Opinione scritta da Marghe Cri
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Lapidatemi pure!
Sono una voce fuori dal coro, sto per scrivere una recensione controcorrente: A ME NON È PIACIUTO!
Non solo non mi è piaciuto, ma ho impiegato mesi per finirlo e l'ho finito solo perché non avrei osato pubblicare una recensione (per di più negativa) su un libro del quale non avessi letto la parola fine.
Perchè non si sa mai, alle volte i libri partono piano, non ti avvincono, ma poi, non si sa come, cominci a sprofondarci dentro e non vorresti uscirne più.
E mi dicevo: che diamine, tutti ne sono entusiasti, un capolavoro, un libro da leggere, una prova d'autore... e tu non riesci ad andare avanti!
Mesi. Ci ho messo mesi a finirlo ed intanto leggevo altro. Ma lui era là e mi guardava con la sua copertina scombinata, dalla grafica e dai colori minacciosi (va bene, non mi piace neppure la copertina, ok?).
Ieri l'ho preso in mano e l'ho finito. Mi sono obbligata a farlo.
Poi ho cercato di mettere insieme le emozioni che il libro mi ha dato, ho cercato di capire perché no, perché proprio no, non mi dava piacere leggerlo..
Mi ha lasciato un senso di claustrofobia (del genere, forse, che molti provano leggendo Kafka) non solo per i capitoli ambientati nella Clinica o in quell'orribile bar con l'inverosimile libro “nascondiglio”: su tutto il libro, anche nelle scene ambientate in riva al mare, aleggia un'atmosfera chiusa, come se i pochi personaggi fossero i soli ad abitare quella parte di mondo. E poi i colori: un libro grigio, immagini in bianco e nero, neanche un soffio di colore, né di calore. I sentimenti sono tutti malati, le relazioni interpersonali “stridule” (non so come spiegarmi meglio).
Anche l'unica storia d'amore (vogliamo chiamarla così?) che si dipana attraverso tutto il racconto è fortemente e drammaticamente sopra le righe e nel suo epilogo non mi ha rasserenata.
Insomma, ok, non ho capito niente, non ho saputo gustare un capolavoro... ecco mi metto al centro dell'arena, cominciate pure a scagliare le pietre...
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La metamorfosi Rothiana
David Kepesh in una notte si trasforma da uomo in seno.
Sì, un seno femminile, delle esatte misure del suo corpo di uomo: 70 kg per un metro e ottanta di altezza. Lo decora un bellissimo e sensibilissimo capezzolo attraverso il quale David può parlare e può sentire. Però è privo di tutti gli altri sensi, tranne il tatto o meglio la sensazione di venir toccato, considerato che toccare lui non può, privo di mani com'è.
Professore di letteratura, collega naturalmente la sua situazione ai bellissimi racconti – La metamorfosi e Il naso - di Kafka e Gogol che per anni ha spiegato ai suoi studenti; si chiede persino se quelle fantastiche invenzioni letterarie (tanto a lungo frequentate) non abbiano potuto influenzare la sua vita portandolo alla condizione attuale. Ma sotto il profilo emotivo non si sa dare pace, rimane a lungo, fino alla fine, incredulo che quel che vive sia davvero la realtà e fa un tentativo di rifugiarsi nella pazzia, preferendola a quanto sta vivendo.
Intorno a lui si muovono pochi personaggi: il suo medico, che studia questa incredibile metamorfosi con scientifico distacco; il padre che con tenerezza lo visita una volta alla settimana, parlandogli come se nel letto ci fosse suo figlio come lo conosceva e non una enorme mammella nuda; la sua compagna, la giovane Claire, che giorno dopo giorno non gli fa mancare il suo affetto e lo accarezza con tenerezza nelle sue parti più sensibili, fornendogli il piacere fisico che lui brama.
Il personaggio più incredibile è proprio Claire che appare quasi bovina, nella sua accettazione di una situazione inverosimile, mentre fornisce carezze e baci lascivi alla mammella in cui il suo uomo si è trasformato. David si chiede a un certo punto se, a ruoli invertiti, sarebbe stato in grado, lui, di accarezzare e baciare la sua Claire trasformata un grosso pene di cinquanta kg.
Il racconto è gradevole e divertente per la capacità di Roth di mantenere viva l'attenzione del lettore e per la leggerezza ironica e a tratti cinica con cui l'argomento è trattato.
Il finale consolatorio, con il richiamo ad una poesia di Rilke, dedicata al frammento di una statua di Apollo esposto al Louvre, fa tornare David a rivestire ancora una volta i suoi panni di professore e allude forse alla possibilità che nella parte si possa rintracciare il valore del tutto.
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Vedete, non è questione di fare quello che è giusto o appropriato; non è il galateo della perfetta mammella a preoccuparmi, ve lo posso assicurare. È piuttosto fare ciò che devo per continuare a essere io. Perché se non io, chi? O che cosa? O continuo a essere me stesso, o impazzisco – e poi muoio. E sembra proprio che non abbia voglia di morire; sorprende anche me, però continua a essere così.
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Chi salverà il mondo?
L'improvviso crollo della piramide di Cheope fa emergere lo Zed: impalcatura monolitica, spina dorsale dell'antico monumento. All'interno dello Zed vengono ritrovate alcune antiche tavole scolpite in una lingua sconosciuta.
Il mondo trattiene il fiato. Siamo nel 2012, l'anno che l'antico calendario Maya indica come l'ultimo della civiltà umana.
Forse le tavole contengono la ricetta per salvare il mondo e l'umanità?
Uno studioso italiano viene chiamato dal Curatore delle antichità egiziane per tentare la traduzione del linguaggio sconosciuto.
Da qui una serie di peripezie, un intreccio avventuroso che tirerà in ballo, per la finale comprensione del messaggio, la filosofia ermetica e quella platonica, Giordano Bruno e Michelangelo, la fisica quantistica e la psicologia.
L'autore, alla sua prima prova, dimostra talento e fantasia nello sviluppo dell'azione e dell'intreccio, anche se la prosa, semplice e scorrevole, dimostra di essere un po' acerba, soprattutto nella ridondante ripetizione di alcuni concetti.
È comunque un libro piacevole nato da un'idea intrigante.
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La grande piramide si era separata, si era letteralmente aperta in due. Aveva ricevuto la notizia dalla televisione, nel suo appartamento di Parigi, soltanto sei ore prima e subito aveva capito che doveva andare, ci sarebbe stato tempo per spiegare la sua assenza all'università dove era impiegato come ricercatore e professore di lingue e civiltà scomparse. Doveva andare, troppo tempo della sua vita era stato speso sognando di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a quelle civiltà misteriose, sapeva che quella era la sua occasione, semplicemente lo sentiva.
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Intreccio di colpe
Il matrimonio tra uomo bello ed affascinante e una donna bruttina, goffa e di qualche anno più vecchia.
Spiantato senza arte né parte lui, ricchissima e schiva lei.
Una situazione classica, non è così?
Che lei viva un profondo amore, mentre lui sprofonda nella noia e nei tradimenti e che la situazione si risolva alla fine con un omicidio non stupisce nessuno, non è vero?
Iréne Nèmirowsky incastona due personaggi di forte carattere in un racconto brevissimo, in forma di lunga lettera scritta in punto di morte dalla domestica della Signora alla figlia primogenita della coppia in cui, con la solita lucidità e con occhio impietoso, descrive gli eventi che la “Signorina” non poteva a quel tempo analizzare e comprendere.
Racconta di come sia avvenuto il delitto e ne fornisce la versione reale, al di là dei fatti che furono appurati nel processo. Quello che realmente accadde e perchè e come lei riuscì ad influenzare la sentenza.
Un racconto brevissimo, ma profondo e coinvolgente, un'analisi spietata dei sentimenti e delle passioni, valida oggi come all'inizio del secolo scorso, in realtà universale.
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… a una donna si può fare di tutto: tradirla, picchiarla e abbandonarla, ma se un uomo può perdonare chi lo deride, una donna – mai!
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Un pezzo di storia, un amore
Le immagini di una Grecia umiliata, offesa, vilipesa che le televisioni di tutto il mondo hanno trrasmesso all'ora di cena, quei visi increduli, quei cortei, quella richiesta di giustizia, quelle speranze spezzate, quel Paese spinto sull'orlo del fallimento, quelle immagini a colori, mi hanno riportato indietro nel tempo ad altre immagini così simili ma in bianco e nero, che mostravano i Colonnelli e il loro regime, la richiesta di libertà di un popolo, l'insofferenza per la dittatura di un Paese in cui nacque la democrazia.
E mi è tornato in mente Alekos Panagulis.
Chi allora non c'era di certo non sa chi sia stato Alekos. Forse anche chi fu testimone quei momenti drammatici ha dimenticato ormai quell'uomo che invece resta immortale per chi ha letto questo libro.
Alekos fu il grande (unico?) amore di Oriana, questo gli ha dato fama imperitura.
Forse a causa di ciò il povero Alekos si rivolta da decenni nella sua tomba: passare alla storia per essere stato l'amore di una sia pur grande scrittrice non deve essere motivo d'orgoglio, per lui.
Perchè Alekos fu un Uomo.
Lo fu al di là del sentimento che fece nascere in una donna ruvida e amante della propria libertà.
E questo racconta questo libro: la vita di un uomo capace di lottare fino alla morte per le sue idee, per la libertà dalla dittatura, per il trionfo della giustizia e la punizione dei corrotti.
Un uomo che subì torture inaudite, raccontate vividamente, che si trovò mille volte vicino a cedere, ma come tutti i grandi eroi, fece della debolezza del corpo uno strumento di crescita della volontà.
Attraverso questo romanzo, basato strettamente sulla realtà storica, Oriana ha raggiunto l'obiettivo di rendere eterno il nome dell'uomo che ha amato e di costringere anche noi ad ammirarlo e, infine, ad amarlo.
Per chi vuole apprezzare la grandezza di un'Oriana scrittrice sanguigna e grandissima cronista della storia più vicina a noi, questo è un libro da non perdere.
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Impietrita dinanzi alla bara col coperchio di cristallo che esibiva la statua di marmo, il tuo corpo, gli occhi fissi al sorriso amaro e beffardo che ti increspava le labbra, aspettavo il momento in cui la piovra sarebbe irrotta nella cattedrale per rovesciarti addosso il suo amore tardivo, e un terrore mi svuotava insieme allo strazio.[...] Per arginare la spinta che mi premeva ai fianchi, alla schiena, dovevo appoggiarmi al coperchio di cristallo. Questo era molto angoscioso perché temevo di romperlo, caderti sopra e sentire di nuovo il freddo che mi aveva morso le mani quando all'obitorio ci eravamo scambiati gli anelli, al tuo dito quello che avevi messo al mio dito e al mio dito quello che avevo messo al tuo dito, senza leggi né contratti, un giorno di gioia, ormai tre anni fa [...]
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Fantascienza?
È un bel problema se rischiate di perdere la casa, ancor peggio se rischiate di perdere la Terra!
E' proprio quello che accade al povero Arthur in questo libro geniale e divertente che approccia la fantascienza in modo del tutto personale, spassoso, demenziale, intelligente e stralunato.
C'è dentro di tutto: filosofia, fisica, antropologia, teologia, cosmologia, psicologia... il tutto mescolato in dialoghi non-sense veramente irresistibili.
Si legge, si ride e si pensa... affiora il sospetto che sotto l'umorismo si celi qualcosa di importante, un pensiero più profondo, l'anelito all'abbraccio di un cosmo che potrebbe davvero contenere tanta altra vita, altra da noi, naturalmente... ma poi una risata interrompe il pensiero e si torna a navigare in un universo in cui gli oggetti più importanti, quelli che non puoi dimenticare, sono il tuo asciugamano e la Guida Galattica, che già in copertina ricorda: “Non lasciatevi prendere dal panico”.
Una sola avvertenza: l'autore è inglese e così il suo umorismo. Se non apprezzate questo tipo di humor probabilmente il libro non vi offrirà tutto il divertimento che promette.
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Una delle cose che Ford Perfect aveva sempre trovato difficile comprendere a proposito degli umani era che avevano il vizio di affermare e ripetere cose assolutamente ovvie, come risultava evidente da frasi quali “Che bella giornata!” o “Come sei alto!” oppure “Oddio, mi sembra che tu sia caduto in un pozzo profondo nove metri: ti sei fatto male?”. In un primo tempo Ford si era fatto una sua teoria per spiegare questo strano comportamento. Aveva pensato che le bocche degli esseri umani dovessero continuamente esercitarsi a parlare per evitare di rimanere inceppate. Dopo avere osservato e riflettuto alcuni mesi, Ford aveva abbandonato questa teoria per l'altra. Aveva pensato che se gli esseri umani non si esercitavano in continuazione ad aprire e chiudere la bocca, correvano il rischio di cominciare a far lavorare il cervello. Dopo un po' aveva abbandonato anche questa teoria, considerandola eccessivamente cinica, e aveva deciso che in fondo gli esseri umani gli piacevano molto, anche se non poteva mai fare a meno di preoccuparsi e disperarsi davanti alla terribile quantità di lacune che le loro conoscenze presentavano.
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Una favola, dite?
Da piccola lessi una delle solite riduzioni per bambini, decorata dalle bellissime immagini tratte dal film di Walt Disney. Ne ho visto il film più volte e ho sempre considerato "Alice" una delle favole più belle e stimolanti per la fantasia di un bambino.
Chi, dopo averli conosciuti, è stato capace di dimenticare il Bianconiglio, o il Cappellaio Matto, l'inquietante Gatto del Cheshire (lo Stregatto) o l'irascibile Regina di Cuori?
Poi ho provato il desiderio di leggere la favola nella sua stesura originale ed ho scoperto un piccolo gioiello inaspettato.
Premetto che non è possibile leggere questo testo prescindendo dalla conoscenza, sia pure superficiale, del suo autore.
Il professor Charles Lutwidge Dotgson, alias Lewis Carroll, è stato un tipo un po' particolare: serioso professore e studioso di matematica, aveva una incoercibile propensione a giocare e godere della compagnia dei bambini, preferibilmente delle bambine, che considerava a pieno titolo “suoi amici”. Insomma un tipo che oggi, con le leggi a protezione dell'infanzia, avrebbe avuto non pochi problemi a tenersi alla larga da complicazioni legali.
Non voglio scrivere un dotto trattato su di lui, ma suggerisco di leggere la bellissima ed interessante recensione di Renzo Montagnoli che troverete a questo indirizzo: http://www.qlibri.it/saggistica/storia-e-biografie/lewis-carroll-nel-paese-delle-meraviglie/
Torniamo al libro.
Di solito viene suggerito per lettori dai dieci anni in poi, ma personalmente ritengo che la prosa di Carroll sia un po’ troppo elaborata, sia sotto l’aspetto concettuale che formale, per un bambino così piccolo. Di certo è piacevole per un adulto che voglia fingersi bambino e lasciarsi cullare dalle invenzioni dell’autore.
L’uso fantasioso del linguaggio è la vera forza del libro, utile a creare gli equivoci linguistici sui quali si basa il divertimento e gran parte della trama.
I personaggi, incontrati sulla carta, non sono meno sorprendenti e curiosi rispetto a quelli del cartoon americano; sono però più “pieni”, più ricchi di pensiero e di vita. Ancor più affascinante ed avvolgente l'atmosfera.
Molto godibile anche la prefazione a questa edizione, che consiglio senz'altro di leggere: un racconto nel racconto.
Il secondo titolo: “Attraverso lo specchio”, riprende il personaggio di Alice e le fa vivere un’avventura assai più rarefatta e meno immediata, questa volta in un mondo speculare anziché sotterraneo. Non credo sia comprensibile per i bambini, se non con l’aiuto di un adulto, sia perché basato in parte sulla conoscenza del meccanismo del gioco degli scacchi, sia per l’abbondanza di testi poetici e no in cui il gioco di parole, talvolta intraducibile da una lingua all’altra, la fa da padrone.
[…]
“Micino del Cheshire”, cominciò a dire, esitando, non sapendo se quel nome gli sarebbe piaciuto: il gatto si limitò a sogghignare ancora di più. “Beh, finora sembra compiaciuto”, pensò Alice e continuò a parlare. “Mi diresti, per cortesia, quale strada devo prendere per andarmene da qui?”
“Tutto dipende da dove vuoi arrivare.” rispose il Gatto.
“Il dove non ha grande importanza...”, disse Alice.
“E allora non ha grande importanza neanche la strada da prendere”, commentò il Gatto.
“... basta che arrivi da qualche parte”, aggiunse Alice per spiegarsi meglio.
“Oh da qualche parte ci arrivi di sicuro”, disse il Gatto, “basta che non ti stanchi di camminare”.
Alice capì che era impossibile smentirlo, così fece un'altra domanda. “Che specie di gente vive in questo posto?”
“In quella direzione”, disse il Gatto, indicando con una zampa, “vive un Cappellaio: e in quella” , e indicò con l'altra zampa, “vive una Lepre Marzolina. Fa' visita a chi vuoi, tanto sono matti tutti e due.”
“Ma io non voglio andare in mezzo ai matti!”, protestò Alice.
“Oh, non puoi evitarlo, disse il Gatto, “qui sono tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta”.
“Come fai a sapere che sono matta?”, domandò Alice.
“Devi esserlo”, rispose il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui”.
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Un appassionante giallo storico
Un affascinante giallo storico basato su una interessantissima ricerca sull'origine di una serie di quadri e di una scuola pittorica (Fontainebleau) giunti fino a noi avvolti da un’aura di mistero: non ne conosciamo con certezza né gli autori, né i nomi dei personaggi rappresentati, né il significato dei gesti fissati sulla tela. Una di queste opere è esposta agli Uffizi di Firenze e davvero, dal vivo, mi ha dato una sensazione di sospensione dalla realtà, di attesa, di mistero.
L’autore, uno studioso d’arte, espone una sua teoria, basata su evidenze storiche, che lega le origini e il significato dei quadri misteriosi all'ascesa di Gabrielle d'Estrées all'interno della corte di Francia, come favorita e importante consigliere politico: fu lei a spingere Enrico di Navarra alla conversione al cattolicesimo che gli consentì di cingere la corona di Francia col nome di Enrico IV (“Parigi val bene una messa!”).
Dopo anni d'amore e molti figli nati dall' unione con Gabrielle, Enrico riuscì ad ottenere l'annullamento del precedente matrimonio con Margherita di Valois e fissò la data per le nuove nozze..
Rimane un giallo storico l'improvvisa e mai spiegata morte di Gabrielle a pochi giorni dalla cerimonia.
La bravura dell'autore sta nella capacità di trasformare una seria ricerca storica ed artistica, in un'opera godibile e ricca di intrecci e di personaggi interessanti, di suspence e di azione che piacerà a chi ama i gialli di ambientazione storica ed anche a chi ama l’arte, dato che in appendice c’è una guida ragionata ai vari dipinti cui si fa riferimento, ricca di fotografie e spiegazioni.
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La vita com'è
Leggere Valeria Parrella è come parlare con una sorella, che ti conosce e che conosci: condividere sentimenti, sensazioni e pensieri che credevi solo tuoi e celavi a volte persino a te stessa, e trovarli là, sulla carta, evidenziati da segni neri che disegnano non parole, ma emozioni condivise, timori e speranze, disperazioni e abbandoni.
Valeria Parrella sa dipingere le sue donne e i suoi uomini sullo sfondo di una Napoli crudamente realistica, priva di immagini folkloristiche e retoriche.
La Napoli senza poesia, abitata da piccoli delinquenti - bulli di quartiere, spacciatori e scippatori - che rendono impraticabili le strade dopo la chiusura dei negozi. La Napoli in cui però si può ancora amare ed essere amati, in cui la vita deve essere strappata coi denti e bisogna venire a patti con i propri sogni per imparare a vivere la realtà.
I quattro racconti che compongono il libro sono belli ciascuno a suo modo. A me è rimasta nel cuore Marina, la protagonista del racconto intitolato “L'amico immaginato”, una donna che ha un lavoro impegnativo, una famiglia, una figlia piccola e vive un amore parallelo che in qualche modo le segnerà la vita.
Un libro bello, una prosa scorrevole e moderna, un linguaggio fresco, ironico, originale. Un'autrice che parla di sentimenti senza sentimentalismi.
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Marina guardava i pini che si tuffavano nella città dal parapetto del Belvedere. E aveva nostalgia di se stessa.
Il suo presente non arrivava: era la pressione che manca alla nuca un attimo prima della carezza, la linea libera che aspetta proprio quella telefonata per occuparsi, il vuoto del sonno nel risveglio il giorno della gita.
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In un fiato
L'ho letto proprio così: in un fiato.
È opera di uno degli autori emergenti proposti da Qlibri: Cinzia Franceschinelli, una donna giovanissima e già una penna promettente ed interessante.
Si tratta di un romanzo d'amore, d'amore giovane, fra giovani.
Il linguaggio, asciutto e moderno, è brillante nei dialoghi che arricchiscono il testo e descrive senza fronzoli l'evolversi di un sentimento e la maturazione di una coppia che (come di prassi) dovrà attraversare momenti di esaltazione e di sofferenza, dovrà cercarsi, perdersi e ritrovarsi per poi forse perdersi ancora...
Il romanzo ha un ottimo equilibrio ed i personaggi rimangono fedeli a loro stessi, si fanno amare e non si modificano nel corso del racconto, come spesso accade, per agevolare la trama.
L'ho letto con piacere e con altrettanto piacere lo raccomando soprattutto a chi è coetaneo dell'autrice, ma anche a chi ha voglia di sentirsi giovane per qualche ora.
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Stringo le labbra e mi metto a fissare il pavimento.
Se l'anno scorso mi avessero detto che le cose si sarebbero messe così non ci avrei mai creduto. Non posso continuare così, sono sposata; seppur in modo strano amo Francesco e questa situazione mi uccide. Mi giro e vado verso la mia borsa.
“Non voglio farti del male, significherebbe farlo anche a me stessa.” - Sospiro - “Torno a casa, credo sia meglio.”
Scuote la testa, si prende le tempie fra le mani e io non ce la faccio a vederlo così; quando si tratta di Jean divento estremamente fragile. Mi rendo conto di non avere la forza di fare nulla, non riesco a lasciare lui, a lasciare Francesco, ma più di tutto non riesco nemmeno ad andarmene da questa casa.
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Ah! L'amore!
Siete innamorati? Sentite che siete vicini ad esserlo?
Siete appena usciti da una relazione e vi sentite a pezzi? Un vecchio amore vi perseguita e non riuscite a liberarvene?
Ecco che vi viene in soccorso Dan Rhodes!
Un piccolo libro: 110 pagine per 110 racconti formati da 110 battute ciascuno (nella versione originale inglese), in cui ciascuno riconoscerà se stesso o qualche conoscente perché le istantanee che l'autore scatta per 110 volte sono vita vissuta per ciascuno di noi.
Non è cosa da poco riuscire a far sorridere di situazioni che in genere sono tutt'altro che divertenti. Ci riesce Dan Rhodes con sguardo acuto e penna ironica.
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La mia ragazza mi ama così tanto che quasi non riesco a sopportarlo. Non fa che dirmi quanto siano virili le mie mani, quanto trovi seducente la mia fronte e che il suono della mia voce le fa venire i brividi dappertutto. Una volta ho provato a cambiare argomento. "Potremmo parlare di qualcos'altro, tanto per cambiare?" le ho chiesto.
"Certo che no", mi ha risposto, "Come pensi che possa concentrarmi su qualcos'altro se sei qui davanti a me con quei denti così bianchi?". Ho chiuso gli occhi e scosso la testa. "Oh, fallo ancora, ti prego", ha urlato, "Sei così bello quando fai così".
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Una donna misteriosa
Non sono una fan di Montalbano ma ho apprezzato il Camilleri della trilogia delle metamorfosi. Ho voluto riprovarci con questo libro.
A rigore non si tratta di un giallo, ma di un’indagine psicologica da parte di un uomo anziano, finalmente in pensione e padrone del proprio tempo, che si accorge di conoscere assai poco la personalità della sua giovane e bellissima moglie, che gli appare sempre più misteriosa e sfuggente.
Comincerà a cercare di dare un significato ad ogni gesto, ogni sorriso, ogni assenza.
Sempre più affascinato dalla personalità di lei accetterà ogni umiliazione, fino a quando la situazione gli sfuggirà di mano e, purtroppo per lui, tutto gli sarà chiaro, alla fine…
Non ci sono grandi invenzioni, ma i personaggi sono intriganti, la situazione elegantemente morbosa ed il libro scorre piacevolmente.
Vale la pena di dedicargli qualche ora di lettura, semplificata dall'uso limitato della lingua camillerese.
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Ma quei romanzi e quei film che prediligeva, le avevano mai insegnato qualcosa? Ne dubitava, perchè quei film e quei romanzi parlavano, sia pure in modo ora rozzo ora ingenuo, di un sentimento che in Adele non era mai esistito.
Non glielo aveva detto lei stessa quando si era paragonata a un deserto che era inutile annaffiare? Certo, in quel momento si riferiva al fatto di non poter avere figli, ma la sterilità non era solo del suo grembo.
Era lei, nella sua interezza, ad essere sterile, arida.
E questa era la non piacevole conclusione alla quale era arrivato doppo dieci anni di matrimonio. Ma avrebbe dovuto capirlo già da molto prima, macari perchè lei non faceva nulla per ammucciare la sua natura o per parere almeno tanticchia diversa da quello che era.
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Una favola stralunata
Potrebbero Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Biancaneve e la Piccola Fiammiferaia essere vive e presenti nel mondo di oggi?
E potrebbe la loro storia essere raccontata come una favola che ricalca gli originali, portandosi a corredo i gadget, le manie, il comportamento ed il linguaggio degli adolescenti di oggi?
E potrebbe una sola fanciulla indossare, in successione, gli abiti di quei personaggi e trovarsi a rivivere le loro avventure e disavventure?
L'autore di questo libro ritiene di sì e ci racconta una storia ironica e divertente che si legge come si beve un sorso d'acqua e lascia col sorriso sulle labbra. Anche se ha ragione il titolo: questa favola non è proprio roba per bambini!
Un encomio ad Arduino Sacco Editore che, come si legge nella contro copertina, non usufruisce di finanziamenti né pubblici né da parte degli autori e rischia in proprio per pubblicare nomi nuovi e consentire loro di apparire in libreria e di farsi conoscere. Complimenti per la grafica che pone in copertina un'immagine gradevole, fresca ed accattivante. Un po' meno complimenti a chi ha curato editing ed impaginazione perché si è lasciato sfuggire numerosi piccoli errori che si potevano facilmente evitare.
Suggerisco la lettura del libro che pur traducendo le favole in un linguaggio e con situazioni “da adulti”, riesce a mantenersi entro i limiti dell'ironia senza cadere nel volgare.
[…]
C'era una volta, come c'è sempre stata e sempre ci sarà...
una bambina con un piccolo cappuccetto rosso.
Come spesso accade nelle migliori famiglie, questa bambina viveva spensierata con la sua mamma e, come spesso accade nelle migliori famiglie, del padre non ne seppe mai nulla.
La loro vita trascorreva tranquilla in una piccola, umida, modesta casetta, sul limitare di un bosco inquinato pieno di tafani, zanzare e fazzoletti sporchi dell'entusiasmo di chi ci andava in “camporella”.
Trascorreva tranquilla la vita... lenta ma trascorreva.
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Ancora un capolavoro!
Josè Saramago: ma non ha scritto niente di banale quest'uomo?
Questa volta non è una storia semplice. Questa volta affondiamo nell'orrore dell'homo homini lupus.
A causa di una improvvisa epidemia di cecità (forse infettiva?) l'umanità affonda nell'orrore del male la cui radice conserva dentro di sé e che dilaga all'esterno senza più barriere, né quelle della morale, né quelle dell'educazione e della convenienza.
E l'orrore non è, come siamo abituati a immaginarlo, una caduta nel nero profondo, ma un morbido affondare nel bianco lattiginoso: una nebbiolina lattea che appanna la vista e priva i nostri personaggi, uno alla volta all'inizio e poi man mano in gruppi sempre più corposi, non solo della capacità di controllare il mondo intorno, ma anche e soprattutto di mantenere la propria umanità.
Se nessuno ti vede, e tu non vedi nessuno, chi ti impedirà di rubare, di uccidere, di violentare, di prevaricare? Chi potrà ergersi a giudice di chi?
Solo in pochi saranno capaci di mantenere un contatto con la propria coscienza, con il desiderio di giustizia, con l'orgoglio di definirsi uomini.
Saramago questa volta ci va giù pesante: spella vivo il lettore, sparge sale sulla carne viva, disorienta la nostra fantasia con scene di violenza morale e fisica inattese e indimenticabili interrotte, all'improvviso, da brevi momenti di umanità preservata, di tenerezza, di amore capace di sacrificio e di altruismo.
E mentre tutto accade, si scivola in una catastrofe di proporzioni incontenibili ed irrimediabili, oppressi da un tempo ed uno spazio claustrofobico e privo di speranza.
Ma poi... poi il buon Josè ha pietà del suo lettore e dei suoi personaggi e apre uno spiraglio verso il ritorno alla “normalità”. Ma quel che si è fatto, quel che si è vissuto, subìto e pensato, chi potrà cancellarlo? Come si potrà tornare alla vita di prima?
Come sempre la trama è stupefacente, ma è l'aspetto meno importante del romanzo: Saramago con le parole dilania e accarezza, traveste la realtà con scintillante fantasia e ci obbliga a pensare, a guardarci dentro.
[…]
Ecco come sono le parole, nascondono molto, si uniscono pian piano fra di loro, sembra non sappiano dove vogliono andare, e all'improvviso, per via di due o di tre, o di quattro che all'improvviso escono, parole semplici, un pronome personale, un avverbio, un verbo, un aggettivo, ecco lì che ci ritroviamo la commozione che sale irresistibilmente alla superficie della pelle e degli occhi, che incrina la compostezza dei sentimenti, a volte sono i nervi a non riuscire a reggere, sopportano molto, sopportano tutto, come se indossassero un'armatura, si dice, La moglie del medico ha i nervi d'acciaio e poi, in definitiva, la moglie del medico si scioglie in lacrime per via di un pronome personale, di un avverbio, di un verbo, di un aggettivo, mere categorie grammaticali, mere designazioni
[...]
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Adorabile Christopher!
Christopher, il protagonista, è come se l’avessi incontrato, conosciuto ed amato.
È un ragazzo che è stato privato della comprensione immediata del mondo, che tutti noi diamo per scontata. Ciò che per noi è normale, evidente, spontaneo, per lui è del tutto incomprensibile: cosa significa un sorriso, cosa indica il linguaggio del corpo, come comprendere se chi hai di fronte ti è amico o nemico?
Vive in un rompicapo il povero Christopher, perché è affetto da una forma di autismo ed il suo mondo è difficile laddove per noi è facile e viceversa.
Per lui la matematica, la fisica, la cosmologia sono passatempi facili e rasserenanti in cui si rifugia per sfuggire al mondo che non capisce.
Il cane dei vicini è l'unico animale con cui riesce a instaurare una specie di rapporto per lui rassicurante, ma un giorno ne trova il cadavere trafitto da un forcone. Sembra che a nessuno importi di scoprire l'assassino e Christopher decide di investigare.
L' indagine lo aiuterà a trovare il coraggio di instaurare un rapporto con gli "sconosciuti" (e per questo temibili e pericolosi) vicini di casa, a scoprire episodi della propria vita che gli erano completamente oscuri, a dover ricostruire un rapporto con il padre che, dopo la scomparsa della madre, da anni si occupa di lui e che lo ama teneramente.
È un libro di sentimenti, ricco soprattutto della simpatia di un ragazzo che non sa comunicare ma cerca in tutti i modi di adeguarsi ad un mondo fuori misura per lui e per la sua brillante intelligenza.
È un libro commovente, divertente, perfino istruttivo.
[…]
La gente mi confonde.
Per due ragioni, fondamentalmente.
La prima è che la gente parla molto senza usare le parole. Siobhan dice che se si solleva un sopracciglio, questo gesto può significare molte cose differenti. Può voler dire: “Voglio fare sesso con te” , ma può anche essere inteso come: “Hai appena detto una cosa veramente stupida”.
Siobhan dice anche che se chiudi la bocca e respiri forte col naso, significa che sei rilassato, oppure che ti stai annoiando, o che sei arrabbiato, e che tutto dipende da quanta aria esce dalle narici e quanto respiri velocemente e quale forma assume la bocca quando lo fai e in che modo stai seduto e che cosa hai appena finito di dire e centinaia di altri piccoli indizi troppo complicati per poter essere elaborati in pochi secondi.
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Vestire i panni di un altro
Ogni volta che termino un libro di Saramago e mi accingo a redigere un commento mi sento inadeguata.
Anche un giudizio entusiasta mi sembra sempre povero in confronto alla ricchezza di colori ed umori che le parole di questo grande sanno lasciare nella mente e nel cuore di chi legge.
Ammetto che per chi si trova ad affrontare per la prima volta questo autore ci sono alcune difficoltà da superare: la prosa densa e la punteggiatura e gli a capo mancanti o ridotti al minimo, che rendono una conversazione fra due persone un insieme contratto di domande e risposte separate al massimo da una virgola, il racconto inframezzato frequentemente dai commenti del narratore che si fa a volte personaggio aggiuntivo nel racconto… insomma la prosa di Saramago!
Ma se lo si conosce e si sa cosa si troverà sotto la copertina, tuffarsi nelle sue parole è come sempre una gioia, un ritorno a casa, un insperato incontro con un caro amico.
Saramago affronta il tema classico del “doppio” da par suo.
Il libro parte lentamente e per le prime pagine non c’è trazione da parte dell’autore, lo si legge perché lo si vuole… ma poi, quando si comincia ad entrare nel meccanismo della storia, si viene trascinati senza interruzione verso il finale forse non del tutto inaspettato (gli indizi erano già stati seminati) ma racchiuso in pochissime pagine di forte impatto.
Il mio giudizio? Al di là delle stelline qua sopra: bello, bello, bello… leggetelo!
[…]
Lei lo aveva ascoltato sorpresa, in qualche modo perplessa, il marito non l'aveva abituata ad udire da lui riflessioni del genere, tantomeno nel tono con cui le aveva espresse ora, come se ogni parola venisse già accompagnata dal suo doppio, una specie di rimbombo da caverna popolata, in cui non è possibile sapere chi stia respirando, chi abbia appena mormorato, e chi sospirato.
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Una donna coraggiosa
Dalla metà del 1800 fino alla fine del secolo regnò in Persia Nasiru’d-Din Shah.
I suoi cinquant’anni di regno sono l’oggetto di questo libro.
Mentre si legge è difficile rendersi conto che parliamo di eventi di poco più di un centinaio di anni fa: mentre Anita cavalcava accanto al suo Giuseppe, in Iran le donne non avevano ancora il diritto di imparare a leggere e scrivere.
Una donna, la Poetessa di Qazvin, nata in una famiglia di eruditi mullah osò “addirittura” studiare i testi sacri e discuterne in pubblico con competenza e coraggio.
Questo le valse l’accusa di eresia, l’imprigionamento e la morte.
La sua vita si intreccia per un periodo con quella dello Shah.
Il racconto è quasi esclusivamente al femminile: sono quattro donne a raccontare, in quattro capitoli separati, cinquanta anni di vita e di storia visti dall’interno della propria vita privata.
Le quattro narrazioni si intrecciano e sono nell’ordine: quella della madre dello Shah, della moglie del Primo Notabile del Regno, della sorella dello Shah ed infine, nell’ultimo capitolo, si vede come l’intera vicenda abbia inciso sulla vita della Poetessa.
Il libro è interessante per gli argomenti che affronta e per lo spaccato che offre su una società ed un modo di pensare che sono molto lontani dalla nostra cultura. È sostenuto da note cronologiche e bibliografiche che ne attestano l’aderenza ai fatti storici.
Nella prima parte la lettura è un po’ appesantita dalla necessità di crearsi una mappa mentale temporale dei fatti che vengono presentati con l’uso dei flash back, ma già dal secondo capitolo, che ripercorre – come gli altri - gli stessi eventi da un diverso punto di vista, la narrazione si presenta più chiara e ci accompagna a conoscere la condizione della donna in una cultura che non è cambiata negli ultimi secoli: sudditanza ed invisibilità sono il destino di una donna nata nell’Islam e per quelle che si ribellano, e dotate di capacità superiori primeggiano sugli uomini, il destino è la morte.
Il capitolo più bello è l’ultimo, quello che descrive gli eventi visti dall’occhio lucido e sereno della Poetessa: è estremamente coinvolgente e ci si ritrova a sperare che, nonostante l’epilogo sia già noto, qualcosa possa intervenire a cambiare il corso degli eventi.
Lo consiglio a chi ama i romanzi storici rispettosi dell’aderenza ai fatti realmente avvenuti.
[…]
Ci vuole così tanto a morire, pensò inebetita mentre le contrazioni aumentavano di intensità. I colpi nel cortile sembravano diventare sempre più forti; pareva che buttassero giù i cancelli, che abbattessero la casa intera. Forse è finalmente la levatrice, gemette la povera ragazza. Se non è la levatrice, allora sarà la morte per me, pensò. Ma forse è morto il bambino, urlò in preda al terrore. E se non ci sono segni di vita, se nasce morto? Eppure no, essere morta non era ancora la cosa peggiore, comprese, e i suoi occhi si spalancarono all’idea dell’altra possibilità. Oh, no! E se era una femmina?
Era più di quanto potesse sopportare. Mentre il suo corpo veniva stretto in una morsa e squarciato, la nuora strabica del primo notabile cominciò a urlare.
[…]
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Un classico moderno
Una strana bambina, un padre affettuoso, un precettore originale.
Un viaggio verso la guarigione di una malattia misteriosa, una pensione un po’ strana, ospiti dalla personalità assai particolare.
Un pittore che dipinge il mare con acqua di mare, su una tela bianca.
Due innamorati che si sfuggono, si ritrovano, si dividono.
Molte vite si intrecciano sulla riva di un mare che mostrerà tutte le sue facce, passando dall’incantevole distesa tremolante di riflessi, alla sua forma più terrificante di rapace divoratore di vite umane.
In effetti il mare è il personaggio principale del libro, tutti gli uomini le donne e i (sorprendenti) bambini che gli girano intorno non sono che comprimari.
Un po’ favola, un po’ fantasia visionaria, testo di grande respiro e fortemente ispirato.
Poesia in prosa, prosa poetica, originali colloqui con Dio in forma di lunghissime poesie.
Un genere a sé stante, impossibile da omologare ad un altro testo. Sorprendente.
Anche se per me la prosa di Baricco è un po’ troppo barocca, ripetitiva, artificiosa ed alla lunga mi risulta stancante è comunque assai ben costruita ed ha una resa eccezionale, incancellabile nel ricordo.
Ci sono moltissimi passaggi di una bellezza folgorante. Ne riporto uno facendo con ciò torto a molti altri, ma non posso certo copiare tutto il libro!
[...]
Il mare incanta, il mare uccide, comunque spaventa, fa anche ridere, alle volte, sparisce, ogni tanto si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezze, non dà risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile. Ma soprattutto il mare “chiama “. […] Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole.
[…]
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Mi fa compagnia
È quasi magico questo libro perché, nonostante mi sia stato regalato nel 1980 e le sue pagine siano solo 110, io lo sto ancora leggendo!
Lo Zen , ricerca dell’illuminazione, è una ricchissima tradizione religiosa che deriva dall’antica religione cinese Ch’an, che si diffuse intorno al 1200 anche in Giappone, dove divenne la base di gran parte della letteratura, dell’arte e della filosofia orientale. Si tratta di un modo di interpretare la vita assai lontano dal pensiero occidentale, ma questi racconti brevissimi, sono tutti in grado di farci sorridere e riflettere.
Ne copio qui uno – tutto intero - in modo che chi sceglierà di comprare il libro ne dovrà leggere solo altri cento!
Un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto ad un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l’orlo.
La tigre lo fiutava dall’alto. Tremando, l’uomo guardò giù, dove, in fondo all’abisso, un’altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva. Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra spiccò la fragola. Com’era dolce!
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Una bella favola triste
La retrocopertina di questo libro, diversamente dal solito, non riassume la trama e non dà che una vaghissima indicazione del contenuto. Mi attengo anche io a questa scelta. Mi limiterò a dire che il libro riguarda un periodo di circa un anno della vita di un bambino di nove anni, Bruno, la cui storia viene raccontata in terza persona, utilizzando il linguaggio e simulando la capacità di analisi di un bambino di quell’età.
Non è un libro per l’infanzia, però. È destinato agli adulti che vedranno il ristretto mondo di Bruno - siamo a metà del secolo scorso, in pieno olocausto - attraverso i suoi occhi e la sua sensibilità.
Bruno fa fatica a comprendere appieno quel che vede e quel che sente, ad una realtà incomprensibile sovrascrive i sentimenti e le sensazioni a lui noti: i bambini sono bambini e secondo lui vivono tutti una vita simile alla sua, circondati da affetti simili ai suoi.
L’amico che si sceglierà ha un vissuto molto diverso dal suo ma - reso più maturo dalla sofferenza - non sarà capace o non vorrà cancellare la visione serena della vita che Bruno gli presenta, accontentandosi di godere di un affetto e di un’amicizia che non può avere nel suo mondo.
Il finale è amaro e non potrebbe essere diversamente, visto il luogo e l’epoca di cui si narra.
La lettura è facile e scorrevole, sarebbe bello poter pensare che si tratti solo di una favola.
[…] “La Polonia”, disse Bruno pensieroso, soppesando la parola. “Non è bella come la Germania, vero?”
Shmuel si accigliò. “Perché no?” chiese.
“Beh, perché la Germania è la più grande di tutte le nazioni” disse Bruno ricordando una cosa che aveva sentito dire più volte al padre intento a parlare col nonno. “Noi siamo superiori.”
Shmuel rimase zitto a fissarlo, e Bruno desiderò cambiare in fretta argomento, perché anche se aveva detto quelle parole il loro suono non gli piaceva e l’ultima cosa che voleva è che Shmuel lo giudicasse cattivo. […]
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Che strana scelta!
Il libro contiene una raccolta di racconti più o meno brevi scelti per rappresentare le varie anime di Fernando Pessoa e la produzione dei suoi eteronomi.
Amo Pessoa e il suo stile, ma non ho apprezzato la scelta editoriale di inserire nella raccolta alcuni scritti non terminati, tra cui un lungo racconto, “Il caso Vargas”, che l’autore ha lasciato talmente incompleto da costituire una vera sfida alla lettura (questo è il motivo delle tre stelle al contenuto).
Le parti lasciate in sospeso vengono interrotte da una piccola croce e in alcune pagine sono quasi più le croci che le frasi complete.
La lettura dei testi di Pessoa di per se stessa richiede già un certo impegno ed effettuare lo slalom fra crocette, pensieri troncati a metà e capitoli di cui ci è arrivato solo il titolo ed una vaga indicazione di quello che sarebbe dovuto essere il contenuto, è una sfida a continuare la lettura. Mi sono chiesta il perché di una simile scelta da parte dei curatori, anche se ammetto che nella parte “leggibile” il racconto è intrigante.
Gli altri racconti, che affrontino il tema sociale, fantastico o poliziesco sono davvero godibili. Quello che ho amato di più è stato “Il banchiere anarchico”: il titolo sembrerebbe una contraddizione in termini, ma se nella lettura ci si lascia guidare dalla penna di Pessoa alla fine, diversi sorrisi dopo, si finisce col dovergli dare ragione. Bellissimo!
[…] “La tirannia dell’aiuto. Alcuni di noi, anziché comandare sugli altri, anziché imporre se stessi agli altri, al contrario, li aiutavano ogni volta che gli era possibile. Sembra il contrario eh? Sappia che invece è lo stesso. È la stessa nuova forma di tirannia. È lo stesso modo di andare contro i principi anarchici.”.
“Bella questa, e come?”
“Quando aiuti qualcuno, amico mio, vuol dire che lo prendi per incapace. Se questo qualcuno non è incapace, vuol dire che lo rendi tale, o che lo immagini tale: tirannia nel primo caso, e disprezzo nel secondo. In un caso, recingi la libertà altrui, nel secondo caso, almeno inconsciamente, parti dal principio che l’altro sia spregevole, o indegno, o incapace di essere libero” […]
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Indimenticabile
È faticoso leggere Camilleri per chi non ha dimestichezza coi dialetti e si chiede che motivo ci possa essere per costringersi ad affrontare una lettura lenta e spesso ripetuta per comprendere il senso di un testo.
Ma provate a leggere “Il casellante”, uno dei titoli che formano la “Trilogia delle metamorfosi” – Maruzza Musumeci, Il casellante, Il sonaglio – e vi accorgerete della perfetta identità fra il linguaggio ed il contenuto del racconto.
Non riesco ad immaginare “Il casellante” scritto in lingua italiana. Ho la sensazione che il linguaggio elaborato da Camilleri sia l'unico adatto a descrivere non solo gli eventi, ma i sentimenti estremi di cui questo libro si nutre: la forza del desiderio, del dolore, della disperazione ed infine della follia di una donna cui è negata la maternità e di un uomo che per amore è in grado di affrontare la pazzia di lei assecondandola fino all’inaccettabile.
Bellissimo e poetico. Da leggere. Assolutamente.
“Ma Minica non chiangì né allura né appresso.
A Nino parsi che la sorgenti delle lacrime, dintra di lei, si era asciucata di colpo, doviva esseri addivintata tutta asciutta come il diserto. Non chiangì manco quella vota che, mentri cucinava, il cutreddu puntuto le cadì dalla mano e le si ‘nfilò dritto nel pedi mancino. Niscì tanto sangue che Nino s’appagnò e accomenzò a darle adenzia con mano tremanti e lo spirito col quale disinfettò a longo la firita doviva abbrusciare assà, ma lei nenti, né ‘na lagrima né un lamento, né ai né bai.”
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Un'occasione persa
Alice è un’adolescente costretta in un letto d’ospedale da una malattia fortemente invalidante ed è nella sua stanza che si volge l’intera vicenda.
In una situazione così drammatica ci si aspetta un racconto carico di emozione, dolore, speranza.
Ma Alice è una ragazzina dalla personalità bizzarra e la penna di Cathleen Schine descrive con leggerezza e ironia lo svolgersi degli eventi, dando vita ad una serie di personaggi descritti a tutto tondo, anche quando sono semplici comparse.
Nel leggere le prime pagine mi è sembrato di trovarmi nelle atmosfere di John Irving: qualcosa mi richiamava alla mente “Il mondo secondo Garp”, forse per l’originalità dell’idea e per i personaggi surreali che si alternano accanto al letto di Alice. Poi l’illusione è svanita, il grande John se n’è andato e mi sono trovata fra le mani un romanzo che man mano perdeva sempre più smalto, fino a diventare noioso e ripetitivo e dai toni decisamente forzati nel tentativo di mantenere un accento leggero.
Non è bastata una bella prosa per salvare un libro che ben prima della metà perde ispirazione ed interesse.
Peccato, un’occasione mancata per l’autrice e per il lettore!
“Sto delirando?” domandò Alice.
“Hai la febbre” rispose sua madre, immergendo la pezzuola in un bicchiere di carta pieno d’acqua di lavanda.
“Mi sembrava di delirare”. Il delirio, se non altro, aveva un che di romantico. “Sicura che non sto delirando?”.
Sua madre rispose che credeva di no e le passò la pezzuola bagnata sulla fronte.
L’acqua di lavanda profumava di pulito, come il cassetto delle camicie da notte di una zitella.
“Bere molti liquidi!” si raccomandò sua madre un minuto dopo, porgendole uno dei bicchieri di carta traboccanti d’acqua, che erano posati sul comodino.
Alice se lo avvicinò alle labbra. “Ho riportato danni cerebrali” pensò con languore. “L’acqua ha uno strano sapore. Sa di…”
“Mamma! Mi hai dato l’acqua di lavanda! È disgustosa.”
“Ti ho avvelenata! Oh mio Dio, ti ho avvelenata!” gridò sua madre baciandole le mani.
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L'ho finito!
160 pagine, carattere tipografico di dimensione ben leggibile.
Ho pensato: un paio di giorni e via!
Poi ci ho messo due settimane. Succede così quando il libro non mi chiama, non mi lega, non mi affascina. Lo guardo, là sul comodino, e distolgo lo sguardo, cerco altro da fare, mi invento una scusa per non prenderlo in mano.
L’ho finito, comunque, ma senza piacere.
La storia è abbastanza banale, l’horror è molto annacquato ed anche la componente curiosità dura poco perché ben presto si comprende come e perché si muovono i vari personaggi ed anche come andrà a finire.
La prosa è scorrevole ma scolastica, piuttosto povera in termini stilistici: forse l’autore è alla sua prima prova, in questo caso dovrà prendersi il tempo per maturare.
Oltre tutto ci sono parecchie sviste, forse tipografiche, sia grammaticali che di punteggiatura.
Insomma poca attenzione tipografica per un testo poco avvincente.
“Marta non sapeva cosa dire, né cosa pensare, una paura impalpabile e sottile si era insinuata nella sua mente, non le permetteva di riflettere con tranquillità, lasciava la sua impronta nell’angolo inferiore di ogni suo pensiero, come la firma di un’artista sulla tela.”
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... che thriller!!!
Da tempo non mi capitava di aprire un libro e trovarmi davanti un incipit così aggressivo e coinvolgente.
A volte succede che la storia poi si sgonfi e ci si ritrovi con un libro diverso da quello che avevamo immaginato.
Non è questo il caso.
Pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, fino alle ultime battute “Il ladro di anime” mi ha tenuta incollata alla lettura. Tutta la storia si svolge in una notte, che è anche il tempo necessario per leggerlo: 300 pagine tutte godibili, senza un calo di interesse, senza un momento di pausa.
Si tratta di un thriller psicologico.
Avete presente Shining? Lo ricorda vagamente, ma non lo copia.
Avete presente la prosa di Stephen King? Sebastian Fitzek ha uno stile molto diverso ma altrettanto incisivo e coinvolgente. Per me una vera scoperta.
La storia si sviluppa in modo intelligente e fino alla fine nonostante gli indizi sparsi qua e là, non sono riuscita ad anticipare la soluzione del giallo.
Non dico una parola sulla trama, quel che trovate nella sinossi è più che abbastanza.
Dico solo che è un gran bel libro e vi invito a verificarlo da soli.
“L’autore trapianta i propri pensieri nella testa dei lettori, li fa vedere, sentire, vivere e spesso li trasporta a migliaia di chilometri di distanza, in luoghi dove non hanno mai messo piede.
Ma che succede quando i pensieri sono cattivi?”
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Un bel romanzo storico
Sorano, personaggio centrale del romanzo, è effettivamente esistito ed è stato un grande e rivoluzionario medico dell’epoca imperiale, attivo ad Alessandria d’Egitto e successivamente a Roma.
Il romanzo lo accompagna dall’infanzia ad Efeso, agli studi e alle prime esperienze cliniche ad Alessandria, fino al suo arrivo a Roma, dove si impegna ad ampliare le proprie conoscenze mediche e spende gran parte della propria vita per insegnare a medici e ostetriche l’arte di curare le donne e assisterle nel momento rischiosissimo del parto.
Un innovatore, un rivoluzionario della medicina, un uomo che riuscì in tempi difficili a barcamenarsi fra poteri opposti e lotte religiose, perseguendo il proprio obiettivo culturale e scientifico.
Sotto questo aspetto il libro ha il pregio di introdurci a considerare quanto dobbiamo ai primi studiosi nel campo medico e quanto fosse più difficile essere donne e madri in quei tempi.
Ci regala anche un bell’affresco di alcune fiorenti città del passato remoto.
Per quanto riguarda il piano puramente narrativo ho trovato il libro talvolta un po’ prolisso e ripetitivo.
Molte considerazioni sull’impatto del Cristianesimo sulla storia dell’Impero e sulla resistenza dei Giudei nei confronti della Lex Romana e dell’occupazione della Palestina, vengono ripetuti più volte, col risultato di appesantire la lettura.
Anche il personaggio centrale, Sorano, seppur indiscutibilmente ben descritto nel suo carattere e nelle motivazioni delle sue azioni, non mi ha affascinato quanto avrebbe dovuto. Né tantomeno i personaggi di contorno, compresi quelli di maggior spessore. Ho avuto la sensazione che in tutti mancasse quell’alito di vita vera che talvolta consente ad un personaggio di essere vissuto come un amico fino al punto di soffrire della sua assenza al momento di chiudere definitivamente il libro.
Per tutto il racconto mi è sembrato che fossero in qualche modo carenti i sentimenti veri: tant’è che solo alla fine, quando Sorano incontrerà la donna che sposerà, il libro prenderà vita e calore attraverso la descrizione dell’amore e della complicità che lo unirà alla moglie.
La lunga relazione con l’altra donna amata per quasi tutta la vita, invece, non appare che come un fatuo amoreggiare non sorretto da veri sentimenti nè da una passione reale.
Nel complesso il libro è comunque piacevole da leggere perché scritto con una prosa elegante e scorrevole e l’argomento, per chi ha interesse alla storia dell’Impero Romano in genere e della medicina dell’epoca in particolare, è affascinante.
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Un giallo psicologico
Il commissario Giordàn ha due eccellenti collaboratori nella risoluzione dei casi che gli vengono affidati: sua nipote Gabriella e il suo amore per la pesca.
La prima, grazie alla vivacità e intraprendenza intellettuale, gli fornisce spunti interessanti legati ad un modo diverso di vedere la realtà, l’altra lo obbliga alle lunghe attese che consentono al suo cervello di esplorare in libertà le infinite possibilità di risoluzione di un caso complesso.
E così, come per Montalbano il cibo, per Giordàn le acque calme del lago di Como sono lo stimolo per sviscerare gli eventi complessi legati alla soluzione del caso dell’assassino delle maschere.
Un assassino che uccide giovani donne senza un movente riconoscibile, con ferocia e senza lasciare tracce, se non una maschera sempre diversa posata sul loro volto dopo l’omicidio. Un killer seriale che agisce indisturbato in città diverse ed in condizioni di estremo rischio senza sbagliare una mossa.
Il caso inestricabile viene alla fine risolto da Giordàn in modo quasi esclusivamente deduttivo.
Il libro presenta spunti interessanti, soprattutto nella figura del commissario che è qui alla sua prima apparizione e, come apprendo dalle informazioni nella quarta di copertina, appare in due successive opere dell’autore, nel corpo delle quali sono sicura che sarà stata ulteriormente delineata e scolpita.
Ne vale la pena perché il personaggio è abbastanza originale e simpatico.
La storia ha una sua complessità ed il mistero tiene per buona parte del libro: da tre quarti in poi la soluzione è abbastanza evidente per il lettore, ma rimane interessante verificare le modalità di svolgimento dell’indagine ed i percorsi logici seguiti da Giordàn.
Lo stile è semplice e scorrevole e la suddivisione in capitoli a volte molto brevi consente all’autore di raccontare la storia dal punto di vista del commissario e, alternativamente, da quello dell’assassino.
Quello che manca, a mio avviso, è un ritmo più serrato, ma è un fatto di gusti e di ambientazione: un panorama lacustre comporta ritmi più lenti e contemplativi che non l’immersione nelle strade frenetiche di Londra o New York, me ne rendo conto.
"Non era soltanto per la fioritura delle azalee o per i sentieri attraverso il parco. E le limonaie che, con le zagare e gli ovali appuntiti degli agrumi, ricreavano un angolo di sud.
Per le sculture del Canova che abbellivano le sale di villa Carlotta.
Non si trattava soltanto di queste amenità.
C’era qualcosa in più, nel suo paese, Tremezzo. C’era un aroma speciale, il profumo del lago. Pieno di ricordi."
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Il postulante
Come affrontare una vita che già dall’adolescenza si presenta in salita?
Come difendere se stessi ed i propri desideri in un mondo che ti marchia fin dai primi anni come diverso?
Fabio si trova a cercare risposta a questi interrogativi quando gli amici lo isolano a causa di alcuni atteggiamenti omosessuali, costringendolo a prendere coscienza che i teneri (ed ancora innocenti) abbracci con l’amico del cuore non rientrano in ciò che gli altri ritengono “normale”.
Si isola, cerca consolazione e pace interiore e la trova in una chiesa e in un prete che lo accetta senza giudicarlo e lo accompagna verso la determinazione di abbracciare la chiesa come professione di vita.
Pur fra tanti ed importanti dubbi sulla genuinità della propria “chiamata”, Fabio decide di entrare come postulante in un convento di frati e… da qui comincia il romanzo che, scritto con un linguaggio semplice e non elaborato, ben corrispondente alla psicologia dei personaggi, risulta una lettura gradevole e veloce.
I dubbi ed i sensi di colpa per le proprie tendenze non abbandoneranno Fabio in virtù della mistica della vita conventuale e lo trascineranno, alla fine, a dover fare i conti con se stesso, senza infingimenti e senza cercare scorciatoie, prendendo consapevolezza del proprio posto nel mondo.
La storia si presta ad approfondire il tema dell’omosessualità, della vocazione religiosa e della vita conventuale in relazione alla castità dei pensieri e degli atti.
La circostanza che Fabio in tale contesto incontri un sentimento ricambiato dovrebbe ancor più provocare approfondimento sullo strazio di un’anima che si dibatte fra la vocazione e il desiderio di lasciarsi andare a cedere al sentimento e al richiamo dei sensi.
Penso a come avrebbero potuto affrontare un simile tema Thomas Mann o Fedor Dostoevskij.
Bene, non si può chiedere tanto e non è corretto porre un simile paragone, me ne rendo conto, ma trovo che il problema dell’omosessualità venga affrontato dall’autore in modo forse un po’ superficiale: non c’è un solo momento nel romanzo (eccettuati gli adolescenti amici di Fabio nelle prime pagine) in cui venga condannata ed esecrata come invece accade di frequente nel mondo reale. Anzi, per tutto il libro viene considerata una realtà universalmente accettata, anche se condannata dalle leggi ecclesiastiche: personalmente posso essere daccordo con questo giudizio, ma mi sembra inconsueto non incontrare per centocinquanta pagine (neppure all’interno di una realtà legata alle regole religiose) qualcuno che scagli anatemi nei confronti del peccato contro natura per eccellenza, come invece, ancora oggi, accade normalmente intorno a noi.
In conseguenza di questo, forse, l’autore non si applica ad approfondire la psicologia dei personaggi, che risultano un po’ piatti e poco delineati nei sentimenti e nelle inevitabili sofferenze.
Non voglio svelare il finale, ma non posso nascondere che mi ha lasciato insoddisfatta: sembra che l’autore abbia preferito non prendere posizione lasciando al lettore la responsabilità di concludere il racconto.
La parte migliore, a mio avviso, è racchiusa nel colloquio che, verso la fine, Fabio ha con il padre eremita: in poche pagine affiorano i temi profondi ed irrisolti del cristianesimo ed i fondamenti della fede, laddove si accenna al tema cruciale della divinità di Gesù:
“Io non rifiuto l’immagine che la Chiesa dà di Gesù, anche se appare tanto lontana da quella del Cristo storico. Rifiuto che essa la imponga come l’unica possibile: Cristo era e si sentiva ebreo, credeva nel Dio degli ebrei, era solo al popolo eletto che annunciava la venuta del Regno, eppure la Chiesa di questo Cristo ebreo non parla […]. Aspetto il giorno in cui prevarrà nella fede di tutti i cristiani lo stupore per quella meravigliosa manifestazione del divino che Cristo è stato e che ha sconvolto chi lo ha conosciuto.”
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- sì
- no
Un'avventura esotica
La storia, in soldoni, è la ricerca del mausoleo di un antico imperatore cinese, roba di duemila anni fa.
La tomba in questione è oggetto di attenzione e ricerca da parte degli eunuchi dell’ultimo imperatore bambino, prigioniero nella Città Proibita (siamo all’inizio del secolo scorso), della mafia cinese, del Guomindang e del nascente Partito Comunista.
Per qualcuno essere in possesso di beni che dimostrino di averla raggiunta è questione di prestigio, per altri è questione di potere, per la protagonista della nostra storia, un’occidentale che si trova coinvolta suo malgrado nella ricerca, è una questione economica: recuperare il tesoro risolverà i problemi economici ereditati alla morte del marito, uomo d’affari assassinato in Cina in circostanze misteriose, e le consentirà di ritornare alla sua vita di sempre.
La storia si dipana con leggerezza ed il libro è piacevole e ben scritto.
Le qualità maggiori sono la precisione nei riferimenti storici di un periodo della storia cinese che in occidente conosciamo assai poco e l’approfondimento relativo alla cultura, alla religione e alle pratiche ad esse collegate, come ad esempio la dinamica dello yin e yang e la pratica del thai chi chuan, la celebre ginnastica dolce cinese.
Per il resto è un romanzo… quindi molta invenzione, molta azione, moltissima fantasia soprattutto per quanto riguarda le soluzioni che i protagonisti sono costretti a trovare per superare le trappole disposte dagli antichi architetti reali a protezione del tesoro.
Un’opera d’arte? No, ma non leggiamo solo opere d’arte, non è vero?
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Fantasia + ironia = divertimento!
Un’alta eccentrica favola di Josè Saramago.
Questa volta il personaggio principale è la morte.
Nelle prime pagine vengono dettate le regole del gioco, accettiamole con un sorriso e poi lasciamoci trascinare dalle parole scelte con maestria, dalla fantasia, dall’ironia, dalla capacità di Saramago di sedersi accanto al lettore e seguire insieme a lui l’evolversi del racconto.
In un clima veramente surreale Saramago ci trascina in un fantastico mondo di “invenzioni”. Seguiamo il Maestro e pian piano la realtà che conosciamo cesserà di esistere, sostituita da quella che prende vita dalla sua penna.
Protagonista del romanzo è la morte che, forse un po’ stanca di millenni di routine, decide di apportare qualche cambiamento al normale metodo di intervento presso gli umani: in un primo momento dichiara uno sciopero e non uccide più nessuno, poi, spinta dalla protesta per i problemi di sovraffollamento che la sua decisione va creando, inventa un sistema di morte su appuntamento. Invia una lettera a ciascuno una settimana prima della data fissata per la fine della vita, in modo che si possano sistemare le ultime cose senza sentirsi presi a tradimento. Ma, come si sa, non siamo mai contenti e la protesta cresce: sembra che nessuna soluzione venga giudicata soddisfacente.
E poi… e poi c’è un tizio che a quanto pare non si riesce a far morire, uno che la morte non riesce a catturare, uno che forse, chissà, sarà proprio lui a catturare la morte… leggere per credere!!!
Insomma c’è da divertirsi con le invenzioni del grande Josè, che non delude mai.
[...]Quel diavolo di violoncellista, che fin dal giorno della sua nascita era indicato per morire giovane, con quarantanove primavere appena, aveva finito per compiere sfacciatamente i cinquanta, screditando così il destino, la fatalità, la sorte, l’oroscopo, il fato e tutte quelle altre potenze che si dedicano a contrastare con tutti i mezzi degni e indegni la nostra umanissima voglia di vivere. Era davvero un dscredito totale. E ora come faccio a correggere uno sviamento che non sarebbe potuto succedere, se un caso del genere non ha precedenti, se nei regolamenti non è previsto niente di simile, si domandava la morte, soprattutto perché quel tipo sarebbe dovuto morire ai quarantanove anni e non ai cinquanta che ha già. Si vedeva che la povera morte era perplessa, sconcertata, che per poco non si metteva a sbattere la testa contro la parete dal dolore. [...]
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Emozionante
Una lettera d’amore lunga una vita.
Una lettera che un uomo di valore scrive ad una donna eccezionale che ha condiviso con lui quasi sessant’anni di esperienze, di lotte, di dolori, di speranze.
Una donna che è stata per lui sostegno nelle difficoltà e molla propulsiva per la sua carriera ed insieme ascoltatrice attenta, amica comprensiva, moglie paziente, amante appassionata.
Mentre il tempo sta finendo, quest’uomo sente la necessità di ringraziare la sua donna per una vita trascorsa insieme e per il valore che la sua presenza ha aggiunto alla sua vita.
Lo fa con una profonda, sensibile ed emozionante lettura del loro passato e del presente e del poco futuro che resta.
Non è un racconto, è una lettera vera che parla di sentimenti reali, di un nuovo innamoramento e del bisogno/piacere anche fisico di essere vicini, mentre superati entrambi gli ottant’anni si avviano alla fine.
Poetico nella sua asciuttezza, ed emozionante.
Consigliato a tutti quelli che credono nell’amore ed anche a quelli che non ci credono.
[…] Sono attento alla tua presenza come al tempo dei nostri inizi e mi piacerebbe fartelo sentire. Tu mi hai dato la tua vita e tutto di te: mi piacerebbe poterti dare tutto di me per il tempo che ci resta.
Hai appena compiuto ottantadue anni. Sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Recentemente mi sono innamorato di te un’altra volta e porto di nuovo in me un vuoto divorante che solo il tuo corpo stretto contro il mio riempie. La notte vedo talvolta la figura di un uomo che, su una strada vuota e in un paesaggio deserto, cammina dietro un carro funebre. Quest’uomo sono io. Sei tu che il carro funebre trasporta. Non voglio assistere alla tua cremazione; non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri.
Sento la voce di Kathleen Ferrier che canta “Die Welt ist leer, ich will nicht leben mehr” e mi sveglio. Spio il tuo respiro, la mia mano ti sfiora. Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro.
Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme. […]
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Un bestseller
Mi succede spesso: se un libro viene osannato, strapremiato, se non si parla d’altro… io non riesco a leggerlo subito. Magari lo compro, ma lo tengo a distanza fino a quando il clamore non si placa. In questo caso non l’ho neppure comprato: me l’ha prestato un’amica che me l’ha molto raccomandato.
Si tratta della “solita storia”: ex nazisti ormai in disfacimento che si sono impiantati con successo nell’attuale tessuto sociale, che non hanno abbandonato le proprie convinzioni, che si circondano di cloni di loro stessi, che sono sfuggiti ad ogni castigo per le atrocità compiute in passato e godono nel presente di ricchezze rubate alle loro vittime.
E poi il Simon Wiesenthal di turno che li scova, li costringe ad uscire allo scoperto e si impegna perché il castigo arrivi anche per loro.
Dico “solita storia” perché non è il primo libro che leggo incentrato su una storia di questo tipo, che ha sempre il suo fascino e … vende! Anche se i personaggi non hanno profondità, anche se non c'è una vera storia, anche se non aggiunge nulla al già detto.
Il libro è ambientato nel momento attuale e ormai i fatti sono talmente lontani nel tempo che sia i cacciatori di nazisti che i nazisti stessi sono decrepiti, e per creare un minimo di azione e movimento l'autrice affianca al nostro eroe una giovane donna che sarà la sua infiltrata all’interno della corte dei macilenti ex macellai e correrà per questo qualche rischio.
Il libro nel complesso mi lascia molto tiepida: non presenta sufficiente azione per catturare la fantasia, né ha il pregio di scavare a fondo nella psicopatologia del male o perlomeno nelle motivazioni della barbarie nazista.
I terribili gerarchi, intorno a cui il protagonista più che ottuagenario vuole stringere il cerchio, non sono che arroganti ex signori della morte, che vivono in un mondo molto chiuso che sembra un club per anziani e che proteggono con alti muri e qualche guardia del corpo un presente popolato di riti e festini a base di simboli che ormai hanno un significato solo per loro.
Finiscono col fare più pena che paura, contrariamente a quel che forse si prefiggeva l’autrice.
Il personaggio meglio riuscito è comunque il vecchio “cacciatore”, trascinato in questa storia quasi suo malgrado e sempre simpaticamente conscio delle limitazioni fisiche dovute all’età, cui supplisce con una discreta dose di ingegno e fantasia.
Vecchi nazisti dementi infelici e moribondi, vittime in attesa di giustizia ed anch’esse ormai prossime alla fine, un periodo storico orribile, ingiustificabile ed indimenticabile: su tutto questo il tempo che scorre ed elimina i protagonisti.
Mi viene in mente “La livella” di Totò: la storia si occuperà dei fatti e dei giudizi, degli uomini si occupa la morte.
[...]
E forse in quel momento, dentro un paio di jeans, un giubbotto col cappuccio e un logoro cappello da marinaio, il Macellaio di Mauthausen camminava con passo ostinato davanti a me, come se volesse aggrapparsi alla vita più che poteva.
In quel luogo che puzzava di carne bruciata e in cui esseri come Heim erano i signori della vita e della morte, smisi di credere in Dio, o almeno smise di piacermi.
Se il Dio dei campi verdi, di fiumi come il Danubio, delle stelle e delle persone che ti riempiono la vita di gioia era anche il Dio di Heim, delle camere a gas e di quelli che godono nel far soffrire gli altri, allora quel Dio non mi interessava, comunque venisse chiamato nelle mille religioni del mondo. Un Dio dalla cui energia provenivano sia il bene che il male non mi ispirava fiducia, così iniziai a vivere senza di lui questa vita che non avevo chiesto io. Neppure nei momenti peggiori l’ho mai invocato nei miei pensieri, e consiglierei a chiunque di cercare di passare più inosservato che può davanti a lui.
[...]
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Da leggere!
Bianco su Nero non è un libro di fantasia: racconta, in prima persona, la vera storia di Rubèn Gallego, che nasce con un gravissimo handicap fisico - niente braccia, niente gambe – ed è solo al mondo in un Paese (la vecchia Unione Sovietica) ed in un periodo storico che lo condannano a morire entro pochi anni e nel modo più atroce.
Rinchiuso in un istituto, una specie di orfanotrofio per disabili, per tutta l’infanzia e l’adolescenza subisce torture fisiche e mentali cui non sembrerebbe possibile sopravvivere: l’obiettivo in realtà è proprio quello di non consentire il protrarsi della vita di questi infelici oltre i diciotto anni per liberare lo Stato dell’onere del loro mantenimento.
Nonostante questo Ruben ce la fa, grazie ad una forza di volontà, ad un coraggio e a un desiderio di vivere veramente stupefacenti.
E, finalmente libero, racconta la sua storia con pacatezza, semplicemente, evitando di sfruttare l’orrore per impressionare il lettore, ma anzi enfatizzando ogni scintilla di umanità che ha visto sopravvivere nella più totale disperazione.
Bianco su Nero è un libro ricco di personaggi indimenticabili, di immagini terrificanti e di buoni sentimenti, irritante e commovente, altalenante fra la speranza e la disperazione, in alcuni passaggi ironico e divertente.
E’ un libro che dovrebbe essere obbligatorio leggere.
[…]Se non hai né le braccia né le gambe e hai anche pensato bene di restare solo al mondo, è fatta. Sei condannato a essere un eroe sino alla fine dei tuoi giorni. O a crepare. Io sono un eroe. Non ho altra scelta. […]
[…] Mai.
Una parola tremenda. La più tremenda di tutte le parole usate dagli uomini.
Mai.
La si può paragonare solo alla parola «morte».
La morte è un grande «mai». Un «mai» eterno, che spazza via ogni speranza e ogni possibilità. Non ci sono più «forse», né «chissà».
Mai. […]
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Un noir senza speranza
Leggendo qua e là trovo qualcuno che paragona la scrittura di Carlotto a quella di Scerbanenco. È una provocazione! Devo leggerlo.
Allora fra tutti i libri disponibili scelgo questo, perché scopro che è il primo in cui appare un personaggio che Carlotto farà vivere in occasioni successive e, mi dico, se mi dovesse piacere meglio cominciare dall’inizio.
Non sono un’amante del genere “noir”, preferisco semmai il “poliziesco” che consente di seguire la logica investigativa, non tanto per lasciarmi consolare dal pensiero che il bene trionfa, quanto perché mi consente di partecipare razionalmente all’azione ed allo svolgersi degli eventi.
Questo è invece il tipo di racconto in cui la mia partecipazione è pari a zero: non c’è una storia su cui investigare, i personaggi sono tutti negativi, marci, corrotti. Non ce n’è uno che s’accenda di un lampo di umanità. Non si cerca il “cattivo” perché lo sono tutti.
Preso atto del passato di Carlotto, si potrebbe forse leggerlo come un libro denuncia della corruzione e del malaffare a tutti i livelli in cui affonda il nostro paese, ma non credo fosse l’intenzione dell’autore che non affronta con decisione l’argomento da questo punto di vista.
È, alla fine, la cronaca di una vita mal spesa, che si giustifica moralmente mediante l’accostamento ad altre vite ugualmente marce.
Persino Roberta, l’unico personaggio che potrebbe riscattare con la sua “innocenza” una lunga processione di personalità malate ha tratti di “rigidità” e grettezza che finiscono con l’uniformarla a tutti gli altri.
Carlotto ha una buona penna, per gli amanti del genere potrebbe diventare (è diventato?) una nuova realtà interessante.
Personalmente amo una prosa che scavi in profondità piuttosto di una che scivoli liscia sulla superficie degli eventi.
Per concludere da dove ho iniziato: Scerbanenco è stato un grande autore di polizieschi e di romanzi, capace di calarsi con maestria nella psicologia dei personaggi fino a renderli reali, interessanti per se stessi oltre che per il loro ruolo nella vicenda, mentre quelle che ho visto muoversi in “Arrivederci amore, ciao” mi sembrano più figure piane, ad una sola dimensione, che scorrono, ben lubrificate, verso un finale prevedibile.
[...]
Mi si leggeva in faccia che ero un marginale. Cercai lavoro ma mi resi conto che entrare in quell’ottica mi avrebbe fottuto per l’eternità. Sarei rimasto un miserabile. Nei miei piani per il futuro c’era ben altro che osservare la realtà dal retro di un fast food con i capelli puzzolenti di grasso. Soldi. Avevo bisogno di soldi per rialzarmi dal letamaio in cui ero finito.
[…]
La sua domanda però mi fece riflettere. Aveva ragione, ero uno schifoso, o meglio una carogna, come aveva detto il prete. Non provavo vergogna per questo. Ne ero cosciente, ma in realtà esercitare potere su donne deboli mi aiutava a campare. A stare meglio. A sopravvivere.
[...]
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- sì
- no
Vivamente consigliato
Sono cosciente che con questa affermazione mi attirerò le antipatie di quelli che amano la lettura e (forse soprattutto – più facile, no?) la visione televisiva delle avventure del commissario Montalbano, ma a me la lettura dei gialli di Camilleri non entusiasma.
Troppa fatica dover decifrare un linguaggio poco comprensibile per la lettura di un semplice giallo… rinuncio, grazie.
Ma un raffinato amico siciliano mi ha incitata a non rinunciare alla lettura di un Camilleri diverso, orfano di Montalbano e ricco di diversa ispirazione: “Leggi la trilogia!” mi disse.
Il Sonaglio è appunto il titolo che chiude la cosiddetta “Trilogia delle metamorfosi”, in cui Camilleri si dimostra uno scrittore sensibile e fantasioso, a momenti poetico, a momenti decisamente crudo nelle descrizioni.
È un vero piacere la lettura della favola amara di Giurlà, piccolo schiavo pastore che vive l’amore per la sua capra Beba vedendola donna e che si innamorerà in seguito di una donna vera, la giovane Anita, scatenando la gelosia … della capra! L’amore per Anita creerà una serie di difficoltà al nostro Giurlà e porterà la storia verso una svolta inaspettata.
Il racconto è estremamente gradevole e fa dimenticare la fatica della lettura, trasformando il linguaggio che Camilleri utilizza nell’unico col quale questa favola amara poteva essere scritta.
[…]
L’ultima notti che passò allo stazzo prima di pigliari sonno pinsò che era meglio se riportava a Beba dintra al recinto avanti che arrivava Damianu. Ma quella reagì come se aviva accapito. Le ciampe puntate ‘n terra, non c’era verso di farla nesciri dalla capanna. Non si lamintiava, non diciva nenti, lo taliava con occhi dispirati. Giurlà, chiangenno, dovitti annare a pigliare un pezzo di corda, attaccariccilla al coddro e strascinarisilla con tutta la forza che aviva fino a dintra al recinto. Ma ‘na volta che fu trasuta, non si detti paci e accomenzò a fari il solito mutuperio di sàvuti e cornate. Giurlà, attappannosi l’oricchi per non sintirla fari accussì, sinni scappò. Annò alla capanna, si lavò la facci per non fari vidiri che aviva chiangiuto. Damianu, appena arrivato, s’addunò del malostare di Beba.
“Che havi ‘sta crapa?”
“Nenti. Siccome è la cchiù affezzionata, capace che capisci che staio partenno”.
[…]
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Uno straordinario piccolo libro
Andreas Kartak è un vagabondo ubriacone ma è anche un uomo d’onore. Ci tiene a sottolinearlo subito, fin dall’inizio travolgente del racconto.
Gli capita un colpo di fortuna: uno sconosciuto, vedendolo male in arnese, gli offre del denaro che gli propone di restituire, quando potrà, all’immagine di Santa Teresa in una chiesa parigina.
Andreas arriverà più volte vicino al pagamento di questo debito ma ogni volta si lascerà distrarre da amici e vecchi amori e soprattutto dal vizio del bere, che gli impediranno di farcela. Ciò nonostante il dovere morale che lo spinge a saldare il proprio debito d’onore, lo porterà a dare una svolta alla propria vita, riprendendo coscienza di sé, recuperando frammenti della perduta dignità e riannodando i contatti col mondo che gli era divenuto estraneo.
Il racconto è lieve come una favola e della favola contiene le meravigliose invenzioni e le magie, ma traspare chiaramente l’amara autocritica di uno scrittore brillante che dilapidò l’esistenza e morì precocemente anche a causa della propria dipendenza dall’alcool.
[…] al primo chiosco di giornali sulla sua strada si fermò, attirato dalle illustrazioni di alcuni settimanali, ma anche preso all’improvviso dalla curiosità di sapere che giorno fosse quello, che data e che nome avesse quel giorno.
Comprò quindi un giornale e vide che era un giovedì, e a un tratto si ricordò che lui era nato di giovedì, e senza guardare la data, decise che proprio quel giovedì doveva essere il suo compleanno. […]
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E' accaduto davvero!
Il recente disastroso terremoto che ha colpito il Giappone e il danno alla centrale nucleare di Fukushima, che tuttora minaccia conseguenze disastrose legate alla fuga di radioattività, mi hanno fatto tornare in mente un libro che da tempo mi attirava ma la cui lettura ho sempre finito col rimandare: parlo di La Pioggia Nera di Ibuse Masuji.
Il libro descrive gli eventi accaduti in Giappone a partire dal 6 agosto 1945 (bomba atomica su Hiroshima) fino al 15 agosto 1945 (resa incondizionata del Giappone).
La Pioggia Nera fu pubblicato nel 1965, vent’anni dopo gli eventi che vengono descritti con l’artificio del diario personale. In questa forma l’autore utilizza i racconti reali e le descrizioni raccolti dalla voce di quelli che subirono in modo diretto la tragedia e vissero abbastanza per descrivere gli eventi.
Ogni singola pagina riporta quindi la semplice realtà dei fatti, non ci sono invenzioni letterarie.
È tutto vero!
Questa è la maggiore difficoltà per chi legge il libro: ricordarsi che è tutto vero.
Normalmente nella lettura di un romanzo ci si lascia trascinare dall’autore attraverso invenzioni letterarie che costruiscono una storia: qui il racconto ci pone davanti agli occhi rovine e sofferenze talmente estreme e inaccettabili da sembrare opera di fantasia e man mano che si legge, pagina dopo pagina, si deve fare uno sforzo, quasi una violenza su se stessi per prendere atto che viene descritto solo quello che realmente è accaduto.
Ibuse Masuji scrive con tratto leggero: il processo di sublimazione – consentito anche dalla distanza temporale – tiene la tragedia quasi sullo sfondo, non ne presenta un’immagine corale e quindi assoluta, ma la spezzetta in immagini individuali, in sofferenze personali, familiari, legate alle piccole realtà del lavoro, del buon vicinato, del problema della carenza di beni e di mezzi per il sostentamento del proprio gruppo.
Gli uomini si scoprono piccoli di fronte ad una tale tragedia, ma nonostante questo si sforzano di continuare la propria esistenza e di far fronte ai propri impegni di tutti i giorni, come se nulla fosse accaduto: potenza della cultura giapponese, che impone di non cedere di fronte alle avversità e radica la legge ferrea del “dovere”. A questo proposito è necessario cercare di comprendere almeno in parte il modo di rappresentarsi il mondo e la vita, la mappa del pensiero giapponese, altrimenti sarà difficile accettare quella che pare indifferenza nei confronti delle immagini orribili che vengono descritte e che invece è solo rispetto, pietà e senso del dovere (a questo scopo suggerisco di leggere la prefazione al libro – circa 50 pagine! – indispensabile per entrare nella logica emotiva e morale dell’autore).
Leggere La pioggia nera lascia il segno ed è un’esperienza importante: dimostra che è possibile parlare dell’orrore senza scaricare le colpe sugli "altri", senza mostrare odio o spirito di rivalsa, è possibile osservare l’olocausto con occhio sgomento ma pacato.
Così il mondo venne informato di quanto era accaduto:
Tokyo – 8 agosto 1945 – Radio Tokyo informa che la bomba atomica ha letteralmente polverizzato tutti gli esseri viventi che si trovavano a Hiroshima. I morti e i feriti sono assolutamente irriconoscibili e le autorità non sono in grado di fornire dati circa il numero approssimativo delle vittime. La città è un immenso cumulo di rovine.
(dalla prima pagina del Corriere Lombardo dell’8 agosto 1945)
Londra, 8 settembre 1945 – Riferendo le ultime cifre rese note dalle autorità, la Domei ha dichiarato oggi che 254.000 persone sono rimaste vittime della bomba ad Hiroshima. 60.000 sono morte bruciate istantaneamente, 60.000 per ferite, 10.000 sono scomparse, 14.000 sono gravemente colpite e 100.000 leggermente. Soltanto 6.000 dei 250.000 abitanti della città sono rimasti incolumi.
(Comunicato Ansa del 8 settembre 1945)
[…] Vedemmo da lontano il corpo morto di una donna allungato di traverso nel mezzo della strada sopra l’argine. Yasuko che camminava davanti, ritornò sui suoi passi urlando “Zio, zio!” e cominciò a piangere.
Quando mi avvicinai vidi una bambina di forse tre anni che giocherellava con i seni della morta, l’abito aperto sul petto. Quando ci accostammo, afferrò forte i due seni e ci fissò con uno sguardo pieno di ansia.
Cosa potevamo fare? Più che domandarcelo, non potevamo far altro. Per non spaventare la bambina, superai guardingo le gambe della morta e di buon passo discesi di circa dieci metri. Anche lì giacevano quattro o cinque cadaveri di donne accanto a un cespuglio e un bambino di cinque o sei anni era acquattato a terra come rinserrato tra i corpi morti.
“Dai, su svelte! Coraggio, scavalcate piano”, le chiamai facendo cenno con le mani e loro l’oltrepassarono.[...]
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Bellissimo
Ho letto questo libro con una sensazione costante di commozione, quasi il presentimento della sofferenza per il senso di “perdita” che sarebbe seguito alla lettura dell’ultima pagina.
Non sbagliavo.
Letto il primo breve capitolo Màrai mi aveva già catturato: non desideravo altro che proseguire la lettura. Mi sono sforzata di farlo lentamente per godere di ogni parola, nonostante sentissi come un’urgenza di lasciarmi trascinare da Henrik – il generale - nei suoi pensieri e nei suoi ricordi.
Sul contenuto del libro non vorrei dire molto, la sinossi in questo caso a me sembra già fin troppo esplicativa: si tratta di uno straordinario viaggio all’interno di un’anima tormentata dal ricordo viscoso e bruciante di un lontano passato da cui il protagonista sente di potersi liberare solo attraverso il confronto con colui che è stato il solo grande amico della sua vita, che non incontra da quarantuno anni. Il desiderio di comprendere fino in fondo quel che accadde è stato per tutto questo tempo l’unico motivo che l’ha spinto a continuare a vivere. Ora, ormai vecchio, avrà modo di confrontarsi col passato e con se stesso.
Henrik è con molta evidenza l’alter ego, la controfigura, di Màrai stesso (che finirà suicida, esule, dopo un lungo peregrinare alla ricerca di un luogo che gli consentisse di sentirsi "a casa"): il suo disagio esistenziale è palpabile nel fluire di una prosa elegante ed avvolgente.
Per quasi tre quarti il libro è un lungo monologo, rivolto all’amico che l’ascolta silenzioso, un ragionamento incalzante sull’amicizia e sulla colpa.
Non si pensi che, trattandosi di un monologo, si possa scivolare nella noia: Màrai è estremamente abile nel costruire il colpo di teatro anche in assenza di azione, grazie solo all’uso di una prosa magica che suggerisce, alla fine, che le risposte ai nostri dubbi, alla nostra sete di comprensione dei fatti della vita, sono già dentro di noi e non possono venirci dall’esterno.
" Entrambi si resero conto, in quegli istanti, che era stata l’attesa a dare loro la forza di vivere nei decenni trascorsi. Come accade a coloro che passano una vita intera a prepararsi per un unico compito e di colpo arrivano al momento di agire. Konrad sapeva che un giorno sarebbe tornato in quel luogo, e il generale sapeva che un giorno sarebbe giunto quel momento. Era stato questo a mantenerli in vita. "
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Non hai mai letto Palahniuk???
Mai letto nulla di Palahniuk. Forse c’ero rimasta solo io al mondo... Ecco che rimedio!
Victor, il protagonista, ha due punti focali nella sua vita: la madre – una dei tanti disadattati che incontreremo leggendo - e l’incapacità di gestire la dipendenza sessuale che lo costringe ad incontri frequenti e meccanici nonostante il tentativo di recuperarsi con una terapia di gruppo.
Ha abbandonato gli studi di Medicina, sbarca il lunario con un impegno di figurante storico in un parco a tema - un ambiente squallido e deprimente, magistralmente descritto - e arrotonda le entrate con una piccola truffa: si provoca il soffocamento col cibo cenando al ristorante solo per farsi “salvare” con la classica manovra di Heimlich.
Perché? Perché ha scoperto che chi ti salva la vita, ti adotta per gli anni a venire e si sente responsabile per te.
Così per ogni manovra andata a buon fine, Victor riceve anno dopo anno dal suo salvatore un assegno a ricordo dell’evento. Una truffa che regala a chi ne è vittima l’impressione di essere un eroe. E Victor, con questo, sente di chiudere in pari la partita.
Naturalmente il libro è molto più di questo, ma non voglio svelarne la trama.
I personaggi comprimari sono disegnati con acume ed ironia e accompagnano Victor fino alla comprensione del suo passato.
La prosa piana e piacevole fa sembrare normali situazioni inverosimili e alterna momenti di alienazione dalla realtà, di introspezione , di violenza, di poesia.
Victor è un disadattato “normale” che percorre la strada del menefreghismo e del cinismo ed effettua le sue scelte chiedendosi ogni volta: "Cos’è che Gesù non farebbe?" , ma nel suo profondo si percepisce il bisogno d’affetto e d’amicizia che è dentro ogni uomo.
Il finale è inaspettato e soffuso di tristezza.
Da leggere.
"A questo punto dovrei dirle la verità. Ovvero che io quelli che hanno una dipendenza li ammiro. In un mondo in cui tutti quanti non fanno altro che aspettare ciecamente questa o quella catastrofe, questa o quella malattia fulminante, chi ha una dipendenza perlomeno sa a grandi linee cosa l'aspetta dietro l'angolo. Ha assunto una parvenza di controllo sul suo destino, e la dipendenza fa sì che per questa persona il modo in cui morirà non sia un mistero.
In un certo senso avere una dipendenza è sinonimo di intraprendenza."
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Tutto Fabio
Fabio Volo mi piace molto.
Mi divertono i suoi programmi in radio e in televisione.
Trovo simpatico - talvolta un po' infantile - il suo modo di porsi, la sua (simulata?) semplicità ed anche la sua capacità di ironizzare su se stesso. È un giovane uomo dai molti talenti, sa anche recitare, cantare e… scrivere?
Mah, scrivere non so.
Ho letto solo questo libro suo: l’ho trovato in autogrill in offerta speciale e mi sono detta: proviamo?, ma sì, dai, ormai leggere Fabio Volo sta diventando un fatto di costume! E poi sotto l'ombrellone... E ci ho provato.
Beh, quello che posso dire è che ci ho trovato Fabio, tutto Fabio, cioè tutto il Fabio che avevo già sentito in radio, tutto il Fabio già visto in TV.
È un male? Dalle vendite dichiarate evidentemente no. Fabio ha un suo pubblico che lo segue e l’adora.
Per me, però…
Devo dire che di questo libro, letto così da poco, non mi è rimasto nulla - neppure un vago senso di piacere - se non la sensazione di aver incontrato Fabio ancora più da vicino ed averlo trovato uguale a se stesso.
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Sempre superlativo
Josè Saramago riprende con Caino il tema della religiosità e lo fa con la prosa meravigliosa ed inconfondibile che gli è propria.
Mentre ne “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” legge a suo modo i temi del Nuovo Testamento, con Caino lo scrittore, ormai giunto alla vecchiaia, ripercorre, con ancor maggior disincanto, l’Antico Testamento, a partire dalla creazione di Adamo ed Eva e dal primo omicidio, per mano di Caino.
Un dio “minuscolo” si costruisce un nuovo giocattolo - la terra – e la popola per il suo piacere di uomini ed animali.
Dico “dio minuscolo” per come Dio viene descritto e anche perché le maiuscole sono invise a Saramago, che non le utilizza per i nomi propri nel corso di tutto il libro:
"[…] questo fa sì che io sia un nemico sfegatato delle maiuscole: mi piacciono (eccome!) le parole, ma vorrei renderle piccolissime, in modo che ce ne possano stare molte altre. e vorrei anche che fossero dense, cariche di significato, di senso, di forza, di capacità di azione […]”
La storia ben nota di Caino è un pretesto per assumere una guida che, in un moderno viaggio nello spazio/tempo, ci condurrà attraverso gli episodi più conosciuti della Bibbia: Sodoma e Gomorra, Abramo ed Isacco, il vitello d’oro, la torre di Babele, l’Arca ed il Diluvio Universale, fornendocene una sua personalissima versione.
Caino è un personaggio del tutto moderno, un uomo che si distacca dagli altri che incontrerà sul suo cammino perché capace di pensare con la sua testa e di non sottomettersi all’isterico volere di un dio distratto, violento, geloso, inaffidabile, a volte infantile, a volte senile, sempre indifferente alle sofferenze ed alle preghiere degli uomini.
Caino apparentemente accetterà il suo destino, ma fino all’ultima pagina (ed in modo sorprendente) non cederà nel confronto dialettico con un dio che non giudica migliore di se stesso.
Un libro ricco d’ironia, divertente, bellissimo e di facile e veloce lettura.
-"Che hai fatto a tuo fratello, domandò, e caino rispose con un’altra domanda, Ero forse il guardaspalle di mio fratello, L’hai ucciso, Proprio così, ma il primo colpevole sei tu, io avrei dato la vita per la sua vita se tu non avessi distrutto la mia, Ho voluto metterti alla prova, E chi sei tu per mettere alla prova colui che tu stesso hai creato, Sono il signore sovrano di tutte le cose, E di tutti gli esseri, dirai, ma non di me né della mia libertà, Libertà di uccidere, Come tu sei stato libero di lasciare che uccidessi abele quando era nelle tue mani evitarlo, sarebbe bastato che per un attimo abbandonassi la superbia dell’infallibilità che condividi con tutti gli altri déi, sarebbe bastato che per un attimo fossi realmente misericordioso, che accettassi la mia offerta con umiltà, solo perché non avresti dovuto osare rifiutarla, gli dei, e tu come tutti gli altri, hanno dei doveri verso coloro che dicono di aver creato. Questo è un discorso sedizioso, Può darsi che lo sia, ma ti garantisco che, se io fossi dio, tutti i giorni direi Benedetti coloro che hanno scelto la sedizione loro sarà il regno della terra, Sacrilegio, Forse, ma in ogni caso mai più grande del tuo, che hai permesso che abele morisse, Sei tu che l’hai ucciso, Sì è vero, io sono stato il braccio esecutore, ma la sentenza l’hai dettata tu"-
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Un bimbo all'ombra delle torri distrutte
NY 11 settembre 2001, una data che il mondo non potrà mai dimenticare: ciascuno ricorda dov’era e cosa faceva quando cominciarono ad arrivare le prime immagini della tragedia. Impossibile dimenticare, anche se l’orrore non ci ha toccato da vicino, anche se non abbiamo dovuto piangere un affetto.
Ma Oskar, nove anni, quel giorno perse il padre ed ora lo cerca. O meglio cerca una traccia per risolvere un mistero, quasi un gioco postumo da giocare col suo papà: ha trovato casualmente una chiave ed una traccia scritta che fa risalire a lui e vuole vedere dove lo porterà la soluzione di questo mistero.
Oskar è un bimbo speciale, i suoi affetti sono affetti speciali, i suoi occhi leggono il mondo in modo speciale e nell’inseguire il misterioso segreto del padre, scoprirà pian piano tanti altri segreti, più vicini a lui, che almeno in parte addolciranno il dolore per la perdita del genitore che ha profondamente amato e gli faranno accettare un lutto che rimarrà per sempre in sospeso, come accade quando non abbiamo un corpo su cui piangere.
È un libro ricco di personaggi sorprendenti, di scoperte grandi e piccole, per Oskar ma anche per chi legge. Il linguaggio con cui è scritto e le immagini che fanno parte integrante del racconto sono assolutamente in sintonia col personaggio principale e soffondono l’intero racconto di un dolore sognante, seppur profondo, di sorrisi ed affetti, di grandi prove d’amore.
"Ho pensato a tutte le cose che tutti ci diciamo l'un l'altro, e che tutti dobbiamo morire, o fra un millisecondo, o fra giorni, o fra mesi, o fra 76 anni e mezzo se uno è appena nato. Tutto quello che è nato deve morire, e questo significa che le nostre vite sono come i grattacieli. Il fumo sale a velocità diverse, ma le vite sono tutte in fiamme, e tutti siamo in trappola."
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Poetico
Poco dopo la fine della guerra a Napoli per un ragazzino studiare è un lusso: a tredici anni è già tempo di andare a lavorare, a bottega, per aiutare in casa e per imparare un mestiere.
Lo si può fare con la serena consapevolezza che quella è la via tracciata e l’inizio della propria vita d’adulto.
Montedidio è il commovente diario di un adolescente che scopre il lavoro, l’amicizia, il rispetto, l’amore, la morte, la consapevolezza di sé e ne tiene traccia con una matita sul residuo di una bobina di carta da stampa, scrivendo in italiano, mentre pensa in napoletano. Usa l’italiano un po’ perché si sente un privilegiato per il fatto di averlo potuto imparare ed un po’ “perché l’italiano è zitto e ci posso mettere i fatti del giorno, riposati dal chiasso del napoletano.”
Il libro si legge in un soffio ed è un soffio d'aria fresca e profumata di bucato steso al sole.
La prosa di Erri De Luca è poesia concentrata:
“Quando ti viene una nostalgia non è mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi da lontano e ti tengono un poco di compagnia.”
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Un classico
Anche se l’ho letto più volte nel corso degli anni, amo riprendere in mano questo piccolo libro magico, per volare un po’ sulle ali di Jonathan e sentirmi leggera come lui.
È questo l’effetto che mi fa ogni volta: assorbo attraverso la parola scritta e le immagini un po’ della determinazione, della fede, della forza di volontà, della fiducia nei propri mezzi e del sogno che Jonathan insegue.
Si legge in un lampo, opera di poche pagine, ma lascia dentro la scia delle correnti d’aria che sostengono le ali, la tristezza del rifiuto, l’esaltazione del volo, l’immenso silenzio delle altezze più impervie, il brivido del rischio e l’esaltazione della vittoria.
Il giovane gabbiano col cuore d’aquila è per me un toccasana contro la tristezza, la rassegnazione, il tempo che passa e la banalità della vita quotidiana: volando con lui recupero le forze e la voglia di provarci, di impegnarmi per cambiare, per conquistare il futuro che sognai e che ho finito col perdere per strada.
Trovo ingiusto relegare quest'opera ad una lettura da scuola media, perchè contiene messaggi positivi per tutte le età.
“Chissà perché,” si arrovellava Jonathan “la cosa più difficile del mondo è convincere un uccello che egli è libero? E che può dimostrarlo a se stesso, solo che ci metta un po’ di buona volontà? La libertà basta solo esercitarla. Ma perché? Perché dev’essere tanto difficile?”
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Delizioso Scerbanenco
Un giallo all’inglese, di quelli in cui la soluzione al mistero si trova più nell’elaborazione del ragionamento e nell’intelligenza dell’investigatore che nelle indagini sul luogo del delitto o attraverso gli interrogatori dei sospetti.
“Nessuno è colpevole” è un giallo complesso, che dalle prime pagine appare fin troppo semplice: il colpevole si presenta presso l’ufficio di polizia per costituirsi dopo aver ucciso un amico durante una partita di caccia.
Illustra ampiamente anche il movente, legato alla morte di una donna che entrambi hanno amato.
L’archivista Jelling della Polizia di Boston, una specie di Sherlock Holmes timido ed intelligente ma privo dell’arroganza intellettuale dell’investigatore di Conan Doyle, ha la sensazione che non tutto quadri nel racconto dell’assassino e …
Beh, è un giallo, no? Bisogna leggerlo e goderselo!
Come sempre con Scerbanenco, un libro intelligente, ben scritto e godibile.
"I grandi dolori non passano col tempo.
Siamo noi che passiamo, noi che mutiamo, che finiamo col diventare diversi, come altre persone, e quindi incapaci di soffrire per gli stessi dolori per i quali soffriva il nostro io di prima..."
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Un bel libro
Non si tratta di un romanzo, ma di una piéce teatrale molto semplificata o - se volete - di un lungo soliloquio interrotto a tratti da alcune voci maschili che arrivano dal passato della protagonista, che si risveglia in un letto di ospedale dopo un’operazione, e, ancora sotto l’effetto dell’anestesia, vede popolarsi la stanza della presenza degli uomini che ha amato nel corso della vita.
Si avvicina ai sessant’anni ed è ora di bilanci.
È anche ora di riordinare i ricordi e cercare di riconoscere se stessa sulla base dei sentimenti, delle gioie e dei dolori che ha vissuto.
Uno scavo quasi feroce nella propria affettività ed una lettura spietata dei rapporti con l’altro sesso, priva di accomodamenti consolatori.
Una figura, nelle ultime pagine, porta la pace o almeno la comprensione: il “corifeo” (così è definito) contribuirà a cambiare il punto di vista della protagonista con l’apporto di immagini chiarificatrici dimenticate e perse nel tempo.
È un libro godibile e di facile lettura. La protagonista resta nella memoria come una sorella o un'amica cara con cui abbiamo condiviso delusioni e speranze.
"Perché, tu non lo sapevi? Perché chi non è amato non lo sa? Non lo sente? Non la vede la stratigrafia di motivi che mantengono il rapporto che da solo, di sua essenza, non reggerebbe mai? Due le cose: o non lo sapevi, e allora povero scemo tu. O lo sapevi e ti sei distratto. Per amore, è probabile che per amore non hai voluto vedere."
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Un libro unico
Fernando Pessoa attribuisce questi scritti alla penna di uno dei suoi svariati eteronimi, Bernardo Soares, che in una lettera definisce un semi-eteronimo: “perché pur non essendo la sua personalità la mia, dalla mia non è diversa, ma ne è una semplice mutilazione: sono io senza il raziocinio e l’affettività”.
"Il Libro dell’Inquietudine" non è un romanzo, ma una sorta di diario, una raccolta di pensieri intimi e profondi, che copre l’arco di un ventennio; è arrivato a noi scritto su supporti diversi, a fogli sparsi, privo di un ordinamento stabilito dall’autore.
Come un diario è comodo da leggere: un brano alla volta, spesso appena poche parole, talvolta un paio di pagine o poco più.
Del resto leggerlo come fosse un romanzo sarebbe impossibile per la mancanza di una trama e impedirebbe di goderne appieno.
Pessoa è prima di tutto – prima che poeta, prima che romanziere, prima che drammaturgo – un pensatore: leggerlo è piacere intellettuale, è navigare nella poesia, è immedesimarsi in qualcuno che si descrive come nessuno, è astrarsi da una realtà che pure viene indagata in modo ossessivo ed analitico, è fargli compagnia nella solitudine.
Se un limite devo trovare in questo libro è la mancanza di un pensiero trascendente, una permanenza - certo voluta, ma alla lunga quasi soffocante - in una realtà senza via d’uscita.
Accostarsi a Pessoa è un’esperienza da provare almeno una volta: potrà piacere oppure no, ma è difficile restare indifferenti.
“Come esiste chi lavora per noia, io a volte scrivo perché non ho niente da dire. Le divagazioni inevitabili nelle quali si smarrisce chi non pensa, in quelle divagazioni io mi perdo scrivendo poiché so sognare in prosa”
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Splendido
Questo è un libro che ho divorato.
Avete mai la sensazione, chiudendo un libro che vi ha emozionato, di avvertire una punta di sofferenza per non aver più l’opportunità di aprirlo e… leggerlo per la prima volta?
A me capita talvolta, con i libri che mi coinvolgono molto.
Ecco, questo è uno di quei libri: vivo ancora totalmente immersa nell’atmosfera creata da Saramago: Maria e Giuseppe giovani sposi, il piccolo Gesù, il Gesù in fuga, il tempo col Pastore e l’incontro con Dio, Gesù adolescente confuso e alla ricerca di sé, l’incontro con Maria di Magdala ed il loro amore, gli apostoli che lo amano e non lo capiscono, ma credono in lui fino ad accettare il martirio profetizzato.
Gesù in questo libro è un uomo, figlio di Dio senza convinzione, recalcitrante e desideroso di affermare una propria volontà, di scrivere in prima persona il proprio destino: ma non è cosa facile quando Dio in persona ha già scritto il tuo futuro.
Giuseppe è un uomo confuso, martire per caso.
Maria è una donna del suo tempo descritta, come deve essere effettivamente stata, succube del marito e dei figli maschi (ne ha più d’uno, ebbene sì!) ed incapace di comprendere e guidare questo figlio “strano” che se ne va di casa proprio quando lei, secondo tradizione, conta maggiormente su di lui.
La Maddalena è una donna che ha esperienza e che riconosce in Gesù un uomo diverso, così del resto ci viene presentata anche dai libri evangelici, in più prova per Gesù un amore tutto terreno che viene ricambiato (uno dei motivi per l’accusa di blasfemia per il povero Saramago).
Ma il personaggio che maggiormente si discosta dalla tradizione, quello che ha una componente maggiore di originalità è Dio: in parte ricalca il Dio degli Eserciti del Vecchio Testamento, il Dio vendicativo, perfino competitivo - nei confronti degli altri Dei - per la supremazia sui popoli, talvolta è un po’ confuso, un tantino verboso, stizzoso e perfino litigioso… ed ha un alterego nel Diavolo, che invece viene particolarmente umanizzato e, tutto sommato, viene presentato come un “buon diavolo” che dà buoni consigli quando guida, per un periodo, la vita e la crescita di Gesù.
Insomma, a voler paragonare questo libro con i Vangeli, ne viene fuori che stiamo parlando di tutt’altro, così come è, in realtà: Saramago, calatosi impeccabilmente nel periodo storico, si è preso le sue licenze ed ha scritto un libro di fantasia prendendo spunto dalla storia più fantastica ed antica che sia arrivata fino a noi, rimaneggiandola a suo modo e caricandola della fortissima dose di intelligenza ed ironia che lo contraddistingue e che me lo fa amare.
La sua è una prosa densa che non indulge a lunghe descrizioni ma dipinge col pennello a punta fine ogni tratto del brullo territorio della Palestina, ogni aspetto di ogni singolo personaggio, ogni stato d’animo, ogni timore, ogni dolore ed ogni speranza. È una prosa estremamente personale, ricca di umori, cinematografica per l’assenza di pause e di cadute di attenzione.
Insomma, un autore eccelso ed un libro bellissimo.
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Paura dei fantasmi?
L’ambiente in cui si svolge tutta l’azione è una grande villa di campagna.
Un giovane nobiluomo che abita in città affida la villa e i suoi figliocci, rimasti orfani, ad una giovane istitutrice alle prime armi. Si fa promettere che in nessun caso verrà disturbato per qualunque problema dovesse porsi: la giovane dovrà gestire da sola ogni decisione e risolvere ogni problema in relazione alla casa ed ai fanciulli.
La giovane accetta, soggiogata dai modi del gentiluomo, che tornerà spesso nei suoi pensieri come un uomo di grande fascino, e parte per questo compito che non sarà così facile.
La casa è dotata di servitù e di una governante che diventerà l’amica ed il supporto (talvolta equivoco) dell’istitutrice e poi ci sono loro, i due fanciulli, un maschio ed una femmina: belli, educati, simpatici, gentili, intelligenti… "impunibili"… così li definisce James.
In realtà troppo di tutto, questi bambini, tanto che fanno nascere il sospetto che siano finti.
La giovane donna è affascinata da loro, ma contemporaneamente terrorizzata da strane visioni che pare possa vedere solo lei: fantasmi?
Questi fantasmi si scoprirà, riportano a personaggi noti e pian piano l’istitutrice ricostruirà una storia recente ed angosciante.
La vicenda ed i personaggi si muovono in una costante atmosfera di ambiguità: a volte sorge il sospetto che tutto quello che accade avvenga solo nella mente della giovane donna, altre volte il pericolo appare reale, improvviso e minaccioso.
James rievoca in certi passaggi le atmosfere di E.A.Poe, ma con un tocco estremamente personale e costruisce una storia sottilmente psicologica ed affascinante, di cui fino all’ultimo non è possibile prevedere la conclusione.
Se avete visto il film “The others” con Nicole Kidman potete avere un’idea dell’atmosfera che vi attende dentro questo piccolo capolavoro.
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Un libro da leggere
Non svelerò la trama perché quello che accade ed i personaggi stessi vanno visti in diretta, percorrendo i tre capitoli di questo racconto triste, disperato, rassegnato, violento, sentimentale, fiabesco, un po’ folle.
I tre capitoli hanno quasi una loro vita autonoma, pur proseguendo un unico racconto.
Nel primo (Il grande quaderno) sembra quasi di trovarsi nell’Emile di Rousseau: due gemelli, ancora nell’infanzia, crescono totalmente liberi in una piccola fattoria allargando i propri confini di esplorazione al mondo tutto intorno, ma al posto del precettore col compito di aiutarli ad elaborare le esperienze c’è una nonna ignorante cinica e malevola che li rafforza nella loro volontà e nello sforzo di diventare insensibili a tutto, al dolore come ai sentimenti, e a diventare una cosa sola, un unico essere quasi inscindibile.
Nella seconda e nella terza parte la storia viene riscritta e portata a termine con una serie di colpi di scena ed invenzioni che non è davvero possibile presagire.
Lo stile di scrittura nel primo capitolo è secco incisivo e quasi piatto, la maggior parte dei personaggi è volutamente priva di profondità e la prosa è quasi acerba: frasi brevi e capitoli brevi. Il motivo di questa scelta stilistica sarà chiaro più avanti, proseguendo la lettura.
Nei capitoli successivi lo stile cambia, i personaggi acquistano anima e sentimenti e la storia comincia ad acquisire complessità.
Quello che colpisce maggiormente è il senso di solitudine, di cui sono intrise tutte le pagine, che si arricchisce a volte di sfumature di amore, a volte di rabbia, a volte di odio.
La prosa è magnetica: impossibile lasciare da parte questo libro, difficile staccarsene quando lo si finisce. Sono quasi quattrocento pagine, ma volano via, lasciando la sensazione di essersi immersi in una favola triste in cui tutti i personaggi pare si impegnino a soffrire quanto più possibile.
Riporto una frase del libro, che appare verso la fine:
“La vita è di un'inutilità totale, è non senso, aberrazione, sofferenza infinita, invenzione di un Non-Dio di una malvagità che supera l'immaginazione.”
Lo consiglio: è un libro da leggere, un libro bello, un libro che resta dentro.
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