Opinione scritta da Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Mag, 2012
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"Giallo ciliegia" di G. Genisi - Il commento di Br

Nella sua seconda avventura il commissario Lolita Lobosco, il personaggio fuoriuscito dalla fantasia e dall’ironia di Gabriella Genisi, cambia frutto e passa dalle arance (il primo episodio si intitola “La circonferenza delle arance”) alle ciliegie. Per affrontare un caso di misteriosa sparizione tra le maglie del contrabbando e della malavita locale e montenegrina.
Sabino Lavermicocca è un bel pescatore, ma è scomparso: forse è fuggito in Brasile per rincorrere le gioie della vita e un sogno adolescenziale. Per rintracciarlo, le donne della sua famiglia contattano la sexy-commissaria, contravvenendo alle regole non scritte della Bari vecchia.
In questa indagine, Lolì si destreggia tra interpretazioni flessibili dei rigidi protocolli del commissariato e chat line, per portare alla luce un delitto.
La scena si svolge principalmente nella “casbah” di Bari, ove compare Helena: una mantide fatal-volgare con il vizietto dell’incesto, dalla quale Lolita trae perfino qualche spunto erotico.
La “Montalbano in gonnella” interpreta una storia divertente, nella quale non vengono trascurati i profili psicologici dei personaggi e le descrizioni della splendida ambientazione pugliese: tra l’azzurro del mare e il bianco della medina di una Bari ove si passeggia “con la focaccia bollente tra le mani”, la “pescosa Bari cantata da Orazio” che diviene la “Bari escort” assediata dalla sua Muraglia, “cintura panoramica di pietra affacciata sul mare”, la Bari che idolatra Cassano e segue il disastroso Mondiale del Sudafrica con sentimento contrastato …
Romanzo da gustare, in senso letterale, come le ricette di Lolì che hanno fatto venire l’acquolina in bocca a …

… Bruno Elpis

Leggete la mia intervista a Gabriella Genisi sul mio sito www.brunoelpis.it
Il link completo è http://www.brunoelpis.it/le-interviste/202-tutti-pazzi-per--lolita-intervista-a-gabriella-genisi

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"La circonferenza delle arance" della stessa autrice, Camilleri, Vichi, De Giovanni e altri giallisti italiani
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Mag, 2012
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"Il procuratore" di Andrea Vitali

“Il procuratore” è uno dei primi romanzi di Andrea Vitali. La copertina retrò ritrae il battello della “Navigazione Lariana” e proprio con questa scena si apre il racconto: l’Alessandro Volta, “il battello a elica più grande del lago, attracca” a Bellano. Corre l’anno 1938, è novembre, e nel paese sulla sponda lecchese del lago di Como sbarca un forestiero, Marco Perini, che si rifugia al “Caffè dell’imbarcadero” ove incontra Deilde: una giovane donna il cui viso è un “déjà vu”.
Marco Perini é originario di Bellano ed è un procuratore. Non nel significato forense del termine: perché il misterioso personaggio “intermedia”, quindi “procura”, carne umana: ossia donne per le case di tolleranza.
Da quell’attracco parte il flash back della narrazione, attraverso il ricordo del procuratore, che ripercorre le tappe della sua turpe carriera.
Le gesta del procuratore sono, come spesso succede nei romanzi di Vitale, lo stratagemma per ripercorrere la storia dal 1911 sino all’anticamera della seconda grande guerra: attraverso fatti locali, attraverso le vicende della gente comune.
La retrospettiva storica si incrocia con la storia presente del procuratore: nell’atto conclusivo, tra la canonica e il ristorante Cavallino, Marco Perini incontra Deilde per ascoltare una rivelazione che sarà un fulmine a ciel sereno e accompagnerà il protagonista alla ripartenza dall’imbarcadero.
Mentre divampa la seconda grande guerra, Marco Perini si ritrova con nuove consapevolezze, in piena maturità, a riconvertire la sua attività lavorativa: “Adesso mi occupo di uomini: di ebrei e antifascisti, li aiuto a espatriare”. Perché “le guerre non solo ti impongono di cambiare vita: ti costringono anche a cambiare testa.” Con buona pace di tutti, anche di …

… Bruno Elpis

Leggete la mia intervista ad Andrea Vitali sul mio sito www.brunoelpis.it
Il link completo dell'intervista è http://www.brunoelpis.it/le-interviste/197-intervista-ad-andrea-vitali

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... altre opere di Vitali. Chi lo legge per la prima volta, comincerà con uno dei suoi primi romanzi!
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Mag, 2012
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"La circonferenza delle arance" di G. Genisi - Il

E’ la prima avventura del commissario Lolita Lobosco, personaggio intelligente e carnale uscito dalla penna di Gabriella Genisi, che darà vita anche alla serie televisiva per la RAI scritta dalla stessa autrice.
Il commissario “femmina” più sexy d’Italia si cimenta nel suo esordio in un caso assai particolare: un affascinante dentista, Stefano Morelli, è accusato, alla vigilia di Natale, di uno dei più vili reati, la violenza carnale. L’accusa al bel Morelli, fin dall’inizio, ha tutta l’aria di essere una bieca montatura. Ma il particolare, che rende saporita la vicenda, è che … l’accusato è addirittura il “primo amore” della sexy-commissaria!
Parte lesa è Angela, “l’assistente alla poltrona”, una vistosa “femmina” pratica dell’ars amatoria.
Il libro promana profumi mediterranei e assume le forme sferiche delle arance, che costituiscono anche la chiave di volta per risolvere il caso poliziesco: su un’arancia, infatti, si stampa un morso di Angela, che rivela un difetto congenito…
Sullo sfondo della vicenda si staglia una splendida Bari immersa nell’atmosfera natalizia e nelle sue tradizioni, principalmente culinarie.
Un personaggio tutto da gustare, questa Lolita, con il mondo del suo commissariato e della vita pugliese. Grazie a una narrativa piacevole, ironica, coinvolgente. Magari aspettando le sue prossime avventure, come …

… Bruno Elpis

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Camilleri e agli appassionati di "giallo italiano"
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    01 Mag, 2012
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"Il lupo e la luna" di P. Buttafuoco - Commento di

Un romanzo, “Il lupo e la luna”, con il quale l’autore – Pietrangelo Buttafuoco - svolge un lavoro di ricerca e di esegesi del “cuntu”: il racconto dei cantastorie che narra le vicende di “Scipione il rinnegato”, un siciliano che da bambino viene rapito dai saraceni.
Presso i rapitori, Scipione cresce, fa fortuna e si afferma come condottiero che batte la bandiera della mezzaluna. La fama delle sue imprese spesso crudeli si spinge sulle coste della natia Sicilia, ove vive la sua famiglia d’origine.
Scipione è figlio di padre messinese e di madre montenegrina: nel suo sangue confluiscono i contrasti di cristianità e islam. E la saga familiare si sviluppa tra gli affetti di una madre che si trova di fronte alla drammatica scelta dinnanzi a figli che militano in schiere nemiche, ostentando il medesimo vessillo: quello del casato d’origine.
Scipione si accompagna a un lupo e la sua figura si mescola con il mito e l’enigma del lupo, che lo difende, che muore per lui e in lui rivive, sino a condurlo a riconquistare la luna.
Storia interessante, ricca di interconnessioni fantastiche e insaporita dai profumi del mediterraneo, con descrizioni suggestive della Sicilia. Per chi ricerca nuove declinazioni e sperimentazioni del fantasy, come …

… Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    25 Aprile, 2012
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"L'ombra del leone" di Steve Berry

Oggi, 25 aprile, oltre che “festa della liberazione” è il giorno dedicato a San Marco, al quale è intitolata una delle basiliche più famose del mondo: quella che campeggia nell’omonima piazza di Venezia.
Per rimanere in tema, il mio commento di oggi si concentra su “L’ombra del leone” di Steve Berry, autore di romanzi fortunati come “L’ultima cospirazione” e “Le ceneri di Alessandria”.
In questo “fantasy-giallo” storico ritroviamo i protagonisti dei precedenti romanzi: Cotton Malone, professione libraio, e Cassiopea Vitt, entrambi anche agenti più o meno segreti al servizio dell’occidente e degli Stati Uniti, che da sempre si autoproclamano … “depositari dell’ordine del mondo”.
I due eroi sono questa volta impegnati a risolvere l’enigma di Tolomeo, un indovinello assai articolato dietro al quale si cela il segreto del luogo della tomba di Alessandro Magno, il grande condottiero macedone che morì in giovane età lasciando un impero che – conquista dopo conquista – si estese dal Mediterraneo sino all’India, per concretizzare il sogno ellenistico della fusione delle culture.
L’antagonista degli eroi è il primo ministro della Federazione Centro Asiatica: la Zovastina, politica cinica e ambiziosa infatuata del mito di Alessandro. La donna vorrebbe emulare il sovrano macedone nella realizzazione di una realtà che – partendo dal nucleo costituito da cinque ex repubbliche sovietiche (Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan e Kirghizistan) e realizzando le mire espansionistiche su Iran, Afghanistan e Pakistan, da conquistare anche a costo di guerre batteriologiche - si contrapponga alle potenze occidentali e alla Cina.
La tomba di Alessandro catalizza molti interessi contrapposti, anche perché sembra custodire, oltre alle spoglie del mitico sovrano e del suo amante Efestione, un portentoso antidoto che sarebbe in grado di guarire la malattia del secolo: l’AIDS.
Di conseguenza, l’azione vedrà contrapposti gli Stati Uniti, interessati a mantenere il controllo del pianeta, la crudele Zovastina, gli storici e gli archeologi, una potente casa farmaceutica che fa capo all’equivoco Vincenzi.
Per risolvere l’enigma di Tolomeo, sembrano necessarie otto monete che recano inciso “ZH”, vita in greco (ciascuna moneta è conservata negli angoli più disparati del mondo), nonché il passaggio nella cripta della basilica di San Marco, per riesumare la salma del santo che … forse è stata scambiata con quella di Alessandro Magno.
Che ne dite? Tanta, forse troppa, la carne al fuoco: a proposito di fuoco, la Zovastina e i suoi emissari utilizzano “il fuoco greco” per entrare in possesso delle monete, appiccando incendi in ogni dove, musei inclusi.
Ho trovato appassionanti le finzioni storiche – l’anedottistica su Alessandro e sull’età aristotelico-tolemaica, la trovata dello scambio della salma del condottiero con quella del santo - e mi ha inquietato il conflitto fanta-politico minacciato dalla prospettiva di una guerra batteriologica. Però, la vicenda a volte è troppo intricata e si perde in mille rivoli, con pagine che non giovano alla narrazione. Sorge il sospetto che le leggi dell’editoria mondiale impongano a un autore di successo … di totalizzare un certo numero di pagine, visto che c’è una correlazione tra numero delle pagine, prezzo del libro e quindi profitto. Se, per rimanere in ambito politico, è attendibile il detto di Andreotti (ancora lui!) secondo il quale “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”, allora, forse, con il suo sospetto ci azzecca anche …

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Consigliato a chi ama il romanzo storico nelle contaminazioni fantasy
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    24 Aprile, 2012
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Il silenzio dell'onda di G. Carofiglio

In questo romanzo, l’eroe di Carofiglio è Roberto: ex carabiniere, si è distinto per merito e, promosso, ha ricoperto l’incarico di “agente infiltrato” nel nucleo operativo, sezione narcotici. Da agente segreto, si è fittiziamente improvvisato narcotrafficante, per sventare i traffici dei signori della droga. Ma questo incarico pericoloso ha messo a dura prova la sua personalità, che non ha retto alle continue tensioni. Roberto combatte contro l’esaurimento e viene collocato in aspettativa, perché soffre di manie depressive con tendenza al suicidio.
Quindi, il lettore ritrova Roberto dall’analista, impegnato a ricostruire la sua vita.
Il passato di Roberto è pieno di ombre: su tutte, quella di un padre, anche lui agente di pubblica sicurezza, incarcerato per corruzione e suicidatosi in prigione.
Fuori dallo studio dello psicanalista, Roberto incontra Emma, una donna che per lui rappresenta un’opportunità: di relazione e di riscatto. Anche perché Giacomo, il figlio dodicenne di Emma, gli confida i suoi timori su un turpe commercio del quale una compagna di classe sembra vittima: in una storia tipica dei nostri tempi, fatta di ricatti, telefonini e pedopornografia e che, nel linguaggio giuridico, configura un triplice reato: violenza sessuale di gruppo, prostituzione minorile, sequestro di persona.
Roberto interviene a smascherare i responsabili e ritroverà fiducia in se stesso, riuscendo a valorizzare anche la figura del padre, grazie al ricordo di quando, insieme a lui, andava sull’oceano (abitavano negli States) a cavalcare le onde con la tavola: “I ricordi nella luce e nel mare … erano muti. Vento teso, grandi onde con creste luccicanti, tavole che correvano, corpi sbalzati dalla potenza dell’acqua. Tutto senza rumori e senza voci.”
L’allegoria dell’onda è molto affascinante ed evocativa. La storia è coinvolgente. Lo stile di Carofiglio è cristallino nel descrivere i fatti e nell’addentrarsi nelle pieghe della psicologia umana e dimostra di saper governare le onde del sentimento di chi lo legge, come …

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... altre opere di Carofiglio. O a chi lo legge per la prima volta. A chi ama il romanzo psicologico.
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Classici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Aprile, 2012
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"Dieci piccoli indiani" di Agatha Christie - Il co

Un capolavoro, quello di Agatha Christie, che ho deciso – in una rilettura – di vedere da un’altra angolatura: in fondo “Dieci piccoli indiani” è la storia … di un omicida seriale! Naturalmente la trama è narrata con la raffinatezza stilistica e con la misura anglosassone che incoronano Agatha Chrisitie indiscussa maestra del giallo classico. Con i suoi tradizionali ingredienti, che poi sono: il disegno criminale che lega gli omicidi, la firma dell’assassino.
Il disegno criminale (il movente?) è rappresentato dal desiderio di sanzionare con la pena capitale chi si sia macchiato di un delitto impunito. Il vendicatore è naturalmente uno spirito sadico e folle, ma mantiene razionalità e inventiva nel progettare ed eseguire i misfatti.
I delitti vengono firmati, tutti, in modo personale: attraverso la storiella dei dieci negretti. Al ritmo inesorabile di un conto alla rovescia dei convenuti e delle statuine in porcellana: ten, nine, eight … fire!
L’etereo puritanesimo di Agatha Christie non si lascia contaminare dal crimine; la regina del giallo snocciola omicidi come le grane del rosario, scandendone il ritmo con macabro humour e con l’ausilio dell’immancabile maggiordomo: l’imperturbabile Roger che per l’occasione veste anche i panni del … becchino.
L’ambiente è sufficientemente claustrofobico: una villa-obitorio, illuminata dalla luce delle candele, abbarbicata su Nigger Island, l’isola che ha reciso ogni contatto con il resto del mondo e sulla quale approdano i dieci “personaggi in cerca” di giustiziere. L’isola dalla quale parte, romanticamente, la bottiglia che contiene un messaggio con la confessione dell’assassino, giunta sino a …

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... gialli sconclusionati, e vuole rifarsi il palato con un ottimo classico del medesimo genere.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Aprile, 2012
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"Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del

Davvero controversa, questa storia del “Barolo del Sud”.
Ambientata a Ferrandina, sulla collina materana, la vicenda ha per protagonista Riccardo Fusco, uomo in piena crisi d’identità: “dopo un avvio promettente in cui si era illuso di poter diventare un celebre intellettuale, la sua vita non era stata che un’inesorabile disfatta.” Per converso, sua moglie Eleonora “aveva realizzato ogni suo sogno, anzi più di quello che avesse mai sognato, superandolo in tutto …” Eleonora, per la cronaca, dirige il teatro stabile di Potenza e cornifica il marito con giovani attori, tra i quali il “magnetico clone” di George Clooney.
Naturale che un uomo, in queste condizioni, sia in crisi d’identità: alla prima occasione, Riccardo fa comunella con i vecchi compagni di liceo, lo stralunato pittore Giacenere e il ricco Graziantonio Dell’Arco, tra le altre cose produttore di vini. Questi è l’erede di Michelantonio, latifondista che ha infinocchiato i contadini locali vendendo il proprio fondo con annesso giacimento di metano (“l’oro diafano”) un attimo prima dell’esproprio, convertendosi poi alla produzione della gassosa.
I tre ex compagni si alleano per vendicarsi del conte Yarno Cantini, reo di aver mortificato in pubblico Graziantonio: perché se il conte “era lo splendido che non fa niente per esserlo, rifulgendo automaticamente di luce propria come una pietra preziosa”, Graziantonio è un “volgare azzimato parvenu”, un arricchito, in una parola il principe dei neo cafoni. I tre alleati concepiscono insieme una vendetta: far declassare il Chianti del conte e superarlo, nella classifica dei migliori vini, con l’Aglianico. E per ottenere lo scopo, cosa c’è di meglio se non servirsi di un’antica fiamma di Riccardo, la sofisticata critica enologa Chatryn Wally Triny, che sta giocando le sue ultime carte per avere un figlio e che giudica i vini con frasi tipo “Questo è più austero, solenne tipo una cantata di Bach … quest’altro è più setoso, morbido come una sinfonietta mozartiana …”?
Ovviamente, Riccardo si avvantaggerà dell’amicizia con Graziantonio, che gli promette un futuro di fama e di ricchezza.
Il romanzo scorre attraverso le improbabili biografie di personaggi altrettanto improbabili e il lettore è in crisi d’ansia, curioso com’è di verificare se l’Aglianico – che “è uno di quei vini così morbidi, corposi, che una volta che inizi a berne è difficile mollarli: gli altri ti sembrano tutti vinelli finti, incipriati, inconsistenti” - riuscirà a superare il Chianti.
Le caricature di Gaetano Cappelli sono impietose nel disegnare tipologie e ambienti: il tycoon lucano, il jet set, il mito del “forever young”, l’essere “cool” a tutti i costi, le cinquantenni “convertite al fitness o al ballo sudamericano o all’alterazione sistematica di volti e corpi con la chirurgia plastica …” E tanti altri, in una girandola di situazioni e storie che fanno venire i capogiri al lettore. La narrazione è condita con gustosissimi personaggi minori dal nome evocativo: come, nella vita di paese, il becchino Gufius, la megera indovina “Lia la Bavosa” che inscena riti rivoltanti e raccapriccianti, le Aggobbate.
Lo stile è composito e ironico: periodi articolati, ricchi di incidentali e parentetiche, infarcito di citazioni strumentali (“L’importanza di chiamarsi Ernesto”, la pascoliana “pile succiare”, il mito di Ercole) e demistificate. Un libro per divertirsi. Così è stato per …

… Bruno Elpis

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Consigliato a chi vuole divertirsi leggendo ottima narrativa italiana.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Aprile, 2012
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"Gli anagrammi di Varsavia" di Richard Zimler - Il

Un romanzo che scuote l’animo, perché il protagonista, lo psichiatra Erik Cohen, porta a galla, insieme ai responsabili di alcuni infanticidi, il senso di colpa che l’umanità ha nei confronti di se stessa.
Epoca storica: 1941
Fatti narrati: le persecuzioni tedesche degli ebrei. L’olocausto.
Ambientazione: Varsavia. Nel ghetto di Varsavia.
Eric è uno psichiatra. Suo nipotino Adam viene ritrovato ucciso sul filo spinato che separa il ghetto dall’altra parte della città. Nudo e con la gamba destra amputata sotto al ginocchio. Il delitto viene ricollegato a quello di Anna, quindici anni, ritrovata alle stesse modalità e con una mano amputata. E a quello di un altro bambino, Greg, al quale è stata asportata la pelle sull’anca.
Erik risolverà il mistero di questi delitti orrendi, mantenendo una promessa che ha fatto a se stesso e alla madre di Adam, sua nipote Stefa, suicida dopo l’assassinio del figlioletto.
Ritengo che quest’opera sia unica per diversi motivi.
Per le descrizioni di una Varsavia gelida e del suo ghetto: dei traffici e delle relazioni umane e disumane che vi si instaurano (“… nel ghetto malattia e fame si portavano via un centinaio di persone al giorno ...”)
Per la rappresentazione del vuoto e del dolore che si viene a creare in seguito alla morte di un essere umano in generale, di un bambino in particolare (“Al funerale di un bambino la terra si apre sotto i nostri piedi e noi precipitiamo, senza opporre resistenza, mentre l’oscurità ci stringe fra le sue braccia accoglienti, perché è impossibile immaginare che un bambino o una bambina siano mandati sottoterra soli e nudi.”).
Per l’imbarazzante ritratto della follia e della crudeltà umana (“La crudeltà gratuita … Bisogna ammettere che non è priva di ricercatezze, e i nazisti l’avevano elevata a livello di filosofia”).
Un capolavoro che lascia sgomenti, destinato:
a chi non vuole dimenticare;
a chi ama scavare nella psicologia di situazioni estreme;
a chi ritiene che il passato possa servire a non commettere altri errori analoghi;
a chi si immedesima in un romanzo al punto da soffrire intimamente, quasi sul piano fisico, insieme ai protagonisti;
a chi possiede la consapevolezza che, purtroppo, certe orribili tragedie non sono soltanto frutto della fantasia di un romanziere. Come …

… Bruno Elpis

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Consigliato a chi desidera tener viva "la memoria"
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    31 Marzo, 2012
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"Galeotto fu il collier" di Andrea Vitali - Il com

L’ultimo, divertente romanzo di Andrea Vitali comincia lì, al Circolo della Vela, durante una festa.
E’ il 27 luglio del 1930.
Lidio Cerevelli, trentenne in piena tempesta ormonale, conosce un’avvenente e disinibita donna svizzera, Helga, e consuma seduta stante un rapporto che lo lascia pienamente soddisfatto. O meglio: estasiato. Il giovanotto s’incapriccia della straniera, ma presto deve fare i conti con la possessiva madre Lirica, imprenditrice edile, che mette in pratica il proverbio “Moglie e buoi dei paesi tuoi” e concepisce per il figlio un matrimonio esclusivamente “di convenienza”. Per la futura nuora, infatti, la madre richiede requisiti di assoluta sicurezza. E cittadinanza rigorosamente italiana. L’aspetto piacente non rappresenta invece un titolo preferenziale. Con queste premesse, Eufemia, la nipote dell’importante professor Cerretti, fulcro della società bellanese, sembra avere tutte le carte in regola per convolare a giuste nozze con Lidio: compreso il fatto di non essere bella! Ma il giovanotto, in cuor suo, cova la speranza di realizzare il suo sogno d’amore con la straniera che sa esaltare la gioia dei suoi sensi. E il sogno sembra facilmente realizzabile quando in un edificio da ristrutturare Lidio … trova un tesoro! Più di trecento monete d’oro: ducati veneziani antichi, di enorme valore.
Ne segue una girandola di situazioni esilaranti, interpretate coralmente da bellanesi dal nome improbabile, di ogni rango ed estrazione sociale. Tanto per fare un esempio:
“Leone fuori casa e con gli amici, Lupo Sandionigi diventava un ovino docile e obbediente quando tornava domestico, al cospetto e agli ordini della baffuta moglie Olonia che alle parole, essendo ignorante come una scopa, preferiva sonore mestolate.”
In un crescendo di allegria, con l’intera cittadinanza protesa in una caccia al tesoro collettiva senza esclusione di colpi, l’autore trova comunque un pertugio per infilare una delle sue riflessioni morali: e se il desiderio di un ragazzino, quello di possedere una bicicletta, valesse più dell’oro?
Senza contare poi che, come spesso accade nei romanzi di Vitali, c’è una sorpresa finale: una trovata da commedia, scandita dalla saggezza popolare in una frase: “Ignorantia legis non excusat!”. E questa volta il “deus ex machina” che Andrea Vitali cala sulla scena indossa i panni improbabili … della Befana, sorprendendo …

… Bruno Elpis

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... altri romanzi di Andrea Vitali, a chi vuole leggere per la prima volta un libro di questo autore. A chi vuole divertirsi leggendo.
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Fantascienza
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Marzo, 2012
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"La seconda mezzanotte" di Antonio Scurati - Il co

Romanzo impegnativo, “La seconda mezzanotte” di Antonio Scurati.
Un fantasy allucinato, che ha per protagonista un eroe tragico: “il Maestro. Nello specchio ci sono un quintale abbondante di ossa robuste, nervi elastici e muscoli gonfi. Un monolite di carne violenta, squadrato sulle spalle e svasato in vita.”
Siamo nel 2092 e uno tsunami ha alterato la geografia del pianeta. L’imperialismo cinese ha colonizzato il mondo, che soggiace a cambiamenti climatici e conosce mutazioni socio-politiche.
Il romanzo si svolge a “Nova Venezia”: la città già lagunare che i conquistatori cinesi hanno trasformato nella Las Vegas del Mediterraneo, una specie di baraccone a cielo aperto. In occasione del carnevale, Venezia diviene teatro di spettacoli cruenti; corride, giochi circensi e combattimenti di gladiatori si combinano a sfrenati riti collettivi di divertimento estremo: “I giochi di carnevale saranno una sorta di torneo tra le razze. Del resto … il razzismo è il presupposto implicito del nuovo disordine del mondo.”
Un Carnevale nel quale si riversano “trecentomila esseri umani, venuti da tutto il mondo per scatenare ogni voglia e soddisfare ogni passione.”
In questo contesto, si muovono i personaggi caricaturali di una saga fantasy a tinte fosche.
Innanzitutto i gladiatori: come Aiace lo sciancato o Glauco. “… Guerrieri attendono nudi la chiamata spalmandosi il corpo di unguenti oleosi … odore di resina, sudore, oli vegetali.” E combattono ben sapendo che “al pubblico piace vedere in faccia il guerriero morente” e che “questa trovata del torneo tra le razze sta suscitando un enorme entusiasmo”.
O il ribelle Spartaco, fuggito e per questo ricercato dalle autorità cinesi. Da catturare a tutti costi per la spettacolarizzazione del torneo: “Questo giovane uomo è perfetto per l’apoteosi del mio torneo tra le razze. E’ solo grazie a esemplari meravigliosi e terribili come lui che il razzismo funziona.”
Il più inquietante di tutti è forse Xiao, il procuratore cinese: “un corpo e un volto radicalmente e costantemente rimodellati dalla chirurgia, dai chip sottopelle, dalle tossine botuliniche. Le labbra e gli zigomi tesi dai siliconi … Il destino dell’uomo in viaggio fuori dalla galassia della fisionomia umana … un uccello nidiaceo …”
Danno la caccia a Spartaco gli “Zero”, i mercenari che difendono il potere cinese, rappresentato dal governatore: “Per il suo insediamento, Li Ziyang allestirà dei giochi gladiatori senza precedenti quanto a munificenza, sfarzo, clamore.”
Lo stile di Scurati è ricco dal punto di vista terminologico e immaginifico quanto a efficacia descrittiva. Le scene sono sempre millenaristiche e rappresentano l’esasperazione di una fantasia protesa a trarre le conseguenze iperboliche delle premesse che l’uomo, con la sua scelleratezza, ha posto nel corso della storia.
Il paradosso è sempre un ottimo sistema per rappresentare le verità. In fondo è lo stesso metodo che in geometria viene utilizzato nelle dimostrazioni per assurdo. Ma qui, purtroppo, non c’è in palio una soluzione matematica. Qui si tratta del destino dell’umanità. Sul quale aleggia una certezza: se l’uomo non correrà ai ripari, quello dipinto da Scurati sarà il futuro che inevitabilmente ci attende. Questo, per lo meno, è il fondato timore di …

… Bruno Elpis

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... 1984 e a chi ama il fantasy in ogni sua variante
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    22 Marzo, 2012
Top 10 opinionisti  -  

"Carmilla" di Joseph Sheridan Le Fanu - Il comment

Leggendo Carmilla e i racconti di Joseph Sheridan Le Fanu ho provato la stessa sensazione che assaporo quando leggo Poe. Perché ho la netta impressione di trovarmi di fronte all’inventore di un genere destinato a grandi fasti.
Carmilla, la fanciulla vampiro, è datato 1872; il “Dracula” di Bram Stoker è del 1897: quindi Le Fanu ha anticipato di cinque lustri colui che viene comunemente considerato il capostipite dell’horror che nei vampiri individua gli indiscussi protagonisti di un ricco filone letterario.
In “Carmilla” gli elementi e i “topos” della letteratura successiva ci sono già tutti.
Sto pensando all’atmosfera misteriosa e decadente, ravvisata anche nel paesaggio e nella natura:
“La luna, quando splende così intensamente, ha una straordinaria influenza sullo spirito.”
O alla dimensione di un eros nel quale si scontrano romanticismo e ferocia:
“Ci siamo incontrate nel sogno, tanti anni fa, e ora ci ritroviamo, l’una di fronte all’altra, con il ricordo indelebile di ciò che accadde”.
Sto pensando alla rappresentazione della natura della creatura maledetta, che si dibatte in una condizione di morte strutturale:
“… malgrado quella spossatezza che caratterizzava i suoi movimenti …”
imprigionata nel freddo interiore prima che in quello corporeo:
“Alle mie pressanti richieste lei sorrideva debolmente, con una sorta di gelida malinconia che non appartiene alle ragazze della nostra età.”
Sto pensando al determinismo di una legge alla quale non ci si può contrapporre:
“Vi sono delle leggi che non possono essere violate, e io ne sono schiava.”
E al rituale per la soppressione dell’essere maledetto, tanto caro alle rappresentazioni successive:
“Era infestato dai vampiri … Molti furono inseguiti fino alle loro tombe, e distrutti nel solito modo, vale a dire impalandoli, tagliando loro la testa e bruciandone i resti sul rogo.”
Carmilla è un racconto che, pur trattando di morte e di maledizione, conserva un’armonia composta, una soavità calibrata di stampo neoclassico. Così lontana da tutte le derivazioni truculente di sottogeneri che fanno del sangue e della morte un vessillo per catturare audience. Carmilla é una storia da leggere, per recuperare nuovamente il gusto per l’allusione o per il sottinteso, caratteristica che rende uno scritto un’opera d’arte e non uno slogan da gridare ai quattro venti. Una storia che, per tutti questi motivi, ha stregato …

… Bruno Elpis

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Consigliato a chi ama la letteratura horror e, al tempo stesso, i classici
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Marzo, 2012
Top 10 opinionisti  -  

Lo scurnuso di Benedetta Cibrario - Il commento di

Da Benedetta Cibrario, autrice di “Rossovermiglio” (premio Campiello 2008) e di “Sotto cieli noncuranti” (premio Rapallo Carige 2010), una bella fiaba neo-realista per riflettere sul valore dell’arte.
La parte prima è ambientata a Napoli intorno al 1792.
La parte seconda si sviluppa tra Napoli, Montecalvario e Chiaia nel periodo 1939-1943, in anni funestati dalla seconda guerra mondiale.
La parte terza si svolge ai giorni nostri: nella penisola sorrentina, estate del 2009.
L’autrice narra la storia di alcuni prodotti d’arte, creati dalle sapienti mani di un figuraro napoletano di grande talento. Queste creazioni sono il risultato di un’abilità che è sintesi di artigianato, inventiva e originalità sensitiva. Di questi manufatti sono romanzate sia l’origine, sia le successive vicende.
Lo scurnuso, in particolare, è la statuetta del presepe che raffigura uno storpio, vergognoso di come la malattia l'ha ridotto: ed è l’omaggio d’amore che il figlio adottivo rivolge al padre putativo, immortalando la sua condizione di disagio fisico in una rappresentazione espressiva di straordinaria efficacia plastica.
“Tommaso Iannacone, il miglior figuraro del vicolo, l’ultimo di una dinastia” “a differenza del padre, scultore e architetto scenografo, aveva solo doti di modellatore”. Il presepe “lui si limitava a modellarlo nella creta perché – a differenza di suo padre – sapeva copiare, non inventare.”
Non così il figlioccio Sebastiano, soprannominato Purtuale, che sin dai primi approcci al mestiere dimostra un originale spirito creativo.
“Purtuale era entrato nella vita di Tommaso Iannacone … una mattina di fine giugno del 1972.”
Tommaso ha già perso l’amata figlioletta per una malattia; a seguito di questa prematura scomparsa, la moglie è impazzita e fuggita. Sebastiano, orfano, rappresenta il risarcimento per un lavoro non pagato e giunge nella vita del figuraro quando questi è già afflitto da una malattia progressiva.
Tommaso, pur necessitando di assistenza, rinuncia alla compagnia del figlio per il suo bene, avendone intravisto l’inclinazione artistica, e lo accompagna a Capodimonte nel laboratorio di Gaspare Riccio, perché lì eserciti e affini la propria arte:
“In città si era sparsa la voce che nella bottega dei Riccio lavorava un figuraro di grande talento – un tipo strano …”
Nella seconda parte, le creazioni di Sebastiano vanno ad arricchire la collezione di un mecenate: “Da mezzo secolo il duca di Albaneta si faceva vanto di allestire il presepe più bello di Napoli.” E, nella collezione, c’è sempre quel pezzo, il migliore: “Io lo chiamo lo Scornuso. Vedete come vi guarda? Quello si vergogna di com’è diventato.”
Le opere passano di mano per un duplice atto d’amore del duca: assicurarle alla custodia del cardinale Belmonte – mentre è tempo di bombardamenti e di persecuzioni razziali – e finanziare la fuga negli Stati Uniti del figlio, con moglie ebrea e due pargoli.
Dopo un altro salto in avanti nel tempo, giungiamo ai giorni nostri. E’ l’estate del 2009 e lo Scurnuso finisce come dono d’amore di un padre a sua figlia ...
Il romanzo è dedicato ai nonni dell’autrice e “nasce dal ricordo che conservo di loro, dalla curiosità e dal rispetto che entrambi provavano per ogni forma d’arte, anche la più oscura, dalla loro felicità di essere nati napoletani.” Quindi è la pregevole attuazione di un’indicazione educativa sul valore universale dell’arte.
Quanto all’amore per Napoli, l’autrice fiorentina lo rappresenta con alcune pennellate: “Da lassù Napoli era luce tranquilla e scintillìo, era silenzio, seta di San Leucio, porcellana finissima, bagliori dorati, una città che fingeva di essere la promessa realizzata da una divinità arcaica …”
Un libro che non può mancare a chi ama l’arte, in ogni sua forma. Così è stato per i nonni dell’autrice, come per …

… Bruno Elpis

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Rossovermiglio, per apprezzare ulteriormente l'autrice. I romanzi di De Giovanni, per approfondire la conoscenza di Napoli attraverso la letteratura italiana dei nostri giorni.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Marzo, 2012
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Baci a colazione di Gaetano Cappelli - Il commento

Romanzo scanzonato e irridente è “Baci a colazione” di Gaetano Cappelli, già premio Hemingway nel 2008 con “La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo.”
Serena Drago è una “scrittrice di grandi best seller d’impostazione spirituale new age”. Tuttavia, la sua vena creativa sembra essersi inaridita dopo che il suo ultimo amore, il navigatore solitario Ciro Tempesta, è scomparso in mare. Di questo calo di creatività si affligge l’editore, Fedele Solmi, deciso a tutto pur di rivitalizzare nella Drago la creatività di un tempo.
L’editore pensa dunque a uno stratagemma: incaricare il più che mediocre scrittore Stefano Refoschi, confidando nelle sue doti virili di conquistatore (“maschio, se non proprio Alfa Dominante, comunque scafato”). Di lui un tempo Stefania era innamorata. Stefano, pertanto, dovrà cercare di riaccendere il sentimento nella delusa scrittrice e, in caso di successo, otterrà la pubblicazione del suo ultimo obbrobrio letterario.
Ecco dunque Stefano partire alla volta del resort new age ove alberga la scrittrice in crisi artistica: in quel di Saturnia, la Quercia del Terzo Salmo – così si chiama il centro benessere insediatosi in una zona termale – è un covo di personaggi in cerca di spiritualità ed é gestito dall’ambigua e teutonica Margaux Tielmann, incrocio (psicologico oltre che anagrafico) tra un gerarca nazista e una prostituta. La virago è peraltro dedita, in ruolo predominante, a un amore saffico con la recessiva Ondina Santilli, suonatrice d’arpa e aspirante scrittrice con la sua opera d’esordio: i “Baci a colazione” del titolo!
Il centro benessere diviene un punto di convergenza di personaggi caricaturali che lì si recano, ciascuno con un proprio interesse: Nicole Violante Telodon, “una mummia incartapecorita”, accompagnata da un aspirante editore, il ruspante Eddo Pirrone; l’assistente di Solmi, Vito Capaldi, assediato dalla moglie ninfomane del suo datore di lavoro …
In tale accumulazione di personaggi, fioriscono le situazioni sulle quali si abbatte l’ironia paradossale di Cappelli. Il romanzo diviene dunque un’occasione di satira di costume, nella quale c’è posto per sorridere di molte situazioni della nostra decadente società, oltre che del mondo editoriale: il ricorso al Viagra per pratiche sessuali non ispirate ma da finalizzare, le surreali mostre d’arte contemporanea e i personaggi che le affollano, la cucina artificiale e sofisticata di certi ristoranti (ove, per dire, trionfano “la preparazione concettuale chiamata Bassa Marea” e “il gelato neorealista al tabacco”), l’ambizione di molte donne a contenere gli effetti distruttivi del tempo (“quelle grottesche bambole gonfiabili che affollano i salotti della capitale e non solo”), il clima spiritual-chic dei centri benessere, la mania dilagante di trascorrere le vacanze in viaggi defatiganti e falsamente avventurosi.
In mezzo a questa pantomima, trova spazio un messaggio. C’è un segreto per la creatività? Sì, forse c’é. Io l’ho trovato condensato in una frase: “La vita … si è messa sulle tracce del romanzo”. E’ come ribadire una priorità: quella della vita sulla letteratura. Non vale il viceversa. Questo, per lo meno, è quel che pensa …

… Bruno Elpis

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Consigliato a chi ama divertirsi leggendo e apprezza la scrittura "di costume"
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    22 Febbraio, 2012
Top 10 opinionisti  -  

"Zia Antonia sapeva di menta" - Il commento di Bru

“Da che se la ricordava, la zia aveva sempre avuto intorno a sé quell’orbitale profumato, frutto di chili e chili di caramelle e mentini succhiati nell’arco di una vita intera”.
Se, dunque, nella camera d’ospizio di zia Antonia, la madre superiora, suor Speranza, e il mite nipote Ernesto avvertono uno sgradevole odore d’aglio, qualcosa di strano deve essere successo!
Tanto più che la dolce ottuagenaria, l’Antonia del titolo, si trincera dietro a una caparbia volontà di rifiutare il cibo.
Nella costante alternanza tra l’aromatico profumo della menta e il nauseante odore dell’aglio, indagano sullo strano caso, con il principale intento di sottrarre l’anziana zia a una morte per inedia, suor Speranza, il fedele nipote Ernesto Cervicati, che per la zia ha sempre avuto grandi attenzioni e profondo rispetto, e il medico – immancabile nei romanzi di Votali - il dottor Aloisio Fastelli.
La pista dell’odore d’aglio conduce a due personaggi a dir poco sospetti: il fratello Antonio Cervicati, bidello dall’intensa attività sessuale da qualche giorno scemata per imprecisati motivi, e il direttore dell’agenzia locale della Banca di Credito Orobica, il Sansicario.
La storia corre rapida tra scenette buffe ritratte dalla consueta ironia di Vitali, che si diffonde benefica sull’intreccio grottesco e talvolta paradossale.
Alcuni passaggi sono davvero spassosi. Come le congetture della moglie di Antonio, l’Augusta, insospettita dall’inerzia amatoria del suo coniuge. O gli equivoci che nascono dai rintocchi funebri del campanile. O le condotte ispirate dalle cupidigia di Antonio, che vorrebbe mettere le mani sul presunto patrimonio liquido dell’anziana.
Le caratterizzazioni di Vitali utilizzano un originale espediente: l’atlante animale” di suor Speranza ossia l’abitudine della religiosa di paragonare le persone a un animale.
Un romanzo tutto da gustare: per l’ironia che l’autore diffonde, per le situazioni da commedia ai limiti della farsa, per il linguaggio narrativo articolato in frasi brevi e veloci, infarcite di qualche termine desueto o ripescato dal dialetto, per i dialoghi divertenti e incalzanti. E per le riflessioni inevitabili sulla senilità, quelle che il romanzo ha instillato in …
… Bruno Elpis

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... gli altri romanzi di Vitali. E a chi si accinge a leggerlo per la prima volta: un ottimo modo per accostarsi all'autore.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    16 Febbraio, 2012
Top 10 opinionisti  -  

Un mare di guai di Carol Higgins Clark - Il commen

Tutti, in fondo, sognano di possedere una casa sulle rive del mare. Un luogo ove, guardando dalle finestre, puoi fronteggiare l’azzurro più sfacciato della natura. Magari un azzurro scompigliato da tempeste e burrasche. Possibilmente con una scala che consenta l’accesso diretto … sull’oceano. Con una barca ormeggiata, pronta ad accogliere chi desideri avventurarsi in un’escursione marina.
Di una villa siffatta dispongono Regan e Jack Reilly. Ed è dunque naturale che decidano di trascorrere lì il loro primo anniversario di nozze, per gustare il sapore della loro intimità senza troppe intrusioni.
In una casa con caratteristiche analoghe, posizionata vicino a quella dei Reilly, decide di insediarsi in affitto Adele Hopkins, donna che tiene tenacemente nascosto ai vicini il proprio passato, al punto da apparire scorbutica e asociale.
Le ville sorgono a Cape Cod, penisola atlantica a sud di Boston, su una costa battuta – come nei due giorni descritti dal romanzo – da venti, nubifragi e tempeste.
E se è vero che, come recita un proverbio tedesco, “la fortuna ci dà una bella giornata d'estate, ma ci dà anche le zanzare”, ecco che allora la fortunata condizione dei coniugi Reilly e della misteriosa Adele Hopkins si trasforma ben presto in “Un mare di guai”. I guai del titolo sono: per i due sposini una serie di contrattempi e di invasioni nella loro sfera privata; per Adele, ex istruttrice di canottaggio, una disavventura che rischia di trasformarsi in tragedia.
Mentre le “carampane” (così si chiamerebbero da noi le anziane zitelle) Ginny e Fran si sistemano dai Reilly in attesa che casa loro venga riparata da un danno causato dal temporale, il custode Skip afferma di aver visto la vicina Adele ferita sulla spiaggia. Forse addirittura morta. Ma il suo corpo non viene ritrovato, perché l’oceano sembra averlo divorato.
Regan e Jack, rispondendo alla loro vocazione interiore, indagano sul passato della donna:
“E’ una figura così tragica. Tutti quei biglietti di scuse”.
Sembra proprio che, nel suo passato, Adele abbia fatto del male al prossimo: “Guarda le sue cose. Libri di auto aiuto per essere meno sgarbata e irritabile, biglietti di scuse. Quella era una donna afflitta da un forte senso di colpa.”
Ci sono allora buoni motivi per temere che la donna sia stata aggredita.
Ma la realtà non è mai come sembra. E Adele, lungi dall’essere affogata, vive il suo incubo prigioniera di uno psicopatico.
In un romanzo che ha tutti gli ingredienti della commedia americana, le donne invidiano Regan (ha acchiappato un ottimo marito!), le coppie sono imbevute di puritanesimo (“Pensa se si scopre che era una pazza furiosa e che abbiamo messo in pericolo i nostri vicini? Che impressione farà sulla gente?”) e di perbenismo quacchero (nel concepire “una donazione all’organizzazione benefica preferita dalla signora Hopkins, in suo ricordo”, per fare buona pubblicità alla propria azienda). Sino alla terribile festa a sorpresa nel finale.
La narrazione é un po’ frammentaria, forse per via della traduzione. O per il pragmatismo americano, così lontano dalla narrativa italiana, quella che continua a prediligere …

… Bruno Elpis

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Consigliato se vi piace la commedia americana o la lettura non troppo impegnativa
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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.5
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5.0
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Febbraio, 2012
Top 10 opinionisti  -  

Blackout - Il commento di Bruno Elpis

Un “blackout” fulmina la corsa di un ascensore, che rimane bloccato tra il decimo e l’undicesimo piano di una torre nella squallida periferia di Bologna: “un mostro bianco di venti piani dalle linee curiosamente arrotondate. Che sorge di fronte a un identico mostro bianco arrotondato …”
In questa cabina, ove ben presto manca l’aria, anche per via del caldo torrido ferragostano che ha spopolato la città, sono costretti a misurarsi – gomito a gomito e loro malgrado – tre personaggi profondamente diversi.
Aldo Ferro, professione dichiarata: gestore di tre locali “à la page”; vizio privato: confeziona “snuff movie” sacrificando vittime umane con protocolli atroci e sadici. Nel condominio ha un appartamento segreto ove conserva l’archivio delle sue scelleratezze e ‘i ferri del mestiere’. Deve prelevare da questo ‘laboratorio’ di orrori alcuni strumenti che gli consentiranno di concludere un delitto in corso.
Tomas, sedicenne, sta per attuare una fuga verso le capitali europee con la sua ragazza, Francesca: entrambi vogliono fuggire dalle soffocanti famiglie, che non comprendono i loro drammi adolescenziali ed esistenziali (“Parlavano spesso dell’incubo nevrotico che era la famiglia di Francesca, delle dorate sabbie mobili che erano i genitori di Tomas”). Tomas, nell’occasione, è tornato a prelevare il bagaglio, per unirsi nella stazione di Parma alla sua complice fuggiasca.
Claudia, dietro a un aspetto apparentemente trasgressivo, ha una personalità determinata e misantropica. Sta tornando dal bar, ove lavora e che mal sopporta. Ha una relazione con un’altra ragazza, Bea, che è in trasferta in Marocco per girare un film.
Gianluca Morozzi utilizza una tecnica narrativa sperimentale, ricca di riferimenti alla musica (Ferro è un sosia di Elvis, che idolatra: “gli enormi basettoni che gli coprono mezza faccia, gli stivali di serpente, la camicia con gli intarsi country”; Tomas è un fan di Bruce Springsteen), per raccontare tre storie che si intersecano per uno scherzo del caso (“e tre persone razionali, di colpo, diventano nient’altro che vespe in un bicchiere rovesciato”), determinando un’esplosione di insofferenze e violenze in un crescendo inarrestabile.
La claustrofobia è rappresentata in modo da soffocare il lettore, rendendolo interprete di una paura tentacolare e ramificata, che si scompone nei molti elementi costitutivi: “La paura degli spazi chiusi. La paura degli sconosciuti. La paura di non respirare. E poi, in conclusione, l’ultima paura. Il buio.”
Una fobia che, nella parte finale, si trasforma in modo grottesco e viene proiettata sullo schermo mediatico delle paure e dei deliri collettivi. Demistificando e irridendo i fenomeni di massa che imbrigliano la nostra vita relegandola a una dimensione esteriore, ai limiti della rappresentazione circense. Quella alla quale ha assistito con sgomento …

… Bruno Elpis

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... altri romanzi di tensione. A chi apprezza la sperimentazione stilistica.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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2.5
Stile 
 
3.0
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2.0
Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Febbraio, 2012
Top 10 opinionisti  -  

“Il paziente” di Nicci French - Il commento di Bru

Nicci French è lo pseudonimo di una coppia di coniugi, giornalisti inglesi, Sean French e Nicci Gerrard. “Il paziente” è il loro thriller a sfondo psicologico, che ha per protagonista Frieda Klein, professione psicanalista.
Frieda esercita la sua arte, oltre che nello studio, anche nel cosiddetto “Magazzino” di Reuben, celebre analista in crisi d’identità: più che un centro di psicoterapia, un gruppo o un movimento culturale.
Proprio a causa della crisi personale in cui versa Reuben, Alan, un paziente che si rivolge a lui, viene dirottato su Frieda.
‘Il paziente’ ha una storia di sofferenza: in fasce, è stato abbandonato dalla madre in un parco e oggi soffre di disturbi della personalità che si manifestano anche somaticamente, oltre che in sogni inquietanti. Facile catalogare il caso clinico come disagio che trova origine nell’abbandono in età infantile e nel desiderio di paternità mancata.
Tuttavia l’analisi si complica perché nel corso delle sedute emerge che “Alan Dekker aveva sognato di avere un figlio, un bambino con i capelli rossi, e un bambino con i capelli rossi di nome Matthew Faraday era scomparso. Una coincidenza strana …”
Aggravata da una circostanza: quando Alan estrae una foto che lo ritrae da piccolo come sosia del bambino scomparso, afferma: “Ecco. E’ così che immagino mio figlio.”
La scomparsa del piccolo Matthew assomiglia a un altro caso analogo, quello di Joanna: “Matthew Faraday e Joanna Vine erano separati da ventidue anni e uniti dal fatto che avevano la stessa età quando erano scomparsi senza lasciare traccia, in pieno giorno, vicino a un negozio di caramelle.”
Le coincidenze sono davvero strabilianti. L’analista decide di rivolgersi alla polizia, che in un primo tempo recalcitra, ma poi si convince: Frieda sta proponendo una pista che non è proprio il caso di sottovalutare! L’ispettore Karlsson constata: “Ventidue anni fa questo signore sognava una bambina. Poi ha smesso e adesso sogna invece di prendere un maschietto.”
Attraverso le sedute di analisi, l’istinto e la capacità di approfondire della psicoterapista individuano la chiave di volta della vicenda: Alan ha un gemello, Dean. E da lì …
Se questo è, in estrema sintesi, l’intreccio, svolgo adesso alcune considerazioni personali sul romanzo.
Il romanzo scava nelle profonde connessioni genetiche e psicologiche tra i gemelli omozigoti, secondo una struttura cara alla letteratura della tensione.
Il tema del ‘doppio’ rimanda al concetto di “perturbante” sviluppato da Freud. “Perturbante” – come ho già avuto modo di dire commentando “La caduta della casa Usher” di Poe - è “utilizzato da Sigmund Freud come termine concettuale per esprimere in ambito estetico una particolare attitudine del sentimento più generico della paura, che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo cagionando generica angoscia unita a una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità”.
Solitamente suscita terrore e spavento ciò che non è familiare o conosciuto. Tuttavia non tutto ciò che è insolito o nuovo provoca spavento e terrore e, tanto meno, perturbamento. Secondo Freud un oggetto perturbante deve possedere una caratteristica infrequente, perché spesso le cose spaventose o terrifiche non sono anche perturbanti: in particolare, il perturbante deve evocare il nascosto, il rimosso, che riaffiora attraverso l'oggetto o la situazione perturbante, generando una sensazione di angoscia estrema, ossia il perturbamento.
Le condizioni ricorrenti che generano il perturbante e che pertanto vengono ricercate in romanzi o film di suspense sono tipicamente: la rappresentazione del doppio nei gemelli o nei sosia (perché evoca il narcisismo primario); i movimenti e i processi automatici, ripetitivi o meccanici, i meccanismi semoventi, la superstizioni e la magia, (che evocano idee presenti in età infantile); il ritorno dei morti e la sepoltura dei vivi (che fanno riaffiorare il desiderio di tornare nel grembo materno).
I temi affrontati dal romanzo, dunque, muovono le corde del nostro inconscio e sono di sicuro interesse per chi ama il thriller psicologico. L’esposizione, a parer mio, è un po’ troppo lenta e ridonda di particolari a volte poco pertinenti, che imbrigliano la velocità narrativa.
Nell’ultima parte le rivelazioni, alcune un po’ scontate, altre davvero inaspettate, si susseguono senza esclusione di colpi, che in un paio do occasioni hanno piacevolmente sorpreso …

… Bruno Elpis

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Consigliato a chi ha letto ... "La psichiatra"! O "L'ipnotista". A chi ama il thriller psicologico, come il mio "Il carnevale dei delitti", il cui e-book potrà essere prelevato GRATUITAMENTE su www.amazon.it nella settimana dal 13/2 al 18/2.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.5
Stile 
 
4.0
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5.0
Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Febbraio, 2012
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"Chi non muore" di Gianluca Morozzi - Il commento

Mi sono divertito, leggendo “Chi non muore” di Gianluca Morozzi.
Accostandomi al libro, mi è stato naturale recitare il proverbio mozzato del titolo nella sua forma completa. Il mistero del “si rivede”, implicito nel titolo troncato, viene svelato nell’ultima sezione del romanzo, “La soffitta”, da leggere al ritmo della tensione dopo due parti, “Angie” e “La tana del topo”, nelle quali imperversano leggerezza e amore per il paradosso.
L’autore, quarantenne portare del cromosoma y, con metamorfosi letteraria degna di un metaforico transgender e con l’abilità di chi sa uscire dal proprio ego per raccontare storie, si immedesima nell’io narrante, una ragazza abruzzese che alloggia nella città ove compie gli studi: la Bologna universitaria e culturalmente stimolante.
Angela, nel suo privato ‘pensionato’, convive in modo forzato con altre quattro ragazze, designate unicamente con soprannomi: Papagirl, Candeggina, Acido/Acida, La Cosa. E, nel tempo libero (anche se in realtà non la vediamo mai studiare!), coltiva il suo interesse per la musica: questo la induce a frequentare, oltre che i componenti di una band nella quale canta con lo pseudonimo di Angie, un ambiente – una sottospecie di centro sociale a pagamento - ove provano e si esibiscono altri potenziali artisti. Proprio in questo luogo l’estroversa e intraprendente Angela conosce Mizar, giovane “bello e impossibile” dall’animo martoriato. E, quando si imbatte in lui, udite udite, è … colpo di fulmine! Angela, con la pertinacia e la caparbietà che le derivano sia dal temperamento sia dalla forza del sentimento fulminante, si fa spalleggiare dall’amico Lucio e, spronata dall’ambigua sorella di Mizar, che di nome fa Valentina, persegue caparbia l’obiettivo di scoprire tutti i segreti che tormentano la vita dell’amato. Nonostante questi le abbia apertamente proclamato: “Io non sono normale, Angela. Io non ho una vita normale. Non posso avere una vita normale. Non l’ho mai avuta davvero …”
Accanto al piacere di una lettura veloce e intrigante, segnalo quelli che a parer mio sono i motivi che caratterizzano il romanzo.
Innanzitutto lo stile di Gianluca. Abbondante nell’uso di costruzioni iperboliche e paradossali, sarcastico, nonostante (o forse ‘grazie a’) il frequente ricorso a ‘espressioni’ che abbondano nel linguaggio parlato studentesco e … non soltanto. Con l’amplificatore applicato all’espressione, l’aristovacca é “la nobildonna annoiata che ama accoppiarsi con le maestranze nel fienile” e “fuma come se stesse praticando sesso orale al virile mezzadro”. E la vergogna viene resa in questo modo: “Si sta vergognando come se sua madre lo avesse scoperto nudo sul letto sotto un poster gigante di Freddie Mercury.”
Quanto alla vicenda, la storia è quella di un’ordinaria follia fatta di “sesso, droga e rock and roll”. Una formula forse sfruttata e saccheggiata, ma che a parer mio può ancora reggere se sostenuta dall’ironia narrativa.
Il sesso, fortunatamente più per allusioni e in modo implicito, viene sventagliato in ogni forma: autoerotismo praticato anche con moderne connessioni e tecnologie, esperienza saffica, sesso selvaggiamente etero, amore teneramente esercitato con abbracci e romantiche scritte a fior di pelle.
La droga è quella consumata in ogni dove: in sala prove dagli aspiranti artisti, alla festa di compleanno di Lucio, nelle esperienze devastanti rivelate nella ‘soffitta’.
Mentre il rock & roll è quello di Angie (sì, Angie, proprio come la canzone dei Rolling Stones!) & c. O quello degli “Inarcadia Ego”, ex compagni del ‘musicista maledetto’, sterminati in modo misterioso in tre punti diversi di Bologna, mentre Mizar “stava suonando quattrocento chilometri più a sud.” Il “rock & roll” della fatidica triade, infine, è la ricerca ossessiva della ‘melodia perfetta’.
Dunque, possiamo completare la premessa “Chi non muore” – come non sono morti i superstiti de “La zattera della medusa” di Géricault, la riproduzione del dipinto posizionata in prossimità della scala che conduce alla soffitta – con la sua naturale conseguenza: chi non muore, dicevamo, è destinato a rivedersi.
Così ha concluso proverbio e lettura anche …

… Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    31 Gennaio, 2012
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"Per mano mia" di Maurizio De Giovanni - Commento

“Per mano mia” è l’espressione che riecheggia nelle pagine del romanzo di Maurizio De Giovanni, ambientato in epoca fascista, in bocca a diversi personaggi.
Questa frase, la pronuncia il pescatore Boccia Aristide, vittima dei soprusi dell’assassinato. E la recita Lomunno, graduato della milizia portuale, ingiustamente destituito. La ripete il brigadiere Raffaele Maione, collaboratore del commissario Ricciardi e padre di un ragazzo ucciso da un delinquente, contro il quale il brigadiere cova un sentimento di vendetta, nutrendo un insano desiderio di giustizia sommaria.
Ma procediamo con ordine.
Nella settimana che precede il Natale, nel loro bell’appartamento a Mergellina, vengono ritrovati – orribilmente assassinati - un funzionario della milizia portuaria, Emanuele Garofalo, ucciso con efferatezza da decine di coltellate, e sua moglie Costanza, sgozzata. I due coniugi lasciano una bambina, che viene temporaneamente affidata alla zia: Suor Veronica delle Riparatrici del Dolore della Beata Vergine.
L’omicidio sembra compiuto da due persone: l’esame autoptico delle vittime suggerisce che le ferite siano state inferte da un individuo più forte e da un secondo colpevole più debole, verosimilmente un uomo e una donna, una persona mancina e una destra.
Il delitto inizialmente ha tutta l’aria di essere “un atto contro la divisa, questa divisa, e contro lo stesso regime che essa rappresenta.”
Nel corso delle indagini emerge l’ambiguità della figura di Garofalo: “si occupava del controllo della pesca al minuto sul litorale cittadino, un’area che va dal porto all’isola di Nisida” ed era “un carrierista senza scrupoli che non aveva esitato a rovinare la vita di un superiore per prenderne il posto … in un’epoca di delazioni premiate …” Si fa dunque largo l’ipotesi del delitto consumato per vendetta da una delle vittime degli abusi e delle prepotenze del milite.
Il commissario Ricciardi, per risolvere il caso, si concentra sulla simbologia insita nella scena del delitto: da un lato l’omicidio evoca la morte di San Sebastiano, santo patrono della milizia volontaria nazionale. San Sebastiano era “il capo delle guardie di Diocleziano, un imperatore romano terribile persecutore dei cristiani. Si convertì, e quando l’imperatore lo scoprì, lo fece legare a un palo e trafiggere da un plotone di arcieri.” Su un altro versante, l’attenzione delle indagini si concentra sul particolare della statua del presepe ritrovata in frantumi in prossimità dei cadaveri: quel San Giuseppe che sembra rimandare a “tutto l’amore e tutta la sofferenza che si porta un padre addosso.”
Se questo è l’appassionante intreccio della vicenda, veniamo agli aspetti narrativi che hanno catturato il mio interesse.
In primo luogo le descrizioni del Natale, che pervadono l’intera storia. Napoli viene affrescata come un presepe reale e costituisce la dimensione vitale delle rappresentazioni che, nella città partenopea forse meglio che in ogni altra città italiana, sono parte integrante di una tradizione radicata. La scena è ricca di personaggi del popolo, innanzitutto i pescatori. O gli zampognari: “cappelli a punta, giacche di pecora, stivali con legacci incrociati lungo le gambe. Il ragazzo teneva in braccio la zampogna, un sacco di pelle dal quale spuntavano tre canne di diversa lunghezza, mentre l’uomo aveva riposto a terra la sua ciaramella, una specie di doppia tromba.” Oltre a tutti gli altri protagonisti che si affollano nell’atmosfera magica della festa: “mendicanti, riffaiuoli, rigattieri, acquaioli, lustrascarpe …”
“Così … era tutta la città … migliaia di piccole finestre illuminate, apparentemente uguali tra loro e invece ognuna con una sua storia, una sua famiglia, un suo dramma.”
Su questo sfondo si staglia la figura del commissario Ricciardi, della squadra mobile della questura di Napoli, “ingovernabile, indipendente, indisciplinato”, “non … interessato alla carriera”, “dagli occhi verdi, così disperati”. Il commissario “che porta male”. Perché possiede il dono soprannaturale della premonizione: “Il fatto, come Ricciardi chiamava la sua condanna a percepire l’ultimo dolore, non aiutava quasi mai a scoprire come era avvenuta la morte.” In questo caso, la premonizione si manifesta in due frasi: “Cappello e guanti?” ripete il fantasma di Costanza nella mente del fascinoso inquirente. “Io non devo niente, proprio niente”, ribadisce lo spettro di Emanuele Garofalo alla sensibilità visionaria del tormentato commissario. “Io vedo i morti. A ogni angolo di strada, a ogni finestra, io vedo i morti …” Davvero una condanna, ma – al tempo stesso – una caratteristica che eleva Ricciardi al di sopra del sentire comune.
E morti e presepi, sullo spettacolo di una Napoli viva e umana, è sembrato di vederli anche a …

… Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    25 Gennaio, 2012
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"Ricucire la vita" di Ugo Riccarelli - Il commento

Ugo Riccarelli, autore che ha vinto il premio Strega nel 2004 con “Il dolore perfetto”, dimostra con un romanzo-saggio di grande interesse umano come sia possibile “Ricucire la vita”.
Il testo è dedicato all’ISMETT di Palermo, centro specializzato in trapiantologia (e non soltanto), che costituisce un centro di eccellenza chirurgica e scientifica nel difficile tessuto socio-economico della nostra splendida Sicilia.
L’autore si era già occupato della sua personale esperienza, di doppio trapianto di cuore e polmoni, nell’opera “Le scarpe appese al cuore” e, quasi suo malgrado, decide di riprendere il tema del dramma umano, esistenziale e sanitario che i trapiantati devono vivere: “La strada che mi ha portato alla malattia e poi alla guarigione, e infine alla lotta per mantenere la salute così faticosamente raggiunta, è una strada complessa, a suo modo esaltante e terribile insieme, una cosa con la quale convivo tuttora e che, forse proprio per questa sua attualità, mi ha sempre tenuto un po’ distante dagli inviti a darne pubblicità, a raccontarne le tappe …. come spesso capita ai reduci …”
Il centro ISMETT nasce da una partnership internazionale con l’UPMC, centro all’avanguardia di Pittsburgh, Pennsylvania: operativa dal 1999, la struttura sanitaria ha sempre incrementato e migliorato la propria attività. Costituendo, in Sicilia, un punto di riferimento per italiani che, già condannati al calvario da gravi malattie, non sono più costretti a espatriare per ricevere cure e interventi chirurgici. Il centro rappresenta inoltre per l’economia locale un importante polo di occupazione e per la ricerca scientifica un punto di accumulazione di studi e di esperienze.
E pensare che, l’arte medica del trapianto è nata da un’intuizione straordinariamente elementare del giovane medico Alexis Carrel: impressionato da un attentato illustre (quello al presidente francese Carnot, che fu accoltellato al fegato), constatò che la morte del politico avrebbe potuto essere evitata con una buona sutura vascolare e quindi si recò … da mademoiselle Leroudier, una brava ricamatrice di Lione e da lei apprese “i segreti dei punti dati con l’ago sui tessuti”.
Dall’anedottistica raccontata con tutti i crismi della buona letteratura, la storia del centro siciliano – è facile intuirlo – passa attraverso la narrazione di vicende umane ed emozioni, nelle quali il tempo (tempo trascorso con speranze e delusioni nelle lunghe liste d’attesa, tempo come evento cruciale dal momento dell’espianto dell’organo da trapiantare, tempo per verificare l’efficacia delle ciclosporine nella fase di rigetto …) è una variabile determinante.
Argomenti difficili da trattare senza scadere nella retorica, se non per chi, come l’autore, ha sperimentato sulla propria pelle al tempo stesso la complessità dei sentimenti e la semplicità di una verità: “racconti che ci ricordano come sia prezioso il vizio di vivere, di avere la possibilità di compiere quelle cose banali che finalmente, attraverso la malattia e la guarigione, abbiamo adesso re-imparato ad apprezzare, quasi in una sorta di nuova e infantile verginità.”
Per scongiurare il rischio del pietismo, la sapiente penna di Riccarelli si avvale di molte metafore. Ad esempio, quella del ‘meccanico’ che ‘cambia il pezzo’: “La prima, semplicistica immagine che mi balza agli occhi è quella di tipo funzionale, un po’ da officina per intendersi.” Salvo ovviamente constatare che “un cuore, un fegato, un rene, ovviamente, non hanno la stessa natura di uno spinterogeno, di una biella o di una candela”. O la metafora agricola: “Per fare spazio al cuore nuovo, si deve preparare medicalmente la sede” come il contadino prepara il terreno che deve accogliere una semina o una pianta nuova.
Accanto alla pagine più tecniche – quelle che illustrano l’attività e l’evoluzione della stessa nel centro medico – vi sono i drammatici passaggi che affrontano il terribile e sconvolgente paradosso che è alla base del trapianto: “C’è la mia vita e la mia morte, certamente; ma c’è anche la morte di un altro, nel mio caso un ragazzo inglese di sedici anni, la fine della cui vita, della sua vita, ha dato inizio ad altre storie e ad altre vite”. O, come rilevano gli psicanalisti: “C’è la sottile problematica della sopravvivenza legata alla morte di qualcun altro …” Circostanza questa che in fondo pone, come rileva l’autore, il medesimo interrogativo che Primo Levi (“I sommersi e i salvati”) attribuisce al sopravvissuto dal campo di concentramento “Perché io?”
Anche se l’esperienza di Riccarelli è del tutto particolare, in quanto i suoi organi espiantati sono stati a loro volta trapiantati: “Questa doppia condizione di donatore e ricevente mi aiuta a convincermi di quanto ogni persona dovrebbe rendersi conto del posto che occupa rispetto agli altri.”
Dunque una bella storia: di speranza, di successi e di vibrante umanità, che può aiutarci nell’attuale contesto di sfiducia, difficoltà e dilagante pessimismo, quello nel quale oggi, nostro malgrado, viviamo tutti noi, compreso …

… Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Gennaio, 2012
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"Tre atti e due tempi" di Faletti - Il commento di

Da Faletti, questa volta, non un thriller, ma una storia che in ogni caso mantiene una certa tensione narrativa. Almeno nello svolgimento veloce dei fatti, che evolvono – appunto – in tre atti e in due tempi, quelli di una partita di calcio.
La storia scorre nel mondo – osannato dai tifosi e vituperato dalle vicende giudiziarie – del calcio. E, più precisamente, in zona ‘calcio scommesse’, tanto per rimanere nell’attualità di vicende che, anche in questi giorni, occupano le pagine dei giornali. Un mondo nel quale “non so se lo scudetto è andato al più forte, di certo è andato a chi ha vinto. Non sempre le due cose coincidono”.
Silvano, detto Silver, conduce la sua vita alla ricerca di riscatto, per un errore che in gioventù l’ha portato a scontare una pena detentiva. Il soprannome, Silver, gli deriva dal passato: “… quando ti presenti al bar dopo un combattimento con un occhio così nero da sembrare coperto dalla pezzuola di un pirata e uno ti dice che assomigli a Long John Silver, quello dell’isola del tesoro.”
Il riscatto di Silver passa anche attraverso la sua attività di tuttofare presso una squadra calcistica di provincia che milita nella divisione cadetta. Ove gioca, con un ruolo fondamentale, suo figlio detto “il Grinta”: “simbolo della squadra, personaggio di riferimento in campo …”, che tuttavia, sul più bello, decide di gettare tutto alle ortiche e di “vendere la partita”, l’ultima, quella decisiva per la promozione in serie A (“Oggi si fa la serie A o si muore”).
Più che per la descrizione del rocambolesco tentativo che Silver attua per sventare la truffa di figlio & c., l’interesse di questo romanzo, a parer mio, risiede in alcune riflessioni. Quelle che descrivono il rapporto padre–figlio (“Abitavamo nella stessa casa, parlavamo, facevamo le cose che un genitore e un figlio fanno di solito. Ma ci siamo sempre trovati di fronte sfocati, come avvolti in fogli di cellophane …”) e la determinazione del padre nell’evitare che il figlio commetta il suo stesso errore. Operazione, quella salvifica di Silver, complicata da una circostanza: “Fra noi c’é sempre stata l’ombra della mia fedina penale, che a tratti è diventata così grande e scura da trasformarsi in un’eclissi totale”.
Il romanzo si lascia anche apprezzare per le descrizioni del calcio come ‘oppio dei popoli’: “il rettangolo verde è un circo in attesa dei gladiatori” … visto da “… persone normali, quelle che stanno sulle gradinate a gridare, quelle che nella vita non vinceranno mai e per questo incaricano pochi privilegiati di farlo per loro.”
Devo dire che alcune pagine, alcune righe in particolare, mi hanno stretto il cuore. E ho pensato che, anche se tra i sogni ce ne sono di più nobili, i sentimenti di chi affolla gli stadi devono essere rispettati. E tradirli è un atto infame. Per questo, come Silver, si sarebbe comportato anche …

… Bruno Elpis


PS: chi lo desiderasse, può vedere un mio commento (scritto a quattro mani con l'amico Francesco D'Agostino) a un altro libro sul medesimo tema (“Gocce” di Dino Baggio e di Marco Aluigi, Ciesse Edizioni) in http://www.malgradopoi.it/letture-consigliate/gocce-su-dino-baggio

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o deve ancora leggere "Gocce" di Dino Baggio e Marco Aluigi. A chi vuole conoscere 'un altro' Faletti.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Gennaio, 2012
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"Il segreto di Rembrandt" di Alex Connor - comment

Un bel “giallo d’arte” “Il segreto di Rembrandt” di Alex O’Connor, pittrice e studiosa d’arte, qui alle prese con il suo primo thriller. Un’opera da gustare, insieme alle opere del maestro d’arte olandese, il pittore del seicento intorno al quale viene intessuta una leggenda a partire dalla sua relazione con Geertje Dircx: amante di Rembrandt van Rijin, da lui cacciata di casa, tradita dalla sua stessa famiglia che le testimoniò contro, condannata a dodici anni di reclusione nella casa di correzione di Gouda. Bollata come isterica aggressiva e reclusa, nella sua prigionia, verga le lettere ove svela il segreto di Rembrandt. Il pittore avrebbe generato – da lei – un figlio illegittimo: Carel Fabritius, ribattezzato “la scimmia di Rembrandt”: “Il maestro pagava il suo allievo … Carel fu così felice che sorrise, come non faceva quasi mai. Era un ragazzo serio, di appena vent’anni, che rideva come una scimmia. Così lo chiamava Rembrandt: la sua scimmia. La scimmia di Rembrandt … Lo diceva con affetto, ma io sapevo che una scimmia indicava anche un farabutto, un manigoldo, un criminale. Questo aveva fatto di mio figlio …” Sì, perché nell’atelier del più famoso pittore del seicento olandese – tra gli allievi (oltre a Carel, il figlio Barent, Ferdinand Bol e Govert Flinck) - la scimmia di Rembrandt produceva dipinti, su commissione. Senza sapere di esser figlio dell’artista più apprezzato del momento.
Naturalmente, la pubblicazione di queste lettere avrebbe determinato una riattribuzione delle opere di Rembrandt, con conseguente impatto sulle loro quotazioni e sul mercato delle opere d’arte: “Sono la testimonianza di un crimine morale e di una truffa artistica, le cui ricadute … potrebbero essere disastrose. … Queste lettere … nelle mani sbagliate potrebbero essere letali.” Delle lettere, in particolare, la più preziosa sembra essere l’ultima: quella che contiene l’elenco delle opere dipinte dalla “scimmia” e non da Rembrandt.
Ma il segreto di Rembrandt è come il segreto di Pulcinella. Le lettere – tutte tranne l’ultima - sono note a molti: a Owen Zeigler, gallerista e legittimo proprietario del segreto, a suo figlio Marshall, che dopo l’assassinio del padre ne viene in possesso, allo storico dell’arte (un brillante iconoclasta) Samuel Hennings, che ne possiede una copia opportunamente custodita nella cuccia del cane defunto, al factotum Teddy Jack, a Giorgia, la ex moglie di Marshall, a Charlotte Gorday (amante di Owen) e al di lei marito, l’avvocato Philip Gorday, al contabile polacco della galleria (Nicolaj Kapinski) e all’intraprendente gallerista Lilion Kauffman. Un segreto – dice il proverbio – quando è conosciuto da due persone, non è più un segreto. E che dire, dunque, di questo segreto così ampiamente condiviso? Certo, senza l’ultima lettera, quella con l’elenco che è in grado di stabilire se i due ritratti “Issenhirst” che verranno messi all’asta a New York sono autentici …
E veniamo ai delitti. In questo contesto – tra galleristi spregiudicati come il vile Tobar Manners che rovina in via definitiva Owen, e altri personaggi ambigui come Thimoty, Léon e Rufus – si consumano, ispirandosi a dipinti di Rembrandt:
1) l’omicidio di Owen Zeigler, realizzato sulla base di “La lezione di anatomia del dottor Joan Deyman”. Vale a dire: cadavere eviscerato, scalpo tagliato.
2) l’assassinio di “Stefan … Stefan van der Helde era stato costretto a ingoiare delle pietre” che riprende “La lapidazione di Santo Stefano”; Stefan van der Helde è lo studioso che certifica l’autenticità delle lettere che marchiano Rembrandt come essere meschino e privo di scrupoli;
3) la morte di Charlotte, l’amante di Owen, che allude a “Il suicidio di Lucrezia”. L’amante di Owen Zeigler sembrerebbe essersi suicidata pugnalandosi al cuore, proprio come la Lucrezia del capolavoro di Rembrandt. Ma Marshall comprende che la donna non si è data la morte da sé e quindi continua le sue indagini, alla ricerca dell’assassino del padre.
4) l’omicidio del contabile di Owen Zegler, Kapinski, il polacco “orfano” del gemello Luther, al quale tocca la sorte di “Sansone accecato dai Filistei”.
Il romanzo pullula, oltre che di omicidi, di opere d’arte (oltre alle citate, anche “Il cardellino” di Fabritius e “Susanna e i vecchioni”, ove Susanna sarebbe Geertje).
La morale della storia sarebbe una beffa, “un falso nel falso”, un gioco di specchi, se l’autrice non si mettesse una mano sul cuore: in un impeto di femminismo, conclude: “Rasserenato, Marshall fissò lo sguardo indecifrabile di GeertJe Dircx. Vide nei suoi occhi gli occhi di suo padre … e vide in lei una verità che meritava di essere raccontata. Il suo volto era il volto di ogni donna, ogni volto umano che avesse mai avuto una storia da raccontare. Il racconto, anche se in parte era fasullo, aveva comunque un fondo di verità.”
Una morale che è piaciuta anche a …

Bruno Elpis

PS: chi lo desiderasse, può vedere una mia selezione di quadri di Rembrandt su http://www.malgradopoi.it/letture-consigliate/il-segreto-d-rembrandt-di-alex-connor

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Gennaio, 2012
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”Il cortile dei girasoli parlanti” di Antonia Arsl

Capitoli brevi, quasi poesie in prosa, quelli che compongono quest’opera di Antonia Arslan, scrittrice padovana di origini armene, autrice de “La masseria delle allodole” dal quale è stato tratto il film firmato dai fratelli Taviani.

I capitoli de “Il cortile dei girasoli parlanti” sono unificati dalla potenza e dalla suggestione del ricordo, almeno nella prima parte, intitolata “Magie d’infanzia” e nella seconda, quella appunto dedicata a “Il colore dei ricordi”.

Difficile raccontare le sensazioni che evoca questa lettura, perché sono impressioni immediate, che l’autrice suscita con l’euritmia delle parole: attraverso i colori (quello dei girasoli parlanti), i sapori (“Burro di bagigio”, “I biscotti della zia Enrica”, “Il prosciutto di nonno Carlo”), gli odori (“Camilla e le rose gialle”) le musiche (“Ninnananna veneziana”, “Kriminal tango”) e le attività (“le sferruzzatrici”).

E allora ci si affida a qualche oggetto: come la scatola di latta dei biscotti Lazzaroni “con il veliero dipinto” o ai “sassi del Piave”. Nei ricordi c’è spazio anche per la “vegetallumina”: un vecchio farmaco graveolente, dal potere taumaturgico sulle contusioni che i bambini si procurano … Per scoprire “il segreto delle storie che si amano: che creano mondi in cui desideriamo entrare, e da dove non usciamo senza rimpianto”.

Poi, gradualmente, come richiamata alla coscienza attraverso l’esperienza personale e le memorie, emerge la tragedia armena: rievocata in episodi ben precisi, fatta anche di religione e di “sacro e profano” (terza parte), richiamata da oggetti (“Il pianoforte di Saddam”) o da canzoni (“Oh mia Cilicia”).

Sino ad arrivare ai “Tempi molderni” (quarta sezione dell’opera) e concludere che “il tempo non fa marcia indietro” o, alla latina, “Factum infectum fieri nequit”.

Un libro semplicemente da leggere. Vietato raccontarlo. Per lo meno, così la pensa …

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Dicembre, 2011
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“La cacciatrice di ossa” di Kathy Reichs - comment

Una vera americanata, passatemi il termine, questo romanzo uscito dalla penna di Kathy Reichs, professione antropologa forense.
E pensare che il profilo professionale della protagonista (il medesimo dell’autrice) sarebbe un'ottima premessa per sviluppare una storia di suspense, ricca di dettagli scientifici che spesso intrigano il lettore sempre in cerca di curiosità e novità.
Valga, per i non addetti ai lavori, la seguente distinzione: “I patologi lavorano su cadaveri recenti o relativamente integri, per stabilire identità, causa del decesso, intervallo post mortem … Gli antropologi rispondono alle stesse domande nei casi in cui i tessuti siano assenti o compromessi e lo scheletro sia l’unica parte rimasta.”
“La cacciatrice di ossa”, dunque, è Temperance Brennan, antropologa forense che si destreggia tra ossa e scheletri con grande disinvoltura.
Il caso si apre in una discarica, ove viene ritrovato un cadavere in condizioni insolite: è stato infilato in un fusto con una colata di cemento. Così appare: “Un corpo nudo giaceva rannicchiato nell’acciaio inox. Le gambe erano flesse, le cosce strette al petto. La fronte premeva sulle ginocchia, i piedi puntavano in direzione opposte, con dita aperte in angolazioni innaturali. Un braccio era piegato all’indietro, l’altro teso verso l’alto con le dita irrigidite nell’atto di cercare una via di fuga.”
Con questa premessa, lo sviluppo della storia viene impresso da un sospetto avanzato da un meccanico di scuderia delle corse automobilistiche NASCAR: Wayne Gamble rivela che la sorella, Cindi, è sparita senza lasciare traccia insieme al fidanzato, l’aspirante pilota Cale Lovette, simpatizzante neonazista del movimento Patriot Posse. Il caso era stato sommariamente liquidato come fuga d’amore, con la quale i due fidanzati non avevano voluto lasciare tracce.
Le indagini, che l’antropologa conduce sia con l’investigatore Skinny Slidell sia con l’ex poliziotto Galimore, e le ricerche scientifiche sui cadaveri nell’ambito dell’istituto di medicina legale diretto da Larabee porteranno all’identificazione di MCME 227-11 (così si chiama in codice il cadavere ritrovato nel fusto) in Heli Hand, personaggio sovversivo, dopo una serie rocambolesca di vicende: l’apparente atteggiamento ostile dell’FBI, casi di avvelenamento da ricina e da abrina, fanatismo politico e razzismo, atteggiamenti estremi di idolatria sportiva nell’ambiente delle corse.
La debolezza del romanzo, tuttavia, sta nell’eccessiva dovizia di personaggi, che disorienta il lettore. Dopo tanta carne al fuoco, l’epilogo è, francamente, deludente, soprattutto se si analizza quale sia il movente dei delitti.
Le pagine migliori sono quelle ove l’autrice dimostra la propria competenza professionale.
Infine un’annotazione di costume. Riconfermo un luogo comune: gli americani non hanno proprio buon gusto in fatto di educazione e cultura alimentare. L’antropologa continua a sorseggiare diet coke. I suoi pranzi (ne estrapolo solo alcuni) sono: sandwich al cheddar e pomodori; sandwich al pollo; filetto di platessa con insalata russa e maionese (!) rigorosamente qualificata come prodotto gastronomico da supermercato; pizza in scatola con la scritta “Donato’s”. Per una cena l’esperta in antropologia concepisce le seguenti alternative: a) verdura: pomodoro molliccio, cetriolo vischioso, lattuga floscia e annerita ai bordi; b) cibo in scatola. Ma il colmo lo si raggiunge quando galantemente Galimore propone un pranzo, per offrire alla dottoressa un’appetibile alternativa al suo sandwich al formaggio. I due si recano al Bad Daddy’s e cosa consumano? Lui insalatona con una vagonata di ingredienti e the freddo, lei hamburger Mama Ricotta con diet coke. Siamo lontani anni luce dai sapori mediterranei e dalle raffinatezze italiane, quelle che tanto piacciono a …

Bruno Elpis

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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Dicembre, 2011
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"Il visconte" di Brera e Cappi - commento di Bruno

Romanzo storico ambientato nel Risorgimento italiano, questo della premiata ditta “Brera & Cappi”. Ma non è un romanzo storico in senso classico, perché propone interessanti incursioni nella psicologia ed esprime un mix di sicuro successo: fatti documentati, una bella storia d’amore anche carnale, analisi interiore dei personaggi.
La narrazione attraversa il periodo tra il 1859 e il 1861, quindi si situa nella seconda guerra d’indipendenza. L’ambientazione geografica è il Lombardo-Veneto, con puntate nel Regno di Sardegna e in quello delle Due Sicilie. L’antefatto del 1855 è un evento collocato nella guerra di Crimea. Lì compare per la prima volta la figura del Visconte, un personaggio “double face”, una sorta di dottor Jeckill-Mister Hyde che ora, in qualità di Victor de Lernac, veste i panni dell’informatore del potere austriaco, ora – con il nome di José Pau, nizzardo – riferisce ai francesi e, in particolare, a Napoleone III.
Tutto si complica – o si semplifica? – quando il composito Victor/José si innamora della bella Speranza, in arte Spes, che è la figlia del barone Schmertz, capo della polizia segreta del Lombado-Veneto, con il quale il Visconte pone in essere il suo complicato doppio gioco.
E gli altri protagonisti che si muovono sullo scenario? Diciamolo senza mezzi termini, sono individui del calibro di: Francesco Giuseppe, Luigi Napoleone, Garibaldi, il re galantuomo Vittorio Emanuele II, Francesco II di Borbone. E altri ancora. Sullo sfondo evolvono i fatti che abbiamo studiato sui banchi di scuola: le manovre diplomatiche di quella “donnola” del conte di Cavour, le sanguinose repressioni austriache, le teorie politiche di Mazzini e del Cattaneo, la cruenta battaglia di Solferino, la ritirata austriaca nel quadrilatero ritagliato tra Veneto e Lombardia, il brigantaggio e – a Napoli – addirittura una comparsata della camorra.
Ma, al di là del romanzo storico, dicevo, ho trovato interessanti altre dimensioni.
La ‘doppiezza’ del romanzo forse parte già dal ‘quattro mani’ degli autori.
Il Visconte é preda di una “possessione demoniaca” che lo rende una personalità doppia o addirittura tripla: in lui convivono due anime e, in sottofondo, anche una dimensione femminile (quella di una suora!). La matrice di questa dilacerazione, che oggi si chiamerebbe turba psichica o patologia, risiede negli episodi di violenza patiti dal Visconte in età infantile: “sia José, sia Victor non disdegnavano la fornicazione e Victor si dava di frequente anche ad atti contro natura …”
Anche l’amata Spes é dimidiata: “Il cuore è italiano, la mente è austriaca”, “certo si sentiva divisa, come se la sua anima fosse sdoppiata”; e dunque la donna vive il dramma di “essere una persona per le convenienze sociali e un’altra nella sua realtà interiore”.
La doppiezza si riflette, coerentemente, anche nella tecnica narrativa: la storia viene narrata da due angolature. Quella soggettiva, in prima persona, di José-Victor e quella di un narratore esterno: talché il medesimo episodio viene prima descritto dall’io narrante e poi ripreso da una terza voce (o viceversa).
La trama è credibile e fluida, disseminata com’è di armi bianche, tiri al bersaglio e colpi che finiscono “a mouche”, veleni, nascondigli e covi di cospiratori, lettere scritte con le prime stilografiche e, negli spazi bianchi, in inchiostro simpatico.
Lo stile è efficace, con intercalari in idiomi ibridi e contaminati (francesi e dialettali) e con richiami continui a proverbi e motti. Occorre forse superare il primo disorientamento che si prova leggendo una vicenda dal complicato intreccio ove i punti di vista si moltiplicano come in un gioco di specchi. Almeno così è stato per …

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Dicembre, 2011
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"La signora Harris" di Paul Gallico

Un romanzo che ha il sapore di una fiaba. Di una in particolare: Cenerentola, “mutatis mutandis”. La signora Harris, collaboratrice familiare inglese, conduce la sua umile vita trastullandosi tra le faccende domestiche presso svariati datori di lavoro. E proprio attendendo a questa modesta occupazione - che la segna nel fisico e nel modo di presentarsi al punto che la gente, vedendola, comprende a colpo d’occhio di aver di fronte un’inserviente – coltiva un sogno.
Come Cenerentola, la minuscola signora Harris ha dunque “il suo sogno, un sogno tanto squisitamente femminile: quello di un vestito prezioso, da fiaba, uno solo in tutta una vita di squallore”. In sostanza, Ada Harris sogna di recarsi a Parigi, alla maison di Christian Dior, e acquistare uno strepitoso abito (designato con il nome di ‘Tentazione’!) dello stilista più raffinato dell’epoca. Per realizzare questo progetto, la donna tenta una scorciatoia: quella della vincita alla lotteria, prima, e alle corse, dopo; ma invano. Il ritrovamento fortuito di un gioiello potrebbe regalarle una facile realizzazione del sogno nel cassetto: ma Ada ha un’etica ferrea e preferisce restituire il prezioso pur di non abiurare alle sue convinzioni morali. Anche se questo gesto significa fare sacrifici per accumulare i risparmi necessari.
Finalmente, dopo anni di duro lavoro, Ada riesce a raggranellare la somma necessaria per il viaggio e per l’acquisto. La sua avventura parigina é davvero una favola, che si prolunga oltre il previsto. Durante il suo soggiorno nella ville lumière, con la sua semplicità e la sua immediatezza, la piccola donna conquista e rende felici (a questo punto Cenerentola si è già trasformata nella fata!) nell’ordine: Madame Colbert, dirigente della maison, monsieur Fauvel, giovanotto di belle speranze e amministratore dell’atelier, Natascia, la bella modella con un sogno di vita ‘normale’. E anche un gentiluomo molto potente, al cui fianco “la donnetta … intabarrata in un misero e consunto cappottino, con i guanti del colore sbagliato, le scarpe visibilmente da quattro soldi, l’atroce borsetta di finta pelle e quel cappello con la rosa ballonzolante” assiste alla sfilate delle stole di zibellino e di abiti in preziose stoffe nell’odore della ricchezza che é “una fragranza mista di profumo, di pelliccia e di rasi, di sete e di cuoio, di gioielli e di cipria”.
Paul Gallico, l’autore, secondo me, dipinge in modo convincente e accattivante almeno due idee.
Innanzitutto la dinamica del desiderio, che alberga in ogni essere umano. Eccone alcune tappe:
“Quando si è desiderato qualcosa con l’intensità con cui la signora Harris aveva desiderato il modello di Parigi, e altrettanto a lungo, e quando finalmente l’ansia spasmodica del desiderio femminile sta per assaporare la dolcezza dell’appagamento, ogni istante che precede la sua realizzazione assume un’importanza che lo rende davvero memorabile”.
Nel convincimento che: “Quando si vuole sul serio qualcosa, c’è sempre modo di arrivarci.”
E con la paura che è “il dramma di tutti coloro che, sul punto di veder realizzato un sogno lungamente vagheggiato, si vedono ricacciare nelle tenebre della disperazione”.
La seconda idea, forse un po’ deamicisiana, è il trionfo della semplicità. E la scoperta che un oggetto, per quanto rappresenti dal punto di vista materiale un tesoro, è tale soltanto se rappresenta “un prezioso ricordo di amicizia, di solidarietà, di calore umano”.
Altrimenti, che favola sarebbe?
Questa, come fiaba, è davvero gradevole, a tratti spassosa, anche dal punto di vista grafico, con i disegni di cappelli piumati, specchi e cornici che, intercalati come elementi separatori dei capitoli, mi hanno ricordato i siparietti infilati dalla Wertmuller nel suo “Gianburrasca”, che ha divertito e fatto sognare anche …

… Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Dicembre, 2011
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"Tutti matti in provincia" di Vicki Baum - comment

Vicki Baum, autrice di “Grand Hotel”, “Hotel Berlino”, “Hotel Shangai” e “Amore e morte a Bali” è considerata – lo dice la fascetta apposta sul libro che qui commento – “la prima vera autrice di bestseller del 900”.
In “Tutti matti in provincia”, la scrittrice, morta a Hollywood nel 1960, dimostra di avere il gusto per il contrasto tra la vita noiosa e anonima della provincia e il mondo patinato delle celebrità.
La vita della provincia è popolata da personaggi comuni: il medico e sua moglie, che si arrabattano tra una vita consumata nell’impegno e i disastri finanziari, il proprietario terriero minacciato dall’industriale che rappresenta il potere economico, il droghiere con qualche velleità culturale, la folla degli operai che stentano a sbarcare il lunario tra mille problemi e difficoltà.
In tale contesto, è naturale che un incidente d’auto – che coinvolge una stella del cinema, Leore Lania, il dongiovanni Peter Karbon che l’accompagna e il pugile campione Franz Albert – sia destinato a scompigliare la routine monotona dei protagonisti senza storia della vita periferica della provincia tedesca.
Così Elisabeth, la moglie del medico Persentheim, insidiata dal dongiovanni in cura dal marito per i postumi dell’incidente, si getta disperatamente nel primo “bacio come dall’alto di un ponte in un fiume profondo”, e di quel bacio porta con sé “una dolcezza inaudita, unica e profondamente velenosa”, precipitando nella “felicità ondeggiante e dolorosa, quella felicità trasparente e luminosa che vaga al di sopra di un abisso d’angoscia e di presentimento della partenza”.
Il contrasto tra desiderio e senso della realtà rivive nel gioco dei “tre desideri”, che i nuovi amanti conducono: lui con il senso della conquista, lei con quello dell’illiceità (“quanto a lei, le sembrava che durante tutta la vita non avesse atteso che quell’impressione di naufragare ...”)
Quanto a me, ho trovato nelle pagine del libro tutta la noia (voluta?) della provincia. Mentre riconosco che Vicki Baum é davvero l’antesignana di un filone culturale, non soltanto letterario, che si lascia affascinare dai lustrini di una vita fatta di esteriorità e illusioni. Salvo poi concludere che gli affetti del matrimonio costituiscono, in ultima analisi, un porto sicuro nel quale ‘borghesemente’ rifugiarsi.

Bruno Elpis

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Anche quando una lettura non mi appassiona particolarmente, non riesco ad escludere che essa possa interessare o piacere a qualcuno!
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Novembre, 2011
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"Avrò cura di te" di S. Fontanel - Commento di Bru

Romanzo commovente, nel senso etimologico e non melenso del termine: è un romanzo che muove l’animo …
I problemi di una mamma anziana ‘trasformano’ la vita della donna in carriera, professione giornalista: attraverso i sensi di colpa, le preoccupazioni, le corse a casa o in ospedale, le vacanze cancellate.
Il romanzo descrive l’evoluzione del rapporto con la madre anziana, il cui cervello è “un luogo in cui, da qualche tempo le distanze da un punto all’altro sono considerevoli”. A partire da una constatazione che è anche un programma di lotta: “Ho smesso di fare la guerra contro di lei. E’ una guerra al suo fianco, contro un nemico invincibile. Il tempo ci prende in ostaggio. Ucciderà una persona ogni ora.”
L’autrice narra alcuni episodi topici, tipicamente piccoli incidenti come cadute o lapsus della memoria.
Quando l’anziana si rifiuta di andare all’ospedale dopo una caduta: “Ti voglio bene. Ti darò coraggio” è il proclama d’amore della figlia, che convince la madre a ricevere le cure ospedaliere.
Attraverso la preoccupazione per l’incolumità dell’anziana genitrice, si afferma una consapevolezza: “Si diventa grandi molto tempo dopo che si è finito di crescere”.
La perdita della memoria, invece, induce una riflessione sorprendente: “Da quando è così smemorata può assaporare le gioie dell’imprevisto”.
A volte si dice che i vecchi “tornano bambini”. L’autrice è di avviso contrario: “Con un bambino il progetto è renderlo indipendente mentre con tua madre fin dove puoi spingerti? L’indipendenza che verrà sarà la tua. Sino alla fine sarai tu la bambina da svezzare. La madre è lei. Lascia che ti strapazzi perché … sta dando gli ultimi ritocchi alla tua educazione.”
La narrazione procede al ritmo della poesia, anche osservando le trasformazioni fisiche indotte dall’età che avanza: “La pelle sottilissima. E la legge che ne consegue: la fragilità”. Per concludere che “Non è l’amore che muore, e nemmeno il desiderio. A morire è il nostro aspetto esteriore.”
Sullo sfondo, un insegnamento anche alle nuove generazioni: “Le basta sapere che è già una lezione grandiosa, per due ragazzi, vedere che qui, in questa famiglia, non si abbandona una persona anziana.”

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Novembre, 2011
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Uccelli da gabbia e da voliera - Andrea De Carlo

Il giovane Fiodor Barna è davvero strano. Glielo dicono tutte le donne che, in qualche modo, lo incontrano.
“Sei pazzo”, gli dice Livia di fronte alla sua messinscena, quando, proprio sul più bello, Fiodor batte la ritirata e fugge da lei per evitare un rapporto del quale non è convinto.
“Sei ben strano”, conclude Sue, al termine di una relazione extraconiugale con il giovane alla ricerca instabile di una propria identità personale e professionale.
Glielo dice anche Malaidina, la donna della quale è innamorato e che nasconde un segreto. “Sei pazzo”, gli dice, di fronte alla tenacia che il giovane profonde nell’inseguirla, nel ricercarla, nell’immaginarla.
Lo ribadisce la ragazza bruna, messaggera di Malaidina, quando gli porta una notizia che lui non accetta. “Ma sei pazzo?”, gli chiede, mentre lui la strattona.
La stranezza di Fiodor, tuttavia, è normale rispetto al senso di estraneità che caratterizza la sua vita, contraddistinta da un senso di insoddisfazione endemica e dalla devianza di comportamenti che significano ribellione. Più che strani, particolari, molto particolari, sono i suoi approcci con le donne: mentre li vive, li analizza, li seziona, li proietta nella scomposizione di atteggiamenti e fisicità.
E le gabbie, e gli uccelli del titolo? Ricorrono a più riprese.
Ad esempio, fanno la prima comparsa nel bizzarro allevamento di uccelli esotici che il padre detiene a San José, in Costa Rica.
Poi ritornano nel libro illustrato “Uccelli del mondo”, che Fiodor sfoglia con una bambina disinteressata.
Infine ricompaiono in un apparentemente folle progetto al quale il protagonista si abbandona, con gli amici dell’ultimo momento, Elvio e Paola: fuggire in Australia ad allevare cocorite.
Ma le gabbie sono principalmente metafore: “le parole mi sembrano rigide e limitate come piccole gabbie”, “gabbie lunghe e strette per desideri lineari” e così via, gabbie di ogni forma in una delle ineguagliabili riflessioni-divagazioni dell’autore.
Nel finale convulso, Fiodor, più pertinace che mai, si aggira ad Atene, da sonnambulo, con un rasoio tra le mani. E il lettore teme. Ma ci pensa De Carlo, calando il suo “deus ex machina”, in questa storia di ordinaria insoddisfazione e di straordinario sentimento…

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Novembre, 2011
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Una vita allo sbando - commento di Bruno Elpis

In questo romanzo l’autrice di “Per puro caso” ci propone un'altra storia “pazzesca” nel suo stile inconfondibile: con pacatezza racconta la vicenda di Evie Decker, diciassettenne che si incapriccia di un cantante da strapazzo, Drum Casey, dicianovvenne egocentrico che si esibisce all’Unicorn con l’amico-produttore David. Delle interpretazioni musicali di questo singer troviamo traccia nelle sconclusionate frasi che condensano una poetica musicale di incerta collocazione (trash? Kitch?)
La poco più che adolescente Evie - spalleggiata dall’amica “cicciona”, Violet - si fa notare, con le sue forme tondeggianti, attraverso un gesto decisamente inconsulto. Da questo episodio nasce una bizzarra relazione con il cantante: il rapporto procede in modo estrinseco rispetto ai due protagonisti, passando attraverso un matrimonio surreale organizzato in pochi giorni, “all’americana” e all’insaputa dei rispettivi genitori.
Trovo sorprendente come Anne Tyler riesca a creare storie vagamente assurde con uno stile stralunato, ipnotico, raccontando una serie di fatti e situazioni ordinarie e fintamente “normali”. Anche i personaggi compaiono per il loro aspetto più esteriore e superficiale, descritti in una serie di azioni che sembrano procedere per inerzia o in dialoghi al limite della credibilità. Perfino quando intervengono fatti gravi o importanti, magari contemporaneamente: il concepimento di un figlio, la morte del padre, il tradimento sentimentale e la separazione coniugale. Una modalità davvero originale per narrare, nel romanzo, la crescita psicologica di una ragazza che afferma la propria individualità e il proprio carattere lasciandosi alle spalle le bizze dell’adolescenza.

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"Agostino" di Moravia
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Ottobre, 2011
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"Uto" di Andrea De Carlo - Il commento di Bruno El

Il ventenne Uto giunge a Peaceville, Connecticut.
Peaceville è “il regno della dolcezza e della tolleranza”, un luogo ove si è insediata una comunità che pratica la filantropia sotto l’egida di un capo spirituale: un guru tanto attivo nella propria funzione carismatica, quanto fisicamente precario.
Manco a dirlo, la vicenda si svolge interamente in un paesaggio innevato, che tramortisce il lettore di pari passo con la narrativa sperimentale di De Carlo.
Uto è “una specie di punk psicopatico”, reduce da una tragedia familiare, ed é sicuramente alla ricerca di una sua identità: con il dubbio di essere soltanto un distruttore di equilibri, con l’implicito desiderio di essere un rivelatore di verità. Viene accolto dalla famiglia Foletti e si insinua nella vita dei quattro componenti stravolgendo completamente l’equilibrio di un nucleo che, sino ad allora, ha vissuto nell’ovatta dello spiritualismo imposto da Marianne.
Vittorio è il solido capofamiglia: un vero Timberland, vigoroso, pragmatico, ex gaudente che per amore della moglie Marianne ha lasciato la vita mondana e godereccia per abbracciare la filosofia vegana e spirituale. Nina è la figlia anoressica di Vittorio, Jeff-Giuseppe il figlio quindicenne di Marianne che, senza una propria personalità, vive con passiva accettazione, acriticamente, tutto ciò che gli viene proposto.
Uto, pianista istintivo e cervellotico osservatore, mascherato nei suoi abiti in pelle e nascosto dietro a occhiali neri, aggredisce ciascun personaggio e ne sovverte la vita, portando a galla identità che vivono ibernate in uno stato di semi-coscienza.
Da narratore vive tutte le situazioni in modo quasi maniacale: dall’interno, analizzandole e sezionandole, e dall’esterno, come osservatore. Poi unisce anche un’altra prospettiva, quella dell’immaginazione: per la quale, attraverso squarci mentali, proietta possibili sviluppi e si rappresenta avventuriero, seduttore, artista, omicida, guaritore …
La prima parte del romanzo scorre ipnotica nelle descrizioni della comunità che vive l’idillio dell’adelfia reale.
Poi, nella seconda parte, tutto si anima e subentra la descrizione delle esplosioni delle personalità coatte; la coppia scoppia e succede di tutto: vita, morte e miracoli … è proprio il caso di dirlo. Fino all’inopinata successione dinastica dello swami, che abdica al suo naturale erede.
In questo romanzo ho trovato un sorprendente De Carlo: nella prosa avanguardistica, nel linguaggio costruito con improbabili accostamenti di aggettivi e nomi, nei dialoghi proposti con una tecnica innovativa ed efficace. E soprattutto nel pennellare l’atmosfera che pervade la storia. Il fascino dell’oriente è richiamo per noi occidentali dai tempi di Schopenhauer o di Gaugin. E’ rivissuto in modo massivo nella filosofia new-age dell’ultimo scorcio del secolo appena conclusosi. Nelle sapienti mani di Andrea De Carlo questo fascino acquista un incanto speciale. Davvero originale.

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Siddharta di Hermann Hesse.
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    18 Ottobre, 2011
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"Una finestra vista lago" di Andrea Vitali - Comme

Facile per un comasco (io lo sono) appassionarsi ai romanzi di Andrea Vitali. Anche questa sua opera, una saga che racconta fatti di tre decenni (il dopoguerra, i fantastici anni sessanta e gli anni settanta), è disseminata di particolari molto significativi per le persone del luogo. Qualche esempio? I riferimenti culinari: dalla caseula agli gnocchi di zucca, dal pollo in gelatina al minestrone con la codega … Oppure la terminologia: slandretta per dire donna di facili costumi, e altre espressioni dialettali, senza mai eccedere con il vernacolo … Tuttavia, quello che rende grande un autore, che spesso viene accostato a Piero Chiara e a Mario Soldati per le abilità narrative, è il suo essere interessante in senso generale e non soltanto per gli autoctoni. Di questa storia, già celebrata dalla critica, voglio evidenziare alcuni aspetti che mi hanno divertito.
Innanzitutto il piglio bonario nel tratteggiare la “gente di paese”: si tratti di descrivere la curiosità dei cittadini quando sentono suonare i rintocchi che annunciano una morte (“la Stopina” muore, risorge e muore una seconda volta per effetto delle dicerie e delle frasi mal riportate) o di far affiorare gli schemi della mentalità provinciale di una terra “bianca” nei confronti del comunismo. Su questi meccanismi, a volte prevedibili, gli stessi protagonisti (e il tessuto narrativo) fanno perno per imprevedibili sviluppi.
In secondo luogo l’abilità nel tracciare fenomeni sociali che hanno attraversato la storia di questi decenni: le passioni politiche (il PSIUP: chi se lo ricorda?) del dopoguerra e della “prima repubblica”, la speculazione edilizia degli anni settanta, il contrabbando praticato nelle terre di frontiera, la pesca di frodo.
Ma quello che, a parer mio, rende vitale il romanzo di Vitali (scusate il bisticcio di parole), accanto all’incedere di una storia avvincente, sono i personaggi secondari, figure autentiche e originali da premio Oscar per il ruolo di “attori non protagonisti” e da incorniciare per soprannomi onomatopeici: oltre alla già citata Stopina, la “Merdera”, la “Luisina Uselanda” (manco a dirlo, presunta responsabile della diffusione del “mal francese”, ossia la sifilide) , il “Biglia” (l’edicolante con un occhio di vetro!) e altri ancora.
Sono riuscito a non essere troppo campanilista?

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Ottobre, 2011
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"Pura vita" di Andrea De Carlo - invito alla lettu

Una copertina naif, disegni infantili di frutta, dolci, alimenti e bevande su fondo azzurro. Rispecchia lo stile in alcuni punti apparentemente puerile di De Carlo. E riproduce, per certi versi, i tratti psicologici e dialogici del protagonista: Giovanni, storiografo un po’ fuori dagli schemi, come molti degli eroi che l’autore ha creato nei suoi romanzi.
E’ la storia di un viaggio vacanza verso la Camargue, che Giovanni affronta con una giovane compagna, la cui identità viene svelata a romanzo inoltrato. Il viaggio, incredibile a dirsi, non è occasione per descrivere gli affascinanti luoghi che costituiscono la meta dell’assortito binomio. I riferimenti geografici sono appena accennati: i paesi e le loro mura, canneti e stagni, un paesaggio avvolto nella nebbia, una campagna acquitrinosa percorsa a cavallo ... Perché l’interesse principale è la conversazione tra i due viaggiatori, che discutono di tutto, in un confronto generazionale ove a volte l’adulto è un bambino e l’adolescente la vera adulta.
I colloqui si articolano su molte questioni essenziali: qualità e difetti, impulsi ecologici e struggente desiderio di una vita più autentica, uomini e donne, meccanismi di sopravvivenza e selezione naturale, atteggiamenti e sostanza degli individui (oggi sono “ottanta per cento di sostanza e venti per cento di atteggiamenti”), noia e traguardi come motori dell’agire umano. Argomenti sempre interessanti, sviluppati senza cliché e con l’originalità di De Carlo. Pura vita, come recita il titolo.
Nel viaggio si insinua, relegata a telefonate e mail, la probabile inquieta eutanasia di un rapporto amoroso. Quello tra Giovanni – “l’agguantatore fulmineo di momenti”, che mal sopporta tutte le fini: dei rapporti, dei libri, dei viaggi - e la sua donna. Una sorta di “nec tecum nec sine te vivere possum”, tra due poli: quello evanescente di Giovanni, (sospeso “nell’eccitazione fibrillante del momento. Senza mai un progetto o almeno un’intenzione di costruire qualcosa di continuativo …”) e quello più concreto della sua donna (M.).
Nel frattempo prosegue il confronto con la giovane compagna di viaggio. Ma poi viene il tempo di tornare e un litigio scoppia con la stessa forza della pioggia che si abbatte sul “quasi fuoristrada”. L’alterco è causa di un’appendice imprevista di avventura e di altre sorprese: atmosferiche, vitali e relazionali.
Mi piace concludere difendendo gli slanci di Giovanni e aderendo idealmente alla sua filosofia. Facendo mia una sua frase:
“Non puoi volere una zebra e non accettare le sue strisce!”

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    28 Settembre, 2011
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La morte del padre è il diapason di una storia che rivela, pagina dopo pagina, una verità sorprendente, portata a galla da eventi che si susseguono attraverso la prosa pacata di Andrea De Carlo: stile inconfondibile, che utilizza il passato prossimo, tra capitoli che, secondo un’abitudine dell’autore milanese, hanno un titolo che è l’incipit del capitolo stesso.
La descrizione minuziosa di gesti e riflessioni costituisce, della narrazione, una maglia stretta, che a volte si sfilaccia per lasciar emergere autentiche bordate: la critica a una società ipocrita, basata su rapporti di forza cristallizzati in nome dell’interesse personale, la tensione ambientalista – sia che si tratti di riflettere sull’esponenziale evoluzione demografica del pianeta, sia che tradisca la preoccupazione per un futuro segnato dalle scelleratezze dell’uomo e della sua ansia imperialistica -, l’amore per la natura (da cogliere in una fuga in barca nella traversata del Tirreno per approdare a Bastia, in Corsica).
Lorenzo e Fabio sono due fratelli, tanto diversi per scelte e stile di vita. Il primo ha optato per una soluzione “da eremita”, in un progressivo ritiro dal mondo, il secondo ha abbracciato la carriera politica, con le conseguenze che questa scelta comporta.
Quando Lorenzo comprende che il padre, prima di morire, ha nascosto un dattiloscritto che, dall’Africa, accusa Vaticano e potenze occidentali, con caparbietà si allea a due ambientalisti (ecoterroristi per il potere costituito) e si lancia nell’avventura che lo condurrà al ritrovamento dell’eredità culturale che il padre gli ha lasciato, disinteressandosi del testamento materiale. Per terra e per mare, Lorenzo insegue tenacemente i suoi ideali e, in un finale “alla De Carlo”, troverà anche l’amore.
Curiosità: provate a digitare anche voi “Stopwatch” (così si chiama, nel romazo, il movimento “equo e solidale” che sposa ideali verdi e di difesa dei paesi più poveri del globo) nella stringa di un motore di ricerca, come fa Lorenzo all’inizio del suo personale percorso di ricerca … Io l’ho fatto, credendo di ritrovare davvero notizie sul movimento paladino degli interessi dei paesi più poveri del mondo.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Agosto, 2011
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Invito alla lettura di Bruno Elpis

In una precedente recensione ho commentato l’ultimo romanzo di Raul Montanari a partire dall’interesse che esso può avere per chi scrive. Perché gli squarci sul “… fantastico mondo” dell’editoria e le riflessioni sul “mestiere” dello scrittore che l’opera propone sono davvero interessanti, in quanto condotte con un’ironia sottile che può derivare soltanto da un’esperienza forte e autentica. L’ironia, in molti punti, rasenta la satira. Le rappresentazioni sono spesso grottesche, e quindi reali, perché la realtà di noi umani è spesso davvero grottesca.
Oggi, però, vorrei affrontare altri spunti che il libro offre, soprattutto dall’angolo di visuale del lettore. Questo romanzo, infatti, mostra una dimensione dell’autore che non ho conosciuto in precedenti opere.
Livio Aragona, docente di scrittura creativa e scrittore affermato in cerca della consacrazione definitiva, impegnato a sfuggire il cliché che gli viene immancabilmente attribuito (quello del giallista), muovendosi tra trasmissioni televisive e presentazioni letterarie, combatte la sua guerra personale: contro l’età (verrebbe da dire: la maturità) inesorabilmente scandita da un rito annuale (fotografarsi nudo, ogni capodanno, dinnanzi allo specchio) e contro le ipocrisie del suo ambiente di lavoro. E tutto si complica, perché il nostro eroe si innamora di una bella e talentuosa esordiente, sua diretta rivale al premio …. (innominabile!).
Nel finale della storia ho ritrovato la potenza del dramma: nelle riflessioni sulla morte, nelle colluttazioni durante le quali il dolore fisico e quello esistenziale si confondono.
Chiudo il mio intervento ponendo una domanda, forse assurda. Ma quanto è autobiografico “L’esordiente”? E dico che questo interrogativo forse non ha senso, perché un autore – ne sono convinto – mette sempre se stesso in ciò che scrive … E Raul Montanari, in questo libro, ritengo abbia lasciato una buona parte di sé. Mi sbaglio?

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    18 Luglio, 2011
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Invito alla lettura di Bruno Elpis

L’ambientazione lacustre, decisamente, crea un’ottima atmosfera per una storia nella quale gli elementi si combinano in una miscela esplosiva, che deflagra in una scena collettiva – quella della resa dei conti - di straordinaria violenza fisica ed emotiva: un’autentica mattanza.
Tutto origina da un orrendo delitto (una ragazzina stuprata e uccisa) e dal ritorno in paese dell’indiziato, dopo anni di ostracismo volontario.
A questo punto agiscono i catalizzatori di una reazione chimica inarrestabile: gli antichi rancori, la mentalità chiusa di un paesino sciovinista e omofobo, il bullismo violento dei fratelli della giovane assassinata e di un loro amico, l’ascendente esercitato da un prete ateo e blasfemo che effonde la propria umanità sui cittadini, pur vincolato al segreto del confessionale.
Il ritmo di “Chiudi gli occhi” è davvero incalzante, le scene forti si alternano a riflessioni e descrizioni paesaggistiche, alle quali Raul Montanari ci ha abituati con i suoi romanzi.
Sono questi gli ingredienti per i quali la critica ha accostato il nostro autore a Balzac?
Giudizio sintetico sul romanzo: verrebbe da dire “occhei”, per mimare il tormentone del romanzo.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    12 Luglio, 2011
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Invito alla lettura di Bruno Elpis

“Strane cose, domani” si lascia apprezzare per molti particolari, al di là della storia già di per sé originale: uno psicologo, che ha commesso un inconfessato duplice omicidio, trova un diario abbandonato su una panchina. E’ una specie di messaggio nella bottiglia e appartiene a una giovane, che invoca aiuto. Da questo momento gli eventi si susseguono a cascata, verso un finale drammatico e sorprendente.
E veniamo agli ulteriori motivi di apprezzamento.
Durante la lettura di questo romanzo, ad esempio, sembra di sentire in sottofondo Miles Davis, “il divino” tanto amato dal protagonista.
E si scorge, quasi fosse un bassorilievo, una Milano dipinta con pennellate che colgono l’essenza o i particolari rionali della città: Chinatown, la Bovisa, il parco Sempione caratterizzato rispetto ai “giardini”, le zone presidiate dagli ausiliari della sosta (“creature tozze e lente!”) … la “malmostosa Milano, spazzata dal vento” o la “Milano, orrenda Milano, come ti amo da quassù!”
Nel romanzo, inoltre, abbondano le caratterizzazioni, a volte sardoniche, a volte malinconiche, spesso divertenti: come la descrizione dell’effetto parabrezza, del posteggiare a Milano, dei frequentatori dell’Esselunga o della Standa, della borghese Cristiana che tutto ha e tutto compra …
La narrazione si svolge con simmetria geometrica, scandita dalle mosse di una bizzarra partita a scacchi. Non soltanto perchè lo psicologo, omicida per fuggire a un abuso e a una prepotenza, si propone di soccorrere la giovane insidiata. Anche i complessi rapporti con familiari, amici e pazienti troveranno una loro composizione geometrica e le mongolfiere dell’incipit realizzeranno nell’epilogo un’oscura profezia di fuoco e aria: in una perfetta e tragica simmetria.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Giugno, 2011
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Invito alla lettura di Bruno Elpis

Penso che Raul Montanari sia un autore “viscerale”. Lo è anche in altri romanzi che ho letto, ma ne “L’esistenza di Dio” lo è in modo squisito. Mi spiego meglio: è “viscerale” perché le immagini che crea ti entrano dentro e perché trasmette emozioni che penetrano nel profondo. Anche per via dello stile, incalzante e inquietante, e per le tonalità narrative da chiaroscuro.
Della storia mi piace scegliere, su tutti, un episodio: quando i personaggi praticano “il gioco dei desideri e delle paure”. Provate a farlo anche voi, questo gioco, ovviamente con altri, ammesso che ne abbiate il coraggio. Farete o riceverete almeno una rivelazione sconvolgente. Come Adriano, il claustrofobo, che esprime un desiderio elementare: “Vorrei che Dio esistesse”. Scatenando una ridda di sentimenti e riflessioni che fanno dimenticare agli altri la seconda parte del gioco. E nessuno più gli chiede quale sia la sua paura più grande.
Il protagonista è uscito di prigione, ha scontato una pena di cinque anni, e la sua nuova vita subisce continue incursioni: non tanto per via dei ricordi della cattività, quanto per le visioni retrospettive della moglie, deceduta di morte violenta (“Portati in casa una pazza e farà impazzire anche te” è l’incipit del romanzo). Un rapporto d’amore, ancora una volta, viscerale, come pure viscerale è il legame d’amicizia con Carlo: l’amico che tutti vorremmo avere e che, ahinoi, forse non abbiamo. Bellissima un’immagine: mentre Adriano è in carcere, Carlo visita la sua auto parcheggiata e ricoperta da un telo, la spolvera, ne paga l’assicurazione, insomma, la tiene in vita.
L’appartamento di Adriano permane ingombrato dagli scatoloni del trasloco, simboli di un passato che stenta a trovare una ragione per fuoriuscire dal suo involucro. Lì si svolge, come in ogni processo di autocoscienza, la rappresentazione dell’ossessivo senso di colpa per la morte della moglie. Lì viene sciolto un terribile dubbio, quello sulla fedeltà dell’amico, che ha minato gli anni della prigionia. Da lì parte un drammatico epilogo, scandito dai ritmi concitati del “noir”. Anche se è riduttivo costringere il tormento esistenziale di Adriano (o di Raul? O di noi lettori?) nello schematismo di un genere letterario.

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