Opinione scritta da silvia t

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silvia t Opinione inserita da silvia t    05 Giugno, 2014
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Un tassello immancabile

Quest'opera è forse la più famosa di Pirandello e senza dubbio la più complessa ed interessante.
Il tema della ricerca dell'Io è presente e analizzato in ogni sua componente, per cui la lettura non è delle più semplici, se l'intento è quello di comprenderla fino in fondo.
La trama di per sé è molto semplice e il registro comico utilizzato soprattutto nella prima parte del romanzo rendono la lettura molto piacevole, ma la semplicità che si manifesta è fittizia, nasconde significati e concetti molto complicati, che attingono a piene mani dalla psicanalisi dalla quale Pirandello era affascinato.
Il protagonista si trova a chiedersi chi sia davvero, quello che lui sente di essere, ma che non può vedere vivere, o uno dei tanti che le persone vedono?
L'argomento è trattato in un modo così delicato, ma così crudo da essere interiorizzato e compreso da chiunque, anche se è necessaria una seconda lettura per cogliere ogni sfumatura di un tema così complesso.
Ciò che si respira è un'angoscia profonda che avviluppa Vitangelo Moscarda, il quale all'improvviso si rende conto di essere chiuso in una gabbia, di non essere libero, ma schiacciato da sovrastrutture e costretto in un abito che non è il suo, ma che obbligato a vestire.
Basta poco per cogliere la vita in modo diverso e ripensare tutta un'esistenza e di colpo quello che prima appariva giusto diviene sbagliato, che che prima era semplice diviene pesante, così quel nome legato in modo indissolubile al padre usuraio diviene non più un viatico per una vita bella e semplice, ma un fardello che impedisce di esprimere la propria essenza, la quale potrà essere libera solo sovvertendo tutti i piani e vivendo nel modo più spontaneo anche se questo vuol dire pagare un prezzo molto alto.
La modernità che contraddistinguo questo autore non manca neppure in questo romanzo, che utilizza uno stile fresco e un lessico molto semplice.
Per lo più è un lungo monologo che ricorda una rappresentazione teatrale, infatti spesso il protagonista si rivolge in modo diretto al lettore ponendo domande e dubbi.
Leggendo si riflette, ci si rende conto che il novecento è stato un secolo davvero incredibile, per come i temi di cui ancora oggi discutiamo, l'io e il subconscio, ma anche la difficoltà di apparire per quello che siamo senza maschere, fossero già presenti e il vivace fermento culturale si respirasse in ogni parte d'Italia.
Pirandello apre senza dubbio le porte a quello che poi sarà lo stile prevalente del futuro, con quel periodare semplice e quelle frasi corte, immediate, ritmiche, ma che le chiude al tradizionale romanzo fatto di ricerca stilistica ed epicità.
Un tassello che non può mancare nel bagaglio culturale di nessun lettore.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    02 Giugno, 2014
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I quaderni di Serafino Gubbio Operatore

La modernità del soggetto e dello stile rendono questo romanzo di Pirandello davvero degno di una lettura approfondita.
Come spesso accade con questo autore la complessità della lettura non si trova nel lessico o nella sintassi, ma nella grande quantità dei piani di lettura che si incatenano e si auto-alimentano in un susseguirsi di significati che non si mettono a fuoco subito.
Sul piano sociologico si va a criticare la tecnologia, l'uso delle macchine e il loro volersi sostituire all'uomo.
Il protagonista Serafino Gubbio è un operatore cinematografico, in parole più prosaiche una mano prestata al cinema, infatti il suo ruolo è quello di girare una manopola.
Fin dalle prime pagine del suo diario, in cui annota tutto in modo molto preciso, si percepisce la sua natura solitaria, ma profonda; le sue riflessioni pagina dopo pagina si fanno più concrete e i suoi ragionamenti logici e condivisibili.
La caratterizzazione di Serafino raggiunge quasi la perfezione, è descritto in tutte le sue componenti, la sua personalità è sezionata, ogni sfaccettatura analizzata e illuminata; un attore non dovrebbe avere difficoltà ad impersonarlo; forse è questa la caratteristica del romanzo che più risalta all'occhio: la sensazione di star assistendo ad una rappresentazione, in una sorta di meta-romanzo, un “Effetto notte” ante-litteram, che schiaccia e offusca lo stile con cui è scritto.
Siamo nel 1916, in un periodo di fermento culturale, un fermento che forse non si ripeterà più, di sicuro fino ai nostri giorni, che alimenta in modo inarrestabile la sperimentazione in nome di un futuro che innova e che migliora la vita dell'uomo; Pirandello si trova in uno strano equilibrio, con uno stile innovativo, fresco e vivace critica la modernità.
Se vista in quest'ottica, non subito chiara, ogni pagina, ognuno dei tanti avvenimenti che si susseguono, assume una luce diversa e si fa foriero del pensiero dell'autore.
Come per il ben più famoso “Il fu Mattia Pascal” anche in questo caso il tema del doppio presente in ogni uomo è ben affrontato e sempre in chiave fatalista, nessuno, in nessun caso fugge dal proprio destino.
Il piano più semplice, quello narrativo, è affrontato in modo divertente e le scene comiche regalano più di un sorriso, il surreale si fa strada, ma dietro, nascosta tra le parole e c'è una vena di malinconia, di rassegnazione alla natura umana, che non può essere migliore.
Da sottolineare e segnalare, il rapporto con la tigre, protagonista suo malgrado del film che la troup sta girando, molto più umano e profondo rispetto a quello che il protagonista instaura con qualunque umano rappresentato ed è nelle descrizioni dell'animale che si comprende la vera natura di Serafino, quella “mano” che ha un corpo e soprattutto un'anima sulla quale gli avvenimenti lasciano un segno, che non sa svestirsi dei suoi abiti, che nella coerenza soffre spesso e gioisce a volte, ma quasi mai comprende gli altri.
Pirandello sperimenta e porta la letteratura italiana su un piano diverso da quello fino allora conosciuto, esaspera il verismo interiorizzandolo, descrivendo la vera natura dell'uomo, ma per fare questo deve abbandonare la prosa perfetta, i virtuosismi stilistici, il lessico ricercato e aulico, in fondo anche questo è un sacrificio da fare per il progresso.
Lettura consigliata che aggiunge un altro tassello nella comprensione di un secolo che non sarà mai abbastanza studiato e analizzato in ogni sua componente.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    30 Mag, 2014
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L'arte ingannevole del gufo

Poco più di una favola dai toni soffusi e dolci narrata in prima persona da una bimba affetta una affascinante malattia genetica: lo xeroderma pigmentoso che non permette alla pelle di ricevere raggi ultravioletti e quindi il sole, pena la comparsa di melanomi e dunque la morte.
La cosa che più colpisce non è la trama che appare lineare e piuttosto prevedibile, ma la caratterizzazione della protagonista; Viola è una bimba consapevole della propria malattia e della propria aspettativa di vita e i suoi pensieri sono verosimili, non si trova traccia in nessuna delle pagine di pietà o di commiserazione.
La vita di Viola è descritta con l'ingenuità e il cinismo che si addicono a questa situazione e lo stile utilizzato è lieve seppur veloce.
La storia consiste in un omicidio di cui Viola è testimone e dal quale cercherà di trarre tutto il vantaggio possibile, come ho accennato ci sono molti salti logici, è necessaria una sospensione dell'incredulità ed è necessario soprassedere in diverse situazioni, ma nel complesso la sensazione è piacevole durante la lettura, proprio perché naturale, anche se di naturale in una bimba che deve uscire la notte, insieme ai gufi, agli opossum e camminare con gli occhiali per la visione notturna, mentre i suoi genitori dormono non c'è niente.
Non sono i colori, ma i chiaroscuri, la luce delle stelle e della luna che rompe il buio, una luce buona, una notte piacevole, la brina che si forma e che ricopre la notte, una magia svelata e un'infanzia che nella solitudine trova la propria dimensione, equilibrata, razionale, saggia.
Sembra che la sua autrice non voglia raccontare una storia, sembra che l'evento descritto sia uno dei tanti, seppur nella sua straordinarietà, a popolare la vita di Viola; è questo il valore aggiunto, quello che resta a lettura conclusa, un mondo nuovo, diverso, ma non per questo peggiore.
Possono esserci altri piani di lettura? Credo di sì, ma non ostentati solo accennati e lasciano un piccolo seme per una riflessione futura che forse genererà un germoglio.
Un racconto d'intrattenimento, un modo piacevole di trascorrere un paio d'ore.
La pecca più grande però sta nella traduzione del titolo che da “Night vision” diviene un incomprensibile “L'arte ingannevole del gufo” che non concentra in sé l'essenza del libro, ma, insieme alla copertina davvero poco evocativa, non rendono giustizia al contenuto come invece fa l'originale.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    29 Mag, 2014
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Il fu Mattia Pascal

Il fu Mattia Pascal – Luigi Pirandello

La forza di questo romanzo sta nell'idea di fondo: una seconda possibilità, una seconda vita che possa essere perfetta; lontano da tutto ciò che l'ha resa un inferno, dai ricordi, dai doveri, dalle responsabilità.
Mattia Pascal conduce una vita fatta di un incedere lento e stanco, in cui il ricordo di un'infanzia agiata non può scomparire e perpetuarsi un'esistenza, quella attuale, fatta di espedienti e di insoddisfazioni familiari: una donna che non ama più, una suocera che odia, due figlie morte piccole.
L'atmosfera in quella casa. In quel paese, in quella biblioteca in cui lavora è pesante, come la polvere che avvolge i vecchi libri che nessuno legge profonde come i solchi lasciati su di essa sono le cicatrici del suo animo; i suoi sbagli, la sua accidia, la sua totale mancanza di buon senso ha portato in un soffio tutto questo.
Il pensiero costante è la fuga, da tutto, da tutti, lontano, in un altro mondo.
La colpa al distino, alle avversità, alla poca esperienza: un'altra vita porterebbe solo benessere e scelte giuste...forse!
Così la sorte che tutto ascolta e che si diverte da sempre con gli uomini decide di giocar con Mattia, creando le premesse affinché questo avvenga e Mattia diventa Adriano, Mattia muore, Adriano vive.
Con uno stile moderno, asciutto, un lessico ricco ed evocativo questa seconda vita è raccontata con ironia, l'atmosfera si rarefà, la speranza, la luce, il futuro radioso e privo di ostacoli si profila davanti ai suoi occhi, ma nessuno può relegare la propria essenza in un angolo, nessuno può recidere le proprie radici e soffocare il proprio orgoglio, non cercare un riscatto, non dimostrare la propria superiorità.
Così il racconto si fa metafora si qualcosa di più: l'uomo schiavo del proprio destino dal quale non può fuggire e non può esimersi.
Nonostante il piano narrativo sia semplice e lineare, il fraseggio varia al variare delle situazioni, più fosco, con tinte scure all'inizio, solare e ritmico nella parte centrale, lento e ambrato nel finale.
Pirandello scrive nei primi anni nel novecento, contemporaneo di D'Annunzio, non ne segue le orme, sceglie di raccontare l'uomo nella sua forma più profonda, di raccontare le tribolazioni dell'animo più che un modello di perfezione elaborando i concetti della nascente psicoanalisi.
IL romando, in conclusione è uno di quelli che lasciano il segno, sia per l'originalità del soggetto che per la scelta stilistica, che risulta ancora attuale, ma soprattutto per la grande forza evocativa, per come le immagini raccontate si materializzano, come i volti e le loro modificazioni divengono visibili.
Lettura non solo consigliata, ma fondamentale per comprendere il meraviglioso percorso della nostra bella letteratura di inizio secolo.

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Autori italiani
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    22 Mag, 2014
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Introduzione alla lettura di Luigi Pirandello

I mesi sono passati e Uomo ha continuato a vivere la sua vita in modo tranquillo, impiegando il suo tempo nella lettura di D'Annunzio; ha imparato ad apprezzare questo scrittore e a cogliere quel talento che anni addietro gli era sfuggito.
Questo particolare periodo della sua vita non era dei più felici, è vero aveva la fortuna di fare un lavoro che amava, ha una vita coniugale tutto sommato felice, ma la soddisfazione profonda, quella che nasce dalla consapevolezza di lasciare un segno nel mondo sapeva che non l'avrebbe provata mai, avrebbe potuto solo viverla attraverso le pagine di un libro.
Ci sono dei giorni in cui la tristezza si impossessava di lui paralizzandolo, rendendo le sue giornate lente e pesanti; in quei giorni si accorgeva di quante scelte sbagliate avesse fatto e di quanto gli eventi gli fossero caduti addosso influenzando in modo indelebile e permanente la sua vita.
Proprio una sera in cui questi pensieri si affollavano nella mente e le strade assumevano contorni inusuali nel chiaroscuro settembrino scorse da lontano delle luci e una folla di persone, proprio di fronte al teatro cittadino; una struttura dei primi dell'ottocento che aveva sempre visto nei pomeriggi della sua gioventù vuota, quasi spettrale, ma che l'attuale amministrazione, in un barlume di lungimiranza, aveva rimesso a posto e riportato agli antichi fasti; quella sera doveva esserci la prima di uno spettacolo e Uomo si avvicinò curioso.
Lo spettacolo era la rappresentazione teatrale de “Il fu mattia Pascal” di Pirandello; Uomo avverte la moglie che quella sera non tornerà a casa, andrà a teatro.
Pirandello era uno di quegli autori che aveva amato al liceo, per quell'italiano eccellente, ma non aulico, quella vena ironica, ma non sarcastica e quel titolo gli sembrava molto adatto al suo stato d'animo e pensò a tutto quello che avrebbe fatto e tutto quello che avrebbe detto se la sorte avesse riservato a lui lo stesso trattamento di Mattia.
Egli sarebbe stato più furbo, senza dubbio, egli avrebbe saputo cogliere l'occasione, non sarebbe di certo rimasto schiavo della sua vita!
Forse!

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silvia t Opinione inserita da silvia t    04 Aprile, 2014
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Il fuoco

Senza dubbio è il romanzo più D'Annunziano che si possa leggere, il paradigma di ciò che è diventato lo stereotipo dell'autore; vi si trova tutto quello che rende il Vate sopra le righe, il culto del superuomo e della poesia, la ricerca continua della perfezione e il tentativo di avvolgersi in essa nella speranza di coglierne qualche infinitesima particella.
La trama è quasi un'autobiografia dove il protagonista Stelio è un poeta che vive della sua arte e di essa si nutre e soprattutto con essa accresce il proprio ego.
Fosca è la sua amante, un'attrice ancora affascinante, ma in là con gli anni, che riesce ancora ad ammaliare, ma che giorno dopo giorno via via che le fibre elastiche della sua pelle sono diventate più morbide ha perso la propria sicurezza e così, da un pensiero fugace, inizia la sua ossessione che porrà le basi per comprendere, in qualche modo, quello che è stato il rapporto tra D'Annunzio e la Duse.
Date le premesse ci si potrebbe aspettare una qualsiasi storia d'amore, ma nonostante gli ingredienti ci siano tutti ed essa sia presente, non ci si limita a questo, si va oltre, si riesce a percepire gli stati d'animo dei due protagonisti che vivono delle emozioni così intense e D'annunzio riesce a trasportarle in modo così reale, da far rendere conto al lettore di come molte di esse siano esperienze vere e non di finzione.
L'approfondimento psicologico fa si che ci si trovi di fronte a una Foscarina fragile, quasi di cristallo, così bella e preziosa che necessita di qualcosa che non esiste, quel vetro appena offuscato dagli anni non tollera la sfida col tempo, preferisce fuggire, preferisce lasciare un ricorso e non far assistere al proprio decadimento.
Il tema centrale non è, come fu per altri romanzi, la morte che si fa catarsi, ma la ricerca dell'impossibile, non raggiunto dall'attrice, ma incarnato in tutte le sue componenti dal poeta, che diventa davvero, questa volta, alter ego dell'autore; infatti non si riesce a cogliere una sbavatura, un momento di cedimento.
Il confronto tra i due è crudele, è impari, tutti i pensieri e le paure della Foscarina sono conosciute dal lettore e del tutto ignorati dal protagonista, che non si preoccupa della sofferenza della compagna, ma solo della sua arte.
Non si deve, però, immaginare che sia crudele, egli vive della propria arte e per essa, non si pone problemi ulteriori, la sua vera sciagura sarebbe la perdita d'ispirazione.
Quasi un manifesto del pensiero D'Annunziano riesce a far comprendere a fondo la sua mentalità e il suo sentire.
Lo stile è sempre sublime, ma molto più faticoso, con un lessico più ricercato e a volte desueto, il periodare crea delle matasse a tratti impenetrabili che rendono la lettura poco fluida, ma molto intensa.
Il romanzo più vero risulta, in conclusione, il più difficile per questo motivo, pur consigliandone la lettura, lo porrei a conclusione della bibliografia.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    27 Marzo, 2014
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Forse che sì, forse che no

L'ultimo romanzo che il Vate ci ha donato, senza dubbio il più fruibile, reca in sé la semplicità delle grandi opere, una trama complicata senza essere pesante e un lessico che è musica, una sintassi che trascina il lettore, un periodare che culla quando è necessario, ma sprona a continuare quando la vicenda lo richiede; si ha letta sensazione di non essere noi a leggere il libro, ma che esso abbia una sua volontà e ci induca ad obbedirgli.
La storia, a differenza degli altri romanzi, ha un suo compimento, non è semplice strumento atto ad esaltare il protagonista, ma un insieme di figure le cui caratterizzazioni, anche se solo accennate sono precise, intense, toccanti.
L'ascesa personale si fonde con quella materiale, la ricerca della perfezione diviene tutt'uno con il possesso dei cieli, il superuomo si identifica con la nascente aviazione, con i primi aerei; infatti Paolo è un pilota di auto, ma si diletta anche nel guidare le nuove macchine volanti ed è in questo sfidare la natura, quasi possederla e plasmarla ai propri voleri, che si identifica la forza e il valore del protagonista.
Il personaggio principale femminile è, forse, il più intenso di tutta la produzione D'annunziana; donna ricca e sicura di sé; appare fin da subito come una pietra preziosa, ricca di mille sfaccettature, che nelle sue frasi, nel suo legger dialogare, nasconde un mondo, un peso che in modo lento ma inesorabile la trascina nell'abisso della propria anima; un viaggio così lento che non permette marcia indietro, perché non percepito, perché non compreso.
Sembra di cogliere la disperazione subitanea che la invade nel momento della comprensione, quando tutto è chiaro, perché svelato, perché il destino inesorabile e vendicativo non ammette catarsi, non ammette pentimento; così tutto il peccato, tutta la colpa, tutto ciò che in fondo alla sua anima era presente, ma nascosto, si palesa e la rende folle, di quella follia che acceca, di quella follia che annebbia col dolore che provoca; non sono le descrizioni che la rendono così viva, ma le azioni, gli sconvolgimenti repentini della sua anima, quella presa di coscienza tardiva che non ammetterà nessuno sconto, questo viaggio annunciato, perché già scritto, perché inevitabile, non può non essere un purgatorio e il lettore spera con tutto se stesso che per questa donna, colpevole senza dubbio di un peccato indicibile, possa esserci una redenzione se non in questa vita almeno nell'aldilà.
Già questa caratterizzazione basterebbe a rendere quest'opera un capolavoro, ma si aggiungono i personaggi secondari che per intensità non le sono secondi e rendono il protagonista così essenziale pur nella sua inazione, così superiore esaltando la sua luce con le loro tinte chiaro-scure e preparandogli la strada affinché si compia la sua consacrazione là in alto nel cielo fino ad allora inesplorato, primo uomo a toccare quelle vette fino ad allora sfiorate solo dagli dei.
Stupisce che non sia il romanzo più conosciuto, superiore sotto tutti gli aspetti a “Il piacere” perché pur contendo molti dei temi lì trattati, si respira un'aria più matura, una padronanza del lessico, se possibile, ancora più potente, un senso del ritmo che detta le regole, una trama che è centrale senza essere preponderante.
La giusta dose di ogni singolo ingrediente per far si che questo sia il romanzo più completo e forse definitivo.
Lettura raccomandata, non se ne può restare delusi se si ama la letteratura.

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Romanzi autobiografici
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    24 Marzo, 2014
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Exit strategy

Quasi un sospiro di sollievo si tira quando il libro si conclude, perché fa male leggerlo; le pagine scorrono veloci, infarcite di uno stile così rude, ma al tempo stesso ricercato che non permettono la resa; la trama pur essendo il quarto capitolo di una trilogia o un sequel come piace definirlo al suo autore, è piuttosto semplice: si narrano le vicende di uno scrittore omosessuale, a cui l'autore ha prestato il suo nome creando un gioco di specchi che disorienta, già in odor di pensione e del suo trasferimento da Roma a Milano.
Cosa riesce, allora, ad emozionare in modo così profondo?
Se la lettura avviene fluida e costante, si riesce a vivere le situazioni e l'angoscia, il senso di vuoto, che attanaglia il protagonista perso in una realtà che non vuol vivere, ma che è costretto a guardare con occhi spalancati.
La personale catarsi del protagonista, galleggia a mezz'aria sulle vicende italiane, il contatto con la realtà si ha nelle vicende di Berlusconi degli ultimi tre anni, scorci di televisione spazzatura ricordano che è il nostro paese quello raccontato e insinua il senso di disperazione, di assenza di possibilità di ripresa, di felicità, di realizzazione.
Come fu per “Resistere non serve a niente”, ma con una punta di cattiveria in più, il lessico è quasi sconcio, forte, scuote gli animi, costringe a riflettere e ad interrogarsi attraverso il paravento dell'omosessualità, di un mondo così lontano dalla regola -così lo racconta- fatto di escort e di sesso estremo, per far trasparire la voglia di normalità, che è l'unica via di fuga, l'unico vero rifugio per una serenità forse più tiepida, ma vera.
Non è una sconfitta, non è il riposo del guerriero che dopo una vita fatta di estreme azioni e di tentativi di ricercare in un estetismo rifocillante, non è la rassegnazione di chi non ha più soldi per comprare i propri desideri, è la consapevolezza di essere giunti alla fine di un percorso e di non avere più voglia di cercare qualcosa che non esiste se non nell'evanescenza delle proprie immagini mentali.
La crudezza con cui si racconta il lento decadere della madre malata, affetta da una demenza senile ormai irrimediabile, distrugge, perché descrive con chiarezza le molte realtà che esistono, i pensieri non detti, ma fatti trasparire, la crudeltà di un egoismo così radicato, ma non ammesso, giustificato, mascherato; così metafora dopo metafora, la realtà intorno i mescola con la realtà immaginata, con i sogni non realizzati, e solo quando i sogni si realizzano, quando le sorprese si palesano ecco che quella realtà cruda, goccia goccia da concretezza alla vita sognata e tingendola di verità la rende vivibile.
Siti ci regala un libro schietto, fatto di note autobiografiche, forse, ma che lascia un segno così crudo e dolce da riconciliarci con il mondo, donandoci una speranza di felicità, non sofisticata, ma genuina.
Non è un testo da intrattenimento, ma un libro che va gustato e amato, assaporando ogni parola che nella sua schiettezza nasconde una ricercatezza lessicale che lascia interdetti.
Siti si conferma uno dei nostri migliori scrittori, per intensità e per stile.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    13 Marzo, 2014
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Il trionfo della morte

Un cunicolo buio, violentato dalla luce di feritoie aperte sul mondo, stretto e umido, si lancia sulla vergine di Norimberga, aperta, sensuale pronta a svolgere il suo compito atroce e catartico.
Il percorso è obbligato, la fine certa e la resa impossibile.
Questa la sensazione che il lettore prova durante la lettura.
“Il trionfo della morte” non è solo un romanzo, è un' esperienza quasi mistica, per ciò che trasmette, per il suo trascendere il contenuto spaziando campi dello scibile così lontani da non capirne, nell'immediato, i collegamenti.
Un testo difficile, forse il più complesso di D'annunzio, ricco di descrizioni, di passaggi lessicali complessi e di contenuti difficili e a tratti indecifrabili, che svela in modo violento l'ignoranza del lettore, che non può non deporre le armi di fronte a tanta cultura concentrata in esso.
Fin dal titolo il tema della morte imprime la sua impronta per avvolgere le pagine di un tetro presentimento, di un'innata certezza.
C'è tutto D'annunzio in questo romanzo, tutto quello che ne rappresenta l'essenza, quella fragilità che contrasta con la sua volontà, quell'animo delicato ed esteta che contrasta con la personalità forte e determinata della vita pubblica, quell'amore per Wagner e Nietzsche che creano in lui la celebrazione del superuomo che non può trovare se non nella morte la sua ragione di vita, ma trascina con sé colei che della vita è stata la scintilla, che grazie a lui ha conosciuto la felicità e il piacere e che troverà nella grande consolatrice la sua nemesi.
Se il tema centrale è quello della morte, il cunicolo che vi ci conduce è il mal di vivere, un'oppressione che attanaglia il protagonista, lasciandogli guardare dalle feritoie e quel che vede non sempre è consolatorio.
Da un punto di vista stilistico è una sinfonia di suoni che se letta dimenticando il significato delle parole genera il fruscio del vento o l'infrangersi delle onde sugli scogli oppure il lamentio perpetuo di mendicanti deformi che promettono grazie dalla Madonna.
Il protagonista compie un viaggio interiore per trovare la sua origine, le sue radici, ma ciò che vede non gli appartiene, non lo riconosce come proprio; il mondo intorno non lo sfiora, i suoi problemi non esistono, esiste egli solo, ed egli solo conta: la sua famiglia, i luoghi che lo hanno visto crescere e infine anche la sua amata non sono che visioni lontane che portano una flebile luce nella sua esistenza, del tutto insufficiente a mitigare il bisogno di epicità che invade e pervade ogni attimo della sua vita; unico antidoto la sensualità, il piacere, le corde che la sua donna fa vibrare: la casta e pura Ippolita in un soffio, plasmata da Giorgio, diviene voluttuosa e foriera di tutti i piaceri.
Ippolita è un'anima semplice, che vuol solo amare che poco comprende della complicata personalità del suo amato, per lo più lo asseconda, ma il personaggio è così ben caratterizzato da aver un ruolo centrale nella vicenda, da rendersi punto di riferimento su cui gira la follia di Giorgio che di pagina in pagina diviene più concreta, fino a che il contrasto con la compagna diviene così forte da sovvertire i piani su cui poggiano il bene e il male, catapultando con violenza il lettore in una dimensione, come fu per “L'innocente”, al di là di essi.
Il protagonista è scandagliato in tutti i meandri della sua personalità, si imparano a capire i suoi pensieri, le sue fobie, il suo bisogno di andare oltre l'umana sostanza per invadere il territorio del divino, infrangere il muro della cose terrene per elevarsi al di sopra incarnando quell'ideale di Superuomo che non potrai mai raggiungere se non appunto nella morte.
Nella morte, però, risiede la minaccia della sostituzione, la disintegrazione del suo essere indispensabile e così quel viaggio nell'oblio deve essere totale e catartico di tutta la sua vita.
Pieno di simbolismi, laici e religiosi, blasfemi e cattolici, con personaggi secondari che nella loro semplicità restituiscono la speranza nel lettore, forse echi di verismo sporcano questo inno all'estetismo, che ritrova, come già fu per Verga, la vita e il futuro negli umili che senza troppi voli pindarici ed elucubrazioni mentali vivono e si riproducono, mentre il Superuomo non può trovare che nella morte il proprio scopo e la fine di una sterile esistenza.
Pietra miliare della letteratura italiana,, le descrizioni riportate sono necessarie, oltre che coinvolgenti, i temi trattati profondi e importanti.
Ci si chiede spesso se D'Annunzio sia solo esercizio di stile senza contenuti; penso che la ricerca di un io interiore, con l'onestà intellettuale che gli deve essere riconosciuta, sia un innegabile contributo a tutti i romanzi successivi che hanno come tema centrale l'introspezione.
L'essenza di D'Annunzio si fa arte ed eleva colui che legge in un mondo che esisteva, forse quello sì, solo nella sua mente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    09 Marzo, 2014
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Maigret e il ladro indolente

Può capitare di incontrare persone particolari, così particolari da risultare quasi incomprensibile e può capitare che queste giungano come un eco dal passato e che abbiano la capacità di restituire il colore dei bei tempi andati, regalare l'entusiasmo che le quotidiane vicissitudine e le moderne idee stanno spazzando via.
Questo accade un giorno a Parigi, questo accade un freddo mattino d'inverno a Maigret.
Un morto senza nome, su cui il commissario non deve indagare; egli deve, da ordini superiori, riempire scartoffie, adempiere ad obblighi burocratici, divenire un mezzo della procura, niente più; addio alle indagini personalizzate, addio ai metodi non convenzionali.
Maigret, però, non può, non riesce a pochi anni dalla pensione a sottostare a queste regole e così in modo del tutto autonomo e nascosto tra le indagini di un vecchio collega indaga su questo ladro indolente, sua vecchia conoscenza e la magistrale penna di Simenon ci porta a conoscere personaggi caratteristici, di una Parigi dimenticata, tinteggiata color ambra e polverosa, povera, ma dignitosa;
Chissà, viene da pensare, se davvero la capitale francese racchiudeva quella magia che le parole riescono ad emanare, chissà se davvero quei personaggi caratteristici vivano e popolavano le vie e i vicoli, le case e le catapecchie, chissà se quella dignità così forte e così austera e era reale o se esisteva solo nella mente del suo autore, forse non è neppure importante saperlo, quello che è certo è che il viaggio che il lettore fa è pieno di fascino e tocca corde che commuovono.
Ciò che, come al solito, colpisce non è la trama, non è il giallo e la sua risoluzione, che passa in secondo piano rispetto alle vite descritte e agli stati d'animo analizzati in modo mai ridondante o eccessivo; personaggi realistici e pieni di vita, i quali sembrano vivere anche a lettura finita.
Il commissario appare stanco, invecchiato, ma con ancora la sua voglia di scoprire, la sua volontà di combattere anche contro la gioventù miope che vuol cambiare il mondo distruggendo ciò che bello c'è e perpetuando e rafforzando ciò che di sbagliato inizia a germogliare.
Lettura che fa riflettere, che indice a fare paralleli coi giorni nostri, che dona una visione d'insieme insolita, che dal particolare riesce, come tutte le opere superiori, a farsi generale.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    27 Febbraio, 2014
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L'innocente

Bello da togliere il fiato, perfetto in ogni sua sfumatura, l'amore che D'annunzio aveva per Wagner si palesa in questo suo romanzo che appare come il compendio di un'epoca; tutte le pagine sono imbevute di quell'epicità che caratterizzò la fine del XIX e l'inizio del XX, molti sono i piani di lettura che si prestano alla comprensione totale dell'opera che come una sinfonia penetra nelle corde più profonde dell'animo, lasciando interdetto il lettore, incapace di giudicare, incapace di condannare colui che è colpevole, senza alcun dubbio, senza alcuna possibilità di riscatto.
E' sul piano narrativo che si gioca la partita più importante, il coraggio di affrontare argomenti pesanti, come la colpa, il perdono, l'espiazione, ma anche più pragmatici come l'adulterio e l'aborto. D'Annunzio affronta tutto questo scegliendo come forma narrativa la prima persona, una confessione che procede in analessi, così il lettore conosce i pensieri che attanagliano il protagonista, ma allo stesso tempo creando un'empatia con esso, perché il racconto è sincero e il dolore e lo sgomento reale.
Un omicidio è quello che viene confessato e il percorso che porta ad esso, i fatti e i pensieri che lo precedono, in un climax che attanaglia il lettore, che porta all'inevitabile finale che già conosce, ma non per questo meno straziante, meno incomprensibile.
Nonostante tutta la vicenda sia chiara fin dalla prima pagina, anzi fin dal prologo, la tensione rimane elevata per tutta la narrazione e la sua conclusione non può che essere accolta come una liberazione. L'artificio con cui l'omicidio si compie può ad una prima lettura apparire forzato, ma se letto nell'insieme appare invece ben calibrato e inserito ad arte in un contesto perfetto, infatti il fato si piega al superuomo che nonostante tutto può plasmare gli eventi a proprio piacimento con la sua sola forza di volontà. Tutto il romanzo è intriso di questa sensazione, della consapevolezza del protagonista di poter plasmare il destino che gli si è voltato contro, ma egli potrà renderlo suo servo e far si che gli eventi giochino a suo favore. E' chiaro il riferimento alle tematiche tanto care a D'annunzio e gli echi di Nitzsche rimbombano per tutto il romanzo rendendo quasi soprannaturale e quindi lecite, “Al di là del bene e del male”, le azioni e i pensieri disumani di Tullio.
Tutti i punti di riferimento sono sovvertiti, ciò che appare, nella normalità, dolce e tenero foriero di buone sensazioni, si rende qui orrendo e cattivo perché personificazione innocente della colpa, dell'orgoglio ferito e per questo non degno della vita.
La neonata psicanalisi fa il suo ingresso in questo romanzo che attinge a piene mani da essa, riuscendo a delineare con pochi tratti ogni personaggio secondario, ognuna delle tante comparse è ben caratterizzata, sempre attraverso le azioni e mai attraverso i pensieri o le considerazioni di Tullio; solo Tullio e la moglie Giuliana necessitano di giustificazioni per non apparire dei mostri, per non far nascere nel lettore quel disgusto che sarebbe ovvi, ma che non si riesce proprio a provare.
Tutte queste tematiche sono poi portate sulla carta con una tale soavità, ricchezza di vocaboli attraverso accostamenti sonori che sfiorano, senza però toccarla la poesia, quasi che una parola fosse legata all'altra da un legame indissolubile e perciò impossibile appare l'interruzione.
La sensazione che ha il lettore è di galleggiare sospeso a mezz'aria tra il bene e il male, in quelle stanze ricche, in cui la perfezione mostrata è pari solo alla decadenza degli animo, alla deriva della coscienza e la musicalità delle parole che si susseguono, dolci ed evocative, rassicuranti ma piene di pathos non possono che creare quello stato di tensione che pervade il lettore fono alla conclusione senza possibilità di scegliere, si condanna, perché si deve, ma non c'è modo di non provare pietà per quella mano che non ha potuto vincere il suo essere superuomo, non ha potuto non vendicare il proprio orgoglio ferito, foss'anche macchiandosi di una colpa che resterà indelebile nella propria coscienza, ma permetterà di continuare a vivere.
Un romanzo che contiene in sé tutte le caratteristiche del capolavoro, sotto il punto di vista stilistico perfetto e sotto quello del contenuto profondo, non solo in considerazione dell'epoca in cui è stato scritto.
Ne consiglio la lettura per non perdere un gioiello della nostra letteratura, che forse può aiutare a capire il confine tra letteratura e intrattenimento letterario; questa storia trascende se stessa, obbligando a riflettere su stessi e sulle proprie convinzioni.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    20 Febbraio, 2014
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Introduzione alla lettura di Gabriele D'Annunzio

Un silenzio quasi irreale accoglie l' Uomo nella propria casa, una penombra che lo fa cadere in una profonda tristezza, quasi che il mondo fuori fosse privo di interesse, quasi che tutto intorno perdesse il proprio senso, il proprio scopo.
Il suo sguardo cade sulla vecchia libreria e avendo in mano i molti libri comprati nel pomeriggio si convince ad ampliarla, riordinando, dopo tanto tempo, i molti volumi posti in doppia fila e ammassati; questo pensiero gli regala un po' di allegria e gli permette di trascorrere una notte tranquilla, in compagnia della sua nuova amica: quella Matilde Serao la cui opera, nonché la sua vita lo avevano conquistato.
Il mattino lo coglie ancora addormentato, con il libro chiuso al suo fianco, ma con un'energia nuova e una voglia di correre al lavoro per poi acquistare una nuova libreria dove ordinare tutti i libri.
La giornata trascorre veloce e fatti gli acquisti torna a casa e decide di spostare al piano di sopra tutti i volumi, più vicini a quella che è la parte della casa che vive di più, che sente più sua, più intima.
Il momento in cui una nube di polvere si impossessa della stanza è quello che vede tutti i libri cadere per tetta, uno ad uno ed è così che tra le mani si trova un titolo; un vecchio volume, dimenticato, “Il Piacere” di D'Annunzio.
Quanto aveva amato quel libro, quanto quel lessico così aulico, ma mai inutile e quella prosa così artefatta senza essere pesante lo avevano stregato quando era ragazzo, riusciva a catturarlo e trasportarlo in quegli anni in cui tutta il mondo culturale era in fermento, in cui la filosofia si intrecciava con la letteratura e tutto veniva letto attraverso la lente della psicanalisi, ancora in fasce, ma già presente con tutta la sua potenzialità.
Una riflessione, mentre sfoglia le pagine de “Il Piacere” lo coglie, quanto talento può esserci in un solo uomo, in quanti campi dello scibile può eccellere: D'Annunzio era un letterato che aveva dato alla luce opere memorabili, come scrittore, come poeta, come drammaturgo e in ognuno di esse aveva messo se stesso e la sua epoca, fatta di eccessi e di impeto, fatta di quella voglia di cambiare il mondo e gli uomini.
Le pagine corrono veloci e la curiosità di riprendere i fili della sua vita si fa sempre più pressante, così, rimandato il montaggio della nuova libreria, Uomo cerca nella sua vecchia antologia del liceo la sua biografia e si accorge di quanto anni addietro aveva sottovalutato quella vita così ricca di avvenimenti, quella ricerca spasmodica della felicità e del piacere.
Una cosa sola ricorda con estrema vivacità: fu ritrovato morto al tavolo da lavoro così come fu per Matilde Serao, ma a differenza di questa, vittima della propria depressione, di quella volontà cieca di raggiungere ciò che è irraggiungibile.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    13 Febbraio, 2014
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L'amica della signora Maigret

Un'ultima frase che vale tutto il libro, un particolare che non ti aspetti e che fa sorridere e incarna il tono ironico di tutto il giallo.
Parigi è sempre la stessa, bella da togliere il fiato e le descrizioni sono così ben fatte da dare l'impressione di passeggiare e di sedersi sulle panchine, ma come ormai Simenon ci ha abituati sono gli approfondimenti psicologici a farla da padrone.
Durante questa inchiesta conosciamo meglio la signora Maigret e il rapporto col marito, così dolce, così profondo; un'unione d'altri tempi, in cui la moglie si prende cura del marito, ombra confortante e indispensabile, ma che cova dentro di sé tutta la personalità necessaria, tutta la forza che serve per sostenerlo, la quale, qualche volta ha voglia di considerazione! Questa è quella volta, infatti una coincidenza, che può apparire forzata, ma nell'insieme è molto piacevole, si ritrova ad essere un valido aiuto investigativo per il commissario.
La Signora Maigret è di una dolcezza unica, fa tenerezza nel suo aspettare il marito in un'attesa a volte lunghissima, il suo preparagli un pasto caldo e rattristarsi se per una volta non la trova a casa intenta a cucinare; ed è così tenera la sua reazione ad un invito al cinema dopo oltre due mesi!
L'altro personaggio che viene approfondito è il giovane Lapointe, che entrato da poco nella polizia è pieno di zelo e di voglia di fare...forse troppa. Il suo ritratto è davvero vivido e pur commettendo delle ingenuità che creano difficoltà all'indagine Maigret riesce, come un buon padre di famiglia, a fargli capire lo sbaglio senza mortificarlo, a sottolineare il grande carisma di quest'uomo, che riesce con l'esempio a generare nei suoi un senso di appartenenza ormai dimenticato.
La trama è divertente è un po' particolare, condita da uno stile sempre perfetto che trascina con sé il lettore fino alla fine; la caratterizzazione dei personaggi secondari è di importanza cruciale e sono, questa volta, essi a creare le fondamenta dell'avventura; ce ne sono tantissimi ed ognuno è descritto così bene e così importante da non riuscire ad immaginare l'inchiesta possibile senza la sua presenza.
Piacevole lettura senza alcun dubbio.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    10 Febbraio, 2014
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Maigret perde le staffe

Non voglio dilungarmi sullo stile sempre perfetto e ricercato di Simenon che porta il genere poliziesco nell'olimpo della letteratura o sui dialoghi sempre freschi e brillanti nonché realistici, perché sarebbe ridondante, banale e forse noioso: un ripetere sempre le stesse cose, un sottolineare l'evidente. La maestria di Simenon è fuori discussione, ma ciò che rende quest'avventura particolare è il suo contenuto: come si evince dal titolo il commissario francese perde tutta la sua calma perché è la sua moralità ad essere toccata.
Non mi è possibile raccontare di più perché ridurrebbe quell'attesa che pervade tutto il volume e che ne è la colonna vertebrale.
La forza di Simenon sta nel far conoscere un ognuno dei volumi un aspetto della poliedrica personalità della sua creatura, rendendola così realistica e delineando un profilo psicologico sempre più preciso, senza mai cadere in contraddizione, senza che mai le varie sfaccettature si sovrappongano.
La peculiarità sta nel far comprendere la levatura morale del personaggio non tanto dalle descrizione dell'autore, né dai suoi pensieri o dalle conversazioni che si svolgono, ma attraverso le reazioni a determinati stimoli, quelle reazioni così forti e così immediate che fanno comprendere la profondità della personalità, come certe questioni siano nervi scoperti.
Tutta la componente gialla del racconto fa da contraltare a quel finale così intenso, un caso capitato quasi per caso, in mezzo all'estate uggiosa e calda, in mezzo a proprietari di locali notturni, e ballerine; una Parigi indimenticabile, scorci di Montmartre da togliere il fiato.
Ben oltre il giallo classico, personaggi che non sono stereotipi, ma caratterizzati così bene da far pensare che si disegnino addosso a uomini esistiti e conosciuti da Simenon, carichi di pregi, ma allo stesso tempo di difetti.
Lo consiglio come consiglio ogni avventura del commissario che mi ha fatto innamorare del poliziesco, un genere che avevo sempre guardato con sospetto.

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Scienze umane
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    07 Febbraio, 2014
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Le basi morali di una società arretrata

Un tuffo nel passato è quello che il lettore fa leggendo questo saggio; un piccolo paese italiano, arroccato su un monte, dove la popolazione non vive, ma sopravvive, dove avere dei figli è quasi un lusso più che una risorsa, dove anche le più evidenti conquiste della tecnologia sono quasi sconosciute. Non siamo negli anni del verismo, in una società Verghiana, alle prese con il progresso, ma nel 1955, in un piccolo paese chiamato, nella finzione, Montegrano, ma che esisteva allora ed esiste ancora.
Venuto a conoscenza di questa situazione e approfittando delle origini italiane della moglie, Banfield decide di capire il motivo di tale arretratezza del paesello e osservando, analizzando trae le sue conclusioni che mutatis mutandis sono applicabili a moltissime scienze umane.
Secondo l'autore la causa della arretratezza sta nella diffusione del “familismo amorale” molto diffuso in quelle società isolate e prive di qualsiasi tipo di collaborazione; ma cos'è questo fantomatico familismo amorale? Si può sintetizzare in questa frase:

"massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo".

Lo studio è condotto in modo scientifico, aggiungendo all'osservazione diretta questionari e test psicologici; alcuni di questi ultimi riportati in appendice consistono delle TAT (Thematic apperception Test) che sono molto usati in psicologia al fine di identificare le emozioni, i sentimenti, i conflitti più importanti nella personalità di un individuo. Al soggetto viene presentata un serie di venti immagini e gli si chiede di costruire brevemente sotto la prima impressione, una storia che possa essere illustrativa dell'immagine stessa. Le immagini si prestano a interpretazioni più o meno ambigue (una è un foglio bianco puro e semplice). Le interpretazioni del soggetto rivelano sentimenti, valori, preoccupazioni di cui il soggetto può essere consapevole meno. Lo psicologo può trarre indicazioni assai importanti sulla personalità del soggetto dai particolari delle storie che vengono narrate. In questo caso però vengono usati i TAT soprattutto per identificare elementi dell'ethos comune piuttosto ce trati della personalità. [cfr pag 86 nota 12].

Da un punto di vista lessicale è molto semplice e ben comprensibile pur non essendo un'opera di divulgazione e l'analisi è ben spiegata, ma forse si avverte una tendenza, da parte dell'autore, a “far tornare” le sue ipotesi, che comunque risultano molto interessanti.

La causa principale della situazione a Montegrano è la totale incapacità dei propri abitanti a comprendere la necessità di associarsi per creare qualcosa per la comunità; questo concetto esula dalla rosa delle possibilità, poiché l'unica cosa che conta è il proprio tornaconto, ma non per cattiveria o per egoismo, proprio perché la sopravvivenza è vista come qualcosa di individuale e non di comunitario. Davvero toccanti ed esplicativi alcuni racconti degli abitanti, famiglie che non possono avere più di due figli perché non possono permettersi la dote alle femmine, oppure la necessità di rompere con la famiglia di origine per concentrare tutte le proprie forze su quella nuova.

Alla conclusione del libro, che seppur piccolo è molto difficile riassumere se non nei tratti salienti, si ha l'impressione che il familismo amorale sia molto diffuso, non nei termini che vengono qui riportati, ma nell'ethos (l'insieme delle usanza delle idee, dei termini di giudizio e di comportamento comuni che individuano e differenziano un gruppo da altri gruppi) di molte realtà soprattutto piccoli gruppi, piccole comunità, lobbies e forse anche internauti.

Consigliato per avere una visione diversa delle molte piccole realtà che ci circondano e forse anche di noi stessi.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    07 Febbraio, 2014
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La trappola di Maigret

Uno dei Maigret più suggestivi, più profondi; forse meno intimista e psicologico, ma senza dubbio intrigante e stimolante.
Fin dalle prime pagine Simenon riesce a creare un'atmosfera così reale, così plumbea da far immergere subito il lettore in quel tempo e in quella situazione; un serial killer darà filo da rocere al nostro commissario e lo farà in un modo così sottile, ma al tempo stesso naturale che non si può non leggere quest'avventura tutta d'un fiato.
Oltre alla solita maestria di Simenon che non si smentisce neppure questa colta, c'è da sottolineare un ritmo straordinario che incatena e costringe a continuare a leggere, quasi che il lettore fosse preda di un incantesimo, quasi che se la lettura si interrompesse una vittima potrebbe essere sacrificata.
Così pagina dopo pagina in un climax quasi insostenibile Maigret riesce a farsi un'idea e il lettore con lui, fino alla conclusione che seppur semplice appare magnifica.
Magnifica appare la fine perché i personaggi che vi ci conducono non solo sono caratterizzati benissimo, ma la loro completa comprensione avviene solo dopo che ogni velo della personalità è descritto e questo avviene con una lentezza esasperante, ma con un ritmo incalzante, creando così questo contrasto che non può non tenere incollati alla pagine.
Così quello che rimane di questa straordinaria lettura non è più la bellissima prosa di Simenon che si avvale di un lessico ricco e ricercato, ma la trama che non trascura niente, né l'intrigo, né l'analisi comportamentale del serial killer, anche se non ne viene dato un vero e proprio profilo, ne viene comunque ipotizzata la personalità.
Un insieme di fili che non si annodano, ma si intrecciano in modo perfetto a creare una trama credibile con protagonisti vivi e coinvolgenti.
Il miglior Maigret letto finora, ma sono certa che ancora molte sorprese mi attendono!
Lettura, come ovvio, consigliata per non perdere un'occasione di sfatare il mito del giallo come letteratura di genere.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    19 Gennaio, 2014
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Félicie



Simenon non ha creato solo un formidabile commissario, dotato di intuito e capacità investigative fuori dal comune, ma ha fatto molto di più: ha dato vita ad uomo raccontando storia dopo storia un uomo composto di tante sfumature pronte a formare un quadro complesso ma affascinante.
In questa avventura, un po' fuori dal comune vine analizzata la parte più privata, quella più intima di Maigret; si trova infatti ad aver a che fare con una giovane donna, con una personalità forte e un carattere deciso che gli darà filo da torcere, con i suoi silenzi e il suo essere donna senza essere cresciuta.
Lo stile è sempre lo stesso, asciutto, incalzante con un ritmo che stupisce per la perfezione con cui sottolinea le parti salienti del racconto, ogni descrizione non è casuale, ogni personaggio ha un ruolo, ogni oggetto contribuisce a creare l'atmosfera giusta, ma soprattutto l'uso del lessico, sempre impressionante per ricchezza e ricercatezza, senza tuttavia sconfinare nel lezioso, evidenzia, con la sua musicalità i vari stati d'animo del commissario che si alternano veloci, passando dall'irritabilità che la ragazza suscita, alla dolcezza che non può non generare in chi la incontra.
Felicie è un personaggio complesso, ricco di sfaccettature, che rimarrà nell'immaginario del lettore, ma soprattutto di Maigret che per anni rappresenterà quella linea d'ombra così incomprensibile da risultare più ostica dei criminali incalliti.
La trama è fluida e anche originale, intricata la punto giusto, con colpi di scena che si susseguono e con eventi che hanno come scopo principale quello di confondere le idee, ma tutto è obliato quando compare Felicie, che sembra portare con sé un'energia tale da cancellare ciò che la circonda, con quegli atteggiamenti così costruiti, così puerili.
Anche i personaggi secondari sono ben caratterizzati, ma non a tal punto da rubare la scena a Felicie, al rapporto che si viene a creare tra il commissario e la ragazza; mai volgare, mai oltre il limite, Maigret non sembra mai vederla come una donna, ma al massimo come una bimba troppo grande, la tratta con quella tenerezza che si concede ad una nipote, vuole capirla, vuole che lei si fidi di lui.
Una bellissima analisi psicologica si ha in questo piccolo libro, che trascina, che inebria e che diverte, il tutto sulla scena di un crimine e una lotta per l'eredità.
Consigliato come tutti i Maigret in cui la sapienza della scrittura si mette al servizio del giallo per dimostrare che non esiste una letteratura di genere, esiste solo una buona letteratura.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    01 Gennaio, 2014
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L'amante

“Un jour, j’étais âgée déjà, dans le hall d’un lieu public, un homme est venu vers moi. Il s’est fait connaître et il m’a dit : « Je vous connais depuis toujours. Tout le monde dit que vous étiez belle lorsque vous étiez jeune, je suis venu pour vous dire que pour moi je vous trouve plus belle maintenant que lorsque vous étiez jeune, j’aimais moins votre visage de jeune femme que celui que vous avez maintenant, dévasté.”

Un incipit che incarna ciò che verrà, con un suono dolce e melodico svela la vita passata e presente di una donna, che porta sul volto la propria storia, nasconde nel volto la propria vita.
Immagini sfuocate, ricordi, profumi si susseguono, donando un senso di vertigine nel lettore che non legge, ma sente, sente la passione, la paura, la disperazione; piange con la protagonista, soffre con lei.
Non la trama avvince, ma la forza dei sentimenti che si raccontano, che si intuiscono: ella giovane donna, quasi ancora bimba, egli uomo preda di una magia amorosa, troppo intensa per essere vera, troppo reale per svanire con il tempo.
Le vite sono svelate e si intrecciano in nodi così forti da non essere sciolti, ma non così stretti da contenere l'impeto e la paura dei quindici anni; troppe le paure, troppe poche le aspettative per una vita che ha già tolto troppo, che non ha regalato niente se non un corpo, bello, giovane, uno sguardo malizioso e incantatore; così il riscatto, la fuga, seppur per poco da una realtà che non dovrebbe essere, un rifugio, quattro mura dove essere protetta, dove nascondersi, senza, però, mai perdere il senso del reale; un rifugio incantato dove conoscere Dio, il piacere, se stessa; senza vergogna, senza disonore, sospesa nel nulla, avvolta dal nulla; per poi, col tempo scoprire che l'amore sa trovare strade che non esistono, sa penetrare in fenditure nascoste e lì alloggiare, silente, tranquillo, ma vivo e invincibile; presente come un neo, come una cicatrice, lì, per sempre nonostante tutto, nonostante tutti.
Un piccolo gioiello di emozione, uno struggente susseguirsi di sentimenti, contrastanti, forti, evanescenti, raccontati con la lievità di un'autrice straordinaria, che riesce a trasmettere la sua anima, la sua essenza, utilizzando un lessico semplice, ma creando accostamenti inconsueti, che disturbano, spezzando le frasi all'improvviso, cambiando soggetto, punto di vista, all'improvviso, come cambiano le sensazioni, lasciando che le parole si sostituiscano ai sensi e come essi si mischino generando il manifestarsi della realtà.
Un libro che va lasciato scivolare, non vuole essere compreso, non vuol essere metabolizzato, ma solo sentito, vuole accarezzare la pelle e l'anima, vuol far vibrare le corde del cuore, vuol lasciare un velo di melanconia e di struggente affetto per una donna che non fa altro che vivere.
La Duras non delude, non può deludere, perché vera, trasparente, sincera.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    28 Dicembre, 2013
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L'analfabeta che sapeva contare

Avvicinandosi a questo libro ci si avvicina alla follia, all'irrealtà e al divertimento più puro.
Fin dalle prime pagine si respira un'aria strana, ci si rende conto che ad essere raccontato è qualcosa che trascende la realtà e che si pone in quella dimensione in cui stazionano i cartoni animati, dove ogni legge della fisica è dimenticata e dove i personaggi sono al limite dell'umano, in cui le caratteristiche peculiari di ognuno sono portate all'estremo creando delle situazioni esilaranti.
Jonasson riesce a scrivere un romanzo nel vero senso della parola, poiché non è presente solo l'intricatissima trama all'interno dello spesso volume, ma è raccontata la storia di almeno due paesi, il Sudafrica e la Svezia con alcuni accenni ala Cina e ad Israele.
Già da questi pochi elementi si può intuire quanto sia necessario sospendere l'incredulità, se poi si aggiunge che la protagonista, una analfabeta nera si troverà su un camion di patate con il re e il primo ministro di Svezia in compagnia di una bomba atomica e due fratelli gemelli, allora si capisce che il rischi di creare un disastro letterario è più concreto, troppi elementi, troppa carne al fuoco, troppa fantasia; ma il miracolo, invece si compie e pagina dopo pagina si delineano dei personaggi che nella loro estrema unicità riescono a risultate veritieri se posti in quella particolare dimensione e i rapporti tra essi divengo fluidi, così come i dialoghi raffinati e veloci che regalano un ritmo serrato. I personaggi minori sono comunque ben tratteggiati, i Mossad, il presidente della Cina, sono descritti con una lievità che non possono non suscitare l'interesse e l'empatia nonostante tutto.
Quindi il lettore fa un lungo viaggio che lo porterà a conoscere il Sudafrica dell'apartheid e la Svezia in un arco di tempo che compre cento anni e più.
La carta vincente di questo romanzo oltre alla trama che non può non coinvolgere è l'ironia con cui l'autore riesce a infarcire ogni singola parola, ogni dialogo e attraverso questa leggerezza racconta i drammi che hanno attanagliato il mondo, esprime le sue opinioni nascondendole tra gli spazi bianchi delle righe.
Una lettura piacevole, che non vuole innalzarsi un livello superiore di ciò che si prefigge, insegnare qualcosa intrattenendo e divertendo.
Consigliato per trascorrere qualche giorno divertendosi.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    27 Dicembre, 2013
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Addio amore

Una miriade di sentimenti si susseguono veloci nella lettura di questo romanzo e ognuno diviene il suo contrario nello spazio di poche pagine.
La Serao mette a disposizione una trama semplice, un melodramma classico, senza colpi di scena, senza eccessivi virtuosismi narrativi e lo fa con uno stile così particolare da rendere l'atmosfera rarefatta e ironica.
La storia è ambientata nella Napoli di fine ottocento e già dalle prime pagine le descrizioni degli abiti, del mobilio, delle carrozze è così vivido da risultare quasi reale, da manifestarsi davanti agli occhi, ma ciò che rende il romanzo degno di essere letto è la caratterizzazione dei personaggi.
Come già aveva fatto nei racconti, dove in ogni caso risulta più a suo agio, quest'autrice riesce a delineare la personalità di ogni attore in modo quasi perfetto, con pochi tratti.
La protagonista Anna, nome scelto forse non a caso, è la tipica donna viziata e preda delle proprie passioni, con il melodramma nel sangue, che non riesce a fare a meno di fare scene per ogni cosa, di portare tutto all'estremo, di diventare vittima: dell'amore in primo luogo, della società, ma soprattutto di se stessa; il primo sentimento è di antipatia per questa donna così testarda, di una testardaggine fine a se stessa, inutile e priva di un oggetto, se non un bisogno spasmodico di amare ed essere riamata, il secondo è di totale incomprensione. La sorella Laura è forse il capolavoro della Serao, un personaggio enigmatico, quasi accennato, ma presente in ogni respiro, in ogni alito di vento, costante; Cesare Dias il tutore che muove tutta la vicenda.
Come sempre accade con le opere della Serao l'inizio è in sordina, l'impressione è quella di leggere un romanzo rosa, gli ingredienti ci sono sempre tutti, la donzella di ricca famiglia che vive un amore contrastato con un poveretto, ma quando ci si aspetterebbe che l'amore debba prevalere su tutto ecco che tutto prende una strada diversa e ci porta a percorrere una vita alternativa, in cui nulla va nella direzione prevista; la Serao riesce ad utilizzare in un modo magistrale, che in pochissime altre autrici è presente, l'ironia verso il genere femminile del suo tempo, descrive donne che fanno del melodramma la loro ragione di vita e donne perfide, donne calcolatrice e donne ingenue, ma di tutte ha compassione, quasi pena e tutte vengono prese in giro dalla tagliente penna che niente perdona alle donne borghesi, piene di oggetti, ma prive di spessore, prive di quella profondità d'animo che invece si scorge nelle popolane, nelle figure descritte ne “Il ventre di Napoli”.
Discorso opposto per le figure maschili che sono, come in questo caso, odiose e ciniche o almeno dovrebbero esserlo, ma sono rese in modo così schietto, prive di qualsiasi velo o maschera che non si possono non adorare, non si può non sorridere della loro non sempre corretta condotta.
Un altro piano di lettura oltre a quello narrativo e sociologico è possibile ed è quello psicologico; infatti le azioni di ognuno dei personaggi principali sono in qualche modo giustificate dal loro passato, che non è descritto in modo pedissequo, ma sempre accennato e comunque inserito in contesti adeguati, mai ridondante o invadente.
Un romanzo complesso pur nella sua apparente semplicità, che può apparire frivolo e leggero, ma che nasconde nelle pieghe del melodramma tanta ironia che lo eleva a opera più che valida e che merita di essere letto.

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Racconti
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    19 Dicembre, 2013
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Gli amanti

Questi brevi racconti sono la dimostrazione che si può raccontare d'amore in modo semplice e diretto senza cadere nel banale o nel melenso.
Le storie narrate sono d'amore, rapporti più o meno riusciti clandestini, ma non solo, in cui ogni attore è delineato così bene e in modo così completo che il lettore si trova disorientato, non riesce, come spesso accade nella realtà, ad erigersi a giudice della vicenda.
Più che negli altri lavori della Serao qui si percepiscono le sue esperienze romane, la vita nei salotti bene, dove era accolta grazie alla sua grande cultura e alla sua penna così tagliente; le donne raccontate sono realistiche, perché con molta probabilità facevano parte della cerchia che la scrittrice frequentava.
Se in “Piccole Anime” e negli altri racconti è il popolo ad essere raccontato e svelato in tutta la sua povertà e la sua tenerezza, ne “Gli amanti” è la borghesia che si scopre, che mette in luce lo squallore e la pochezza di pensiero.
Come accennato poc'anzi è la descrizione delle donne, più che degli uomini ad essere pungente, precisa e a volte cattiva.
Scorrono sotto gli occhi donne sottomesse, donne vili, traditrici e frivole; è forse proprio quest'ultima qualità la più sottolineata e gli abiti, i cappellini,le cinture, le gale, i pizzi e i merletti divengono paradigma di una società che è spaccata in due: da una parte il popolo fatto di garzoni e cameriere che agognano quei vestiti e le signore che li regalano perché ormai vecchi e sporchi.
Se il piano sociologico di quasi tutti i racconti della Serao è il più concreto e tangibile quello narrativo non è da meno, poiché ogni storia ha uno stile così semplice e diretto, asciutto con dialoghi che danno ritmo alla narrazione.
Cosa resta alla fine della lettura di questo piccolo libro? La sensazione di avere tra le mani qualcosa di etereo, di essere entrati, come un fantasma, da sotto le porte dei palazzi borghesi, di aver osservato quelle vite nascosti dietro un divano damascato, di aver sentito i brividi di passione e la gioia mortale dell'attesa.
Matilede Serao ha il grande pregio di riuscire a trasmettere ciò che prova in un modo così profondo, così passionale che è difficile scoprire in altre scrittrici, non è ciò che racconta ad essere particolare, è come lo scrive, percorre una strada diritta come un fuso nel telaio, la segue e quando meno te lo aspetti, quando già stai per assaporare quel finale ecco che c'è la deviazione, ecco che rimani stupefatto, perché conosciuto il finale le cose non sarebbero potute andare che in quel modo.
Piacevole sotto tutti i punti di vista contiene qualcosa di molti generi, dal melodramma alla commedia, dal giallo al racconto pieno di suspance.
Se si conosce la Serao non si può non ritrovare tutta la sua essenza in questi racconti, in caso contrario un'occasione unica per imparare ad apprezzarla.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    12 Dicembre, 2013
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I racconti di Matilde Serao

----------Sono riportate le impressioni di cinque racconti reputati tra i più significativi-------------------------------
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Mentre si scorrono le pagine de “Il ventre di Napoli” la sensazione è quella di volteggiare nel cielo e con un binocolo guardare il mare, i viali, le vie; scorgere le persone che in questi vicoli camminano, sopravvivono, amano.
Matilde Serao non si limita però, nella sua sconfinata produzione letteraria, ad una visione d'insieme, attraverso i racconti ci porta a conoscerle quelle persone, quei bambini, quei giocatori di lotto, quelle piccole anime smarrite, sconvolte, ma così vere così profonde.
Proprio a causa della grande quantità di racconti scritti mi soffermo su alcuni che sono paradigmatici.
Primo fra tutti “Una fioraia”, struggente quanto breve racconto fatto di disperazione mista a speranza, ciò che più colpisce nello stile così asciutto ed essenziale è la forza del messaggio, la capacità di far emergere dalla fantasia quei corpi, quegli odori e di generare nel lettore un'empatia così forte così profonda da lasciare senza fiato alla conclusione, con il volto rigato di quelle lacrime inutili, ma foriere di un peccato originale, perché troppo attuale è la situazione raccontata (quanti bimbi abbandonato e lasciati a se stessi in ogni parte del mondo?), troppo vivido il sentimento generato. Così come in “Canituccia” attraverso un lessico essenziale, ma adatto al racconto si riesce a scorgere quell'anima nascosta, quel sentimento così puro dei bambini, così ricco di buoni propositi, che non ha conosciuto ancora compromessi; non si può non soffrire, non sentire ciò che sente il personaggio, quasi come se la vicenda stesse accadendo al lettore; ma non solo di bimbi si occupa la Serao; in “O Giovannino o la morte” si affronta più o meno lo stesso tema, quello della purezza di un animo, della purezza delle proprie idee; è forse questo il racconto più crudele, quello che più fa riflettere. Nelle poche pagine che lo compongono la protagonista vive emozioni forti, contrastanti; il punto di vista è quello di lei, il lettore vede con i suoi occhi e intuisce, ma non scaccia l'ipotesi, spera fino alla fine, con lei. Tutto è perfetto, i tempi narrativi, scandiscono tutta la vicenda, svelando a poco a poco elementi che conducono alla soluzione, unica e inesorabile; pur girando intorno a tre personaggi, sono indispensabili e ben caratterizzati tutta una serie di vicini di casa, che rappresentano le varie tipologie di persone che si erano incontrati ne “Il ventre di Napoli”, ma si dà loro, qui, un nome e una vita, dei sentimenti.
Incredibile la capacità di plasmare con così poche parole, un dialogo, una battuta oppure un gesto la personalità di un uomo o di una donna, quasi come a sintetizzare un'esistenza in una paradigmatica stigmate.
In “Terno secco” si fondono più fattori, l'eterna ricerca della fortuna, la speranza del lotto e le credenze popolari riguardo ai numeri da giocare e la struggente dignità di una madre, la disperata miseria che conduce a scelte scellerate col senno di poi. Sembra quasi che la Serao giochi col fato, che ponga le condizioni iniziali e poi lasci al destino il compito della prima mossa che pregiudicherà tutta la partita. Niente avviene per caso e spesso nello spazio bianco tra una parola e l'altra si respira la vita della scrittrice, si percepisce il suo vissuto, si vede con i suoi occhi; le immagini che si figurano davanti a noi sono quelle viste da lei, sono quelle bimbe ch'ella ha guardato senza forse riuscire ad aiutare, sono quelle donne che si appostavano davanti ai banchi di pietà, sono quelle giovinette piene di speranze per il proprio avvenire roseo e facile con al fianco la vita che va avanti e mostra tutta la sua disperazione nella vicina di casa con cinque figli e uno in arrivo, tutti affamati, tutti sporchi, tutti senza un avvenire, ma comunque pronti, sempre, ad andare avanti.
Non solo di tinte così cupe si compongono i racconti di Matilde e un esempio ne è “La virtù di Cecchina” in cui si racconta l'avventura di una piccola borghese, moglie di un medico tirchio e ormai privo di interesse verso di lei. Un nobile la vuole come amante e il lettore vive tutti i dubbi, tutte le sensazioni che questa prova. Ciò che rende il racconto molto interessante non è la trama, che è divertente e veloce, ma il punto di vista, ciò che a Cecchina interessa è quel mondo, quegli argenti, quei merletti; insomma tutto quello di cui il marito la priva, ma senza avidità, solo una grande curiosità; non una parola dell'uomo che la desidera così tanto, non si parla di amore, ma si respira l'ansia che la pervade, la voglia di apparire all'altezza e la tensione sale fino ad un finale che non può che lasciare a bocca aperta.

Matilde Serao trova nel racconto una forma narrativa che le si confà, poiché è nella sintesi che riesce a dare il meglio, nel disegnare con poche pennellate personaggi di spessore, con l'assoluta laconicità delle frasi, l'essenzialità delle descrizioni, ma la grandissima forza evocativa del lessico scarno, ma efficace.
Questi cinque racconti sono un paradigma, ma molti altri possono suscitare interesse e far conoscere questa autrice straordinaria che racconta un pezzo della storia della nostra Italia.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    28 Novembre, 2013
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Il ventre di Napoli

Matilde estasia, Matilde commuove, Matilde stupisce ed ammalia.
Un nome che evoca ricordi lontani, piccole righe in antologie liceali, sulla carta quasi scolorite, nella memoria, al massimo, il nome di una strada o di una scuola.
Può capitare di imbattersi in un volume, per caso, di Matilde Serao, aprirlo e scoprire un mondo, lontano, ma attuale; scomparso, ma ancora possibile.
“Il ventre di Napoli” nasce come un reportage giornalistico a puntate e si prefigge l'ambizioso obiettivo di descrivere la realtà del popolo napoletano di fine ottocento.
In questo modo, con un attacco diretto all'allora Presidente del Consiglio Italiano, inizia questo straziante viaggio nei vicoli, nelle strade, nelle botteghe e nelle case di una Napoli oscura, nera, ombrosa e sporca; così la troviamo nel 1884, pressoché identica nel 1904 dopo vent'anni.
Un inno all'ipocrisia della politica urlato e mostrato senza veli, con la forza incredibile di una donna del secolo scorso, che non indugia di fronte all'improbo compito di difendere i più deboli, di essere la voce di un popolo muto, la penna di un popolo analfabeta.
L'ipocrita immagine patinata da cartolina di Napoli viene disintegrata e sporcata dalle luride acque che allagano i piccoli vicoli dove il popolo sopravvive, nello squallore dell'abbandono, nella tristezza di case troppo piccole per quel mare di persone che si arrangia come può, per le quali il pasto quotidiano è l'obiettivo.
La penna della Serao si fa efficace e diretta, con uno stile semplice, non certo elegante, di sicuro non edulcorato, riesce nello stesso tempo a descrivere lo squallore inenarrabile dei luoghi e la vitalità e la forza delle persone, che cercano nel gioco del Lotto la speranza, che vivono per il sogno che il Lotto regala loro, sicuri che la ruota prima o poi girerà per loro.
Esponente del verismo Matilde Serao riesce a trasmettere al lettore tutto quello che è necessario, generando gli odori nauseanti che appestano le strade, i colori scuri e fumosi che vi aleggiano e i rumori, il ciacaleccio delle voci, la confusione dei mercati, il vociare dalle finestre; riesce in tutto questo penetrando nel profondo e depositando un seme che solo nei cuori più aridi non potrà germogliare.
Nel leggere queste pagine ci si sente quasi marchiati da un peccato originale, quasi responsabili per quelle sventure, per quell'abbandono che non avrà fine, né allora, né dopo vent'anni.
Una lettura consigliata, per troppo tempo dimenticata, un'autrice che non si limita a scrivere un libro, denuncia una situazione scandalosa e lo fa dalle prime pagine di un giornale, senza paura, senza peli sulla lingua, ma con la genuina schiettezza del popolo napoletano; il suo popolo e non solo esso le sarà per sempre grato.

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Autori italiani
 
Produzione letteraria 
 
4.0
silvia t Opinione inserita da silvia t    25 Novembre, 2013
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Introduzione alla lettura di Matilde Serao

L'Uomo dopo aver letto “Mastro Don Gesualdo” non resiste alla tentazione di approfondire questo autore che come una epifania gli ha svelato un mondo dimenticato e sconosciuto, uno stile asciutto ma penetrante e così decide di leggere altre opere e rimane così incantato ed estasiato che al sentire della presenza di una grande fiera di libri vecchi e antichi in una grande fortezza della città vicina decide di andare a fare una capatina, giusto per non girare sempre tra le copertine patinate e i nuovi ebook in promozione, ma per respirare quell'odore strano di libri antichi o solo vecchi e incontrare improbabili librai che tra un milione di parole e l'altro riescono a tirare fuori dai loro banchi, in un ordine che a solo loro come una alchimia arcana riescono a comprendere, il libro desiderato ancora prima che il desiderio si palesi alla coscienza del lettore.
Sarà l'assidua attenzione che l'Uomo ripone sui libri di Verga, sarà che certi librai capiscono tutto dalla fisionomia, sarà il caso, fatto sta che un omino si stacca da un capannello di persone e prende posto al suo banco orfano da tanto, forse troppo tempo; osserva l'Uomo, gli si avvicina e comincia a dare un apparente ordine ai volumi, toccandoli con lievità e con attenzione; l'Uomo si scosta, in un movimento spontaneo e dà al libraio il la per iniziare a parlare, a tirare fuori libri da tutte le parti e a poco valgono i vani tentativi di fermarlo, ormai la fontana è aperta e i volumi zampillano non si da dove, pare impossibile che quel banchetto possa contenerne tanti; è tra questo lago di libri che ha aggiunto un nuovo ordine a quello già incomprensibile presente sul banco che compare un vecchio libro su cui è solo presente un nome: Matilde Serao.
Il libretto è di quelli vecchi, con la copertina in pelle, la costa rotta, ma le pagine seppur ingiallite e piene di fioriture sono leggibili, quasi preso da una illuminazione l'Uomo lo prende tra le mani e inizia a leggere: “ 1. Bisogna sventrare Napoli. Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, Onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve sapere tutto.”
Il libraio si compiace di se stesso per aver accontentato il cliente e lo osserva nella lettura e ancora prima che l'Uomo possa togliere gli occhi dalle vecchie pagine l'omino si materializza davanti a lui coperto di altri libri almeno fino al naso che fa capolino da quella pila...tutti i libri che è riuscito a trovare nei banchi dei colleghi scritti da Matilde Serao sono sulle sue braccia pronti per essere acquistati e poi letti.
Fin dalle prime pagine tutta la potenza della Serao si sprigiona, quel suo modo così diretto e dissacrante di rivolgersi ai politici, di svelare ciò che deve essere nascosto.
Salutato il librario, che si dilunga in articolate descrizioni di opere d'arte di sconosciuti artisti locali ai quali ha la fortuna di fare da mentore e riempita la borsa, oltre che di libri, di depliant, cataloghi e programmi di incontri culturali in ogni dove, l'Uomo riprende la via per la stazione assaporando già il dondolio che lo porterà a casa. 
Sul quel treno decide di leggere uno degli innumerevoli racconti, gli cade l'occhio su uno in particolare “La fioraia”; lo inizia con quasi un sorriso generato dall'immagine allegra e spensierata che il titolo richiama, lo conclude con una stratta alla gola, un senso di ingiustizia, un magone allo stomaco che non riesce a decifrare, una sola cosa vuol fare, conoscere la vita di questa donna, colmare una lacuna per troppo tempo presente nella sua vita!
Invece di tornare a casa decide di andare in biblioteca, perché, sembrerà strano, ma il piccolo libraio non aveva inserito nella borsa nessuna biografia, nessun saggio critico, ma solo volumi originali sui quali non è presente alcun cenno biografico.
I lunghi corridoi gli si dipanano davanti fino al libro tanto cercato.
“Matilde Serao nasce a Patrasso nel 1856”, la memoria dell'Uomo corre ad una data che ha letto poc'anzi in calce a “Il ventre di Napoli” - 1884 -; questo vuol dire che questa donna, quando ha scritto quelle parole così piene di forza, così paurose nella loro veridicità, così pericolose nella loro sfrontatezza aveva ventotto anni, sette in meno di quanti ne abbia egli adesso; quanto poteva essere vera una donna alla fine dell'ottocento, quanto poteva essere forte, quanta femminilità esisteva in essa, anche se priva della grazia, della bellezza, dell'eleganza. 
Nel 1884 le donne non potevano votare, non erano avvezze ad esprimere le proprie opinioni; nel 1884 le donne dovevano pensare a maritarsi e a figliare; Matilde Serao si occupa di politica, scrive un reportage nel ventre di Napoli da far invidia ai maschi più virili, ai giornalisti più scafati; a tutti coloro che nascondono la testa sotto l'immondizia di cui, fin da allora, era coperta Napoli, Matilde prende il collo e tira fuori il capo e costringe a guardare.
“Respira fin da piccola l'aria del giornale, suo padre Francesco infatti, oltre ad essere un avvocato, è anche giornalista, ma la piccola Matilde non è una alunna modello, anzi, imparerà a scrivere ad otto anni,”- allora c'è speranza per tutti, pensa l'Uomo ricordando quando ancora piccolo consigliarono a sua madre di dargli l'insegnante di sostegno - “ma la passione per l'inchiesta, quegli odori respirati quando ancora il conscio e l'inconscio sono un tutt'uno le si erano così cuciti addosso da non essere più qualcosa di diverso da lei stessa, così a quindici anni si diploma, diviene maestra e poco dopo inizia a collaborare, nel tempo libero, con alcune redazioni. Per qualunque altra persona questo sarebbe stato sufficiente, non per Matilde, ella aveva un fuoco dentro, una missione, uno scopo: la scrittura doveva diventare la sua professione e il suo tempo essere assorbito in tutto e per tutto da essa. Va a Roma, collabora con giornali locali e scrive, scrive, scrive, pubblica “Fantasia”, che non trova i favori della critica. Scarfoglio scrive: poco stile, poca ricchezza nel lessico, troppi modi di dire, insomma una minestra fatta di avanzi.
Matilde quest'uomo così pieno di sé, così imperioso nel suo giudizio, finisce per sposarselo e per coronare quel suo desiderio, essere un tutt'uno con la sua passione, ci fonda un giornale: Il Corriere di Roma.
Non ebbe successo, troppa concorrenza, troppa vita sociale e altolocata, troppa la lontananza da casa. Come anni prima fuggì da Napoli alla ricerca di nuove strade, nel 1887 ritorna al suo mare, ai suoi vicoli, alle sue origini e dopo molte vicissitudini, col marito fonda “Il Mattino” e questo è l'apice della sua vita, la vetta da cui domina il suo passato, ma purtroppo anche il suo futuro, poiché dopo sarà discesa, saranno delusioni, sarà tradimento e avvilimento, la separazione dal marito, le calunnie sul suo conto, la povertà, vecchia amica ritrovata.
Solo dopo qualche anno un po' di felicità tornerà a far breccia nella sua vita, Giuseppe Natale altro giornalista la prenderà in moglie e riaccenderà quel fuoco mai spento, fonderanno insieme “Il Giorno” e Matilde scriverà scriverà, perché nient'altro le darà tanto piacere, niente potrà farla sentire completa, realizzata, morirà colta da un infarto sul tavolo intenta nella morte a fare ciò che per tutta la vita aveva guidato la sua mano: scrivere”
Una sirena distoglie l'Uomo dal libro, la biblioteca chiude, è ora di tornare a casa, più ricco, più emozionato di come era partito, con una nuova vita da vivere, nuovi scorci da vedere, nuove avventure da immaginare.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    08 Novembre, 2013
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Dieci piccoli indiani

Sin dalle prime pagine l'atmosfera è cupa e la sensazione di un destino inesorabile si affaccia subito al lettore.
Un treno che percorre un dolce paesaggio inglese, qualcuno sta tessendo una trama complicata e cervellotica che come una calamita tratterrà il lettore alle pagine nella vana speranza di dare un senso a degli avvenimenti che senso non hanno.
Questo della Christie è forse il più famoso giallo e il più citato negli anni e non a torto rimane e rimarrà nei classici della letteratura di genere, anche se è senza alcun dubbio qualcosa di più.
A differenza di altre opere in questa i personaggi sono caratterizzati molto bene, si può imputare loro il difetto di essere stereotipati, ma è forse proprio in questo la loro forza, ognuno di essi ha una personalità, ha un carattere e proprio per questo le loro azioni non sono solo funzionali alla storia, ma sono pezzi di storia a sé che raccontano il proprio rapporto con la colpa.
I dieci protagonisti divengono rappresentazione di ogni categoria di persona, ognuno leggendo non può provare nello stesso istante antipatia e compassione, per il tentativo inutile di giustificare le proprie azioni, che divengono, agli occhi del lettore inutili e infantili scuse atte a mistificare la realtà delle cose. Scandagliando queste dieci anime non si può non cercare un piano di lettura più profondo, non possiamo non porci delle domande sul nostro rapporto con la colpa; proprio per questo motivo questo romanzo ha una marcia in più.
Da un punto di vista narrativo è perfetto, una serie di ingranaggi che danno vita ad un meccanismo dinamico e divertente, indizi, mezze parole, pensieri che se letti con attenzione e con logicità portano a comprendere l'identità dell'assassino che non può che essere una gratificazione per il lettore più attento.
Il lessico è quello che caratterizza la Christie, semplice, ma non banale, capace di essere compreso da tutti anche a distanza di anni non ha perso la vivacità e la sottile ironia dissacrante, i dialoghi sono credibili e mai ridondanti un climax di terrore e angoscia che percorre tutto il libro fino alla sua conclusione.
Difficile poter analizzare più in profondità i vari aspetti del libro senza svelarne niente, ma posso consigliarlo a tutti senza alcun dubbio, poiché sarà un'ottima lettura sia per chi ama i gialli sia per chi invece li trova una lettura più leggera.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    27 Ottobre, 2013
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L'autore ha più talento

Ultimo lavoro di Marco Malvaldi che abbandona, per il momento, i vecchietti del Bar lume per tentare una prova più matura e strutturata.
Come spesso accade, però, è difficile riuscire ad abbandonare le caratteristiche di una scrittura accolta in modo benevolo dal pubblico riducendo la vena comica e umoristica; senza dubbio se ne apprezza lo sforzo, ma il risultato è uno schizofrenico romanzo in cui le due anime di Malvaldi si trovano a scrivere ognuna un romanzo e solo a riunificazione avvenuta si ha, anche, la compenetrazione delle due opere.
E' necessario spendere qualche parola sulla trama affinché l'affermazione fatta poc'anzi possa essere compresa; un noto scrittore subisce il furto del proprio computer portatile dove è custodita l'unica copia del nuovo romanzo che viene ritrovato da un blogger appassionato di letteratura.
Lo stile è quello a cui Malvaldi ci ha abituato, semplice nel lessico e nella costruzione della frase, mai banale o sciatto, ma piuttosto attento e corretto.
I personaggi del libro sono piuttosto bidimensionali, privi di una personalità vera e propria, eredità, forse dei precedenti lavori; il protagonista, in particolar modo, appare privo di sentimenti e di emozioni, un modo di affrontare la vita quasi patologico, così come la moglie che non appare ben delineata, ma quasi una comparsa; lo stesso, più o meno vale per gli altri personaggi.
Il commento a questo libro potrebbe finire qui, se non fossero presenti all'interno di esso alcuni capitoli del libro rubato, che attraverso gli occhi del protagonista ci vengono mostrati.
E' in quelle pagine che c'è il vero romanzo che a mio avviso Malvaldi voleva scrivere, ma che non ha avuto il coraggio di portare a termine o che forse non ha riscosso fiducia da parte dell'editore.
Il tema di questo romanzo nel romanzo è la ricerca della bellezza, non da un punto di vista filosofico, ma da quello scientifico: un matematico, che ha investito la vita a questo scopo, lascia la carriera per sopraggiunti limiti di età e nel discorso di commiato racconta ciò che ha cercato per tutta la sua esistenza, senza riuscirci.
Sono pochi capitoli dedicati a questo, ma sono i più belli, sembra che in quelli Malvaldi abbia la possibilità di mettere a nudo la propria essenza senza la maschera del discolo, del simpatico per forza, di colui che fa divertire, ma un uomo che pensa, che ha delle passioni profonde, che crede in ciò che ha studiato; allora la chimica, la musica, la ricerca si fondono, in quelle poche pagine creando personaggi di spessore, che attraverso i silenzi e le parole manifestano ciò che provano, ciò che pensano, trasudano emozioni e sensazioni contrastanti, senza quella patina macchiettistica che imbibisce tutto il romanzo. Un'oasi in mezzo al deserto, ma generata dalla medesima penna.
Spero che in futuro abbia il coraggio di lasciar fluire le sue passioni e scriva per emozionare e non solo per far divertire, spero che non debba più ricorrere a questi stratagemmi per nascondere ciò che davvero vuol scrivere.
Malvaldi non ha la penna del grande scrittore, ma ha di sicuro più talento di quello che manifesta in queste opere che non vanno al di là dell'intrattenimento e della risata facile, che non lasciano niente se non una piacevole ora in allegria.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    26 Ottobre, 2013
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L'assassinio di Roger Ackroyd


Se si amano i gialli “L'assassinio di Roger Ackroyd” è e rimarrà un capolavoro senza possibilità di replica; se non sia amano è un libro di notevole interesse, non per lo stile, che comunque si confà al genere, diretto, privo di virtuosismi, con un lessico accessibile a tutti, ma con una vivacità nei dialoghi da far, quasi, sentire le voci che si susseguono, il loro toni, le loro inclinazioni; la Christie, attraverso il magistrale uso dei silenzi, più che delle parole, svela solo ciò che desidera sia svelato e nasconde, in uno scrigno aperto ciò che, invece, intende mantenere segreto, per tutto il libro, in ogni frase, fino alla conclusione che non può non stupire, non può non trovare il lettore sconfitto, poiché non si gioca ad armi pari.
Concluso e risolto, da Poirot non certo dal lettore, il caso, quello che rimane è una sensazione di stupore e di incredulità mischiata a devozione per questa autrice che non solo riesce a far svanire la stanchezza, la noia, il sonno durante la lettura, ma ci riesce anche dopo, perché la mente non può non restare in quel paese, in quella casa a formulare ipotesi, non può non giustificare la propria inferiorità, senza peraltro riuscirci, non continuare a parlare con i personaggi, i quali sono caratterizzati al meglio possibile, trattandosi di un giallo, sono le azioni che compiono a svelare il loro carattere e molto della loro personalità è lasciata all'immaginazione, che corre per quelle lande inglesi e li vede vivere delle vite aldilà del libro, li vede correre, amare, provare emozioni; li vede uccidere, mentire, sognare, arrancare, li vede infine per quello che sono, ma solo alla fine, dopo che hanno vissuto mille vite, dopo che sono passati dall'innocenza alla colpevolezza almeno una decina di volte, senza decidersi, senza riuscire a scegliere.
Il piccolo villaggio è sospeso in una dimensione indefinita, potrebbe essere cento anni fa come potrebbe essere adesso, le comari di paese che ciarlano, i piccoli e grandi segreti che tutti sanno e la Christie utilizza in modo magistrale i personaggi secondari, soprattutto la zitella pettegola che cattura per simpatia e semplicità o i di lei amici di mahjong che ricalcano alla perfezione i pensionati dei nostri giorni. Poirot è Poirot, odioso, saccente, preciso, ma infallibile.
Quasi più di un libro, un gioco da giocare sapendo che si perderà, solo per il gusto di provarci perché alla fine l'importante è partecipare e conoscere un testo che non può per sua naturale struttura non rimanere impresso nella memoria, per contenuto e svolgimento della trama.
Chi ama i gialli li amerà ancora di più, a lettura conclusa, chi non li amava non li guarderà più con gli stessi occhi.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    24 Ottobre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Occhi blu capelli neri

Un particolare punto di vista quello che la Duras analizza in questo piccolo libro, fatto di emozioni e sensazioni.
La trama è ridotta ai minimi termini, le azioni quasi inesistenti riempiono le pagine e si alternano a spazi bianchi che indicano le pause, i vari piani di lettura che si moltiplicano fino a disorientare il lettore in un dedalo di pensieri e di controsensi che non possono non avviluppare fino a scardinare le basi su cui fonda la moralità, sovvertendo il comune senso del significato della parola “Amore”.
Ciò che rende quest'opera qualcosa di eccezionale è senza dubbio lo stile che è adottato, che non lascia spazio a interpretazioni, schietto e diretto che mette a nudo il lettore di fronte a questa relazione che gli si dipana davanti; è l'assoluta assenza di senso che disorienta, la completa penetrazione di due animi senza che la fisicità faccia il suo ingresso, la nudità dei corpi come nudità degli animi che si incrociano, si confidano, si confessano.
La Duras introduce la lettura con una raccomandazione: lasciate che le parole fluiscano e non fatevi domande; infatti è l'essenza della forza di questa relazione che è difficile definire a impossessarsi del lettore, senza che esso lo voglia o faccia niente per empatizzare con i protagonisti.
La caratterizzazione dei due personaggi è delineata così bene senza essere descritta, il paradossale inizio della relazione, la forza evocativa dei dialoghi li rendono vivi e ogni loro azione è plausibile, la vita fuori dalla stanza è ovattata, lontana eppure presente e foriera di impercettibili cambiamenti all'interno della stanza; così in un gioco di chiaro-scuro, di occhi velati e di interiorità svelate, i giorni scorrono lenti, cadenzati solo dalla luce che filtra e dal mare che mormora, in un perpetuo ciclico mutamento che consola e che protegge.
Questa storia, così semplice e complicata al tempo stesso, che si autoalimenta e si lacera si sposta in un teatro in cui agli attori viene spiegato, come in una sceneggiatura, l'essenza del personaggio e dell'emozione, ma il continuo passaggio dalla finzione alla realtà ha il pregio di far respirare il lettore, liberandolo dalla morsa che lo attanaglia, di un amore così profondo da commuovere, ma così impossibile.
Il terzo personaggio, invisibile e impalpabile, misterioso e affascinante è il tratto che unisce i due protagonisti, colui che traduce i loro linguaggi, che li porta nella stessa dimensione: è attraverso lo straniero dai capelli neri e gli occhi blu, verso il quale entrambi provano dei sentimenti, che riescono a capirsi e fino a quando staranno in quella stanza insieme e terranno vivo quello straniero essi esiteranno; la loro storia avrà uno svolgimento, al dissolversi di quel ricordo anche la storia svanirà, dando vita ad un'altra storia, quella della loro separazione.
Un racconto che penetra in profondità, che va letto come si ascolta una musica, senza che la ragione prenda il sopravvento, godendosi uno stile che sperimenta e priva di sovrastrutture il sentimento più narrato al mondo.

Consigliato senza remore, anche se può lasciare straniati, ma carichi di disperazione e stremati dall'inane tentativo di comprensione.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    18 Ottobre, 2013
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I Malavoglia

Suoni desueti, polvere e salsedine avvolgono Aci Trezza, nascondendola agli occhi dei più; solo chi davvero lo desidera può trovare la chiave per conoscere la casa del nespolo, l'osteria della Santuzza, la piazza del paese; solo chi lo desidera può avere accesso all'essenza dei dialoghi e alla forza propulsiva di una mentalità che non vuol morire, che vuol difendersi, che non è pronta al futuro.
La chiave va conquistata, non è una merce a basso prezzo; si conquista lasciandosi carezzare dalle parole, osservando ciò che è descritto, senza voler capire, senza voler giudicare.
Allora se con l'umiltà di chi non sa, ma vuol conoscere, ci facciamo largo tra la polvere e l'odore di salsedine, cominciamo a scorgere un paese siciliano, simile a mille altri, di un'epoca lontana, ma sempre attuale e cominciamo ad udire il cicaleccio delle comari, le bestemmie degli avventori, il mormorio del mare.
Verga ci accompagna in quest'epoca e già dalle prime pagine si intuisce la portata dell'opera, che pone le basi su delle fondamenta così forti e profonde che ad ogni singola parola se percepisce l'importanza.
Capolavoro del verismo italiano, “I Malavoglia”* rappresenta la società di fine ottocento, ma trascende il tempo e risulta attuale, applicabile anche alla società moderna, caratteristica questa che qualifica un'opera come prodotto artistico.
Le parole si susseguono veloci, le descrizioni precise e attente non lasciano spazio a dubbi, la realtà è descritta per com'è, non ci sono consolazioni, il lettore è solo con le proprie opinioni e deve giudicare e analizzare.
I personaggi sono innumerevoli, ma ognuno ha la sua importanza, ognuno è il tassello di un intarsio, lavorato e levigato per far si che l'opera corale si componga in tutto il suo splendore.
Il vento di novità, l'illusione del benessere, la promessa di un futuro migliore per i propri figli, fa si che le nuove generazioni credano di essere in diritto di possedere, primo germoglio di quelle idee che Verga riprenderà in “Mastro Don Gesualdo”, così 'Ntoni di padron 'Ntoni figlio maggiore, scapestrato, vagabondo, ma con una visione della realtà coerente e reale, non riesce a far collimare il passato col futuro, la sua onestà intellettuale non gli permette di tenere gli occhi chiusi come i gattini appena nati, ma le radici profonde del suo essere lo tengono ancorato ad un terreno fatto di consuetudini e di tradizioni che non permette errori, non permette cambi di rotta, pena la distruzione. In questo personaggio così complicato, come solo gli animi più all'avanguardia sanno essere, c'è l'essenza del romanzo, la voglia di riscatto, ma la totale assenza di un progetto. Il progresso, il benessere e con essi l'agio e l'ozio sono visti da 'Ntoni come una meta, ma i mezzi per raggiungerli non sono in dotazione, così escono vincitori solo coloro che si ritagliano un pezzettino di benessere non allungando lo sguardo fuori dalle mura della città o chi sfrutta il vento per arricchire il proprio orticello: lezione questa che, mutatis mutandis, può essere applicata ad ogni epoca in cui si prospetti un grande cambiamento.
Il lessico che Verga utilizza è semplice, non risente del tempo, accessibile e tipico delle persone semplici; i dialoghi sono freschi e realistici; la scelta di mischiare il discorso diretto a quello indiretto immerge il lettore in quella realtà e gli fa sentire l'odore di chiuso, di morte; la sensazione di claustrofobia e di ineluttabile rovina è resa in modo efficace e penetrante, ma non sfocia mai nel sentimentalismo o nella pietà; il lettore sa, poiché conosce la Storia, dove è la verità, ma non può non comprendere i singoli personaggi, le loro idee, le loro azioni, poiché Verga li caratterizza in modo così attento e profondo, da farli figurare davanti e li rende paradigma di una società e di una umanità che anche se più ricca, più istruita non è poi cambiata di molto, i sentimenti che spingono a determinate azioni, i piccoli e grandi interessi personali, i modi leciti e illeciti di accumulare “la roba” rimangono i medesimi e proprio per questo ci saranno sempre i poveri pescatori che si spaccano le braccia per far mangiare su un tavolo d'oro coloro che oziano tutti i giorni.
Più acerbo da un punto di vista stilistico, ma di più ampio respiro rispetto a “mastro Don Gesualdo”, “I malavoglia” sono un testo che è fondamentale conoscere, ma non può prescindere da una ferrea volontà di accrescere il proprio livello culturale, poiché non è intrattenimento, non è sentimentalismo, è la cruda descrizione dell'umanità nella sua forma più pura senza sovrastrutture o giustificazioni.

*Soprannome della famiglia Toscano che è dato per antifrasi in riferimento alla loro grande volgia di lavorare

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silvia t Opinione inserita da silvia t    15 Ottobre, 2013
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Mastro Don Gesualdo

Dagherrotipi e immagini ambrate affollano la mente quand'essa corre a Vizzini, quando gli occhi scorrono le pagine di Mastro Don Gesualdo; quel piccolo libro che si porta addosso colpe che non ha, imposizioni liceali, furti di caldi e spensierati pomeriggi estivi; nel ricordo, quel piccolo libro ha un peso specifico immenso, simile al piombo, ma uguale al platino e come questo dopo anni il suo valore appare aumentato, la sua prosa perfetta, il piacere penetrante e indelebile.
Ciò che accompagna il lettore per tutto il tempo è un rumore di fondo che pervade l'aria, colori, suoni e immagini si compongono; la Sicilia si confessa, mette a nudo tutta la sua vivacità, tutte le sue contraddizioni.
Infiniti i piani di lettura e gli spunti di riflessione che si posso fare sul contenuto di quest'opera, ma ciò che colpisce in modo violento è la freschezza dello stile che non ha risentito per niente dello scorrere del tempo.
Il lessico è sempre coerente coi personaggi, così come il registro, più aulico nei palazzi nobiliari, più volgare e rozzo tra i contadini dimostrando quanto Verga riesca a interpretare i vari personaggi quanto conosca l'attualità del suo tempo e come riesca ad analizzarla.
Verga era un teoreta della letteratura e Mastro Don Gesualdo fa parte di un progetto molto ambizioso che non verrà mai alla luce in tutto il suo splendore, ma che racchiude in sé tutto il potenziale inespresso, tassello di un mosaico ambizioso.
Come in un teatro, quando si spengono le luci e lo spettacolo sta per iniziare, i riflettori illuminano la scena, così Verga squarcia il buio con la descrizione del fuoco in casa Trao, che distrugge e scopre una nobiltà decaduta, una morale ormai corrotta, una verità scomoda, ma figlia del suo tempo e destinata ad invadere e modificare i millenari equilibri di una terra abituata ai suoi ritmi e non ancora pronta a sovvertire la sua struttura.
Fin dalle prime pagine i protagonisti vengono caratterizzati e presentati in tutti i loro tratti essenziali, con poche pennellate si evidenziano i lati che fondano la loro personalità e i comportamenti che ne seguiranno saranno solo la normale conseguenza di essi.
Mastro Don Gesulado e Bianca Trao non sono che i paradigmi di un'Italia che inizia a cambiare, evolvere nel caso dell'uomo, scomparire nel caso della donna; il volgo che prende potenza, la nobiltà che la perde; ma non è solo una sorta di cronaca giornalistica di un'epoca, è la prima rappresentazione di un benessere che inizia a crescere, di una presa di coscienza del proprio valore da parte dei contadini, ma anche uno svelare la meschinità degli animi, il ricacciare i pochi buoni sentimenti in fondo al cuore, in nome della “roba” o in modo più eterogeneo del possesso.
La “roba” si fa succedaneo degli affetti, ogni zolla di terra diviene un figlio, la prole, legittima o meno, mezzo di riscatto sociale o vergogna da tenere nascosta, di cui disinteressarsi; la “roba” è consolazione, rifugio sicuro dove riposare, preoccupazione per il suo futuro, per la sua felicità.
La “roba” diviene personaggio, quasi in carne ed ossa, c'è più fedeltà da parte di essa che di qualunque altro, continua a dare i suoi frutti, restituisce la fatica attraverso rigogliose fioriture, solo Diodata, serva del padrone, orfanella, madre dei suoi due figli ha le stesse caratteristiche, è stata presa in carico dal padrone e ad esso sarà sempre fedele, sempre riconoscente, unico personaggio davvero positivo di tutto il romanzo.
Ciò che anche dopo tanti anni questo romanzo regala è un'emozione incredibile, un'empatia così profonda per quella vita fatta di stenti, ma di soddisfazioni, di quella nascente voglia di riscatto che porta però a contaminare la propria essenza generando qualcosa di irriconoscibile e per questo non gestibile e foriero di infelicità e di ingratitudine.
Un libro questo che non può mancare nel bagaglio culturale di nessuno, per molti motivi, non per ultimo la descrizione delle radici in cui affonda la nostra società moderna, ma soprattutto perché è scritto bene, le parole si fanno arabeschi che formano immagini dolci e grevi insieme, volteggi semantici che fanno vibrare le corde dei sentimenti e lasciano una dolce musica echeggiare nei meandri della mente dove, forse, gettano un piccolo seme che si spera un giorno fiorirà, generando la passione per i classici della nostra bellissima lingua.

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Romanzi
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    09 Ottobre, 2013
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Palazzo Sogliano

C'è una sola parola che sintetizza al meglio questo romanzo: vuoto; vuoto di contenuti, di stile, di caratterizzazione, di atmosfera.
Avvicinandosi a questo libro è necessario un grande sforzo per ed effettuare la sospensione dell'incredulità, ma in molte occasioni non è sufficiente, nonostante tutto si ha l'impressione di essere in un mondo di cartapesta.
La trama è banale, ma non è questo che rende povero il lavoro, poiché la storia narrata non è così fondamentale, ma lo sono altri parametri.
Analizzando le varie componenti che formano il testo ci troviamo a dover far i conti con gli innumerevoli personaggi che compongono la famiglia Sogliano e nessuno di essi è caratterizzato in modo convincente, non la protagonista che appare di una superficialità quasi irritante, lascia che gli eventi si avvicendano senza interagire, come una spettatrice passiva; la sua personalità non è descritta e non si evince dalle azioni, non un moto di passione, pur essendo descritta come una donna forte e volitiva; anche il di lei marito defunto ci appare come un corpo senza anima, anche nei racconti in cui è vivo, un uomo buono, ma senza carattere, pur essendo descritto come la prova in terra della virilità e della perfezione; così potremo continuare per ogni singolo personaggio, corallaro o ciabattino, milanese o napoletano, adulto o bambino, americano o cinese.
La sensazione è quella che la Modignani abbia distribuito delle parti a degli attori che non sono riusciti ad interpretarle, che non siano in alcun modo riusciti a trasmettere le sensazioni che li caratterizzavano, ognuno di essi è bidimensionale, non ha sfaccettature è tagliato di netto senza alcun passaggio dolce tra il bianco e il nero.
Altra enorme mancanza è la totale assenza di atmosfera, ogni evento viene narrato sempre con lo stesso tono, in una sorta di distorsione temporale che rende le vicende avvolte da una patina ovattante e rallentante.
Giungiamo poi alla nota più stonata: lo stile; monocorde, privo di ritmo e di dinamicità, quasi da cronaca rosa più che da romanzo. Il lessico è povero, i periodi semplici, le subordinate quasi inesistenti, l'aggettivazione tanto ricca quanto inutile, le descrizioni limitate ai personaggi e non agli ambienti o alla psicologia; ma la cosa che appare più disastrosa sono i dialoghi del tutto improbabili e inverosimili.
La sensazione che si ha leggendo è quella di star ascoltando un romanzo radiofonico di Pedro Camacho* tradotto in italiano.
Eppure è il libro più venduto in Italia ed è difficile non porsi delle domande.
Il lettore cerca in questo libro l'identificazione, il lieto fine, la perfezione di una famiglia che pur avendo qualche piccolo peccattuccio da farsi perdonare è comunque sempre dalla parte del bene o in ogni caso tende ad esso e prima o poi lo raggiungerà.
Il lettore è coccolato e rassicurato, fin dalle prime pagine sa che tutto finirà ne migliore dei modi e così evade dalla realtà per rifugiarsi in una fittizia, il che, se il tutto fosse scritto in un modo più convincente potrebbe anche essere tollerato.

Romanzo che può benissimo lasciare il passo a molti altri che seppur d'intrattenimento appaiono meglio strutturati e più articolati.

* Vedi “La zia Julia e lo scribacchino” di Llosa

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Autori italiani
 
Produzione letteraria 
 
5.0
silvia t Opinione inserita da silvia t    09 Ottobre, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

PASSEGGIANDO IN LIBRERIA

Un Uomo entra in una libreria circondato da scaffali pieni di libri, il suo occhio si sofferma su delle copertine colorate, accattivanti, lucide o opache, ma che emanano un fascino senza fine; attratto da uno in particolare decide di aprirlo e di leggere l'incipit. Il libro che ha tra le mani è di un autore contemporaneo italiano, le frasi sono brevi, la punteggiatura fatta quasi solo di punti, il ritmo serrato e l'aggettivazione frequente.
L'uomo, come colto da un'illuminazione, o forse perché gironzolando tra gli scaffali aveva scorto il reparto dedicato ai classici, si chiede come si possa essere giunti all'attuale forma narrativa, come dal Manzoni, paradigma del romanzo classico, siamo giunti a ciò che oggi gli autori creano.
La sua mente, allora, corre verso quell'autore di cui conosce tutto, perché lo ha studiato a scuola, la perfezione della lingua italiana, la bellezza narrativa e la contemporanea profondità socio-politica; ne “I promessi Sposi” non si legge solo una storia, si respira la Storia.
Cosa accadde dopo? Cosa avveniva in Italia subito dopo l'Unità d'Italia (17.03.1861)?
Dopo anni di destra al governo inizia a spirare la voglia di aumentare i diritti delle persone più umili, di rendere dignità ai poveri, ai contadini, ai più deboli. Fu in questo clima che Depretis salì al potere e diede corpo a quei valori e a quei propositi a cui tanto credeva, pur con molte contraddizioni tipiche di quel tempo e del nostro paese.
Così fu allargato il suffragio elettorale, introdotta l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita e iniziò l'abolizione della tassa sul macinato.
L'Uomo si ferma a riflettere sui ricordi lontani e si stupisce di come diritti come questi possano apparire all'oggi così scontati, ma quanto devono aver combattuto e quanto devono averci creduto gli uomini di allora; il sogno di un futuro migliore, nel tentativo di edulcorare il presente fatto di fatica, di sudore, di lavoro, ma soprattutto di fame.
Riflettendo sulla situazione dei più umili, degli ultimi in contrapposizione con i grandi cambiamenti che andavano profilandosi carichi di promesse risulta evidente come in Italia cominciasse una crisi del pensiero filosofico dando vita al positivismo, che già nel nome portava con sé la sensazione di ottimismo, ma che in realtà fa riferimento a ciò che è certo e provato.
Le nozioni, apprese in giovane età, si auto-alimentano nell'Uomo che ricorda come in quegli anni l'immagine delle persone, le loro facoltà intellettuali e morali, in quanto determinate da condizioni fisiche, biologiche ed economico-sociali, potessero essere studiate con gli stessi metodi deterministici delle scienze della natura; Darwin era morto da poco e la sua teoria evoluzionista aveva acceso un dibattito molto vivace. Il fulcro filosofico di questo periodo, però fu Nietzche, che influenzerà il secolo successivo. In questo clima fatto di voglia di cambiamento, voglia di essere contagiati dall'estero, un esempio ne è il tentativo di colonizzare l'Etiopia poi la Libia, voglia di quel futuro che in Francia già si respirava e si manifestava con il Naturalismo, prende vita il Verismo.
L'Uomo non può non riflettere su tutto questo, pensare a come sia la difficoltà di vivere spinta dalla speranza a generare meravigliose sorprese e come le menti migliori possano dare il meglio di sé in tali situazioni.
In una sorta di mondo onirico avvolto dai nebulosi ricordi emerge una figura per molti quasi paurosa, da tenere lontana, perché difficile, poco immediata al giorno d'oggi: Verga.
Giovanni Verga è forse colui che più di chiunque altro è riuscito a dare vita a quel movimento che nacque spontaneo. Come spesso accade nell'arte in generale e in letteratura in particolare lo spirito popolare e scientifico si fondono in un'unica forma generando qualcosa che sintetizza tutta la cultura di un'epoca, non tralasciando nessuna sfaccettatura.
Allora ecco che la realtà è raccontata dalla parte dei più umili, di coloro che non vengono ricordati nei libri di storia, ma la storia l'hanno fatta, sudando e lavorando tutti i giorni, costruendo un'Italia che non c'era, rimanendo ancorati ai loro valori spinti, però, da una marea montate che li porterà nel domani, quando ancora non saranno pronti, quando ancora penseranno che il domani non arriverà. La realtà è raccontata, seppur scomoda, seppur brutta, in modo quasi giornalistico, come fatti di cronica, senza esprimere giudizi, senza dar opinioni, ma lasciando che il lettore tragga le proprie conclusioni e si faccia una sua idea.
L'Uomo abbandona quel libretto e torna indietro verso i classici, cerca Mastro Don Gesualdo e si dirige alla cassa certo di trascorrere una serata in compagnia di una bella lettura!

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silvia t Opinione inserita da silvia t    06 Ottobre, 2013
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Resistere non serve a niente

Una incredibile sorpresa questo romanzo di Walter Siti che non può lasciare indifferenti, soprattutto, ma non solo, per la propria forza evocativa e comunicativa.
Anche se il contenuto è interessante, non comune e molto crudo è il registro ad essere originale e accattivante.
Ci sono due false partenze, con una veste tipografica diversa, che incuriosiscono ed esercitano una forza magnetica sul lettore che non può staccare gli occhi dal libro e non può uscire dalla libreria senza possedere quel volume.
Le pagine scorrono veloci, così come le immagini evocate, i colori plumbei della borgata romana e le luci sfavillanti della ribalta, il tintinnare di flute, il brusio di party, la frenesia dei grafici, dei rialzi e dei ribassi in borsa e così in un vortice che attanaglia che ci trascina in un baratro di cui abbiamo l'intuizione, ma che non ne immaginiamo la profondità.
Siti si sforza di raccontare una zona grigia che divide il bianco dal nero, in cui si decidono i colori che popolano la realtà che viviamo, una centrale da cui di dipanano i fili che comandano il mondo, ognuno dei quali si crede fondamentale, ma nessuno lo è.
Il lessico è crudo, le immagini disturbanti, così come impenetrabile è il protagonista: Tommaso un giocoliere della finanza di umili origini, un ragazzo che ce l'ha fatta grazie alla propria intelligenza, ai proprio sforzi, approda nel paradiso dei ricchi rimanendo comunque ancorato alle proprie origini... o forse no, non è questo il romanzo che commissiona, o meglio dovrebbe esserlo, ma via via che lo scrittore da lui assoldato per scriverlo, in una sorta di meta-scrittura in cui un complicato gioco di specchi tramuta la realtà in finzione e viceversa, ricostruisce il puzzle della sua vita, il quadro si fa più complicato, la personalità più sfaccettata, i desideri e i bisogni sempre più incomprensibili; ma questa non è la storia di Tommaso o meglio lo è nella misura in cui egli vive la realtà che gli sta intorno e che attraverso lui conosciamo e impariamo a comprendere.
Un senso di fastidio, di disperazione ci avvolge nel leggere quelle pagine, nel rendersi conto di quanto sia reale quel mondo e seppur così lontano dal nostro quotidiano, quanto condizioni ogni nostra azione per renderci schiavi di un padrone invisibile, servi inconsapevoli di colonne colorate negli schermi di un computer.
Un romanzo non solo bello, ma anche importante per capire, con il filtro della finzione, anche se poi la sensazione alla fine è quella che non ci sia molto di fantasioso in tutta la vicenda, il mondo che ci circonda, il sovvertimento dei valori e allo stesso tempo il bisogno di ridefinirli per poterli vivere: così ci troviamo di fronte ai broker che speculano sulle stragi senza provare rimorso perché spersonalizzano le persone che colpiscono o le escort che vendono il proprio corpo, ma si sentono pure perché non vendono l'anima, che concepiscono una prestazione sessuale come un colloquio di lavoro brillante, ancora il mafioso di nuovo corso che non si sporca le mani di sangue, ma allo stesso modo stritola gli avversari a suon di speculazioni finanziare che non si sente così diverso da un chirurgo che opera a prezzi folli sfruttando la paura della morte: così si assolvono così portano avanti una vita che non necessita della approvazione della coscienza; mentre si leggono queste cose, oltre a sentirsi minuscoli come formiche, pedine al servizio di altri, non ci si può non interrogare su ciò che facciamo ogni giorno, in tante piccole cose, di come nel nostro piccolo ci comportiamo e chiedersi, privi della mano consolatrice dell'autore, che rimane sempre super partes, nella posizione di colui che racconta ma non giudica, cosa faremmo se all'improvviso ci trovassimo in quel mondo, quanto la nostra moralità sarebbe forte e quanto non si farebbe seppellire da gioielli e ricchezza prima e dal potere che quella ricchezza compra poi.
Questo romanzo agisce a tantissimi livelli, pone un'infinità di dubbi, si entra nelle pagine sicuri di noi stessi e se ne esce un po' meno forti, un po' più dubbiosi, ma di sicuro arricchiti di un'opera che lascia il segno nella letteratura contemporanea.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    24 Settembre, 2013
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Straordinario

C'era una volta un ragazzo che iniziava il suo cammino verso la vita e un prete saggio che dava ottimi consigli perché capiva il mondo e ne percepiva il moto; il ragazzo avrebbe voluto conoscere tutto, sentirsi già grande, leggere opere importanti, ma il prete gli consigliò la lettura di questo piccolo libro, dal nome curioso di un autore dal nome impronunciabile che proveniva da quel lontano mondo sovietico che era ora vituperato ora idolatrato.

Tendrjakov crea un piccolo capolavoro destinato a rimanere nell'oblio come spesso accade per quelle opere che, al pari del Piccolo Principe, non si limitano a raccontare una storia, ma scavano nell'animo umano e ne scovano le più profonde corde facendole vibrare e costringendo a riflettere.
Il tema trattato è affascinante: una studentessa della decima classe di un istituto sovietico è credente, anche il professore di matematica lo è; si urla allo scandalo, all'espulsione, al licenziamento.
Ogni pagina sembra vibrare impregnando le membra e il cervello di impulsi nervosi che costringono a pensare, a riflettere su ciò che non è evidente sul piano narrativo, ma come per magia lo diviene sul piano emozionale.
Tendrjakov riesce attraverso uno stile semplice, accessibile a tutti costruito con un lessico ricco, ma non elitario a imbastire una storia verosimile e sincera con personaggi che sembrano far parte della vita di tutti i giorni e proprio per questo immediati e comprensibili.
La storia è raccontata dal preside della scuola ed è in prima persona, scelta che rende tutta la narrazione fresca ed empatica; questo maestro è caratterizzato così bene, in modo così puntuale senza essere ridondante, così autoritario, così umano, ma soprattutto giusto; sembra che conosca non solo la distinzione tra bene e male, ma che conosca anche la strada da percorrere per arrivarci, cerca di essere un insegnante e di trasmettere se stesso agli altri. Di colpo quando le pagine finiscono non si ha un'idea di cosa sia Dio, l'anima e la religione, ma si hanno gli strumenti per formulare un pensiero, creare un'opinione e la sensazione di essere una persona migliore.

Quel ragazzo dopo aver un po' storto il naso decise, forse per reverenza verso quell'uomo così autorevole, di iniziare la lettura e ne rimase folgorato, fu uno di quei libri che segnarono la strada della sua straordinaria vita, che gli fece capire che ciò che sarebbe stato avrebbe anche di poco cambiato il mondo e che avrebbe trasmesso tutto se stesso ai suoi figli, perpetuando quella magia che quel giorno lontano delle parole scritte su della carta riuscirono a creare.

Quel prete era Don Lorenzo Milani e quel ragazzo il mio babbo.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    16 Settembre, 2013
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L'amore graffia il mondo

Un treno corre, veloce e inafferrabile, dall'inizio del secolo fino agli anni del boom economico e con esso su quelle rotaie corre l'Italia martoriata dalla guerra, bombardata e inginocchiata alla stupidità degli uomini. Ferma su quel treno Signorina vive, ama, sogna e intorno immagini sfocate di aerei, bombe, macerie.
Riccarelli sceglie uno stile monocorde per raccontare un melodramma, quasi a stemperare l'esagerazione degli eventi narrati, che si fanno paradigma delle avversità e delle difficoltà che la protagonista affronta giorno dopo giorno, ma che divengono l'alibi per non inseguire i propri sogni, destinati a rimanere tali.
Signorina non è caratterizzata in modo univoco, non se ne comprende il pensiero, è una donna che fugge, ma che trova nella fuga una trappola dietro l'altra, che la portano a cadere sempre più in basso, in un pozzo sempre più profondo da cui sarà difficile risalire; attraverso le azioni, più che i pensieri impariamo a conoscerla, ma mai fino in fondo; netta è la contrapposizione con la sorella; anch'essa paga un prezzo altissimo per le sue scelte e i sui sbagli, insegue qualcosa trasfigurato dalla speranza e dall'illusione, ma qualcosa in cui crede e che la fa vibrare.
Ada è forse il personaggio migliore di tutto il romanzo, descritta con poche pennellate, con pochi dialoghi, ma che incarna una potenza incredibile, che è il primum movens di tutta la vicenda, senza la quale si sgonfierebbe come un palloncino; Ada è l'antitesi di Signorina ed incarna il coraggio egoistico delle idee, la determinazione di combattere contro tutto e contro tutti per realizzare il proprio sogno.
Realizzare il proprio sogno: questo è il peccato originale di Signorina, abbandonarlo in nome di qualcosa di sfumato, solo immaginato; la vita le aveva donato un talento, cucire facendo miracoli con la stoffa, ma non lo persegue, lo abbandona come fa, la notte dei bombardamenti, con l'Armida, la fedele oca, compagna di mille pomeriggi, che da sola vola via, lei che non sapeva volare, verso l'ignoto a cercare, forse un rifugio, spero la salvezza, da quell'inferno che distrugge tutto il suo mondo; la fa volare via e con lei la sua infanzia, i suoi sogni, la sua vita, che prende quella piega secca che non sparirà mai più proprio in quel momento.
E' la figura di quest'oca che mi ha commosso fino alle lacrime, che ritorna alla memoria nei momenti più neri a consigliare a indirizzare, quel rifugio che si cerca quando tutto crolla, quella sicurezza che solo gli affetti più semplici e disinteressati sanno regalare, è in questa figura, così bella, così poetica, evanescente come un sogno, impalpabile come un ricordo che si nasconde la maestria e la vena poetica dell'autore e per la quale si perdona l'intreccio fatto di eccessivi nodi, il lessico a tratti povero e il ritmo del tutto assente, perché in fondo l'Armida è Signorina che spicca il volo e sparisce nel cielo illuminato a giorno a vivere i suoi sogni, a vivere la sua vita.


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silvia t Opinione inserita da silvia t    13 Settembre, 2013
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Paura

Un'immersione senza ossigeno nelle profondità dell'animo e risalita alla superficie, in nessun altro modo può essere definito questo racconto di Zweig, che tocca corde che tutti conosco, che almeno una volta nella vita sono state assaporate, non importa il motivo, ma la sensazione.
L'argomento trattato è affascinante, ma niente in confronto allo stile con cui è scritto, veloce ed essenziale, quasi minimalista.
La paura che si appropria di una vita e l'avviluppa come una pianta rampicante fino quasi a soffocarla, a disintegrarla.
La paura come catarsi, come espiazione di un peccato, ma anche come chiave per comprendere ciò che davvero è importante; infine la paura come mezzo per spiegare l'evidenza.
Ciò che rende Zweig un autore meritevole di lettura è la sua capacità di entrare nella mente della protagonista, di analizzare ogni ingranaggio che inizia a muoversi per portare alla maturazione, alla comprensione; il lettore è con Irene, sempre, nonostante la disapprovi, la giudichi, ma non può non comprendere, non può non sperare che quella morsa agghiacciante che la paralizza non si sciolga.
Molti sono gli spunti di riflessione, ma il racconto, come fu per “Mendel dei libri” va letto così come è presentato, senza cercare messaggi nascosti, senza riflettere troppo sulle motivazioni, ma assaporando le parole che fluiscono, le frasi che con una perfezione incredibile, scandiscono il ritmo e con esso il tempo che inesorabile scorre, la sensazione è di non voler abbandonare Irene al suo destino, di non lasciarla neanche un attimo.
Quando la quarta di copertina si palesa di fronte agli occhi la fantasia corre e si figura Irene al suo destino, quel bel corpo giovane sfibrato dalla paura, quasi disintegrato e l'immagine di questa donna bella, un po' civetta, che ricorda un po' Emma e un po' Anna, senza avere però né la disperazione della prima, né il coraggio della seconda, rimane nel cuore, come un'amica fragile, ma in fondo buona, nonostante tutto.
Un ottimo Zweig, ma non c'erano dubbi.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    11 Settembre, 2013
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La zia Julia e Lo scribacchino

Cosa accade quando ironia, talento e fantasia si fondono insieme? Si ha la realizzazione di una piacevole opera letteraria che oltrepassa i limiti delle comuni regole narrative.
Questo libro può essere letto tutto d'un fiato o a piccoli sorsi, assaporato e gustato parola per parola per essere trasportati in quel mondo lontano, fatto di famiglie numerose e romanzi radiofonici, nella totale assenza della televisione, riscaldati dal dolce sole peruviano e circondati dall'atmosfera rarefatta e piena di suoni e colori che solo il Sudamerica riesce a creare e solo i più grandi scrittori riescono a trasmettere.
Per giungere a questo stato di grazia sono necessari tempo e pazienza; la narrazione inizia in una fase di transizione della vita del protagonista, quell'età che dalla notte dei tempi risulta la più carica di stupidità e di potenzialità: quella post adolescenziale.
Il piano narrativo è quasi banale, la storia, senza dubbio sopra le righe, racconta un amore, ma come spesso accade non è il cosa che conta, ma il come.
La sensazione è quella di star ascoltando una sinfonia in cui due linee musicali si cercano, si trovano e si fondono, infatti non c'è un solo filo narrativo, ma due, uno dei quali formato da infinite piccole fibre indipendenti una dall'altra.
La struttura narrativa è molto complicata, nei capitoli dispari si narra di Mario, la Zia Julia e la loro rocambolesca storia d'amore, nei capitoli dispari si raccontano dei romanzi radiofonici che sono la creazione dell'altro grande protagonista, il boliviano Pedro Camacho, entità quasi mistica che incarna lo scribacchino del titolo.
All'aumentare del numero dei capitoli cresce anche il ritmo del racconto ed è incredibile come il lettore sia risucchiato da un vortice in cui si racchiude tutto, ma la cosa che più colpisce è come riesca ad essere rappresentazione appunto di quell'età in cui tutto sembra imminente, in cui qualunque cosa possa apparire come fugace, come il tempo sembra sfuggire tra le dita pur avendone davanti così tanto. Con virtuosismi stilistici, cambi di ritmo repentini, rielaborazione della struttura narrativa il lettore è sballottato da una storia ad un'altra, da un estremo ad un altro, precipita in tante piccole storie che ne raccontano altre, che si fondono in altre fino a disorientare e quasi farlo smarrire, ma quando è circondato da figure che non conosce, in un luogo sconosciuto e alieno ecco che Llosa gli indica la strada e gli fa intravedere la chiave di lettura ed è in questo momento che il ritmo si fa serrato, le vicende si spingono all'eccesso, la follia metaforica e reale si fa strada e come un'esplosione le storie si compiono, gli argini si svuotano, gli incendi si spengono, la tempesta di placa, l'adolescenza lascia il posto all'età adulta e la realtà diviene più tangibile, più concreta, ma non per questo meno interessante.
Molti sarebbero i piani di lettura da analizzare, uno tra i tanti la figura dello scrittore che si evolve, ma che per emanciparsi deve fuggire da quel Sudamerica che soffoca, che costringe, che tarpa le ali verso quell'Europa che è culla della letteratura: Mario è Llosa e in parte il romanzo è autobiografico.
Carta vincente è senza dubbio il registro ironico che diverte il lettore e lo intrattiene, ma tra le righe, tra la musica assordante, tra i bisbigli e le urla dei peruviani attraverso i personaggi secondari caratterizzati in modo eccellente senza rubare mai la scena ai protagonisti, si narra la malinconica tristezza di un popolo che arranca, che cerca di emanciparsi senza riuscirsi, che rimane ancorato ad un passato pesante e ad un presente difficile, al quale può rispondere solo con una leggerezza nel vivere e un'ironica risata che stempera la tensione.
Una lettura importante che rappresenta uno degli ultimi tentativi di sperimentazione narrativa, che oltre a divertire fa pensare.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    21 Agosto, 2013
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Quintetto di Buenos Aires

Mi perdonerete se scriverò questa mia opinione in prima persona, con uno stile così lontano da quello impersonale che di solito mi contraddistingue; il motivo è molto semplice: questo libro non mi è piaciuto, non mi ha entusiasmato ed ho fatto una fatica infinita a finirlo.
In qualche modo riesco a percepire la portata dello stile di Montalban, così preciso e immediato, ma allo stesso tempo mi stanca e mi esaurisce.
Ho pensato a lungo al motivo e credo sia da ricondurre all'impressione avuta per tutta la durata della lettura, cioè quella di star sfogliando la sceneggiatura di un film.
La frase è spesso spezzata, priva della classica composizione, sono presenti parole seguite da punti, frasi corte che uccidono il periodo; le parti più vive, più piacevoli sono quelle che di solito trovo meno interessanti: i dialoghi.
Quando viene descritto un ambiente il fluire delle parole che si compongono sulla carta si fanno strumento della rappresentazione nella mia immaginazione, creando oltre alle figure anche suoni, odori e sapori, ciò non accade in questo caso, le raffigurazioni delle strade, delle stanze, dei singoli eventi sono descritte in modo freddo e anedonico generando in me il desiderio di trovare un dialogo.
Quando i personaggi parlano tutto si fa più leggero, più immediato, ma questa forma espressiva ha il grosso limite di non piacermi, per cui il gusto che provo nel nascondermi nelle parole assaporando il loro dolce suono viene del tutto disintegrato dall'odiosa voce dei personaggi che non possono rimanere in ombra, devono per forza di cose venire alla ribalta.
Credo che sia questa a forza di Montalban, creare dei personaggi particolari e crearne tanti, quasi al limite del credibile, caratterizzarli in modo impeccabile, non trascurando nessuna parte delle loro poliedriche personalità; allora che cosa manca in pratica a ciò che sulla carta sembra perfetto? Manca quel quid che rende un virtuosismo un'opera d'arte, manca l'ispirazione; quello che ho percepito è il semplice racconto di una storia, verosimile, ma è stato come se l'avessi letta in un articolo di cronaca locale, senza emozione.
Montalban riesce ad imbastire una storia interessante, tentando, ma non riuscendo per niente, a sfruttare i clichè argentini per dimostrare che l'Argentina è altro oltre a Desaparecidos, Maradona e Tango, ma chi Buenos Aires l'ha vista, anche per poco tempo come la sottoscritta, sa che ciò che rimane dentro è qualcosa di più, qualcosa che si respira non appena dall'aereo si iniziano a vedere le luci di quell'infinita città: il senso di libertà che pervade tutto l'essere e non lo lascia più.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    18 Agosto, 2013
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Le braci

“A gyertyak csonking egnek” è il titolo originale e credo che racchiuda in se stesso l'essenza di questo romanzo, alla lettera: "bruciare le candele fino in fondo".
Per quanto la trama sia interessante e il tema molto accattivante, ciò che spicca è lo stile; veloce e immediato, nel leggerlo sembra di nuotare in apnea e le pagine anche lontane dagli occhi non abbandonano il lettore, la voglia è quella di capire, di sapere, di scoprire; Marai in modo a dir poco magistrale centilina le informazioni e in sostanza tutta la struttura del romanzo di consuma in un monologo di uno dei due protagonisti.
“Le braci”, titolo col quale è stato tradotto in italiano fa riferimento ad un passaggio fondamentale della vicenda, ma non richiama in modo esatto il tema di fondo; questo romanzo è considerato un inno all'amicizia, ma l'impressione finale è che di questo sentimento ci sia ben poco tra i due protagonisti ed è forse in questo senso che la traduzione italiana trova la sua motivazione: passioni, emozioni e sentimenti che rimangono sopiti, ma che con un alito di vento divampano ancora dopo quarantun anni.
Il numero ridotto di personaggi porta ad immaginare la vicenda su un palcoscenico di teatro creando un'intimità tale da far respirare la tensione che si crea e scandita solo dai rari rumori notturni e dal lento albeggiare.
I personaggi sono caratterizzati in modo perfetto, anche se del tutto opposto; Henrik in modo preciso, quasi didascalico; la luce si posa su ogni sfaccettatura della sua personalità, facendo comprendere e giustificare ogni suo singolo pensiero e facendolo divenire specchio per la compressione dell'amico Konrad che quasi non parla ed è descritto attraverso il racconto del padrone di casa, ma sono le poche laconiche parole che ne fanno capire la personalità articolata e sensibile.
Henrik pretende che sulla tavola ci siano delle candele azzurre (quelle del titolo originale), le stesse che erano presenti quarantun anni prima, l'ultima volta che i due si sono visti; queste si fanno testimoni e simbolo di antichi rancori, di antiche recriminazioni e la durata del racconto si consumerà in quel tempo, fino a quando la flebile luce generata dalla cera lascerà il posto a quella ben più intensa del sole estivo, metafora di ciò che tra i due è avvenuto; così come dell'antica candela non resterà che una pozza di cera e la luce sarà ormai spenta così gli antichi rancori saranno spazzati via dal lungo racconto, ma l'amicizia tra i due non tornerà mai più a brillare.
Alla conclusione del volume rimangono molti dubbi, perché quasi niente è confermato e capire chi dei due sia stato mosso dall'amicizia più sincera è assai difficile da affermare e rimane oggetto di riflessione molto intima.
C'è un altro personaggio, oltre alla donna che sta alla base dell'allontanamento dei due, forse unica nota stonata di tutta la vicenda, movente così scontato e banale che non rende giustizia alla maestosità della struttura del romanzo, la balia di Henrik. Nini ha novant'anni ed è la depositaria di tutti i segreti, di tutti i sospiri del castello e della vita del padrone; l'amicizia tra i due è davvero incondizionata e pura, indissolubile e tenera; il sentimento che corre è insaziabile e privo di ogni accezione negativa.
In conclusione un testo che rimane dentro, un stile che lascia senza fiato, una trama che induce a moltissime riflessioni su quel sentimento così incomprensibile e raro che è l'amicizia.

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Romanzi
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    25 Luglio, 2013
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Il tunnel

E' impossibile leggere un libro senza che le esperienze passate che hanno formato l'essere del lettore si riaffaccino, senza che lo assalgano rendendo ancora più vivide le vicende fittizie raccontate; un uomo come Castel spaventa e può paralizzare.
Il titolo del piccolo romanzo, opera prima di uno dei maggiori scrittori argentini, evidenzia una sfaccettatura della poliedrica personalità del protagonista, che come tutti i pazzi che si rispettino convive con due essenze del tutto opposte; il tunnel è un luogo, quasi fisico, dove vive, isolato da tutti, ma io credo che la speranza che può nascondersi nella parola non sia presente; più che un tunnel è una miniera, dove sono presenti ricchezze di ogni genere, ma non c'è possibilità per una via d'uscita, per la luce, per la vita.
Castel fa un mestiere affascinante, l'artista, dipinge, trasmette emozioni, criptiche, nascoste, da svelare; Marìa scorge l'essenza di un pensiero, la linfa di una malinconia persa nell'orizzonte di una finestra dipinta, riesce con uno sguardo perso in un luogo inesistente e lontano a entrare in comunione con l'anima di Castel e questo designerà la sua fine.
La paranoia di Castel si manifesta fin da subito e Sabato riesce a trasmetterla con una forza che come un gorgo trascina il lettore, crea una tensione poco sopportabile.
L'empatia, nonostante tutto, che si crea è la stessa per il protagonista, vittima di se stesso e per Marìa, incolpevole oggetto dell'ossessione di un folle.
Lo stile di Sabato è moderno e fresco; il lessico è molto ricco, mai ridondante, come dimostra anche lo scarso uso dell'aggettivazione, ogni parola è calibrata e l'insieme limato in modo così efficace, da non lasciare possibilità di miglioramento per come è strutturato il romanzo.
Come già è stato detto, i personaggi sono caratterizzati molto bene, il protagonista che occupa gran parte delle pagine, ma anche quelli secondari, anche se con poche pennellate, rimangono ben impressi, fanno immaginare, questa è una delle caratteristiche più particolari che si riscontrano in questo autore, la loro vita, senza raccontarla, ma attraverso i loro dialoghi: banali e superficiali a volte, più caustici e intelligenti altre; benché non siano molti i dialoghi presenti, per lo più sono pensieri, annodati, vorticosi, privi di senso logico del protagonista, quelli che si leggono sono così perfetti e verosimili da far quasi immaginare le voci e i toni con cui vengono pronunciati.
Questo libro, che tratta di un argomento è quanto mai attuale, è del quarantotto e si fa paradigma e voce dell'odissea che sia le vittime che i carnefici devono attraversare prima di giungere a quell'abominio che è l'uccisione di una una donna in quanto tale.
E' il primo libro di Sabato che ho letto, capisco perché autori del calibro di Mann abbiano accolto questo autore con così tanto entusiasmo, una scrittura moderna, intensa che si mette al servizio di argomenti universali e senza tempo sezionando la natura umana in ogni sua più profonda sfaccettatura.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    21 Luglio, 2013
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Il ballo

Leggere questo racconto è come sbirciare dal buco della serratura, rubare istanti di vita privata di una famiglia che da un momento all'altro si trova a far parte dell'alta società e coglierne tutti gli aspetti, i più gretti e meschini, i più assurdi e patetici.
Al di là della trama che è piuttosto concisa, essendo il racconto composto da solo ottantatré pagine, quello che colpisce è la caratterizzazione dei personaggi; in generale ciò che salta all'occhio è la totale assenza di un personaggio positivo, nessuno degli attori ha lati positivi, ma solo un insieme di difetti che li rendono così ridicoli e così reali.
Il punto di vista è neutro, l'autrice racconta questo squarcio di vita per come si svolge, senza introdurre giudizi morali, ma lasciando al lettore il compito di farsi una sua opinione.
Lo stile della Némirovsky è così pulito e asciutto che cattura e trascina, il registro così ironico a descrivere una situazione drammatica non può che risultare accattivante e piacevole.
La forza di questo stile sta soprattutto nei dialoghi, primi fra tutti quelli che si svolgono fra marito e moglie; sono così realistici e così azzeccati da rimanere vivi nella memoria; il rapporto che è sottolineato in modo più netto è quello madre-figlia, ma io credo che quello coniugale sia molto più interessante, infatti è attraverso questo che si comprende la personalità della signora Kampf e come sia potuta arrivare ad essere ciò che è.
Altri piani di lettura possono essere scorti, sviscerati, ma io credo che sia un racconto che si deve gustare con semplicità, così come è scritto, non stupendoci troppo per lo squallore morale che viene descritto, per come questo sia presente in tutte le generazioni della famiglia, quasi come, quello sì, una tradizione.
Lo consiglio a tutti, poiché mi ha davvero stupita sia per la modernità dello stile che per il coraggio del contenuto.

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Classici
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    13 Luglio, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

La morte a Venezia

Molti sono i piani di lettura che compongono questa novella, la quale appare semplice, quasi minimalista con uno stile che inebria per i cambi di ritmo che si concede.
Il piano narrativo è quello di più facile comprensione, il più scontato; il protagonista si trova in una fase della vita in cui tutto appare confuso, l'idea della fine si fa avanti e con essa la consapevolezza di aver vissuto di sola ragione, di solo appagamento intellettuale, dimenticando, o forse sopprimendo, ogni istinto, ogni germoglio di passione; è la morte che con il suo acidulo odore si insisnua nei meandri della mente, ricordando che non tutto è finito, ma che finirà, in modo inesorabile; è questo pensiero che cambia la prospettiva invertendo l'ordine delle priorità, annullando la razionalità ed esaltando la passione.
Se l'idea della morte il primo movens di questo processo, il fattore scatenante è un amore non convenzionale, omosessuale, verso un ragazzino, un amore platonico, ma essenziale e forte, che brucia le carni e offusca i pensieri.
L'immagine che si ha del piccolo adone è quella raccontata dal protagonista, idealizzata, quasi mitologica: una bellezza divina, rispondente ai canoni della bellezza classica, quasi a giustificare i bassi istinti che lo animano; il ragazzino non è caratterizzato, non ha una personalità, è lineare, quasi abulico, proprio come se fosse una statua di immensa bellezza, ma priva di un'anima, priva di una qualsiasi valenza individuale; egli è la rappresentazione terrena dell'idea di perfezione, di armonia
e come tale oggetto di amore sconfinato e profondo.
Ciò che rende questo scritto se non il capolavoro di Mann, senza alcun dubbio un caposaldo della letteratura del novecento è la capacità di andare oltre il tempo e oltre lo spazio, di sopravvivere agli anni, ma allo stesso tempo di poter esistere sono in quell'epoca e in quel luogo.
I sensi sono confusi, dalla bellezza di Venezia e dalla malattia che aleggia tra le calle, la tranquillità dell'albergo e la confusione che si anima nel protagonista.
Scendendo più in profondità troviamo anche una descrizione molto simpatica e azzeccata della società dell'epoca, piena di ipocrisie e di paure, ora come allora lo stato italiano cerca di nascondere la gravità di una situazione che sta precipitando, minimizzando e smentendo le voci; questo aspetto è uno dei più interessanti, il modo in cui Mann ha descritto la popolazione locale è delizioso e riesce a creare dei personaggi che rimangono a lungo nella mente del lettore.
Una lettura piacevole, veloce e moderna.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    29 Giugno, 2013
Top 100 Opinionisti  -  

Maigret e la giovane morta

Ciò che fa di Simenon un autore di romanzi e non solo di gialli è la sua grande capacità di raccontare storie e di dare un'anima alle indagini.
Mentre si legge questo racconto quasi non si avverte lo svolgimento delle indagini, ma tutta l'attenzione è catturata dai personaggi, Simenon non li caratterizza, ne stila il profilo psicologico e li rappresenta in modo così vero da far empatizzare con essi.
Al di là dello stile sempre ineccepibile e del lessico ricco e variegato tipico di questo autore, stavolta si respira un'aria diversa, quasi claustrofobica, non per i luoghi che sono per lo più all'aperto, ma per le vite così anonime, così piccole di due personaggi in particolare: la giovane morta e l'ispettore Lognon detto “il lagnoso”.
La ragazza assassinata è descritta in modo minuzioso attraverso i racconti di molti di coloro che hanno incrociato la sua figura, la quale sembra volteggiare davanti ai nostri occhi con un'eterea rassegnazione, una fiera dignità nonostante le avversità e la povertà.
Non può non suscitare senso di protezione e un infinito dolore l'immaginarla morta su un umido asfalto, coperta di abiti da sera dozzinali, abbandonata e sola; lo sguardo di Maigret è riempito di commozione e di dispiacere per questa vita spezzata e le indagini verranno condotte con lo stesso metodo, preciso e perfetto a cui ci ha abituato. Non sarà solo, ma in compagnia dell'ispettore Lognon; questo è l'altro personaggio di cui facciamo la conoscenza e di cui apprenderemo i lati caratteriali più profondi e intimi, le paure, le ansie, i pensieri; è un personaggio che si appiccica addosso come la resina, che emana un buon odore, ma alla lunga non si riesce a togliere dalle mani e a furia di sentirlo, quell'odore, dà fastidio; così l'ispettore Lognon cattura subito il lettore, perché appare fragile, vittima del mondo che non lo apprezza, non lo valorizza, non lo capisce, ma poi quel lamentio di sottofondo che all'inizio è giustificato e compreso diviene in un primo tempo sopportato e alla fine odiato e Lagnon non si riesce più a comprenderlo; tutto questo non viene raccontato, ma si evince dalle azioni dell'ispettore, dai pensieri e dalle considerazioni del commissario Maigret che cerca in ogni modo di comprenderlo e considerarlo, ma non riesce a soffocare quel sentimento di irritazione che genera in modo inevitabile.
Questa inchiesta è svolta in modo ineccepibile e classico, ma quasi scivola via in silenzio rendendo giustizia alla giovane morta che verrà immaginata viva dal lettore e così ne serberà il ricordo, di una spaventata, dolce e impaurita ragazza la cui vita verrà interrotta troppo presto.
Come gli altri gialli di Simenon si legge con semplicità e tiene compagnia, ma a differenza di altri è intriso di un alone di malinconia che non se ne va neppure a lettura terminata.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    26 Giugno, 2013
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Il mastino di Baskerville

La forza di questo giallo sta tutto nell'atmosfera che riesce a creare, nelle sensazioni e nei suoni che evoca, nella capacità, in sintesi, di trascinare il lettore nella brughiera inglese, nebbiosa, fredda e umida, nella quale si celano pericoli, misteri e assassini.
Mentre le pagine scorrono, veloci e asciutte, la scena scivola da Baker street, dove Sherlock Holmes discorre con il fedele Dr. Watson caratterizzandosi in pochi tratti, mettendo in luce, anche per chi non conoscesse le sue doti investigative, il suo intuito e il suo acume nel risolvere i misteri, al Devonshire, dove la brughiera impera e avvolge.
L'espediente narrativo utilizzato appare molto azzeccato per almeno due validi motivi, in primo luogo perché il non far condurre le indagini al protagonista permette di rendere il lettore attivo nelle indagini, utilizzando gli indizi messi a disposizione da Watson come se le missive da questo inviate fossero ricevute proprio dal lettore stesso e in seconda battuta perché l'utilizzo del “romanzo epistolare” si presta bene a creare quella suspance su cui poggia tutta la struttura narrativa.
Come accennato poc'anzi i personaggi sono caratterizzati molto bene, sia gli attori principali della vicenda, ma soprattutto i secondari dei quali viene delineata la personalità quel tanto che basta a far intuire i moventi o a mischiare le carte; ma ciò che manca è l'approfondimento psicologico, che è del tutto marginale, quando non del tutto assente.
Doyle attinge a piene mani da Poe ed è inevitabile sentirne gli echi lontani, ma a non si riesce a rievocare quella purezza linguistica, quel lessico ricercato, quella melodia che paralizza e inquieta; Doyle da vita ad un romanzo che si trova a metà strada tra un giallo e un horror, ma senza essere né l'uno né l'altro, troppo razionale per far paura, troppo scontato per stupire nel suo finale.
Ciò che però trasmette sono sensazioni fisiche soprattutto il freddo che penetra le ossa, la terra che cede, facendosi melmosa sotto i piedi, la nebbia che avvolge obliando tutta l'umanità intorno e celando misteri inspiegabili; questa è la grande caratteristica che trascina la lettura, perché non si ha la voglia di scoprire il colpevole o di sciogliere le piccole sottotrame, si ha la voglia di tornare a Londra a Baker street, al sicuro, al caldo di un camino, alla stabilità dell'asfalto asciutto.
Per il grande merito di essere entrato a far parte dell'immaginario collettivo merita di essere letto; il grande merito di Conan Doyle sta nell'aver creato un personaggio unico e attraente, ma lo stile risente molto del passare degli anni, purtroppo privo di quell'alone di eternità tipico delle grandi opere d'arte.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    23 Giugno, 2013
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Lolita

“Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.
She was Lo, plain Lo, in the morning, standing four feet ten in one sock. She was Lola in slacks. She was Dolly at school. She was Dolores on the dotted line. But in my arms she was always Lolita.”

Non è necessario aggiungere altro alla potenza esasperante di questo incipit per sintetizzare ciò che “Lolita” è: un capolavoro di stile, una sinfonia che si insinua dei meandri della mente e tocca corde sconosciute, fa vibrare nervi nascosti, suscita emozioni dimenticate. L'autore, russo di origine, americano d'adozione, è costretto alla lingua inglese abbandonando l'amata dolce melodia dell'idioma nativo; ma il talento che pervade la penna di Nobokov non si lascia imprigionare, sgorga impetuoso riuscendo a generare la perfezione di un testo che emana emozioni non si limita a raccontarle.
La traduzione italiana, almeno nel suo incipit, non gli rende giustizia, ma mantiene, a dimostrazione dell'universalità della buona scrittura, l'essenza che si irradia intorno al lettore, trasportandolo negli anni quaranta, facendogli respirare quegli odori e quelle atmosfere, quella strana allegria così lontana dalla realtà europea di allora.
Questo stile estatico si mette al servizio di un contenuto difficile, proibito; il lettore si trova a conoscere il protagonista, attraverso il suo stesso racconto, il suo stesso dolore, il suo stesso tomento, assoggettato a una pulsione che affonda le proprie radici in un atavico dolore, in una insuperabile perdita, origine e morte, eterna ricerca di ciò che non potrà mai più esistere; in nessun momento è giustificato, né giudicato, ma solo compreso e compatito. Lolita, è caratterizzata così bene da sembrare viva, quell'età così misteriosa, così piena degli infantili gesti, inizia a macularsi di malizia; la capacità di sedurre, anche se non compresa a fondo, diviene un'arma micidiale che le permette di ottenere ciò che vuole, barattandola, però, con la sua infanzia.
Molti sono i piani di lettura che si possono scorgere tra le righe, quello narrativo è solo il più superficiale, il più banale, il più accessibile; echi dostoievskijani permano le pagine fin dall'insuperabile incipit, il fato sembra giocare una macabra partita a scacchi, sembra spianare la strada per poi erigere un muro e come un alito di vento proustiano aleggia alla ricerca di quel tempo che fu, alla ricerca, prima, di un giovanile amore perduto a tredici anni nella vecchia Europa strappato alla vita dal tifo, alla ricerca, poi, tra le urla gioiose dei bambini di quella piccola Lolita che non esisterà più, ormai cadavere in quel corpo di diciassettenne; Humbert è un uomo solo, che vive di ricordi, di rimpianti, di rimorsi; quei viaggi, lunghi, pericolosi, fatti per assaporare ogni minuto, ogni secondo di quegli anni fuggevoli e lievi non sono che un tentativo, vano e malato di perpetuare un'illusione, di rendere eterno ciò che è mutevole per natura, in una vertigine di follia e di morbosità che finirà per distruggere con la sua impetuosità tutto ciò che gravita intorno, per rivelare che nessuno degli attori di questo dramma è del tutto innocente: non Humbert, non Lolita, non sua madre; l'altro piano di lettura che richiama alla mente Flaubert per le descrizioni puntuali e precise, è quello sociologico, di cui la bigotta società americana dell'epoca si fa protagonista, ogni personaggio secondario è caratterizzato con pochi tratti, ma sufficienti a creare un'idea viva e nitida di ciò che era quel periodo, quell'America allegra e spensierata che ballava mentre l'Europa rinasceva dalle macerie.
Non è solo questo Lolita, Nobokov nasconde tra le parole, tra i baci non detti, tra le malelingue non ascoltate, come nel più classico dei gialli, indizi e prove che sfuggono all'occhio del lettore, creando un racconto nel racconto, inserendo un mistero su cui Humbert indagherà e solo alla fine, come in un flashback ogni tassello tornerà al proprio posto e tutto avrà un senso. Il finale sarà un gioco di specchi in cui il lettore si perderà e non sarà più in grado di comprendere, di giudicare, ma solo di ascoltare una storia.
Un capolavoro, una di quelle opere che insinuate nella mente non la lasceranno mai.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    16 Giugno, 2013
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Un covo di vipere

Non è lo stile particolare e fresco a farla da padrone in questa indagine del commissario Montalbano, ma il tema affrontato, crudo e aspro come un limone acerbo, addolcito dalla penna ironica e mai eccessiva di Camilleri.
Attraverso un sogno si ha una prima e immediata caratterizzazione del protagonista, che ci appare in una solitudine determinata colmata, in parte, da sporadiche visite della fidanzata lontana, anch'essa ritratta con poche pennellate che ne esaltano le caratteristiche peculiari.
Se il lettore si avvicina a questo titolo senza conoscere gli altri episodi non ha quel senso di smarrimento che si potrebbe aspettare; si trova a Vigata, ne impara a conoscerne la terra e il mare che immenso, è l'orizzonte in cui si esaltano tutte le emozioni: la rabbia, la vergogna, il rancore, ma anche l'amore, la serenità, la pace.
L'indagine in se stessa è semplice, lineare; la soluzione evidente, quasi fin dalla prima pagina, fin dai primi interrogatori, ma la mente la rifugge, mentre l'istinto l'insegue, in un frenetico balletto che pagina dopo pagina non permette di prendere respiro.
I personaggi secondari sono delineati nei loro tratti caratteristici in modo naturale, presentandoli in tutta la loro personalità a chi non li conosce, ma non appesantendo la lettura a coloro per i quali, ormai, sono vecchi amici.
La personalità degli indiziati è analizzata a fondo, ogni azione fa seguito ad una sfaccettatura del carattere, la loro psicologia è delineata e precisa; per la vittima non c'è pietà, si cerca giustizia, ma non gli è perdonato niente della sua torbida vita; non vi è empatia, non vi è giustificazione né catarsi, ma solo una vertigine che risucchia in un gorgo sempre più profondo.
Lo stile di Camilleri risulta di difficile comprensione se si è neofiti del dialetto siciliano, ma come per incanto, dopo un'iniziale fatica tutto appare leggero e semplice, quasi abituale; solo una grandissima conoscenza della lingua italiana e delle sue regole grammaticali e sintattiche può riuscire in un compito così arduo, conoscenza che l'autore dimostra di padroneggiare senza problemi, permettendosi virtuosismi stilistici poco frequenti in un poliziesco.
Nel finale, ancora una volta, il commissario si trova a risolvere il caso, grazie ad espedienti che appaiono un po' forzati, inverosimili, ma sospesi in una dimensione dove tutto può succedere, dove aleggia un velo di irrealtà che tutto avvolge e Montalbano si trova a dover scegliere se squarciarlo, macchiando di reale qualcosa che il mondo non può accettare o lasciare all'irreale la verità, dove essa può esistere.
Più che per l'indubbio valore stilistico merita la lettura per il contenuto e per come questo è trattato, con grazia e leggerezza che lascia storditi e attoniti, poche ore per un libro che porterà molti giorni di riflessione.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    15 Giugno, 2013
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Assassinio sull' Orient- Express

La conoscenza del giallo deve passare da questo titolo, poiché nel tempo è diventato paradigma di ogni altro, il Giallo per antonomasia e una volta giunti alla risoluzione del mistero il motivo è ben chiaro nella mente del lettore.
L'enigma è dei più classici: il delitto in un ambiente chiuso; i personaggi appartenenti a tutti i generi e a tutte le classi sociali; la soluzione inspiegabile, dodici pugnalate sferzate con rabbia, un uomo ucciso, un investigatore privato di ogni possibile aiuto tecnico obbligato a utilizzare solo la forza della propria intelligenza.
Lo stile è asciutto e incalzante, il ritmo veloce e accattivante, la trama priva di qualsiasi falla narrativa, ogni indizio, ogni particolare è inserito ad arte per far correre i sospetti da un passeggero all'altro, per creare un'idea e subito distruggerla giungendo al finale che dà una spiegazione a ogni dubbio, che fa divenire l'impossibile possibile e spiegabile. Il lessico è molto ricco e adatto al personaggio che viene delineato, la quantità di dialoghi serrati, quasi senza soluzione di continuo, rubano qualcosa alle descrizioni dei luoghi, delle atmosfere, ma creano quel ritmo che obbliga a continuare.
I personaggi sono caratterizzati quanto basta per essere funzionali alla risoluzione del caso, vengono descritte e studiate le reazioni più che le emozioni, le espressioni più che la psicologia, ponendoci nella stessa situazione di monsieur Poirot, affannati a cercare di capire con le nostre sole capacità intellettive chi sia l'assassino; avremmo fatto le stesse domande? Avremmo tratto le stesse conclusioni? Avremmo compiuto le stesse azioni? Tutto questo crea un gioco divertente che ci traghetta fino all'inevitabile finale che rimane l'unica spiegazione possibile.
Se Poirot è, come è logico, caratterizzato molto bene, non è da meno il suo amico monsier Bouc, che la Christie pone come l'alter ego del lettore: sicuro della propria intelligenza si colloca in un primo tempo sullo stesso piano di Poirot per poi capitolare di fronte alla sua superiore forza deduttiva e, perché no, intuitiva; monsier Bouc è forse il personaggio che alla fine del libro rimane più simpatico, più comprensibile.
La Christie decide di utilizzare le deposizioni per farci conoscere le ultime ore di ogni passeggero e attraverso quelle ogni elemento viene svelato, nascosto tra le pieghe del racconto, ma presente, quasi evidente, deposizioni che hanno la capacità di apparire criptiche, ma che lasciano intravedere tutta la potenza rivelatrice che posseggono.
Alcuni indizi sono forzati soprattutto il più importante che dà inizio a tutta la vicenda, un espediente che seppur necessario appare quanto meno poco probabile, altri di una delicatezza e verosomiglianza incredibile, così celati da non essere notati, così mimetizzati nella trama da sembrare inutili puntualizzazioni, altri ancora geniali.
Ciò che rimane alla fine della lettura è una riflessione importante, sulla necessità di svelare la verità, anche se questo porterebbe delle conseguenze ancor peggiori del delitto in sé, monsieur Poirot è un privato cittadino e come tale può esimersi dallo scegliere, ma per il lettore qual'è la decisione più giusta, quale prenderebbe nella medesima situazione?
Molti sono gli spunti di riflessione che si creano durante la lettura, ma forse la più grande perplessità che può rimanere sta proprio nella soluzione, che per quanto perfetta, appare macchinosa e artificiosa, al di sopra del bene e del male, quasi a giustificare il gesto, comunque ignobile, che viene compiuto. Questo aspetto disturba alla fine, non si rimane del tutto persuasi dal movente, ma resta comunque il fatto che se un giallo riesce a generare così tanti pensieri oltre a divertire non può che aver raggiunto il suo scopo.

Da un punto di vista del tutto personale, ma che mi sento di voler esprimere e che esula del tutto dall'oggettiva valutazione del libro, non mi ha convinto del tutto, mi sono mancate molto le descrizioni dei luoghi, della stazione, dei singoli vagoni, delle cuccette, ma soprattutto del vagone-ristorante, insomma quella sensazione di essere lì, magari nascosta dietro il bancone a godermi tutte le deposizioni. Consigliato in ogni caso, sia che si ami il genere sia che lo si odi, poiché è un tassello che non può mancare.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    12 Giugno, 2013
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Il medico di campagna

Un incipit bucolico ci accompagna con dolcezza in un piccolo paese di compagna attraverso gli occhi del capitano Genestas. Fin dalle prime parole sembra che tutto intorno si componga, la vallata che galoppando viene attraversata, il lento scorrere del fiume e il cinguettare degli uccelli;la Francia del 1829 doveva essere davvero adorabile.
La trama di questo romanzo è ridotta ai minimi termini, di fatto non accade niente, quello che conta oltre allo stile limpido e semplice che sembra essere tutt'uno con l'umiltà dei contadini che popolano al valle, è il contenuto; infatti Balzac crea dei personaggi che sono degli oratori, che attraverso i propri lunghi monologhi esprimono le proprie idee e attraverso queste la propria anima.
Il protagonista è delineato in modo esauriente fin dalle prime pagine per bocca dei suoi compaesani, egli oltre ad essere il medico è anche il sindaco che ha restituito lustro e benessere al villaggio attraverso le proprie opere, ma soprattutto attraverso il proprio esempio.
I lunghi dialoghi o meglio dire monologhi lo rendono a tratti così perfetto da risultare irritante, ma è quasi impossibile dare voce a questo pensiero perché Balzac ci ricorda e sottolinea che questo benefattore non è supponente, non fa pesare ciò che fa, ma sembra che tutto gli venga naturale e non può non conquistare.
I piani di lettura che si possono trovare, sono molteplici; quello narrativo, come detto prima, è lineare e quasi irrilevante, ma rispecchia la semplicità delle persone che lo popolano, anche se il finale in cui impariamo a conoscere la vita del medico rendono comprensibile tutte le sue azioni; quello sociologico è forse quello più interessante, viene analizzata e fatta comprendere la società dell'epoca, le speranze dei contadini, i loro pensieri, i loro bisogni. Balzac ci fa vivere tutto questo, rappresentandolo con semplicità e con realismo, senza cadere nello scontato e nel banale, senza tacere nessun lato e confrontando le varie personalità che la compongono; poi c'è il piano storico che è senza dubbio quello che più suscita l'interesse del lettore e forse anche dell'autore; vi è infatti narrata tutta la vita di Napoleone, dalla nascita alla caduta, per bocca dei soldati che lo hanno seguito e adorato, di coloro che erano al suo fianco e che non lo hanno tradito e viene fatto con tale ardore e con tale passione che non può lasciare indifferenti; infine, ma non certo per importanza c'è il piano economico-politico, che tanto ha affascinato Engels portandolo a dire “ho imparato di più che da tutti gli storici dichiarati, gli economisti e gli studiosi di statistica di quel periodo messi insieme”, infatti è attraverso i suoi personaggi che Balzac esprime le proprie idee e lo fa in modo così genuino e così particolareggiato da convincere il lettore.
Più di un romanzo un'occasione di riflessione e di accrescimento culturale, un momento per assaporare la forza patriottica e l'orgoglio di una Francia orfana del suo imperatore.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    12 Giugno, 2013
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La potenza di un classico giovanile

“Le notti bianche” è un'opera giovanile di Dostoevskij che a soli ventisette anni ha già in potenza tutto il talento che lo renderà immortale.
Difficile per un animo solitario e riservato non immedesimarsi nel protagonista, il quale viene tratteggiato in modo così dolce e preciso da rendercelo vivo ed è così reale seguirlo nelle sue passeggiate, incrociare le strade, le case a cui si rivolge, umanizzandole; troppo distante da lui è l'umanità, troppo distante la società, troppo vivi i suoi sogni, troppo fervida la sua immaginazione.
L'autore ce lo presenta come un uomo avulso dalla realtà, così timido da parlare solo con le strade, le case, le finestre; aspetto, questo, che già da solo basterebbe per comprendere l'essenza delicata di un animo sensibile.
La protagonista è viva e passionale, emana un entusiasmo contagioso, a tatti incredula e impaurita, a tratti civetta, rapisce quell'animo e lo strappa al sogno, lo irradia con la sua solare realtà, quasi con un tocco gli trasferisce la vita che non ha mai vissuto, la speranza che non ha mai coltivato, l'amore che non ha mai realizzato.
Se si pensa all'argomento trattato, così vasto, così profondo e intimo, stupisce come possa essere stato sintetizzato in poche pagine, in così poco tempo, ma Dostoevskij ci riesce e rende quell'incontro così particolare e unico, paradigma dei rapporti d'amore tra ragazzi, delle difficoltà che essi si trovano ad affrontare, degli inganni, delle omissioni che creano quegli equilibri instabili tipici dell'adolescenza.
Lo stile è di una modernità disarmante, i dialoghi sono verosimili, il lessico, ricco e adatto alla situazione, sembra accompagnare, attraverso le variazioni di ritmo, l'uso più frequente delle subordinate,l'incedere veloce dell'aggettivazione, i pensieri del protagonista e le sue speranze, come per trasmettere quell'illusoria forza che permette di far sì che il sogno si faccia realtà e che il tempo trascorso nelle elucubrazioni non sia vano, non sia perso.
La particolarità stilistica sta nell'aver scelto un registro ironico, che alleggerisce tutta la vicenda, che fa intuire ciò che avverrà, creando un'atmosfera così magica da rendere quell'angolo di paradiso il pizzico di realtà che per sempre accompagnerà il mondo onirico del protagonista, la polvere magica che perpetuerà la felicità vissuta.
Quando le poche pagine che lo compongono giungono alla fine e l'avventura si conclude ci si rende conto che quei due ragazzi imbacuccati, accarezzati dal gelido freddo russo appartenenti ad un tempo lontano, a due secoli fa, potrebbero essere due adolescenti attuali, che mutatis mutandis, nella stessa situazione sarebbero attanagliati dai medesimi dubbi, dalle stesse paure e finirebbero, forse, date le premesse, per compiere identiche azioni.
La potenza di un classico, anche se giovanile, sta nell'essere universale, nel riuscire a non perdere smalto nel tempo, ad adattarsi a ogni epoca, perché capace di cogliere l'essenza di un animo, a descriverne i tratti e a trasmettere le emozioni che rendono le parole vive e capaci di riempire quei vuoti esistenziali che spesso albergano nei cuori di molti di noi.
Un libro da leggere e da rileggere poiché non in tutte le fasi della vita può essere compreso e ad ogni età avrà qualcosa di diverso da dire sull'animo umano.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    06 Giugno, 2013
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Maigret e le persone per bene

Per avventurarsi nel mondo dei gialli da profani e coglierne tutti i lati positivi Simenon è un buon inizio. Il suo stile così asciutto e descrittivo al punto giusto ipnotizza e incolla alle pagine, non lasciando scampo; così veloce e accattivante, il ritmo, da far trascorrere il tempo in modo veloce e sereno; la scoperta dell'assassino è un finale, come potrebbero essercene tanti altri: è un giallo e questo è il suo scopo.
Ciò che rende questo autore così gradevole è la capacità innata di riuscire a conciliare il mero delitto alla descrizione di un'atmosfera, di un mondo.
Nel caso specifico sono delle persone per bene ad essere colpiti dalla disgrazia e il mondo borghese è evocato in modo reale e il lettore, insieme a Maigret, si identifica in quelle persone a tal punto da rifiutare che possa essere accaduto loro una tragedia così grande come un omicidio, perché se così fosse potrebbe accadere a chiunque e questo è un pensiero che non deve mettere radici.
Se l'inizio del racconto, attraverso uno stile minimalista, che mette in luce il lato borghese di Maigret, è pervaso di un' ovatta che attutisce i suoni e i rumori generando un'ansia tipica di quando si empatizza con qualcuno, la rassicurante penna di Simenon, però, riesce piano piano a scardinare questo scrigno protettivo disintegrando quell'aura di perfezione così irritante; la cosa particolare è che non lo fa con eventi straordinari, ma con schegge impazzite che possono esistere, ma che sfuggono al controllo.
Il giallo in sé è atipico, non ci sono elementi nascosti che posso far intuire il colpevole, è la forza della disperazione di Maigret che gli fa seguire anche le piste più improbabili, in un' estenuante ricerca di indizi che alla fine, ma solo alla fine, porterà i suoi frutti.
Infine i personaggi, sono caratterizzati così bene che sembra di vederli, sia i principali che i secondari, con pochi tratti se ne comprende la psicologia e l'emotività.
Un buon giallo per trascorre qualche ora in piacevole compagnia.

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