi, i depistaggi e le false intuizioni e diverse anche le storie che si intrecciano, tra un traffico di stupefacenti che sembra avere in una piccola grotta il suo centro propulsore e misteriosi delitti del passato.
La ricostruzione di Poirot, al solito geniale, è stavolta difficilissima per il lettore, la storia procede spedita e dritta fino alla fine, nel più classico dei modi. Certo che amaro, anzi, amarissimo il disincanto della Christie che non dimentica mai, in alcun momento, che il male si annida, biblicamente, dovunque. Nulla di nuovo sotto il sole, davvero, secondo il celebre monito giovannesco: “E gli uomini amarono più le tenebre che la luce”.
Rispetto ad altri romanzi, la storia manca forse di una certa bellezza nell’ambientazione ed appare quasi troppo standard. Non certo il migliore, ma va da sé, un piacere intellettuale sottile e pervasivo accompagna il lettore nella sua avanzata verso lo scioglimento.
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Dio è un bambino
Avanzano. Due coaguli di cenere e ossa, due scheletri consunti, scalcinati, esangui. Avanzano. Più magri a ogni passo. È la fame, è il freddo, è la paura. I giorni senza sole, ectoplasma evanescente dietro una cortina di fumo sempiterno. Grigio, gelido, polverizzato. Le notti cieche sotto la pioggia nera, terra sfarinata in vento e vento che si è fatto acqua, tuono, tempesta. Crepata la vita lungo i solchi bruciati del suolo, vuoto d’uccelli il cielo, muto di canti. Smaltati, indifferenti gli dei. Una distesa senza confini, un oceano nero battuto da ronde e cannibali, donne schiavizzate a uso e consumo, ragazzini di scorta per la frustrazione, uomini legati, tagliati, cauterizzati per sopravvivere alla fame. Vecchi orbi, fulminati, bambini che non conoscono i colori, persi, dispersi, abbandonati. Un padre e un figlio, sotto un telo di plastica, a leccare l’ultima stilla di una lattina. Non tagliarti attento. Un carrello, due coperte, una pistola. Per uccidere gli altri, per far finire se stessi. Il padre e il figlio, una bestemmia e una preghiera. Il silenzio che non conosce sorriso. Basta il dolore a far ammalare un uomo, basta la fame a farlo diventare una bestia, cinica, senza scampo. Brina anche l’inferno, scortica i piedi, due scarpe distrutte. Avanzano, verso sud, verso il mare. Verso la vita, in piedi per grazia e misericordia. Una lingua di fuoco sopra i profeti. Un bambino che suona il flauto alla fine del mondo. In lui la speranza, verbo di Dio. In lui la luce di questo mondo in estinzione. Nato postumo, prima e dopo della grandine caustica che ha bruciato i campi, le case, gli uomini, la pietà. Una coperta stesa sopra un cadavere. Il bambino conosce il sacro. Il bambino è il sacro.
Cormac McCarthy costruisce un romanzo lacerante, scuoia e ricuce, lembi di pelle e squarci di scene pronte a spegnersi come un cerino. Li segue, li bracca, li accompagna, la camera stretta, ossessiva, esasperante. Due esseri infinitesimi nell’universo enorme e famelico, una ginestra nel cuore di lava, un abbraccio nella tempesta di nero. E lo fa con una lingua di inaudita forza, fatta di un lessico stretto, che rimbalza nel labirinto claustrofobico delle azioni e si fa grido solitario, gemito inarticolato, canto sospeso sul vuoto. Non è la speranza di un futuro a tenerli in vita, ma una fede tutta immanente, uno spillo inespanso negli occhi del bambino. Il coraggio più grande è alzarsi ogni mattina, portare un bambino in un posto impossibile, proteggerlo, salvarlo, farlo crescere in fretta. Resistere, anche se sputi sangue. Resistere, anche se la pelle è una sagoma d’ossa. Resistere, anche se si è diventati cinici, egoisti. Eppure solo il bambino sa, lui che ha visto l’orrore ma è ancora intatto dal male, che tra uccidere e morire c’è una scelta più dura. Vivere.
Libro meraviglioso. Non c’è da dire altro.
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Scala di gialli alla Christie - 1
Agatha Christie ha il dono di una scrittura limpida e cristallina, senza ornamenti, ma sempre garbata, essenziale e composta, capace di riconciliare anche il lettore più stanco con la letteratura e, direi, con la vita. Certo si parla sempre di omicidi e delitti, ma la ricomposizione finale, l’idea di un narratore che accompagna saldamente il lettore nell’impervio ginepraio dell’assassinio, hanno un magico potere taumaturgico. Specialmente qui, lontani dai sinistri bagliori di libri magistrali come “Dieci piccoli indiani” e “Assassinio sull’Orient-Express.
La forza di questo romanzo è la genialità lucidissima della trama: un eccentrico e mefistofelico signore invita a cena, in una casa che ricorda gli arredamenti dannunziani, quattro “segugi del crimine”, tra cui il solito Poirot e quattro individui che, invece, hanno già ucciso, ma sono rimasti impuniti. Mentre i personaggi sono impegnati in una accanita partita di bridge, il proprietario viene silenziosamente ucciso. Una sfida audace per i quattro investigatori e contemporaneamente l’idea di un’urgenza omicida di sfuggente giustificazione. Il romanzo si dipana ordinatissimo alla ricerca di quei delitti sepolti e di una accuratissima indagine psicologica dei personaggi, uno studio della mente e dei caratteri davvero appassionante che sembra l’unica strada per capire il colpevole. Qualcuno che ha ucciso un tempo, che ha ucciso ora e che è pronto a farlo ancora.
Agatha Christie scrive un romanzo tesissimo, che diventa quasi spasmodico nelle pagine finali. La soluzione, forse, si intravvede, ma le carte si mescolano continuamente tra bluff e rilanci, cadute e rinascite, che confondono continuamente le idee. Eppure il vero colpo di genio è l’introduzione di un personaggio, quello di una celebre scrittrice di gialli, alter ego della scrittrice: è lei che disvela, ironicamente, i meccanismi nascosti delle trame poliziesche, che smonta la superbia proverbiale di Poirot e che infrange la quarta parete dell’autore-tessitore-d’inganni. Un libro che trova il giusto equilibrio tra caratterizzazione, intreccio e contenuti e che non nega la sua appartenenza alle opere migliori della scrittrice. Per chi si intende di bridge, un’occasione per provare a dedurre la vita dal gioco e per gli appassionati di gialli un’occasione meravigliosa per entrare nell’officina creativa della scrittrice. Ingiustamente poco apprezzato.
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Eros e Thanatos
Romanzo sontuoso e impervio questo di Bufalino, come una grande sonata che non manca di ricordare in ogni movimento la sua prosopopea barocca e la sua esigente pesantezza. Tre anime almeno mettono mano al pentagramma narrativo del testo: il gusto acribico, filologico, per la parola desueta, inusitata, arcana, che l’autore sceglie prima ancora per il suono che per il contenuto; il tono elegiaco e malinconico che si insinua prepotente in ogni immagine e poro della trama per vagare lungo le piane di una vita alla deriva; e infine la voce dissacrante, satirica che già dal titolo, tronfio e altisonante, prova a calibrare un testo tanto impegnativo quanto difficile da gestire. L’atmosfera di sogno, quasi onirica, la sospensione della realtà in una parentesi inespansa è già tutta nell’incipit, che si apre con “O”, come a continuare un altro discoro, un’altra storia, un’altra vita. E in effetti in uno spazio sospeso vivono i personaggi, rinchiusi in un sanatorio palermitano per guarire o morire di tubercolosi: mai come qui lo spazio geografico si fa riflesso di una condizione spirituale, quella dell’uomo che, condannato a morte, si ritrova in biblico tra essere e non essere, vissuto da una febbre di libertà che continuamente nega se stessa. E nella morte, l’amore, perché il bacio tra Eros e Thanatos è un fiore che sboccia e l’unica pietà che pare possibile.
"Diceria dell’untore" è un libro meraviglioso nella sua complessità stilistica, nel suo prosare ostico e, per altro, sfrondata di un ricco paratesto di poesie ed epigrammi, indici tematici e altro, che l’autore o l’editore saggiamente hanno deciso di spostare in appendice. Bufalino scrive un libro di maturità senile, decantato e distillato, curato in ogni singola frase alla ricerca di una perfezione formale tanto levigata da risultare quasi fastidiosa. Molto avrebbe da insegnare sull’uso delle parole, su accostamenti e immagini particolarmente efficaci e insoliti che costellano la narrazione e che proprio in questa unione di altissimo e bassissimo, sacro e profano, trovano la loro forza esplosiva.
Certo il libro soffre, per sua stessa natura, di una gravosità a tratti opaca, di un certo compiacimento che a volte precipita in una verbosità esasperata quando invece dovrebbe lasciare spazio al silenzio e alla parola muta. Un rischio che, come detto all’inizio, Bufalino tenta di stemperare con l’ironia, ma anche qua non sempre è sufficiente. Quello che ne risulta è un romanzo che a volte rischia di collassare per forza di gravità, ma che certamente merita lettura, col giusto stato mentale, se non altro per le bellissime pagine disseminate qua e là, pure vibrazioni di materia. Come quando, riflettendo sulla luce, il personaggio principale immagina che da qualche parte dell’universo, ad anni luce di distanza, un osservatore vedrà ancora il tempo passato e che anche noi, in un certo qual modo, in un punto via via più lontano dell’universo, siamo eterni.
p.s. Mi ha un po' disturbato, ma per una mio personale concetto del rapporto autore-lettore, l'indice dei temi in appendice, o anche le note esplicative che Bufalino ha sentito la necessità di apporre. L'interpretazione del lettore è tutto, bisogna resistere alla tentazione (che ben capisco) di indicargli la strada.
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Tutt'intorno a un ragazzo androgino
Questa estate mi è capitato di leggere prose e stili molto complessi, a tratti misteriosi: dai virtuosismi cubisti di Faulkner, al melodioso barocco di Virginia Woolf, fino alla scrittura indocile, primordiale, amazzonica di Clarice Lispector, ma mai come qui ho dubitato delle mie capacità di comprensione. Klossowski scrive un libro particolarismo, un pastiche letterario che salda insieme generi diversi: dal giallo-mistico-documentaristico del lungo prologo (che inganna con la sua facilità di lettura), alle criptiche, oscurissime dissertazioni della parte centrale, fino ai toni francamente parodistici della parte finale. Quale sia la natura di questo libro, ancora mi sfugge, ma certo rispecchia il gorgo centrale attorno a cui ruota tutto il romanzo: il Bafometto, entità multiforme, prometeica, tesa in continua metamorfosi, emblema di una forza ineluttabile come il divenire incessante delle cose, ma, contemporaneamente, vessillo di una cultura alchemica, sotterranea, massonica, che scopre la divinità solo nell’abiezione più turpe. A complicare il quadro, già criptico per chi, come me, è digiuno di conoscenze gnostiche (come Carpocrate e altri cui spesso si fa riferimento),c'è il mondo immaginato da Klossowski, fatto di corpi che, dopo la morte, diventano soffi, vuoti e trasparenze, preda di un vorticoso peregrinare, che si uniscono e disciolgono e che infine tornano corpi e ancora si dissolvono nell’aria, nell’attesa di quel Giudizio Universale che ricongiungerà le anime alla carne. Questa rarefazione dei personaggi comporta il passaggio ad un linguaggio aereo, con cui è necessario prendere confidenza e che continuamente si infrange nelle allusioni difficilissime dei monologhi dei personaggi. Non contento, Klossowski annulla il tempo e fa incontrare personaggi distantissimi: al Gran Maestro dell’ordine dei templari, si affianca una inedita e inintelligibile Teresa d’Avila, a Filippo delle Due Sicilie si affianca Federico l’Anticristo, dal medioevo al seicento e infine al pieno novecento.
Questa peculiare visione del tempo si rifà, non a caso, alla filosofia nietzschiana (di cui Klossowski è cultore) dell’eterno ritorno: l’idea cioè che dopo la morte di Dio professata dal filosofo, è l’uomo fattosi oltre-uomo, nell’infinto imperio della propria volontà di potenza, ad aver deciso ogni azione così da trasformare quello che è stato in un “così volli che fossi” e a portare così il peso di un eterno ripetersi dell’uguale che non è altro che l’eternità di ogni istante. Così, nella dissoluzione della linea del tempo, Klossowski confonde passato e futuro, si avviluppa in concettose discussioni e costringe il lettore ad uno sforzo intellettuale enorme. Per altro Nietzsche compare anche in una delle scene più riuscite del libro, come enorme formichiere che si professa Anticristo (celebre opera da lui scritta), ma che viene scambiato con un altro Anticristo, Federico di Svevia. In questo credo di cogliere una ragione peculiare del romanzo: la parodia infinita dei modelli, il giocoso mescolare secoli e visioni filosofiche, il gusto teatrale per scene che finiscono per essere un enorme Satyricon.
Da ultimo, ma non per importanza, il perno di tutta la storia: il ragazzo appena quattordicenne che seduce i Templari col suo corpo, lo stesso in cui decide di penetrare Teresa d’Avila, lo stesso che diventa incarnazione del Bafometto, androgino e poi ermafrodito, che più volte viene impiccato, spogliato, usato come tramite di oblio e perdizione. Un ragazzo dai lineamenti efebici che fa da base per le numerose scene di porno-teologia del libro, tra latte e seme, seni e falli. Non so, e probabilmente non ho compreso, il fondo di questo libro; sicuramente un romanzo che richiede conoscenze culturali forti, una buona dose di pazienza e anche un certo disincanto per non dare troppo peso a quelle molte scene che, mi sia concesso, sono di un trash quasi raccapricciante e non adatte, immagino, a tutte le sensibilità. Per i coraggiosi, c’è una bellissima descrizione della famosa statua del Bernini raffigurante l’estasi di Santa Teresa e un uso del linguaggio metaforico a tratti geniale.
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Le spire della disinformazione
Recensione in una cartella
Sono legato a Umberto Eco per più di un motivo e per questo mi costa abbastanza questo commento. “Numero zero”, ultimo romanzo da lui scritto, riassume e condensa molti temi cari all’autore: le teorie del complotto, il ciarpame della falsa informazione, le tecniche della manipolazione e della mistificazione del vero. Quello che era un tema collaterale di “Il cimitero di Praga”, libro secondo me ingiustamente criticato, è qui cuore stesso di un romanzo al solito ironico e sardonico, che imbastisce in fretta, col tono scanzonato di chi può ironizzare sulle questioni più serie, la storia di un pugno di giornalisti e diseredati impegnati nella realizzazione di un numero zero, primo numero di un giornale, del tutto arbitrario e piegato agli interessi del potere. Nel mezzo il solito gusto per il citazionismo, per il feuilleton ottocentesco, per una certa inclinazione mon chéri che provano a dare corpo a una trama esilissima. Io credo che questo “Numero zero” sia forse da leggere più come un compendio di difesa dalla manipolazione dell’informazione che come un romanzo vero e proprio, se è vero che in nessun punto il libro dimostra forza narrativa o mordente. Certo si sorride, a volte si impara anche molto su dinamiche altrimenti oscure, ma manca il godimento puro della penna, quella stessa veemenza compositiva che Eco riconosceva a Dumas. Detto altrimenti, Eco sfilaccia “Il pendolo di Foucault “e “Il cimitero di Praga”, il suo “Costruire il nemico” e altri saggi in un breviario, mi si conceda, un poco tirato via, come se allo scrittore non interessasse più la storia, ma solo un insegnamento. Peccato il libro sia così didascalico e chiaro, peccato manchi il consueto, meraviglioso peregrinare nei labirinti della storia. Libro intelligentissimo, ma tutto lì. Un canto del cigno in tono minore.
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Le onde si ruppero a riva
In questo libro, quello che Virginia Woolf ha scritto nel suo stile più proprio e personale, forma e contenuto trapassano continuamente l’uno nell’altro, anzi, il problema primo e ultimo è rendere sulla carta lo scorrere del tempo. E se il tempo è durata, esso è allora anche ritmo: così la narrazione dissolve i confini dello spazio e articola una sinfonia di commovente eleganza in cui sei voci, o meglio, sei silenzi, si alternano e rispondono nel corso di una vita, sei personaggi che piano piano si stagliano nitidi con i loro tormenti e le loro radici: le donne con le brocche sul Nilo di Louis, la terra umida di Rhoda, la terra rigogliosa, domestica, di Susanne, l’ordine misurato di Neville, il fuoco scintillante di Jinny e il gusto per le storie, per i racconti, di Bernard. A legarli il desiderio prima, la nostalgia poi, di Percival, presenza muta, sogno, ideale, estasi di giovinezza. Ma parallelamente a questo tempo umanissimo che dalla nascita si continua alla vecchiaia, c’è un altro tempo, quello maestoso e ineluttabile della natura, le onde che si infrangono a riva e trascinano con sé qualche brandello di felicità e qualche lacrima di pianto. Si apre con il rosa dell’alba e si chiude col nero della notte "Le onde", perché parlare del tempo è parlare della vita e quindi, soprattutto, della morte.
Ora, una narrazione tanto originale ha oltrepassato i confini del flusso di coscienza: queste sei voci sono esse stesse coscienze, corpi di pura percezione, o forse forme diverse di una stessa anima che convivono in una persona: il libro è cieco perché lo sguardo è tutto interiore, così come le riflessioni-preghiere dei personaggi. Il problema, se vogliamo, è paradossale: un romanzo come questo, fatto di scrittura altissima e cristallina, perpetuamente tesa sul filo di un esacerbato lirismo, si assesta su un tono “medio” del tutto barocco. Ne segue che nei momenti di tensione, negli snodi cruciali, la scrittura, per rendere il momento, deve oltrepassare se stessa, ma non può oltrepassare quello che già è perfetto senza negare se stessa e quindi finisce forse per soffrire di una certa monotonia. Una monotonia di cui penso Virginia Woolf fosse consapevole e che il lettore deve imparare a gestire, diluendo la lettura, soffermandosi con calma e pazienza, interrompendo se necessario.
Rispetto a Clarice Lispector, come mi è capitato di scrivere qualche giorno fa, la scrittura non è primordiale, selvaggia o sfavillante, no, piuttosto è molto meditata, digerita, rimuginata e proprio per questo nonostante si muova per rarefazione ed espansione di confini, per movimento perennemente centrifugo, resta sempre un fondo opaco e scuro, un cielo smaltato e indifferente: così le pagine si animano di falene, e non farfalle, di bagliori violacei e di vuoti siderali. E poiché la scrittura in Virginia Woolf è sempre, almeno in parte, autobiografica, temo non sia un caso che il personaggio più acquatico del libro, Rhoda, ninfa umida, si suicidi (non è uno spoiler, perché non c’è trama alcuna), come farà la Woolf, annegandosi, ovviamente, in un fiume. Esito estremo di una scrittrice di meravigliosa intensità che proprio nelle ultime pagine del libro scopre, credo, l’approdo a un nuovo stile, solo presagito certo, che forse l’avrebbe portata a ben altre forme di scrittura.
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Giustizia ovvero Dio ovvero la politica
Per una volta, comincio la recensione con un aneddoto personale. Sono sempre stato un tipo da filosofia e molto poco da storia, nel senso che potrei parlarvi un’ora dell’Essere in Heidegger e forse cinque minuti della Rivoluzione Francese. Questo per dire che questo libro è molto lontano dalle mie corde e non l’avrei mai letto se non me lo avesse chiesto un mio amico, a corto di tempo, che lo doveva leggere per un esame universitario. (Okay, nella realtà mi ha regalato un libro e così mi ha comprato. Sono debole.)
Comunque: il libro ripercorre la storia della Giustizia, un tema imponente e di stringente attualità se si considera il complesso rapporto tra diritto e morale nel tempo della tecnica (e con essa eutanasia, aborto, ecc.) e il difficile rapporto tra potere giudiziario ed esecutivo: la storia italiana recente ha dimostrato con forza quanto la spettacolarizzazione dei processi, l’occhio del pubblico e il controllo delle reti mediatiche possa impattare sul concetto di giustizia. L’autore sceglie di ripercorrere il tema attraverso un ricco apparato iconografico, oltre 100 immagini prese da manoscritti medievali, opere a stampa, ma anche dipinti e sculture dal medioevo all’ottocento, cosicché tutto il libro appare come un lungo commento alle immagini. Questo da un lato rende l’opera più agile e fruibile, anche da un pubblico non addetto ai lavori, dall’altro rischia di frammentare il discorso e far perdere il filo.
Un problema generale dei libri scritti da accademici è proprio la difficoltà che essi trovano di uscire dall’ambito universitario e di scrivere opere chiare, che colgano le linee di continuità della storia senza soffermarsi troppo su digressioni ultraspecialistiche che hanno effetti deleteri sull’attenzione. In questo, il libro tentenna: scegliendo di seguire percorsi tematici (la spada della giustizia, la benda, la bilancia), frammenta lo stesso secolo in più capitoli cosicché la prospettiva diacronica appare distorta in una ricostruzione cubista che rende talora difficile seguire il discorso. Specialmente il periodo che va dalla fine del Medioevo alla Controriforma viene descritto in maniera alquanto complessa e con una certa ridondanza. Sicuramente l’autore è competente e il libro non manca di spunti.
In particolar modo è curioso il complesso passaggio di significati dall’ambito religioso a quello giuridico e cioè come il processo per eccellenza, quello di Gesù, il processo che ha condannato il più giusto tra gli uomini, abbia plasmato non solo il linguaggio del diritto (pena, confessione, giudizio…), ma anche il contesto in cui la pena si realizza (le grandi manifestazioni collettive del medioevo, in cui l’imputato è invitato a pentirsi pubblicamente prima e poi dinnanzi al confessore per chiedere il perdono). La storia della giustizia è anche la storia di un potere che la distorce, la sfrutta e della ricerca inesausta di una equità di giudizio che sembra impossibile. Ed emblematicamente apre e chiude l’opera l’immagine della benda, simbolo da un lato di una giustizia imparziale, che non distingue il ricco dal povero, dall’altro di una cecità della prassi che sacrifica l’imparzialità al denaro.
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La spontaneità e l’intuizione
Clarice Lispector pubblica questo libro intorno ai ventiquattro anni (ma la stesura risale a quando l’autrice non ne aveva ancora compiuti diciannove), un libro miracoloso, a dirla tutta, non tanto per la precoce età dell’autrice, che pure è notevole, quanto per l’atmosfera di luminosa sospensione in cui galleggiano le pagine. Un miracolo che è però molto sacro e poco divino, o meglio, di un divino in ogni sua parte immanente alla realtà, e non trascendente. D’altronde le premesse filosofiche di questo libro sono da ricercare in Spinoza, che di fronte alla frattura fra res cogitans (il pensiero) e res extensa (il corpo) di stampo cartesiano, fa collassare tutto in una res divina: deus sive natura, Dio è la natura. Lispector fa propria la filosofia spinoziana e il libro continuamente annulla i confini fra corpo e ambiente, così la protagonista è ora un’onda del mare, ora un raggio luminosa, ora il suono di un orologio.
La suggestiva quarta di copertina definisce Calrice Lispector come una “Woolf amazzonica”, ma in realtà la medesima premessa (il movimento come forma delle cose, il ritmo puro dell’essere) porta a due stili molto diversi. Nella Woolf, e penso in particolare a “Le Onde”, la scrittura procede per dilatazione, espansione, rarefazione, per progressivo aumento di volume cosicché la coscienza si gonfia come una bolla via via più lieve; in questo libro, invece, lo stile procede, passatemi il termine, per colliquazione, come se la coscienza di liquefacesse continuamente in spazio e lo spazio si condensasse in coscienza senza soluzione di continuo. La differenza è di consistenza: in Lispector lo stile ha una sua gravità, un peso, procede per apnee e il lettore si ritrova preda di una corrente che può annegare.
La trama è, al solito, pretestuosa: Joana è una bambina prima, una ragazza poi, una donna infine, una i cui occhi sanno colmare gli
uomini di domande, che vive in una realtà più antica del tempo, alla ricerca di parole pure, che non conoscono linguaggio, di azioni che semplicemente accadono. Un'architettura certo precaria e instabile, vacillante a tratti sul finale, ma capace di stupire a ogni paragrafo, come se ogni riga fosse il primo passo su un pianeta vergine, primordiale, disabitato, una terra che nessuno ha mai detto, più profonda di noi, “cieca come un sasso che rotola”. Ecco, il valore incommensurabile di questo libro è la ricerca di una verità che può venire soltanto prima del verbo e che continuamente nega la parola per intuire il fondo delle cose nel ritmo. E l’intuizione è appunto il modo di procedere di Clarice Lispector: i vincoli causa-effetto si sciolgono e la realtà si dispiega come un teorema matematico, per squarci e illuminazioni. Lo scopo è sempre il medesimo: dire l’indicibile. Quello che in “Acqua viva” sarà indagato con un linguaggio esplosivo e antiletterario, la natura pura delle cose, qui è ancora in bilico con gli ultimi residui della drammatizzazione romanzesca.
“La visione consisteva invece nel cogliere il simbolo delle cose nelle cose stesse”: non una foresta di simboli, ma la crudezza delle cose in sé. E così, la ricerca psicologica di coscienze che fioriscono dal flusso stesso del divenire, una psicologia acutissima, trapassa già in una ricerca ontologica condotta con una prosa poetica. E in almeno due capitoli, “La zia” e “L’uomo”, l’autrice raggiunge, sulla pagina, la perfezione. Vicino al cuore selvaggio delle cose, dove tutto è entropia e divenire, Clarice Lispector prova ad afferrare, su fragili foglie prede della bufera, i segreti dell’essere.
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Woolf, Le onde
Innamoratevi anche voi
Questo di Conte è un saggio di estrema bellezza, affascinante nei contenuti quanto elegante nella forma. Devo a questo saggio almeno due pilastri della mia personale “poetica” e l’innamoramento per un autore latino troppo spesso dimenticato.
Innanzitutto la memoria letteraria: come suggerito da Eco, i libri parlano sempre di altri libri e in uno scrittore il testo è sempre eco di altri testi che vi si connettono e richiamano, così da significare non soltanto quanto di letterale c’è nelle parole, ma da richiamare altri autori in una sinfonia polimorfa che disvela continuamente altri significati. È il principio narrativo dell’Eneide, che dalle sue prime battute, “Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris”, reinterpreta il sommo modello dell’epica, Omero, le armi dell’Iliade e l’uomo, il vir, dell’Odissea. O Livio Andornico che preso dalla riscrittura dell’Odissea, traduce “polytropon” con “versutum”, l’uomo versatile, dal multiforme ingegno, Ulisse. Ed è lo stesso principio per cui anche chi non ha letto Anna Karenina intuisce il tema del libro: i libri, quelli buoni, sono sempre la voce di altri libri.
Secondariamente la tensione tra la trasparenza e l’ostacolo. Il discorso letterario è, per sua natura, una forma di comunicazione che richiede attenzione e riflessione, che impone al lettore di “perdere del tempo” per ricostruire, ricollegare, interpretare. Proprio per questo il discorso letterario fa uso di figure retoriche o costruzioni complesse: non perché vanamente ripiegato su stesso, nella propria criptica incomunicabilità, piuttosto il contrario: crea un ostacolo strutturale alla comprensione per stimolare il lettore all’analisi critica. Per questo l’ipallage, figura retorica cardine dell’epos virgiliano, non è un vezzo, ma la forma mentis di una scrittura che rifiuta l’appiattimento. Perché l’usabilità è sempre usura.
Infine, nelle sue peregrinazioni tra Virgilio, Ovidio e Catullo, Conte ci regala anche pagine luminosissime su Lucano, poeta morto giovane, nipote del più famoso Seneca e autore di un’opera, la Pharsalia, che recupera l’epos virgiliano, ma lo ribalta in una scrittura truculenta, che fa del paradosso e dell’eccesso la sua cifra distintiva. In quelle guerre “plus quam civilia”- io tradurrei “fraterne”- Lucano disegna la parabola discendente dell’impero, la crisi della sua autorità e la sua voce, così atroce, così programmaticamente dilaniata, non trova altra forma che l’espressionismo esagerato per gridare la fine feroce di un’epoca.
Ecco, vi invito a leggere questo testo, per innamorarvi anche voi di Lucano, per penetrare in una letteratura che troppo spesso vediamo distante, per riscoprire quello che abbiamo studiato e che era rimasto parola muta su un libro. Vi invito a lasciarvi affascinare dalla cultura dottissima, ma mai narcisistica, di Conte, dalla sua prosa raffinata, dalle sue analisi puntuali: scoprirete anche voi la cocciuta bellezza di un mondo, quello latino, che sa ancora parlarci. E perché no, per divertirvi nel gioco seducente dell’esegesi.
[Credo che purtroppo il libro sia oramai fuori stampa, ma se lo trovate in qualche bancarella o biblioteca, prendetelo!]
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È amaro il fondo delle cose
Il libro contiene due opere teatrali scritte da Agota Kristof: “John e Joe” e “Un ratto che passa”.
John e Joe, di ispirazione beckettiana, è il dialogo quasi metafisico tra due barboni ben tenuti che siedono al tavolo di un bar, discettando sul modo migliore per pagare il conto. La scrittura sintetica, ma sempre arguta e attenta, deve rendere molto bene sulla scena perché molto spazio lascia alla capacità interpretativa degli attori, con una levità rara. Kristof non ha paura di lasciare agli spazi bianchi, ai silenzi, al ritmo delle battute tutto il carico dell’interpretazione e sicuramente non teme il rischio di incomprensione talora radicato nella sintesi. La situazione cambia quando uno dei due personaggi vince alla lotteria in maniera bizzarra. L’opera dell’autrice nota per la sua lacerante “Trilogia della città di K” è in realtà un’accurata riflessione sul tema del possesso e, di riflesso, degli ordinamenti politici che tentano di regolarlo: tanto il comunismo quanto il liberismo sembrano per l’autrice rilevare un fondo oscuro che rischia di annientare ogni relazione umana. E lo fa dire ai personaggi, che stanno prendendo il caffè: uno dei due non mette zucchero, e lo sente amaro, uno ne mette troppo e lo sente dolce. Allora i due personaggi uniscono i due caffè e lo bevono di nuovo: per l’uno sarà troppo dolce, per l’altro ancora troppo amaro.
Un ratto che passa complica invece la scena della rappresentazione, che da un lato è ambientato in un carcere, dall’altro in un salotto borghese, con una pletora di personaggi colti in medias res, tra battute sagaci e inevitabili incontri in società, in un’atmosfera sospesa e surreale in cui il confine tra vero e falso, tra realtà e fantasia diventa sempre più labile. Tra travestimenti e disvelamenti, niente è come davvero sembra, fino a un finale in cui tutto collassa e la psiche, frantumata, si ricompone. E questo valzer che all’inizio sembrava grottesco e di amara allegria, si scopre alla fine di una serietà spaventosa, aprendo con poche battute la lacerante distanza tra la morale e il diritto. Perché a volte le Leggi non sono giuste, perché a volte la giustizia è una pedina del potere.
Due opere diverse, ma animate da uno stile intelligente, calcolato, che lascia più spazio agli attori che non al testo. Certo, le opere non hanno la portata tragica o surreale di altri autori, come Beckett o Ionesco, ma restano una lettura gradevole non priva di spunti di riflessione.
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Le metamorfosi del reale
Calderón de La Barca è tra i maggiori autori teatrali, insieme a Lope de Vega, del secolo d’oro spagnolo, periodo fiorente dell’arte iberica, erede del nuovo spazio del mondo dopo la scoperta dell’America, un mondo orizzontale, partattico, modernissimo e non più quello verticale, di subordinate, del medioevo, cristallizzato nella distanza incolmabile fra uomo e Dio. Un mondo che si scopre labirintico e ariostesco e non a caso Calderón apre la sua opera più celebre con un “ippogrifo volante”, cosicché fin dalla prima battuta il libro si pone su un piano irreale, illusorio, che non è metafisico, quanto piuttosto un giochi d’ombre dove la veridicità è sospesa e tutto è possibile. Fin da qui Calderón pone il gioco di riflessi e specchi su cui tutta l’opera è costruita, a voler rimarcare nella struttura, prima ancora che nelle parole, il tema dell’opera, ovvero la vita che è puro sogno, un agitarsi di burattini ai quali nemmeno la datità del corpo permette di certificare la verità dell’esistenza. Considerato l’Edipo Re del teatro Barocco spagnolo, in realtà l’opera sembra avere più affinità con una altra grande opera dell’età classica, le Metamorfosi di Ovidio. Nell’autore latino la Metamorfosi, intesa come passaggio di stato, come immagine dinamica del divenire, di una realtà che continuamente si trasforma, lo spazio è un dedalo di inganni, illusioni, in cui la verità continuamente passa e nega se stessa. Non a caso l’opera di Ovidio è piena di specchi, il lago in cui si riflette narciso, o Pigmalione, lo scultore che plasma, a sua immagine, la realtà, venendone continuamente sopraffatto.
Nelle pieghe barocche e scivolose di questo mondo, un mondo di continue trasformazioni (e per questo di implacabili agnizioni), Calderón mette in scena le sue illusioni: Sigismondo, principe su cui grava una profezia nefasta, è fatto rinchiudere dalla nascita in una cella, per evitare che possa aspirare al trono; parallelamente Rosaura arriva in Polonia, travestita da uomo, per vendicare l’affronto subito da Astolfio, erede, in assenza di Sigismondo, al regno. Da qui Sigismondo sarà liberato (significativamente sotto sedativi, in modo tale che la realtà gli sfugga di mente) e Rosaura tornerà donna e ancora Sigismondo tornerà in cella e Rosaura assommerà le fattezze della donna e le armi dell’uomo. Nel mentre la scoperta dell’uno come principe e dell’altra come figlia del carceriere di Sigismondo. Tutto questo per dire dell’estrema mobilità della trama, dei giochi di disvelamento e delle storie che vengono a galla tanto ché ad un certo punto Rosaura (come Troilo prima di lei), ci vede doppio. Agnizioni esplicite che diventano anche l’occasione per i personaggi di scoprire ulteriormente se stessi. E così Calderón, pur riconoscendo l’illusorio e futile gioco della vita, sogno e poco più, non cede ad una possibile deriva nichilistica, ma anzi fa dire a Sigismondo che, pure fosse un sogno, non per questo l’uomo non dovrebbe comportarsi bene. E, parallelamente, sviluppa una riflessione di cruciale importanza, che già in Dante aveva creato accese diatribe teologiche: il libero arbitro di fronte alla predestinazione. In età di Controriforma, l’opera rasenta quasi la blasfemia. Sigismondo, rinchiuso per una profezia degli astri (e l’astrologia ha molto spazio nell’opera), tenta di essere salvato dal padre dalla saggezza dell’uomo, che può opporsi al destino, ma, proprio in questo tentativo, finisce per manifestare le più turpi azioni. Può allora l’uomo opporsi al volere del fato? Calderón risponde affermativamente e lo fa riconoscendo alle azioni positive, alla conoscenza, alla verità la capacitò di determinare il corso degli eventi.
Nonostante le riflessioni importanti che l’opera racchiude, siamo lontani dalla tempra filosofico-esistenziale di Amleto (che pure ha punti in comune con Sigismondo) o dalle invenzioni linguistiche di Shakespeare, e siamo anche distanti da quella tensione spirituale che l’arte spagnola coeva ha dimostrato nelle tele di El Greco, Zurbaràn o De Ribera. Calderón è più conciliante, meno ostinato, meno problematico e il tono favolistico dell’opera, complice anche uno stile che procede in versi e troppe rime baciate, rischia davvero di ridurre l’opera ad una favola. Detta in breve, lo stile non sostiene il peso dei contenuti e alla fine lascia un vago senso di insoddisfazione. Non perché non ci sia materia, ma perché qui la sostanza è tutta nell’interpretazione del lettore.
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Inter faeces et urinam
Volume numero 1 di quella bella collana che è “Biblioteca Adelphi”, “L’altra parte” di Kubin è a tutti gli effetti un libro unico, sia perché il solo scritto dal disegnatore, più noto per le oniriche visioni che popolano le sue opere, sia perché la storia segue una trama del tutto peculiare, un viaggio fantastico che, come in una parabola biblica, si apre con la Creazione e si esaurisce in un’Apocalisse di immani dimensioni. Il movimento del libro di Kubin è quello vorticoso di un gorgo che trascina sempre più a fondo e che, nel farlo, sprofonda nella più cupa e proteiforme visionarietà, tra incubi, apparizioni ed eventi incredibili che dilatano il campo del non detto, lo spazio inabissato e primordiale dell’inconscio. E in effetti “L’altra parte” appare proprio come un’esplorazione di quell’Es insondabile descritto da Freud nel medesimo periodo, come una catabasi inesorabile nelle più viscerali delle proprie paure.
Un disegnatore, alter ego dell’autore, riceve l'invito da un misterioso intermediario a vivere in un misterioso Regno, il Regno del Sogno, nel cuore dell’Asia, su cui governa un suo amico d’infanzia, Patera, divenuto, per alterne vicende, spaventosamente ricco. La capitale del Regno, Perla ci si dispiega dopo che i personaggi son caduti in un sonno profondo, a voler rimarcare, fin da subito, la dimensione onirica del testo. Una città opaca e smaltata, rocambolesca, agglomerato di case in declino e blocchi di vita consumata, tra parti della Bastiglia e della Torre di Londra, una città apatica e labile, che in ogni istante pare sul punto di disgregarsi. Gli abitanti, tutti caratterizzati da una certa mania, da una peculiare inclinazione, vivono come marionette nella mani di un misterioso incantatore la cui magia penetra nei lori corpi, diffonde nelle loro menti, metastatizza nel loro inconscio. In uno stato di veglia apparente, i personaggi latitano nel grigio opaco e indistinto di un cielo senza colori, di una natura spenta, di un tempo collassato, protetti da un muro altissimo che li isola dal mondo esterno. In questo contesto sarà l’arrivo di un ricco americano a mettere in moto le latenti forze di disgregazione che animano Perla e a far precipitare la città in un’Apocalisse tormentato e irrevocabile su cui misteriosa vigila la popolazione degli uomini dagli occhi azzurri che vive appena fuori la città.
“L’altra parte” è l’inconscio, certo, e il sogno, seguendo Freud, è un mezzo di indagine indescrivibilmente potente per penetrarne i segreti. Ma l’altra parte è anche, credo, l’aldilà, la morte, il negativo della vita. Anzi, a voler trarre un sunto del libro, l’altra parte vive in ogni cosa, è il polo negativo della materia, la carica di un elettrone, il doppio antitetico che, in tensione col polo positivo, genera la vita. “Il demiurgo è un ibrido”, scrive alla fine Kubin, così come ibrida, positiva e negativa, è la realtà: in questo libro nato come terapia personale per sopravvivere alle crisi paranoidi dello scrittore, alla morte del padre e al silenzio creativo, si apre allora una personale cosmogonia, che affonda le radici nel filosofo Empedocle: è Polemos, lo scontro, il padre di tutte le cose. Kubin scrive un testo visionario e originario, con uno stile altalenante, coinvolgente all’inizio, piatto nella parte centrale, fin troppo lunga, e mefistofelico nella parte finale, in quel grande ritratto della fine che è “L’altra parte”. L’allucinazione delle visioni finali non esige una precisa decrittazione e ricorda la violenza descrittiva di un autore latino, forse meno conosciuto di altri, ma dalla scrittura estremamente icastica, Lucano. Certo questo libro è un libro scritto per se stessi, dalla ricca iconografia, che la tradizione esegetica ha voluto antesignano profetico del primo e dl secondo conflitto mondiale. Io credo invece che Kubin abbai esorcizzato un demone personale e nella mastodontica disgregazione di Perla, abbia trovato il coraggio di guardare nell'abisso della fine che necessariamente si accompagna alla vita. Forse la penna, fin troppo disorganica, è andata oltre la solidità dello stile e le stesse ambizioni dell’opera, ma sicuramente un testo non privo di fascino.
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Invasione di spazio
Due donne, Magda ed Emerenc, intellettuale borghese l’una, donna del popolo, umile e concreta l’altra, mente contro mani, distanti e irragionevoli nelle loro pretese, dominano la scena alla ricerca di un equilibrio difficile, sofferto, di un’invasione di spazio che può salvare entrambe e rendere meno greve la solitudine della vita. Emerenc ha una forza insolita per la sua età, governa, decide, comanda, al sicuro oltre la soglia della propria casa, quella porta che separa, simbolicamente, il suo spazio dal resto del mondo, che si oppone all’apertura, alla condivisione più pura. Perché la donna sa bene che nella condivisione c'è la salvezza, ma anche che in ogni apertura si annida il rischio del dolore. Non si può soffrire quando si resta bardati nella propria autosufficienza. Cosa nasconde Emerenc in casa sua, quale segreto così impenetrabile da non poter essere condiviso, quale insolito incanto la vive e la anima? Nella rigida dicotomia di Emerenc il mondo è diviso tra “chi scopa e chi non lo fa”, e da questi ultimi “ci si può aspettare di tutto”. Solo col tempo Magda riuscirà a scalfire l’armatura inossidabile che la vecchia le oppone contro, solo col tempo, in una notte di tempesta e tuoni, un antico ricordo, un dolore insopportabile, torna a reclamare la sua dose di disperazione e solo lì, alle pendici della sofferenza, le due donne si riconoscono. Eppure a volte non basta, davvero non basta, sapere quello che è giusto per comportarsi in tal modo, talora non è sufficiente sapere cosa è giusto fare, per farlo, perché la vita accade, le decisioni si prendono e non sempre la realtà garantisce il tempo di riflettere. E il prezzo, il prezzo incandescente, è la fiducia tradita.
Magda Szabò costruisce una storia che nel suo movimento di tesi, antitesi e sintesi fallisce la risoluzione in una definitiva frammentazione etica, riflesso di una incomunicabilità senza scampo e della pretesa che ognuno ha di conoscere ciò che è bene per l’altro. Szabò fa cioè esplodere un dilemma morale non da poco: è giusto staccare la spina a chi non vuole altro o piuttosto bisogna persuaderlo e tenerlo in vita? Quanto conta la fiducia quando la situazione è disperata, quanto può essere facile rompere un rapporto che si pensava oramai solido? Il dramma, in questo libro, è che entrambi i personaggi hanno le loro ragioni e ogni schieramento, ogni simpatia del lettore, si trova contro la bontà dell’avversario. Non si può scegliere tra la madre e il bambino, non si può scegliere tra uccidere e morire, non si può scegliere tra la vita e la dignità della sopravvivenza. Il tutto nel grembo di un’amicizia tra donne che ha i contorni di una dura epopea. Manca forse all’autrice una certa fluidità stilistica ed è un peccato perché, nel primo capitolo, dimostra di saperlo fare meglio di come poi prosegue, come se il libro si facesse più una memoria che un romanzo, con una più piana progressione della scrittura. Il risultato è un libro doloroso, in cui pagina dopo pagina le fibre del testo raccolgono la sofferenza dei personaggi fino a esasperarla in un finale che porta con sé solo la cenere di quello che è stato.
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Il ritorno alla luce
Seguito meno celebre del famoso Edipo Re, tragedia osannata in tutte le epoche come cristallino e perfetto esempio di tragedia classica, nell’unità di tempo, luogo e azione del canone aristotelico, l’Edipo a Colono è una tragedia atipica, scritta da Sofolce in tarda età, ambientata nella città natale del tragediografo, oramai al termine della propria vita. Questa “senilità” dell’opera invera, in realtà, la luminosa esperienza che trasmette, la placidità inaspettatamente non tragica con cui si chiude. Edipo, oramai in esilio e cieco, accompagnato dalla figlia Antigone, stirpe che nega se stessa, si prepara alla morte. Il miracolo di questa opera, tutta galleggiante nella sua misteriosa trasparenza, è proprio la staticità che l’accompagna: davvero non accade nulla, ma in questa placidità i personaggi scoprono davvero se stessi, secondo il precetto dell’oracolo di Delfi. Una conoscenza che l’uomo raggiunge solo dopo essersi accecato: se nell’Edipo Re l’accecamento è il prezzo della verità, una verità atroce, qui quello stesso evento è la molla per scendere sempre più in profondità, alla radice di se stessi. Questa apparente pace con l'anima è turbata solo dalle questioni della politica, da Creonte, Eteocle e Polinice, prossimi alla guerra e dai vecchi di Colono, demo di Atene. Se Edipo è già oltre la politica, non è oltre la famiglia, perché, si ricordi, la famiglia è l’humus da cui tutta la tragedia germina. Oltre tutti i turbamenti, Edipo può alla fine morire e lo fa nel mistero luminoso e roboante di un lampo di luce e di un tuono, in un’ascesi mistica che ricorda i misteri Eleusini, una gravità di peso che miracolosamente scompare nella leggerezza più eterea.
La metamorfosi di Edipo, da fantasma di se stesso a iniziatore di misteri, passa per la trasformazione tra dòxa (l’opinione) e alétheia (la verità): in lui dolore e speranza si saldano, e la disperazione deificata dalla grazia è scalinata che conduce alla conoscenza. La consapevolezza della verità, non è però vittoria della morte ma serenità nell’affrontarla nonostante tutto, anzi, la sofferenza è chiave privilegiata per accedere alla conoscenza. L’uomo, in Sofocle, non annichilisce la propria ombra, non purifica il peccato con la confessione cristiana, ma nella propria ombra si crogiola e anzi, la vive senza esserne atterrito. Pur consapevole della propria sorte, Edipo, uomo in rivolta contro il fato, si trasforma in un Sisifo felice chetrova la felicità nella sua condanna a morte. Edipo sa infatti quando morirà: dopo una folgore. Conoscenza e morte: questo tutto quello che l’uomo deve sapere e che Edipo ha appreso così da poter morire felice. Ed ecco che agli occhi del lettore questo uomo tragico si trasforma, seppure impercettibilmente, in un qualcosa di sovrumano, proprio perché è ormai abbastanza saggio da riconoscere i limiti e da accettarli.
Con questa tragedia Sofocle ci regala una mistica difficile, una tragedia che non è tragedia e che chiude un cerchio con la saggezza di chi ha visto la fine e non ne ha paura.
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Pelle scalcinata
La lettura di “L’urlo e il furore” mi ha suscitato le stesse reazioni (personalissime) di una poesia di Leopardi e cioè la percezione di una grandezza oggettiva, indubitabile, e, dall’altro, una certa resistenza soggettiva, come se il libro non riuscisse a vibrare alla mie stesse frequenze. Pubblicato nel 1929, stesso anno di Addio alle armi, Faulkner scrive questo libro tenendo in mano, credo, l’Ulisse di Joyce, ma supera il modello ricorrendo ad una mimesi linguistica estrema e straniante, che porta il flusso di coscienza fino alle profondità sinuose della mente sul punto del suicidio e, contemporaneamente, lo frantuma nella distonia percettiva di un malato di mente. Articolata in quattro parti, ma radicata in una storia di decenni, la genealogia intagliata da Faulkner ripercorre la tragedia di una famiglia voluttuosamente incastrata nelle spire della fine. La disomogeneità del testo, prima di tutto stilistica, trova in realtà coesione nei sottili fili conduttori che guidano il testo, parole ripetute, fiumi carsici che scompaiono e riappaiono dopo pagine, in piani temporali fusi e confusi, nel tentativo di imprimere sulla pagina il flusso zigzagante dei pensieri. Eppure il flusso di coscienza di Faulkner non ha il ritmo placido e ondivago dei personaggi della Woolf, o la logica associativa di Joyce, piuttosto si fa balbettio o cortocircuito linguistico, rendendo la lettura ostica alla decifrazione.
Nella prima parte, che definisce i confini dell’opera, lo sguardo è quello cinematografico di una mente malata che registra quello che accade come in un vertiginoso montaggio appositivo che sfugge al principio di causa-effetto: la realtà di definisce per accumulo, non per precisazioni e intanto ogni evento, ogni parola, nasconde in sé la possibilità di un ricordo, di un altro mondo, di un’altra realtà che è, nel felice equilibrio tra terrestrità e avanguardia, il punto d’incontro tra il cubismo di Braque e le tele di Munch. Nella seconda parte è invece la prosa complessissima di Quentin, studente universitario infatuato non della sorella, ma della promessa di verginità, della purezza, dell’onore della famiglia sospese su una membrana fallibile, a tenere banco nel giorno della fine. Qui la scrittura si fa ancora più contorta, avviluppata, dispersa, odissiaca ma clautrofobica, tesa fino allo spasmo, sull’orlo della rottura. La prosa si appiana poi nella terza e quarta parte dove Faulkner dimostra di saper governare lunghi periodi e prospettive inusuali, con una concretezza descrittiva e simbolica davvero rara. Eppure il piacere della lettura è più intellettuale che emotivo, più culturale che sentimentale e la complessità narrativa crea forse un certo ostacolo al godimento puro dell’opera.
L’immagine certo più emblematica di questo libro è il lamento informe, suono puro, di Benji sulla fine del romanzo, un volto che fatica a trattenere la pelle, sformato e deformato, la bocca aperta che tenta di esprimere il dolore di esistere, l’inconveniente di essere nati, il dolore genetico, primordiale e inevitabile cui ogni primo vagito condanna. Il dolore è la malattia, la separazione, la perdizione, la seduzione della morte e l’impossibilità dell’amore, il cinismo, il pianto, il furore del destino che sacrifica ineluttabile gli uomini sul suo altare. Come anticipato in apertura, apprezzo molto le scelte di Faulkner, radicali ed eversive, ma contemporaneamente ho faticato ad entrare in sintonia con l’opera, a sentirne tutte le vibrazioni e continuo a pensare che qualcosa non nello stile, ma nella struttura complessiva faccia fatica a sostenere l’ambizione del libro.
Detto questo, Faulkner è grande letteratura e leggerlo è un'esperienza, un'avventura da provare.
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Dopo il fuoco, il disicanto
Qualche utente ricorderà forse una mia recensione di qualche mese fa sull’allucinazione metafisica del Woyzeck di Buchner, straordinaria opera capace di precorrere la forza violenta e divampante dell’espressionismo quando ancora è il 1837, anno in cui l’autore muore ad appena 23 anni. “La morte di Danton”, sua prima prova letteraria, si pone in diretta continuità con l’esperienza biografica di Buchner, autore di un pamphlet rivoluzionario, “Il messaggero d’Assia”, che animò una rivolta poi duramente repressa nel sangue. È proprio la delusione di questa esperienza, il trauma lacerante del sangue versato e delle vite distrutte, ad animare l’abbandonato disincanto di questa opera, che nel ripercorrere la Rivoluzione Francese non solo ricostruisce un immane dramma politico, ma anche riflette sulla vacuità delle azioni umane, sul loro rimpicciolirsi come ombre evanescenti sullo sfondo di un tempo rispetto a cui tutto collassa in nichilistica rassegnazione. Danton, alter ego di Buchner, animatore della Rivoluzione, affronta le conseguenze degli eventi che lui stesso ha messo in moto, il Comitato di Salute Pubblica, il Terrore, la lama inflessibile della ghigliottina. Mentre una luce sinistra ed enigmatica illumina la scena in un clima di violenza crescente, il teatro si fa dramma della parola, tragico perché inconciliabili sono le posizioni che si oppongono. Buchner conosce molto bene la lezione dei classici e quella di Shakespeare e nei suoi personaggi, dall’apologia di Danton, divorato dai suoi stessi figli, ai deliri intransigenti di Robespierre e Saint-Just, che animati da una purezza disumana, cedono alla fretta di una soluzione fatale, si compie la parabola disillusa della sua stessa vita. Il ritmo del dramma, ineluttabile come lama di quella ghigliottina che è lo spazio centripeto di tutta la scena, si costruisce di agili battute pregnate da sensuale ironia e di lunghi discorsi retorici che ricalcano la verve della prosa ciceroniana. Come Catone, Cicerone e Catilina, così Danton, Robespierre e Sain Just tentano di colmare il diaframma atroce tra l’ideale e il reale. La vanità delle azioni umane, la logica fredda del potere, il senso imminente della fine e gli amori spezzati scavano a fondo nell’uomo e tentano di rispondere ad un’unica domanda: cos’è che in noi ruba, mente e uccide?
Rispetto al Woyzeck, tragedia per frammenti, fatta di detriti e allucinazioni, La morte di Danton ha ancora una struttura classica, ma già si avverte la tensione tra il realismo brutale, di stampo naturalista, e la violenza dei sentimenti, il dramma degli uomini, di ascendenza romantica, fino al suono dodecafonico del novecento. In questo dramma, scritto negli anni ’30 dell’Ottocento, in appena 5 settimane, si apprezzano, in nuce, tutti gli sviluppi della letteratura successiva nonché i meravigliosi ascendenti teatrali che hanno guidato l'autore, da Seneca a Shakespeare. In effetti Buchner riflette, condensa e anticipa secoli di letteratura e lo fa, al solito, con la pace miracolosa di chi governa i suoi personaggi e ha in pugno la scena. Perché Buchner, come Danton è consapevole che tutto il dramma, tutta l’emozione, non è altro che un’increspatura microscopica nell’oceano eterno del tempo. Peccato che tutto quello che ha scritto stia in appena 300 pagine, peccato davvero, forse oggi sarebbe nell’olimpo dei grandi scrittori, a parlare amabilmente con Goethe. Forse l’opera soffre di una certa verbosità, ma io, a dirla tutta, gli perdono ogni difetto.
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La seduzione del monologo
Arthur Schnitzler appartiene a quella schiera di artisti, tra cui Klimt, Roth e molti altri, animati dal perturbante e decadente fascino dell’Austria alla fine della sua gloria, una crisi dell’impero ben simboleggiata da quella frutta marcita che permea, in un clima di visionaria allucinazione, la Venezia di Thomas Mann, altro cantore della fine di un’epoca. Lo stesso Schnitzler conosciuto per essere autore di “Doppio sogno”, romanzo cui Kubrick si è ispirato per la mistica e conturbante enigmaticità di Eyes Wide Shut. E a ben vedere, questo “Signorina Else” condensa ed esemplifica un genere letterario che da un lato affonda la sua costruzione narrativa nel teatro, di cui usa anche i mezzi, e dall’altro nel senso musicale del cinema, nella forza inarrestabile di una regia che insegue, braccandola, la sua unica protagonista. Del teatro “Signorina Else” recupera l’idea di una serie di eventi scatenati da qualcosa che accade all’inizio del dramma. Come in Shakespeare, l’azione è già tutta all’inizio (la profezia delle streghe che apre il “Macbeth”, l’omicidio del re in “Amleto”), cosicché la narrazione può concentrarsi sulle conseguenze del fatto, perché il fatto è stupido e tutto è interpretazione. Il fatto qui è la richiesta che Else, una diciannovenne che ha tutta l’altera protervia della sua età, riceve dalla madre: il padre ha sperperato il denaro della famiglia, rischiano uno scandalo e quindi deve chiedere ad un ricco signore in vacanza un prestito. Peccato che il signore chiederà in cambio a Else di vederla nuda.
Una volta che il motore dell’azione si è acceso, non resta altro che seguire la protagonista in una lunga sequenza, una regia che davvero non stacca mai la macchina da presa e che si spinge sempre più a fondo, oltre la pelle, oltre la carne, oltre le viscere per scovare una ragione, per risolvere il dilemma tra utile ed etica, per tentare di ricomporre la lacerante disumanità di una richiesta che esplode in tutta la sua incontrovertibile forza di sopraffazione. Perché anche se Else è pungente, anche se Else si esprime con intelligenza e gioca con le parole, con i giudizi, con la pretesa della conoscenza su se stessa, resta pur sempre un’adolescente o poco più. E Schnitzler ben descrive il senso di paralisi, la sensazione di impotenza che coglie quando si riceve un’attenzione indesiderata, una richiesta troppo esplicita. Eppure l’aspetto notevole di questo libro è l’assoluta padronanza del monologo interiore, perché tutto accade attraverso gli occhi della protagonista, in una scrittura fluida che sa cogliere ogni vibrazione, ogni oscillazione dell’anima, in equilibrio miracoloso tra la frantumazione dei pensieri e il loro inesauribile scorrere. Un’arte che ha fatto accostare Else a Molly Bloom e che fa di Schnitzler uno degli autori più moderni che abbiano aperto il novecento.
Nel microcosmo di Else, nell’albergo che ospita la vicenda di appena quattro ore, si riflette il macrocosmo dell’ipocrisia borghese e della più vile perversione, ma anche l’infinita debolezza di una donna con pensieri troppo complicati, nel vuoto cosmico della propria cocciuta incomunicabilità. La scrittura accoglie anche la rivoluzione psichica freudiana, ma voglio lasciare da parte le letture del libro come espressione dei complessi di Elettra, della coazione a ripetere e di quant’altro la critica si è sforzata di trovare. Quello che regala Else è la storia di un’anima e la profonda sintonia tra la questa e la natura, con alcune splendide scene al chiaro di luna, mentre il vento soffia, nell’aria frizzante di champagne, nella calma nevosa delle montagne. Momenti lirici che si susseguono senza soluzione di continuo alle più turpi azioni e che crescono in una climax vertiginosa fino alla scena in cui, complice il sapiente uso della musica (per chi sa leggere gli spartiti, forse nel ricordo della “Sonata a Kreutzer”), il parossismo supera la parola e al lettore non resta che il senso di un’ansia paralizzante.
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Il tormento del cut-off
In medicina il cut-off è il limite oltre il quale un’azione clinica ha senso, perché quel valore sancisce, o prova almeno a sancire, il confine tra quello che è fisiologico e quello che invece è patologico. Il cut-off è una decisione perché la realtà richiede di scegliere e ogni scelta, affermando una possibilità, ne cancella infinite altre. Perché si possono fare tutte le considerazioni, tutti i distinguo, tutte le premesse, ma alla fine un farmaco sì dà o non si dà e non sempre si può avere la sicurezza che sia la scelta giusta, perché i cut-off sono questione di probabilità. Un cut-off è anche la maggiore età, 18 anni, come se da un giorno all’altro una persona cambiasse perché ha spento una candeline in più. Non cambia nulla, ma la legge sceglie, lo Stato sceglie, perché prima o poi tutti devono diventare legalmente grandi. Un cut-off è anche il verdetto che un giudice proclama in tribunale, condanna o assoluzione, carcere o libertà. Perché nonostante tutte le precauzioni, non si può scegliere il bianco e il nero e purtroppo neanche il grigio, ma solo o il bianco o il nero.
Fiona, giudice dell’Alta Corte, preda di una crisi coniugale, si trova a dover scegliere se costringere un diciassettenne testimone di Geova a fare la trasfusione che lo salverà dalla leucemia o se ascoltare la sua volontà e lasciarlo morire. Chi ha ragione? Lo Stato che persegue il benessere del minore, o l’individuo, che ha l’inderogabile diritto di rifiutare una cura? Chi decide, forse le ragioni che determinano una scelta, la fede in un Dio, un principio culturale? Chi può scegliere quello che è giusto o quello che è sbagliato? Eppure Fiona deve scegliere un cut-off, Adam, il ragazzo, deve scegliere un cut-off, i medici che lo curano devono scegliere un cut-off e tutti sanno che non bastano le azioni a rendere buona una scelta, perché dopo che la realtà è accaduta, l’istante precipita.
McEwan affronta un problema vertiginoso. Lo stesso problema di Antigone, che sceglie di seppellire il fratello seguendo la legge degli dèi nonostante Creonte, colui che comanda, ha imposto una legge severa. Lo stesso problema che tormenta Hegel quando alla ricerca di una realtà equilibrata, quadrata, senza contraddizioni, risolve l’antitesi tra morale (del soggetto) ed etica (del pubblico) nello Stato, come sintesi delle spinte centrifughe che dilaniano la realtà. Il grosso problema, il peccato originale del libro, è che McEwan trascura il nucleo incandescente del romanzo e lo diluisce e sfianca con una scrittura quasi fiacca, che galleggia su una superficie distantissima dal cuore del dilemma. Fiona lo affronta, ma non si sente il personaggio palpitare, non si avverte una reale partecipazione alla storia, come se la scrittura indugiasse sul resoconto e descrivesse i personaggi da un altro mondo, appena lambito dal turbinio della realtà. A questo sensazione di freddezza, contribuisce la scrittura, piana, a volte pleonasticamente descrittiva, una trama inutilmente artefatta che svilisce quanto di buono invece l’idea centrale era riuscita a costruire. Una scrittura precisissima, di chi conosce il mestiere, compiaciuta, ma senza mordente.
Sarà forse una mia personale insofferenza oramai per tutte quelle scritture inutilmente lunghe, ma credo davvero McEwan non conduca il libro da nessuna parte, troppo lontano dalle radici inconciliabili del reale. Perché alla fine scegliere è creare un mondo, un mondo che senza quella scelta non esisterebbe: l’uomo è creatore e come ogni creatore deve portare il peso delle responsabilità e delle conseguenze che ne derivano. Pur con tutte le cautele, un cut-off, e con esso ogni decisione presa, non rende conto di tutta la nostra incertezza. Semplicemente, è. Peccato McEwan non ne parli, peccato sia perso tra le musiche di Schubert e i finanziamenti del governo Blair, peccato, perché il problema è davvero capitale.
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Un’aria di vetro
Il problema pulsante, vivo e feroce che anima le poche pagine di questo libro vertiginoso e terrestre, ctonio e pure rarefatto, è l’impossibilità di dire il mondo, perché la “realtà non ha sinonimi”. Una sfida, quella alla verità, incarnata in primo luogo da una lingua che continuamente divora se stessa per superare i limiti stessi del linguaggio. Se le parole non possono lambire il fondo roccioso delle cose, il senso ultimo, il segreto impossibile della conoscenza non può che trovarsi tra le righe, negli spazi bianchi, negli aloni e nelle suggestioni. Clarice Lispector si muove sinuosa e viscerale in un monologo che procede per giustapposizione di immagini, per sinfonie di suoni, per impressioni che durano il tempo di un istante. La sfida della scrittrice è quella di fissare l’istante che già non è più con la scrittura, rappresentare non il presente, ma l’adesso. Una sfida che ricorda Monet e le sue ninfee, il tentativo supremo di fissare la luce sulla tela, la luce atroce che cangia la realtà e ne impedisce la rappresentazione. Per Lispector, la parola è atroce perché i limiti del linguaggio, sono i limiti della conoscenza del mondo e la conoscenza del mondo è insufficiente. Allora anche le parole sono insufficienti.
Come in fondo ad un pozzo, da sola, senza appigli per risalire, Clarice Lispector vive di bufere e maree, ritorna alle più pure sorgenti della vita, nel fuoco d’artificio di un pentagramma immaginifico ed evocativo che scostante e disinteressato del lettore, si dispiega in tutta la sua criptica musicalità. Le note arrivano là dove le parole falliscono. Tutto è incendio e grandine, in lei “rabbrividisce il mondo”, brucia il sole, si apre delicata una rosa e pulsano violente le radici delle piante. E alla fine, quando la scrittrice tocca il momento cristallino, quel “nulla di inesauribile segreto” che le dispiega di fronte l’”it”, la cosa in sé, tutto diventa leggero ed evanescente e il libro, così stordente, così cocciutamente antiletterario, dilegua come l’ultimo raggio di sole prima del tramonto. E il lettore si trova in pace, anche se non ha capito tutto, anche se il più gli resta nascosto, anche se non è arrivato da nessuna parte. Magico potere di una scrittura che, a voler citare Hegel, è “vera autocoscienza” perché irrepreseibilmente “signorile”.
Nata in Ungheria, ma mai attaccata alla sua terra, Clarice Lispector è forse la maggiore scrittrice brasiliana della seconda metà del secolo scorso. In lei la scrittura non chiede permesso al lettore, non è plasmata per essere pubblicata, no, la scrittura governa se stessa, incurante, frammentata, potentissima e senza ritmo. Una scrittura che mette alla prova il lettore, frustrante, quasi sgradevole, senza respiro: problemi di cui la scrittrice è consapevole e che pure non la fanno mai desistere perché la pagina diventa lo spazio per esprimere quello che in lei è più forte di lei. Ottanta pagina densissime, da leggere con cura, soffermandosi ma senza tentare di spiegare tutto, seguendo il flusso impetuoso delle parole. E alla fine Lispector, arriva a conclusioni cui altri prima di lei sono giunti: il cielo più azzurro è il più vuoto, la vera profondità non è un abisso, ma uno specchio piatto. Dio, morte, vita, godimento, specchi e fiori si alternano e richiamano in una rapsodia dissonante e che, se non nello stile, trova compiuta placida bellezza in quello che sa lasciare al lettore.
La sintesi più adeguata al libro non la scrivo io, ma Montale, con questi suoi celebri versi:
“Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.”
Clarice Lispector è stata la luce nella stasi di quella mattina in cui la verità si è dispiegata. Una verità che non si può dire, perché in principio presso Dio non era la parola, ma la vita e la vita parla solo urlando. L’urlo di Calrice Lispector è un grido di umanità e un gemito di verità.
[Non ho potuto dare più di 2 in piacevolezza, perché la lettura è davvero ostica e il lettore deve costringersi ad andare avanti, però il libro di per sé meriterebbe ben più di un 3,5/5]
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Rosso di sangue e di vino
Grande peso sulla valutazione del teatro di Euripide ha avuto il secco giudizio nietzschiano che, proprio nell’ultimo dei grandi tragediografi dell’età classica, vide il tramonto di un genere, quello del teatro, che viveva, a detta del filosofo, della tensione tra la forma dell’apollineo e il caos del dionisiaco. In Euripide, certo, i personaggi si scoprono profondamente umani e fragili, vivono di passioni e dolori struggenti e proprio per questo è forse oggi il più amato dei drammaturghi greci. Il tragico in Euripide non è più nelle antitesi esasperate tra visioni inconciliabili, ma nel dramma delle piccole, grandi cose del quotidiano. Segno di questo è lo spazio che Euripide riserva al coro: se in Eschilo al coro spetta il 50% delle battute, in Euripide la quota scende al 20%. Eppure queste Baccanti, scritte dal poeta in tarda età, rivelano un dramma di inaudita potenza espressiva, animate da un fuoco misterioso e violento che illumina personaggi ambigui e smaniosi. Un teatro che, al contrario di altre opere dello scrittore, si scopre inconciliabilmente tragico.
Protagonista assoluto Dioniso, rosso, rubicondo e rubensiano, animato di sangue e di vino, principio irrazionale che crea e distrugge con un gesto. Gli fa da controcanto Penteo, re di Tebe, ingenuo e socratico difensore della razionalità, dell’ordine, della chiarezza del reale. Tutto in questo dramma è doppio e barocco, mutevole e illusorio, perché Dioniso è dio della maschera, spazio in cui gli opposti si incontrano e dissolvono. Dioniso che appare come un uomo, straniero orientaleggiante, femmineo, quasi androgino, seducente e misterioso, esemplificazione di un’ambiguità che la giovane età spesso impone di fronteggiare, così come Penteo deve fare nel corso della tragedia. Lo stesso Penteo che sarà travestito da donna, che da predatore sarà fatto preda, smembrato e vivo solo nel momento in cui i suoi brandelli, il suo sangue, torneranno alla natura.
A tenere il ritmo del dramma la follia che Dioniso, l’irrazionale, instilla negli uomini, il sesso orgiastico, in cui la differenza si annulla, la danza e l’ebbrezza, fuga dal pensiero, che riportano l’uomo alla terra. È in questa tragedia che il razionalismo di Euripide inizia a sfumare nel pessimismo; e se è vero che Socrate, suo amico allora sedicenne, esprime una visione ottimistica della realtà fondata sul raziocinio, la coerenza infaticabile di Euripide e la sua più lunga vita disgregano questa certezza granitica in un continuo questionare se stessi il cui esito è inevitabilmente una verità di per se stessa aporetica, ma non per questo meno dura. Le divinità sono distanti, l’uomo è catapultato in una dimensione in cui l’unica contemplazione possibile è quella della sua irrimediabile solitudine, angosciata da uno scontro senza esclusione di colpi con se stessi. E paradossalmente proprio questo Dioniso fatto uomo non riduce la potenza del dramma, ma anzi la incrementa dell’attesa dell’epifania conclusiva, la condisce col gusto amaro di una conoscenza superiore, con l’apprensione palpitante di un personaggio dal destino già segnato.
Al termine della vertiginosa stagione creativa del teatro greco, Euripide plasma una tragedia densa, misteriosa, primigenia, per così dire, mediterranea e sanguigna, sublimando nell’illusione tragica, così apertamente manifesta nell’opera, la trama di eventi misterici, quasi d’iniziazione. E proprio in questa riflessione sulla tragedia, in quest’ultimo manifesto di una cultura sapienziale ellenica che la stagione filosofica successiva adombrerà col suo razionalismo, il dio della tragedia, del ditirambo, del vino, della sapienza e dell’illusione si fa personaggio, emblema di una poliedricità che l’opera non manca di suggerire, ora confondendo, ora chiarendo in improvvisi sprazzi di lucida, quanto brutale, follia.
Perché alla fine, Dioniso, e con lui la vita, è sempre al di là del bene e del male. La verità è la roccia e la roccia è muta. Misterioso, difficile e criptico questo Euripide, ma di una bellezza disarmante che non posso non consigliarvi.
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Per favore, aprite le tende
Sarah Kane si suicida nel 1999, appena ventinovenne, impiccandosi con i lacci delle scarpe che le infermiere del manicomio in cui è ricoverata le hanno incautamente lasciato. La depressione grave che l’ha accompagnata fin da ragazza, le psicosi che la tormentano e che nessun farmaco riesce a controllare, la consapevolezza di essere omosessuale in una società che troppo facilmente etichetta e condanna, prendono forma in una scrittura di allucinata violenza, smembrata e folgorante nella sua gelida, implacabile dissezione di un mondo che troppo spesso si scopre disumano. Nei cinque drammi che Sarah Kane scrive in vita si intravede la vita lacerata di una donna che si trova ad affrontare il più ostico dei muri, quello dell’incomunicabilità. I personaggi che la scrittrice mette in scena, apatici, dissociati, catalettici nella loro ipoemotività, oscillano e si perdono in dialoghi che altro non sono se non pensieri triturati e tormentati, incapaci di stringere relazioni; soli nel vuoto siderale dell’incomprensione, precipitano nelle spirali oscure della violenza, della sopraffazione, alla ricerca di una sicurezza impossibile, di un affetto tiepido tra le lenzuola, di un amore che è un’ombra seducente, sdentata, sogghignante.
Einaudi raccoglie in un unico volume i cinque drammi che l’autrice scrisse in vita: un’edizione fin troppo scabra ed essenziale, con scelte traduttive discretamente discutibili e senza testo a fronte, che pure ha il merito di far conoscere, almeno in parte, la scrittura estrema della Kane.
La raccolta si apre con “Blasted”, scoppiati, esplosi, dilaniati. Lui, un giornalista emotivamente immaturo, fedifrago e forse spia, si incontra in una camera d’albergo con una ragazza psicologicamente disturbata, che è stata sua amante un tempo e che ora tenta di sfuggire all’uso del suo corpo. Il sesso domina Blasted, il sesso come gioco di potere, come spazio della prevaricazione e il corpo come limite estremo dell’espressività. Un corpo che non ha più niente, assolutamente niente di sacro, ma che diventa la tela di mutilazione, stupri, atti di cannibalismo. Perché quando un soldato bussa alla porta cercando una vendetta impossibile per il suo amore perduto, anche Lui dovrà scontare le stesse pene che ha inferto alla ragazza.
Phedra’s love è la riscrittura dell’Ippolito di Euripide: Ippolito è un giovane grasso, apatico, ma sessualmente impegnato, latita davanti alla tv, emblema dell’homo divanus contemporaneo perché nulla sembra risvegliarlo. Fedra è la matrigna che di lui si invaghisce e che in nome dell’ennesimo amore non ricambiato, di una nuova felicità negata si suicida condannando Ippolito ad un “diasparagmos” finale, uno smembramento rituale che per un attimo, con tragica ironia, lo riporta in vita.
Per quanto brutali, le prime due opere di Kane rientrano ancora in una struttura canonica del teatro. È con il terzo dramma, Cleansed, “purificati” ma io tradurrei meglio con “epurati”, che la struttura dell’intreccio si frammenta in una miriade di scene cubiste e progressivamente sconnesse, in cui i collegamenti si nascondono al lettore e lo costringono a una lettura attenta e quasi “indovinica”. In un campus che ha tutti i tratti di un campo di concentramento, un finto dottore impone la sua legge, mutila, stupra, taglia lingue, mani, piedi e piange davanti ad una ballerina più onirica che reale.
Il quarto dramma, Crave, il desiderio, la fiamma del bisogno smembra definitivamente la possibilità del dialogo: quattro personaggi, quattro lettere, A, B, C, D parlano delle loro vite, per brevi frammenti, alternati e sordi gli uni agli altri. Non c’è filo, non c’è comunicazione, non c’è connessione tra le parti: il dramma è nervoso e snervante, difficile da leggere, perché difficile per i personaggi è essere capiti. Un teatro che si fa affilato e tormentato, accartocciato, imploso e che ci regala il monologo di A, un inno commosso e tenero all’amore, che appare il sogno irraggiungibile di una salvezza che non è di questo mondo.
Chiude la vita di Sarah Kane il disturbante “4:48 Psychosis”. Alle 4:48, dicono gli studi, è più facile il suicidio. E Kane, che dopo pochi giorni davvero sceglierà quella strada, tratteggia drammaticamente la sua mente in un episodio schizoide: ne esce un testo fluido, incoercibile, acinetico, discinetico, tremolante e pure inarrestabile, che tra elenchi di farmaci inutili e immagini di un altro spazio della mente, prova ad arginare il dramma della malattia con la terapia della scrittura. Kane quasi dipinge sulla pagina bianca, occupa tutto lo spazio del foglio, salta righe, lascia in sospeso periodi, perché al culmine della disperazione la punteggiatura è violenza, le parole cenere. E alla fine, quando la ragione bussa alla porta, può solo pregare: “aprite le tende”.
Un’autrice estrema, un teatro duro, metallico, crudele, senza ironia, cirrotico, corrosivo. L’esempio più vicino è il nauseante e indimenticabile film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. La stessa perversione del potere, la stessa crudeltà degli uomini, la stessa mercificazione del corpo come oggetto da deturpare. La stessa voglia di vomitare o chiudere gli occhi. Perché nello spazio dell’incomunicabile, nella solitudine glaciale dell’anima, solo la violenza radicale può aprire uno squarcio oltre la tela. Tremenda e bellissima, leggete Sarah Kane, ma siete avvisati: stomaco forte, nervi saldi e pazienza. Siete gli ospiti della sua anima, almeno voi, ascoltatela.
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Film: Pasolini- Salò
Non scomodate Kafka
Deve aver preso il volo sbagliato, Budai, l’accanito e sfortunato protagonista di questo libro. Certo non si trova a Helsinki dove avrebbe dovuto partecipare a un convegno di linguistica di cui è un eminente esperto. No, Budai si ritrova per un tragico disguido in una città informe e soverchiante, metropoli tentacolare, langhiana, caotica e perpetuamente in moto, come preda di un horror vacui che reclama sempre un pronto riempimento. Senza documenti e senza soldi, tragicamente solo nello spazio distopico della città del futuro, Budai si trova ad affrontare un problema ben più grave, l’incapacità di comprendere e di essere compreso. Nemmeno la sua infinita conoscenza delle lingue, dal greco al latino, dall’ungherese al finnico, dalle lingue romanze alle rune sumeriche, gli consente di decifrare la strana lingua di quella città, i suoni scomposti e infinitamente diversi, nessuno stratagemma lo fa penetrare nella sintassi capricciosa di un idioma che, cocciuto, si oppone alla sua ostinazione. Perché la metropoli di Karinthy è, prima di tutto, intrinsecamente babelica e, come nella più biblica delle costruzioni, l’esito non può che essere la distruzione. Forse solo un corso d’acqua, la promessa del mare, potrà ricondurlo a casa o forse quella strana ascensorista, Epepe, o Tetete, è difficile dirlo, che sembra l’unica disposta a capirlo sul filo fragile dell’amore, ma che, nonostante tutto, appare sempre infinitamente distante.
Karinthy, scrittore e linguista ungherese, scrive un libro ambizioso e lo fa plasmando lo spazio allucinato della narrazione con le inquietudini dittatoriali del novecento, descrivendo una città famelica in cui la sopraffazione è legge, la fretta intransigente, l’architettura sovietica e oppressiva, minacciosa e soffocante. Se Epepe è un libro sull’incomunicabilità, sulla irrevocabile solitudine degli uomini, non meno è una riflessione sull’impotenza della ragione di fronte al gioco al massacro del potere e, nella forma dell’incubo, nella dilatazione spasmodica del tempo impossibile di Budai, prova a tracciare i contorni della deriva della Storia.
Molte le riflessioni, diversi i piani di lettura, da quello morale a quello esistenziale, da quello storico a quello linguistico, ma, alla fine, il romanzo risulta discretamente poco riuscito. La scrittura si sfianca infinitamente in descrizioni pleonastiche, che forse vogliono rendere l’idea dell’insensatezza in cui il personaggio si muove, ma che, alla fine, distraggono la trama dal punto di arrivo e tutto si perde, senza uno scarto, senza una presa di posizione, senza un svolta che coroni e dia senso all’insieme. Lo stile di Karinthy finisce per essere ridondante, inconsistente e non riesce a sostanziare una storia che aveva tutte le migliori premesse. Il libro, in realtà, è stato apprezzato da più parti, ne hanno scritto entusiasti, tra gli altri, Citati e Carrère, ma entrambi, focalizzandosi su singoli aspetti, certamente positivi, trascurano la resa globale di un libro che finisce per essere poco più che nella media. Eppure uno di quei libri che, una volta letti, non si potrebbe fare a meno di pubblicare. Mistero della fede, davvero.
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Cosa rende l'uomo, uomo?
Qualche tempo fa, un filosofo italiano ha affermato, forse con leggerezza, forse per provocazione, che l’etica, quando si oppone alla scienza, diventa patetica. Eppure le possibilità del reale, nell’era della Tecnica, richiedono una riflessione, un limite, perché le conseguenze morali di una scoperta sono infinitamente oltre, spesso, alle nostre capacità di previsione. Se per la scienza tutto è esplorabile, l’etica circoscrive lo spazio inviolabile del sacro, della persona, uno spazio da preservare perché la vita, l’Altro, è l’ultimo orizzonte di senso. Ishiguro porta la dicotomia tra tecnica e morale alle estreme conseguenze e contemporaneamente scrive un romanzo di formazione durissimo. Cosa significa diventare adulti quando tutto è già deciso, quando ogni incognita è chiara e in nessun modo si può sfuggire all’ordine delle cose? E cosa succede quando si è costretti ad affrontare questi problemi, ancora troppo giovani, su un letto di ospedale, tra un intervento e l’altro, sognando una nave arenata tra le onde del mare?
Romanzo articolato, complesso da stratificare nei suoi piani di lettura, specialmente senza svelarne la trama, Non lasciarmi è una storia d’ambientazione distopica, ma mai interessata alla distopia. Ogni riferimento alla società, al governo, è annullato e i personaggi vivono come in una bolla sospesa, mentre gli uomini, quelli normali, si chiedono se loro siano in grado di provare qualcosa. Ed è l’arte, la bellezza, la speranza, sempre rassegnata, di un riconoscimento, di una autenticazione, lo spazio dove far vibrare lo spirito e gridare al mondo: esistiamo e proviamo anche noi quelle che provate voi. Etica, estetica e scienza si intrecciano nella narrazione elegiaca di Ishiguro, lasse e malinconiche, tra venti feroci e anime piegate, in un’umanità ipocrita e troppo spesso poco umana.
Molti gli elementi di riflessioni, forse troppi. La scrittura di Ishiguro, attenta, ma appena piatta, divagante, fatica a reggere una costruzione molto articolata, che nella parabola dall’infanzia alla precoce vecchiaia dei personaggi, nella suspense superflua, si spinge a riflettere su un problema cardine: cosa rende uomo l’uomo. Il libro si fa leggere con una certa difficoltà, come se fosse troppo spesso fuori dal punto focale del problema e tutto finisce per essere detto e non detto, affrontato e non affrontato. Un libro in cui si legge il tormento creativo dell’autore, che lascia traccia nella trama zigzagante e nella tensione intellettuale poco decisa. Detto questo, confesso che, finita la lettura, ho ripensato molto, per diversi giorni, al libro e ne ho ritrovata traccia in davvero molte delle “derive” contemporanee. Soprattutto Ishiguro mai fa pensare ad una ribellione dei personaggi, mai ad un’opposizione e forse in questo silenzio sta il messaggio migliore del libro: perché pochi, troppo pochi, sono quelli che vivono con senso e che hanno il coraggio di scardinare le coordinate cartesiane già decise della loro esistenza. Perché in fondo tutti noi siamo stati a Hilshaim, non una scuola, ma l’utopia della nostra umanità. E il giudizio del lettore non può che riflettere il turbamento dello scrittore.
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Un intelligente gioco malinconico
Eclettico e proteiforme, Tommaso Landolfi è stato uno scrittore sfuggente, lontano dalle linee letterarie dell’Italia del secolo scorso, alle prese con una scrittura che si sforza di dare forma a un estro vivace, a un gusto raffinato, a una intelligenza brillante. L’aspetto più distintivo nello stile di Landolfi non è la scelta accuratissima del lessico, l’aristocratico uso del vocabolario, ma lo spiccato senso del gioco, l’uso divertente di ogni espediente narrativo, di ogni artificio barocco. Il giocoso in Landolfi si esprime nel tono surreale dei racconti, ma anche nella continua variazione di genere, dal surrealista, al malinconico, dal resoconto biografico al nitore puro delle forme più essenziali.
Nello specifico Ombre si divide in tre sezioni: la prima, e anche più interessante, raccoglie alcuni racconti dello scrittore, tra cui almeno tre o quattro notevoli, tra cui Autunno, un dialogo nonsense che apre la raccolta, ma che è invero una dichiarazione poetica sulla forza evocativa delle parole, del suono puro. Segue La moglie di Gogol, capolavoro eccentrico, straniante, misterioso e divertito, in cui il famoso scrittore è alle prese con una donna che è in realtà una bambola gonfiabile adornata a piacimento dello stesso. Ancora, Lettere dalla provincia, in cui una peste sonnolenta condanna a un letargo senza appello la popolazione di una città periferica e ancora il racconto simbolico, dai toni dionisiaci, La beccaccia. La seconda parte è invece una raccolta di articoli per riveste di vario genere, scritti da Landolfi nel corso degli anni, che spaziano dal vizio del gioco, cui lo scrittore era devoto, ai ricordi d’infanzia, passando per considerazioni varie ed eventuali, non sempre all’altezza del libro. Chiude infine la raccolta, la piccola parte “Commiato”, in cui la penna si innalza al lirismo e accarezza la poesia ermetica.
Volendo dare un giudizio globale, Ombre raccoglie pezzi di notevole bravure e fascino, alternati ad altri brani meno significativi e, se posso dire, dimenticabili. Non che la scrittura perda attrattività, lo stile è sempre notevole, ma gli argomenti finiscono per risultare piccole memorie aneddotiche, a volte narrate, per stessa ammissione dell’autore, per puro gusto di raccontare. Interessante anche il carteggio tra Landolfi e l’editore che, a cura di Idolina Landolfi, figlia dello scrittore, chiude il libro, capace di dare un’idea del temperamento non certo facile di un autore che, anche se non nella sua prova migliore, meriterebbe certo più attenzione.
Per gli interessanti, è da poco uscita una riedizione di “A caso”, libro con cui Landolfi vinse il premio Strega nel 1975.
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Cacciatore e musicista
Non ha paura Bernhard del male radicale e radicato, quello che germina dalla famiglia, dai genitori, e nemmeno ha paura della morte, se è vero che sa trattarla con tanta condiscendenza, con un sorriso tanto sardonico da deformarsi nel grottesco. E più di tutto, non ha paura di osare la scrittura, di spingerla fino agli estremi delle sue potenzialità, un creativo delle parole, anzi, un musicista del linguaggio. Ora Erinni furiosa, ora scanzonato comico, segue ossessivamente le tracce del massacro, una caccia alla preda che, assediata da ogni lato, viene scorticata da ogni ipocrisia, da ogni tentativo di difesa. E allora la realtà, caleidoiscopicamente smembrata, appare in una nuova luce, fredda, altera, tagliente perché il male esiste e a volte solo un falò immane, il fuoco catartico della purificazione, sia esso di calzini e berretti rossi, o di una intera nazione, può perdonare la realtà.
Goethe muore - ma, traducendo ironicamente quello “schtirbt” accentuato, si potrebbe dire “Goethe tira la cuoia” - è una raccolta di quattro racconti. Nel primo, che dà il titolo al libro, Goethe morente chiede di incontrare Wittgenstein, l’unico che ritiene più in alto di lui. Lo stesso Wittgenstein cui Bernhard sarà legato per tutta la vita, il filosofo occamiano della purezza del linguaggio, della sospensione della parola, perché nella filosofia pura, e non nel linguaggio, Goethe riconosce la salvezza. La stessa filosofia in cui si rifugia il quarantaduenne protagonista del secondo racconto per sfuggire al controllo feroce dei suoi genitori, che lo incolpano del loro fallimento, ma qui il libro della salvezza è quello di Montaigne. Figli come capri espiatori sono anche quelli del terzo racconto, il più riuscito, il più asfissiante, in un crescendo parossistico di ripetizioni che, come in una sinfonia fatale, accompagna il lettore verso il falò di quegli indumenti rossi che hanno rappresentato il giogo della schiavitù filiale. E infine, nel quarto e ultimo racconto, è tutta l’Austria, l’odiata Austria di Bernhard, a bruciare, la sua ipocrisia, il suo vuoto immorale.
Bernhard affascina e non annoia perché ha uno stile inconfondibile, fatto di frasi ripetute, incisi, digressioni, punti volanti, perché mai come qui il respiro della lettura, il ritmo del linguaggio, è esso stesso opera letteraria. In poche pagine credo di aver contato più di venti volte la parola “esiziale” e ancora più volte l’espressione “calze e berretti rossi”. Come nelle tragedie classiche, Bernhard crea un coro di parole, poche, ma amplificatissime, che si arrampicano in una climax senza speranza. Detto questo, solo il terzo dei racconti mi è sembrato davvero memorabile, gli altri tre sono buoni, ma non raggiungono livelli particolari. Inoltre a volte l’attenzione per lo stile soverchia il contenuto del libro, che in realtà tocca temi delicatissimi, ma, per così dire, li accerchia e descrive senza penetrarli, lasciandoli in una sostanziale, nebulosa, inconsistenza. Forse non il libro più adatto per cominciare con Bernhard, ma sicuramente una bella lettura.
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Uno scandalo garbato
Quando Japrisot scrive questo libro, nel 1950, ha solo diciotto anni. Un libro provocatorio, irriverente, una penna che non ha paura di esprimersi nella maniera più assoluta possibile perché in essa arde il fuoco dell’indignazione, il grido della protesta, l’incontrovertibile certezza del giusto che vive in chi è sì cresciuto, ma non ancora vissuto.
La storia è semplice, archetipica quasi: Denis, quattordici anni, la testa persa nei litigi a scuola, quasi bullo, ma senza accanimento, senza cattiveria, si innamora di Clotilde, che di anni ne ha ventisei. Forse un po’ estremo, ma scandaloso, perché Clotilde è una suora e allora tutto è più complicato. Da un lato la badessa, che la sorveglia, dall’altro i genitori di Denis, disinteressati allo stremo finché la reputazione della famiglia non è a rischio. La cattiva strada è la storia di questo amore e degli ostacoli che la società, deformata e ipocrita, loro oppone. Sullo sfondo, la seconda guerra mondiale, tra invasori e liberatori, tra chi muore o uccide, tra chi resta e, alla fine, diserta.
Japrisot apre il libro con nettezza e la narrazione, non a caso, è chiaramente schierata, completamente manifesta. “Se il tuo Dio ti impedisce di vivere, abbandona il tuo Dio. La tua vita è l’unica cosa che hai e chiunque tu sia, il tuo Dio non è il mio.” Al contrario di molti scrittori più maturi, in cui il giudizio è sospeso e la narrazione accade, Japrisot chiede davvero al lettore di scegliere, di pensarla come lui e a questo scopo dispiega ogni mezzo che possiede. Lo stile è semplice, limpido, piano, ma mai piatto, incalzante: Japrisot ha il dono di narrare, lo stesso di Dumas, ad esempio, e regge benissimo una narrazione che forse si allunga troppo nella parte centrale, ma che davvero trascina con la sua forza emotiva. Perché tutta questa scandalosa storia viene sempre trattata con garbo, con il silenzio luminoso e delicato di chi sa che non c’è niente di più sacro dell’innamoramento di un ragazzo, nulla di più facilmente infangabile.
I temi sono chiari: l’ipocrisia della società, il dolore della guerra, la vita sopra la religione, l’ottusità degli adulti, l’insolenza della religione. E altrettanto manifesti sono i difetti: lo schematismo della narrazione costruita in ogni aspetto per sostenere l’autore, la quantità di “ti amo” che i due protagonista si scambiano di continuo, una certa immaturità emotiva per una ventiseienne e una storia che sfida la credibilità. Immagino sarebbero pochi i genitori che non si preoccuperebbero di una relazione tra il figlio quattordicenne e una ventiseienne e credo sarebbero pochi quelli a non opporre almeno una qualche resistenza. Detto questo, pur con tutti i suoi limiti, La cattiva strada dimostra una maturità autoriale notevole, a tratti ingenua, ma di straordinaria potenza e la descrizione dell’innamoramento nella parte iniziale del libro, ha qualcosa di meravigliosamente adolescenziale, e quindi vero.
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Rachele, Simone, Cesare
Il problema più interessante posto da questo “saggio per frammenti” di Rachel Bespaloff è, paradossalmente, del tutto estraneo al contenuto del libro, o meglio, ne è una generalizzazione. Scrivere un saggio sull’Iliade espone certo a dei rischi non trascurabili, in bilico tra l’adesione al testo e al contesto storico-culturale che lo ha prodotto, un approccio per così dire filologico, e la personalizzazione del critico, che a sua volta si muove tra molti o pochi gradi di libertà. Scrivere una critica su un testo è, come la traduzione, un atto di tradimento. Il problema centrale è quello dei limiti dell’interpretazione, un problema a tutti gli effetti semiologico prima ancora che letterario. Perché se ogni opera è intrinsecamente muta se non interpretata, e se le interpretazioni sono tante quante i lettori, è pur vero che certe interpretazioni sono del tutto arbitrarie. Quindi fin dove può spingersi la penna del critico senza tradire il testo?
Per una curiosa contingenza del destino, che la quarta di copertina Adelphi non manca di far notare, Rachel Bespaloff, ebrea, emigrata negli Stati Uniti, scrive questo libro dedicato all’Iliade proprio mentre un’altra grandissima, e troppo spesso dimenticata pensatrice, Simone Weil, ebrea, emigrata (e poi tornata), scrive pagine luminosissime sull’Iliade come poema della forza. E Rachel Bespaloff, quasi guidata da una necessità che non ammette replica, pone il tema della forza al centro della sua analisi. Forse li fatto più preoccupante è che, entrambe le donne di lì a poco si suicideranno, Rachel aprendo il gas della cucina e chiudendo le finestre, Simone costringendosi ad un’inedia debilitante che ha i tratti del mistico. L’aspetto cruciale, che illumina di per se stesso sulla potenza della letteratura, è che entrambe le scrittrici, nello stesso momento, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, sentano la necessità di rifarsi al caposaldo della letteratura occidentale. Non scelgono l’Odissea, col suo moto picaresco, avventuroso, ma l’Iliade, il testo sacro, di una città sacra, Troia, di una cultura sacra, quella greca.
L’Iliade è un poema ispirato, non è quasi un’opera umana e in effetti è oramai accertato che Omero non è esistito, Omero è davvero l’espressione della sua comunità, il riflesso di una cultura, il diaframma tra un mondo, quello matriarcale degli studi di Bachofen, e la filosofia greca, prima dei sofismi e dei sillogismi. La riflessione inizia in medias res, da Ettore, l’eroe della resistenza, e dalla sua lotta con Achille, l’eroe della violenza e si sviluppa fin da subito su un piano esistenzialista, kierkegaardiano, intimo. Gli eroi del mito e i numerosi comprimari sono scavati fino a profondità insolite, da una prosa elegante, intelligentissima, a volte misteriosa nella concinnitas con cui si esprime. Il tema centrale che anima Rachel Bespaloff è la forza, il polemos eracliteo, la metamorfosi degli opposti nella fluidità della realtà, perché “uccidere” è come “morire”, perché Ettore che ha ucciso Patroclo, sarà ucciso da Achille, perché Achille che ha ucciso Ettore, sarà ucciso da Paride, perché la realtà è un eterno ritorno che porta con sé tutto il peso dell’esistenza. Come a dire che Rachel Bespaloff scorge nella filigrana delle cose un principio circolare, nietzschiano, ma i suoi uomini, i suoi eroi, sono troppo umani, lontani dagli dei imperturbabili nella loro immortalità, vinti da una forza che è al di là degli dei d’Occidente e d’Oriente, il Destino. E, come in un negativo drammatico, quando gli eroi non possono essere “oltreuomo”, il peso dell’esistenza li schiaccia fino alla distruzione. In Rachel Bespaloff, al contrario di Simone Weil, la forza inappellabile del destino non è innocente, ma la dura roccia contro cui ogni uomo è destinato a scontrarsi. Eppure nella realtà non c’è equilibrio negli opposti, il negativo non si risolve nel positivo, non c’è risoluzione nel contrasto tra Ettore e Achille. Solo la poesia, con la sua pace pura, il suo amore adamantino, rappresenta lo spazio della sintesi.
Queste e molte altre le riflessioni che emergono dal saggio, breve ma quasi allucinato nella sua chiarezza e che certo richiede non poche conoscenze e pazienza critica per essere ben compreso, da quelle dell’epica, a quelle filosofiche. Da segnalare poi i curiosi paragoni letterari che Rachel Bespaloff tesse, Elena come Anna Karenina, l’Iliade come la Bibbia, o come Guerra e Pace, in una sovrapposizione tra Troia e Mosca che affonda le sue radici in quei testi che la stessa scrittrice non esita a definire più che umani. Mi preme infine segnalare un altro aspetto che, per un’altra strana contingenza, mi ha colpito. Ho letto questo libro in contemporanea ai “Dialoghi con Leucò” di Pavese e le somiglianze nelle conclusioni o nell’impianto del pensiero sono sconcertanti: il concetto di destino più forte degli dei, l’indifferenza degli immortali, la roccia nuda della sessualità come principio creatore e distruttore, il tema dell’eternità della poesia e della letteratura come canto che sospende il flusso turbolento del divenire. E come non dire, alla fine, che sarà proprio sui Dialoghi con Leucò che Pavese scriverà le sue ultime parole prima del suicidio. Cesare, Rachel, Simone sono forse arrivati troppo oltre l’apparenza delle cose.
Non è certo il saggio più aderente all’Iliade, è certo una narrazione che spinge ai limiti dell’interpretazione il testo, ma è, allo stesso tempo, la storia di un’anima che nella letteratura arde e consuma se stessa. E così tra le righe potrete leggere la vita di questa donna, che immaginiamo ancora a studiare l’Iliade con sua figlia, a pensare alle pene di Andromaca, al dolore di Priamo, alla cieca volontà del destino. Non a caso il capitolo dedicato al pasto di Priamo e Achille, il padre e l’assassino del figlio, è di una bellezza tanto rarefatta quanto commovente. Purtroppo il testo manca di un’adeguata cornice, di una spiegazione d’intenti e si trincera in una certa ostilità alla comprensione, geloso di se stesso. ’altronde a queste pagine, Rachel Bespaloff ha consegnato la propria anima.
[Per chi volesse intraprendere la lettura, consiglio una ripassatina all’Iliade e la lettura di un libro folgorante, se posso dire, di Giorgio Colli, “La nascita della filosofia”, che non a caso inizia proprio dall’Iliade; bello anche l’articolo di Nadia Fusini, che trovare al seguente link https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/07/18/in-esilio-con-omero.html?refresh_ce]
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L'ultima, lunga poesia, di un uomo
Il cielo d’Occidente è il vuoto degli dei fuggiti, il tempo della povertà estrema, lo smarrimento del sacro. L’anima di Pavese è il turbamento dell’uomo, il disorientamento della vita, la lotta prometeica alla verità. Lo stesso cielo da cui, Nefele, la nube, parla a Issione nel primo dei ventisette, meditatissimi dialoghi del libro, e ci avvisa: “C’è una legge, Issione, cui non possiamo sfuggire”. La legge è “la bufera”, si affretta a corregge lui, ma Nefele non cede, “tu sei tutto nel gesto che fai, ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga”. Pavese è di una geometria assoluta, di un rigore elementare, perché sa che solo nella struttura e nella coerenza un libro tanto frammentato ha senso. E allora la dicotomia atroce si esprime subito, la vita in sé, che trionfa nel suo stesso essere, e il destino, la morte, appiattita come “una serpe”, in ogni istante. Un’altra mano governa, ma c’è davvero qualcosa oltre le nubi?
All’uscita, questo libro così rarefatto, così cristallino e silenzioso, questi dialoghi tanto ellittici da sfiorare l’incomprensione, apparirono a molti niente più che uno sfoggio d’erudizione, una raccolta di esempi moraleggianti cari all’autore, quasi un esercizio di stile. Anzi fu accolto con tanta freddezza da ferire Pavese, che anzi su questo libro scriverà le sue ultime parole prima del suicidio. Credo sia necessario un certo ottundimento critico per non percepire questi dialoghi come la storia di un’anima, di una vita, lo struggimento, il dibattimento, la corsa a un infinito affossato nei tortuosi labirinti della mente. Pavese scortica i miti, non per ritrovarne l’intimo significato, per scrostarli dalla frenesia interpretativa, no, piuttosto li spoglia fino all’essenziale, fino alla più criptica associazione di senso per indagare i fondamenti del destino dell’uomo, il senso della vita, la morte, l’amore. I personaggi che si alternano, in una meravigliosa, placida, rapsodia di toni, da Saffo che si suicida per un rifiuto, a Orfeo, il poeta-Pavese, che deve scendere all’inferno per scoprire la sua arte e che, vinta la morte, si accorge che tutto è null’altro che ombra, passando per Odisseo, colui che sa dare il nome alle cose, che porta l’isola, la felicità, nel suo cuore, e che per questo non invidia gli dei, fino a Demetra, il grano e Dioniso, il vino, carne e sangue, anelito di resurrezione. E sopra di tutto la poesia, la Musa, che sa risolvere le contraddizioni della realtà nella pace del cielo, nella forza nuda della roccia, una natura che si ama di un amore puro, rarefatto, vergine. La poesia che sa preservare il silenzio dalla parole, che sa nominare le cose, risolvere il caos, in un gioco raffinatissimo di controcanti, rimandi, sospensioni estatiche che percorrono tutte le note di un pentagramma ristrettissimo, coerente, concreto. Pavese parla di nubi, roccia, montagne, laghi, boschi, belve, mostri e mentre tocca con mano il mondo, vola in realtà lontanissimo dalla nostra capacità di comprendere.
Non mi è possibile, se non analizzando uno per uno questi dialoghi, rendere conto della ricchezza del libro, una ricchezza certo difficile da capire. Non basta una prima lettura, non è sufficiente una seconda e probabilmente non saranno utili infinite letture, perché abissali e cocciutamente inesprimibili sono i problemi che affronta Pavese, in una resa dei conti col il caos, con gli dei, con gli uomini. Volevo solo invitarvi a leggere questi Dialoghi, ad amarli come Pavese ha amato il sole, il vento, la bufera, a non leggerli di seguito, come fosse un rosario, ma a lasciarli sedimentare, dialogare in voi. Permettetevi di stupirvi. Forse questo libro davvero non porta da nessuna parte, perché non c’è alcun luogo da raggiungere: sentieri erranti nella Selva del pensiero, tra i rami del tempo, tra le sinuose curve dello spirito. Sentieri che incrociano una vita che non vuole incontrarli.
Questi dialoghi sono il testamento di Pavese, e, per quanto di lui ho letto, sono infinitamente più belli di altre sue opere, perché in ogni parola, in ogni istante, bruciano di un fuoco contratto, come l’arte classica che nell’equilibrio delle forme tenta di domare il caos della realtà. Pavese scriverà di aver bruciato la candela solo da una parte, “la cenere sono i libri che ho scritto”. Chi scrive muore, chi legge, si salva.
“EROS Dal tempo del caos non si è visto che sangue. Sangue di uomini, di mostri e di dèi. Si comincia e si muore nel sangue.
TÀNATOS Che per nascere occorra morire, lo sanno che gli uomini. Non lo sanno gli olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprime un fiore distruggono un uomo.”
Questo libro, questo fiore che è costato la vita di Pavese, davvero meriterebbe più attenzione, anche solo una giustizia postuma. Da parte mia, uno dei libri più intensi e belli che mi sia capitato di leggere e che avrei voluto trasmettervi con molta più passione. Ma ahimè, posso solo chiedervi di fidarvi.
Indicazioni utili
Leopardi, Operette morali
Frazer, Il ramo d'oro
Non fa per me
Lo confesso fin da ora, e forse qualcuno riuscirà a farmi cambiare idea: questo libro non mi è piaciuto e al contrario di molti di voi, né nello stile, né nella tecnica, né nella storia, né in qualunque altro aspetto, nonostante i miei sforzi, sono riuscito a trovare qualcosa di piacevole o di sufficiente a giustificarne la lettura. Anzi, a dirla tutta, ho anche fatto una certa fatica a finirlo. In altri termini, questo Giro di Vite mi è risultato piatto, esilissimo, vuoto.
Il problema principale, almeno per me, è la prosa di James, opulenta, disequilibrata, farraginosa, inutilmente lunga. In certi tratti mi ha ricordato addirittura Jane Austen, una lingua vecchia un secolo. Il racconto di James è sì un dialogo di sguardi, un gioco di prospettive, la rappresentazione di una verità impossibile, di una realtà incerta perché fuggevole, ectoplasmica, apparente, una realtà che è puro arbitrio dell’interpretazione, ma il tessuto narrativo, la scelta del non detto, non sanno, a mio avviso, dare forza alle intenzioni, incarnare nel testo quanto di aggrovigliato, pirotecnico, e in un qual senso profondo, la trama potrebbe offrire.
Possiamo discutere di apparizioni, non apparizioni, psicanalisi freudiana, possiamo anche spingerci a definirlo un’allegoria della crescita, degli incubi dell’età adulta, o ancora una banale storia di schizofrenia, ma, e mi perdonerà chi lo ha apprezzato, non serve a niente quando il libro è difficile da leggere. Le ellissi della narrazione, i dialoghi paradossali, la comunicazione accartocciata delle due donne che si vengono a trovare sulla scena, offrono, è vero, uno spaccato dell’incomunicabilità tra le persone, ma il testo non si muove nel senso di una “pragmatica” della comunicazione, ma, in maniera più furba che intelligente, lascia alla sospensione e al lettore il peso della storia. Fatto che per alcuni è un merito di James, un meccanismo perfetto, ma che in realtà fatico a vedere come riuscito: il testo stride in continuazione (e, almeno per me, già alla prima lettura), scricchiola, richiede una fiducia al lettore che sfiora la disattenzione. Credo ci sia una differenza sostanziale tra un’opera aperta, che si completa cioè solo nell’intepretazione che ne dà il lettore o che si moltiplica su piani multipli, e un’opera che gioca invece sull’effetto straniante e a sorpresa del silenzio.
Volendo riassumere, quesi tratti che sembrano essere un valore aggiunto del libro, e che sono per certi versi oggettivi, e che pure riconosco, non riescono a compensare una lettura noiosa, ridondante, quasi indigesta. Probabilmente non sono riuscito a vedere quanto di buono c’è, forse è proprio un gusto non compatibile con il mio. Visto che molti di voi hanno dato giudizi positivi e lo hanno apprezzato, probabilmente mi sfugge qualcosa, ma ho davvero difficoltà ad entrare in sintonia con le pagine.
Detto questo, anche se con questo non è andata, mi fido ancora molto dei libri che consigliate e anzi mi avete fatto scoprire molti buon autori.
Le colpe degli intellettuali
Nell’ultima notte della sua vita, un uomo torturato dalla propria coscienza, quel giovane invecchiato che lo tormenta e gli impedisce di morire in pace, racconta la propria vita per difendersi da quelle accuse ingiuriose che non riconosce come proprie. Si apre con un paradosso questo ultimo, rabbioso e denso romanzo di Bolano: ricordare il negativo della realtà, per suggerire, nel vuoto “viscerale, intestinale” della trama, il grido di sgomento, desolato, di chi non ha saputo opposti alla storia, pur avendone tutte le capacità. Notturno cileno è l’arringa solitaria di un avvocato che difende un assassino e che, obliquo, ne rivela tutte le responsabilità. Perché questo canto del cigno, così duro, così pastoso, così vibrante, è una denuncia senza diritto di replica della codardia e dell’indifferenza degli intellettuali cileni sotto Pinochet. Bolano, che pure non appoggiò mai il regime, avverte una certa “vergogna”, rispetto a se stesso, alla sua nazione, al mondo, la vergogna di chi si sente lacerato dall’ingiustizia, dai crimini, dal puro arbitrio del potere e sembra vivere il romanzo come un gigantesco punto interrogativo: come è stato possibile che nessuno abbia parlato, da dove origina tanta connivenza, tanta collusione, quando le persone muoiono e tutti lo sanno?
Notturno Cileno è un libro sulla responsabilità civile di quegli intellettuali che nulla fanno della propria cultura, se non ostacolano o denunciano il male estremo. Bolano ci ricorda che l’intelligenza non serve a nulla, è davvero vuota, se non accompagnata da un profondo senso morale, ci ricorda che la poesia ha senso solo se sa cambiare le persone, solo se gli uomini riescono a vivere quel bello e su quel bello costruire le proprie azioni. Penso a filosofi grandissimi, come Heidegger, che pure appoggiarono, per lungo tempo, il nazismo: a che serve la realtà di carta del pensiero se poi il mondo brucia nel consenso di chi più di tutti dovrebbe capire?
Bolano sceglie una tecnica difficile, quella del soliloquio lungo oltre cento pagine, una scrittura tanto appassionata, tanto necessaria, da violentare la punteggiatura, che scompare per lunghi periodi e annulla i confini del testo: le immagini si sovrappongono e mescolano, in uno sguardo che non è più quello cubista de La Pista di Ghiaccio, suo primo romanzo, ma surreale, sinestetico, visionario, con la consueta grazia delle immagini, con la meravigliosa capacità di creare scene poetiche e stranianti. Così il narratore insegna il comunismo a Pinochet, gli recita Leopardi, così assiste al dialogo cristallino di Neruda con la luna o si perde tra i falchi dei parroci europeri, indaffaratissimi nella lotta contro gli escrementi dei piccioni che consumano le cattedrali. Certo Bolano rischia, scrive sul punto di equilibrio scivoloso fra la bellezza e il patetico, fra quello che qualcuno definirebbe indie e la commozione latinoamericana per la vita., in una tensione miracolosa, quasi perfetta. A volte, specie nella parte centrale, sembra quasi che la trama di scardini e il libro precipiti, ma Bolano sa recuperare, ricucire, ricomporre la matassa in un quadro che alla fine lascia la consueta, magica malinconia, di cui lui è capace.
Chiudo con un pensiero di Gaetano Salvemini, storico e politico italiano, che all’avvento del Fascismo ebbe a dire: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialit?. L'imparzialit? è un sogno, la probità è un dovere.”
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Di bellezza si muore
Al centro di un dedalo di stanze e corridoi, nel recesso più intimo di un palazzo in abbandono, cangiante e ceruleo, radicato alla nuda roccia di una scogliera, tra le onde dell’oceano e le altezze del cielo, un uomo in quarantena, ostaggio tanto del suo orgoglio, quanto ingenuamente innamorato della silhouette immaginifica di una indomabile pattinatrice, fa costruire una pista di ghiaccio, a spese dello stato che si vanta di rappresentare. Uno spazio di un realismo evanescente, onirico, che scivola lontano dalle atmosfere magiche di Marquez e accarezza i suoi personaggi fino a delinearne, con sfumata eleganza, i contorni. Certo c’è un omicidio, annunciato fin dalle prime righe, una vittima, un colpevole, ma tutto accade molto tardi, ben oltre la metà del libro, perché il giallo e la politica sono solo un pretesto per dare corpo a una struggente riflessione sull’amore e sulla bellezza. Sentimenti difficili, irrazionali, distruttivi che promettono fin da subito risvolti pericolosi, ma passioni brutali, esiziali di una grazia disarmante. Perché tutto Bolano racconta con una eleganza raccolta, con una prosa raffinatissima e delicata, che continuamente trascolora dalla concretezza della carne ai voli dello spirito.
Le voci di tre uomini si intrecciano senza soluzione di continuo, riprendono e riespandono piani temporali proteiformi e sdrucciolevoli, ricostruiscono “la cronaca di una morte annunciata”, disinteressandosi del loro stesso scopo. Quello che davvero conta e palpita è la storia dei sentimenti, delle passioni accese che vivono di una fiamma propria e fatua, tremano e si disperdono, per pura forza d’entropia, come lasciate in balia di un caso capriccioso che non risponde ad alcun principio di ordine. E allora la pista di ghiaccio si fa contrasto cromatico e termico per preservare in perpetuo la bellezza. Come in quella storia del cielo che per vincere l’inferno lo cristallizza nel gelo perenne, senza però riuscire a vincere la forza dirompente di una fiamma che continuamente minaccia la superficie.
Questo libro ha in sé la forza evocativa di un film di Myazaki (e non credo sia un paragone troppo azzardato), la placida, magmatica, densa lentezza di Sostiene Pereira, l’epopea di sudamericani smarriti e vagabondi sotto il cielo spagnolo, significativamente rappresentati sotto le tende di un campeggio, ma anche il malinconico abbandono di Ishiguro. Forse mentre si legge, non si ha davvero la percezione della bellezza del testo, ma una volta chiusa l’ultima pagina il lettore è pervaso da una nostalgia feroce, dal vuoto che prova solo chi, fino a un attimo prima, ha tenuto in mano il segreto di una mattina in un'aria di vetro.
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Una amara profezia
Premetto -e questa vuole essere una resa incondizionata a Benjamin- di non avere la cultura filosofica necessaria per sviscerare un’opera come questa, tanto breve e fulminante, quanto oscura e sfuggente, meditata, sofferta, imprescindibile, eppure avverto l’imperativo morale di parlarne, tanto credo sia profetica sulla società contemporanea. Mi perdonerà, chi avrà la pazienza di leggere, la lunghezza di quanto segue: non ho saputo fare altrimenti.
Intanto: Benjamin non vuole scrivere una fenomenologia dell’arte contemporanea, non è uno storico dell’arte, la sua ambizione è molto più alta, fissare l’ora (Jetzt), la cifra del destino dell’arte che è intrinsecamente destino della politica. Perché il fulcro rovente di queste saggio è tutto nel rapporto fra arte e politica e sul suo riverbero, famelico o salvifico, sull’uomo. I presupposti concettuali per questa riflessione, che già nelle premesse dichiara la sua “prometeica arroganza”, sono da un lato l’estetica hegeliana e dell’altro l’avvento della tecnica.
Hegel, nel tracciare la storia dello Spirito, scopre l’arte inessenziale: l’artista, genio romantico, crea il mondo e in questo suo farsi creatore, compartecipa al miracolo di Dio. La poiesis, ovvero la produzione oggettuale di qualcosa fuori del soggetto, è un’altra onda nel mare della creazione. Eppure, per necessità dialettica, l’artista scopre che questa oggettivazione del soggetto nella forma artistica, non è “reale”, ovvero che ogni gesto artistico altro non è, se non una affermazione della propria “autocoscienza”. Ne segue che per Benjamin il valore “cultuale” dell’arte, cioè il suo essere al di là dell’uso comune, attorniata dall’aura del sacro e del mistero, è in crisi fin dal suo stesso apparire, perché l’arte si scopre umana, troppo umana e d’altronde dopo Nietzsche il fatto è stupido, tutto è interpretazione e l’intepretazione è l’arbitrio dell’autocoscienza del soggetto. Al valore cultuale si oppone il valore espositivo, l’arte resa pubblica accessibile, democratizzata (Carmelo Bene direbbe imborghesita, ma Benjamin si muove in bene altro orizzonte storico). La tensione fra valore espositivo e valore cultuale è tanto centrale da darsi, per Benjamin, nella forma della storia dell’arte. Con l’età contemporanea c’è una netta sproporzione tra i due settori: il valore espositivo, vista la riproducibilità senza discrimine dell’opera d’arte, provoca l’annullarsi del valore cultuale e la perdita dell’aura. Recuperando un’intuizione di Baudelaire, Benjamin sviluppa il tema della dissoluzione dell’aura nell’arte, laddove con aura s’intende il carattere sacrale e misterico dell’arte, il suo valore cultuale, che ricondotto alla prospettiva materialistica di Benjamin non è altro che “un singolare intreccio di spazio e tempo”. Questa affermazione richiama alla terrestrità dell’opera d’arte, al suo legame inscindibile con l’attimo che non è riproducibile, pena la trasformazione di una tragedia in commedia, dell’arte in una sua banalizzazione.
Dall’altro lato Benjamin riflette riprendendo il tema heiddegeriano della Tecnica, intesa come tempo della modernità, come nuova forma di datità della realtà. Se di fronte alle fauci della tecnica, Heidegger erra tra i sentieri della selva (Holzwege), alla ricerca di una radura dove ri-volgersi in sé, riappropriarsi del tempo della meditante attenzione, in Benjamin non c’è spazio alcuno in cui l’uomo possa farsi “pastore dell’Essere”, dove cioè la realtà possa accadere e divenire e infine il senso ultimo disvelarsi. Non c’è perché lo spazio di questo disvelamento è il Sacro (Heilige), “la traccia degli dei fuggiti”, un sacro che, traducendo, altro non è che il valore cultuale oramai (per Benjamin) tramontato. Benjamin trasla la prospettiva metafisica della riflessione heideggeriana della tecnica e del sacro, nella ben più materialistica analisi del rapporto fra arte e politica. E d’altronde fulcro concettuale dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è la prospettiva materialistica dell’arte, intesa non soltanto nell’ottica del mezzo materiale (o immateriale) della sua diffusione, ma anche nell’ottica del mezzo per la sua fruizione. Proprio la fruibilità diventa coordinata per comprendere non soltanto la massificazione della società di inizio secolo, ma anche la nascita delle nuove forme artistiche, quali cinema e fotografia, in cui l’esperienza artistica non è elitaria o individuale o gerarchicamente organizzata, bensì risulta simultanea a un gruppo esteso di persone. Eppure Benjamin ritiene che la riproducibilità abbia introdotto profonde modifiche nella natura dell’esperienza estetica non solo nel senso che essa è divenuta un’esperienza di massa, ma anche nel senso che i valori di culto tradizionalmente connessi all’arte sono decaduti lasciando il posto a nuovi valori che il filosofo definisce espositivi: la fruizione distratta, l’esteticità diffusa, il carattere effimero e sempre disponibile dell’evento estetico. Solo l’hic et nunc è rifugio dell’autenticità, il carattere di testimonianza storica, traccia della sua irripetibilità; l’hic et nunc è l’apparizione di una lontananza, di una distanza, di una sacralità perduta. “Anche nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l'hic et nunc dell'opera d’arte. Ma proprio su questa esistenza unica, e in null'altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta. L’hic et nunc dell'originale rappresenta l'idea della sua autenticità, e sulla base di questa, a sua volta, poggia l'idea di una tradizione. L'intero ambito dell'autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica.
Dopo queste lunghe premesse, necessarie per capire le conclusioni, veniamo alle conseguenze pratiche della storia, all’inesorabile avanzamento di quell’Angelus Novus, con gli occhi rivolti indietro, e le ali inesorabilmente spinte in avanti, che Benjamin ravvisò in un bel quadro di Paul Klee. L’arte contemporanea è crisi del sacro e quindi caduta dell’aura. La caduta dell’aura è choc perché rivoluziona le dinamiche di appercezione dell’opera d’arte, non più l’attenzione, ma la distrazione. Le due forme sotto cui si presenta l'arte del secolo ventesimo - da una parte la cultura di massa, dall'altra l'avanguardia artistica - sono accomunate entrambe dalla perdita dell'aura: come il cinema abolisce la contemplazione attraverso il rapido succedersi delle immagini, così il dadaismo dissacra letteralmente l'arte, utilizzando materiali degradati in funzione provocatoria. Anzi il cinema diviene l’espressione più compiuta della perdita dell’aura: ogni cosa perde la sua fissità (non solo quella materiale, ma anche quella di permanenza nel tempo a causa del montaggio) e perdendo il suo permanere si desostanzializza. In questa dissoluzione della sostanza, in questo fluire, Benjamin vede le radici della crisi della moderna democrazia: il mutare dei valori di esponibilità anche da parte dell’uomo politico, porta ad un suo moltiplicarsi nell’immergersi nella massa, ma egli preserva pure un carattere di sacralità, mistero, un carattere carismatico che mina alle basi la democrazia. Il dato di partenza è la presenza imprescindibile delle masse: la loro importanza si manifesta per la ricezione dell’arte in due modi; prima come desiderio di avvicinare e ‘impossessarsi’ dell’opera d’arte attraverso la sua riproducibilità; poi trasformando la ‘durata’ dell’opera d’arte (evento unico ed irripetibile) nella fugacità della sua riproduzione, che viene ‘consumata’ sotto forma di immagine nelle illustrazioni dei giornali. Benjamin scorge la possibile strumentalizzazione di cui la riproducibilità tecnica può essere oggetto da parte di leader carismatici. Il principio cui egli guarda è il “Führerprinzip”, il principio di supremazia del capo che è un principio di carisma e di dominio, di magnetismo e attrattività sulle masse: il leader delle masse, proprio come una star cinematografica, appare allo stesso tempo vicino e distante; la riproducibilità della sua immagine da una lato lo rende continuamente presente, quasi conosciuto, dall’altro però ne ribadisce la distanza senza farlo apparire inavvicinabile. Benjamin, in altri termini, scopre qui come la Tecnica è matrice culturale del rinnovamento dell’umanità, ma allo stesso tempo distingue tra “l’essenza rivoluzionaria della Tecnica in quanto tale e l’uso che di essa possono fare forze culturali-politiche reazionarie”. Il ritorno dunque al motto estetista dell’art pour l’art appare come un tentativo condannato di per sé al fallimento e anzi pericoloso perché, rifugiandosi di nuovo nella sacralità dell’arte, precipita in quella “estetizzazione del fascismo” che egli vede alla base dei regimi totalitari che trionfano in Europa mentre egli sta scrivendo l’opera in questione. Se però il fascismo ha estetizzato la politica, il comunismo, cui Benjamin si avvicina, specialmente in relazione all’avanguardia marxiana, ha politicizzato l’arte: ha fatto in modo che essa cioè sfuggendo alla pura contemplazione della sacralità, scaricate di contenuti decisamente politici in grado di emancipare le masse dalla supremazia dei movimenti totalitari. Questo nuovo tempo dell’arte, il tempo della sua malinconica ma necessaria desacralizzazione, è il tempo della vita nervosa, della distrazione, della mobilitazione universale, il tempo in cui l’arte non è più appannaggio di una classe ristretta, ma si massifica, si democratizza, portando alla dissoluzione della frattura fra autore e pubblico: lo choc metropolitano è l’oggetto ultimo dell’indagine di Benjamin. Eppure tutta la vita Benjamin sarà in bilico tra lo smarrimento per un sacro perduto (la casa dell’Essere) e la speranza per un futuro migliore delle masse.
In questa metamorfosi dell’elettore in pubblico sta tutto il senso di una riflessione tanto tesa e lucida e non sta a me riportare, a controprova, quanto di recente la politica riserva.
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