Opinione scritta da Bruno Elpis
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Odio, vendetta, solitudine
Madre e Padre
Bella è una donna volubile, capricciosa, infedele. Pur essendo piacente d’aspetto, ha qualcosa che ricorda un’arpia (“Un’agile e spasmodica torsione che ricordò a Hélène il movimento dei serpenti ritti su una testa di Medusa…”). Ha sposato Boris per interesse (“Voi! Sposare un piccolo ebreo oscuro, vissuto Dio sa dove, di cui non si conosce neanche la famiglia!”), ha una figlia che non ama e che la ricambia (fin da piccola, Hélène nelle preghiere “sostituiva il nome di sua madre con quello di Mademoiselle Rose, con una vaga speranza omicida”).
Boris “sapeva che la moglie era corteggiata, che piaceva agli uomini… E lui l’amava…” Litigi e tradimenti sono all’ordine del giorno (“Karol partì e le serate tornarono a essere tranquille”). La personalità di Boris è recessiva (“Karol era interessato solo al denaro, al meccanismo del denaro, agli affari, e Hélène era una bambina innocente che stava in adorazione davanti a lui”) e immatura (“Ha una sola passione che gli divora lentamente l’anima: il gioco, alla borsa o a carte”). Frequenta “uomini d’affari febbrili, inquieti, dallo sguardo impaziente, le mani tese e avide come gli artigli” e ha “sempre tenuto gli occhi chiusi, rimosso la verità”.
La figlia
In questo clima familiare, la figlia matura il proprio odio viscerale per la madre (“Nutriva nei confronti di sua madre un odio strano che sembrava crescere con lei; che, come l’amore, aveva mille ragioni e nessuna…”), che tradisce Boris con quello che oggi chiameremmo “toy-boy”: il nipote Max.
Naturale per Hélène invidiare gli altri nuclei familiari, patire le allusioni dei grandi e soffrire: “Le sembrava di percepire tutta la solitudine che c’era nel mondo; la camera diventava ostile e terrificante…”
“Nel suo petto il cuore era pesante e colmo di un dolore complicato, strano e indecifrabile.”
E concludere: “Sarei meno infelice in collegio.”
Infanzia e adolescenza
L’infanzia di Hélène è in una cittadina sul Dnpr (“Il ricordo la rendeva più bella, le dava un fascino malinconico. Rievocavano, sognanti, l’aria limpida e gelata dell’autunno, le strade addormentate, il tubare dei colombi selvatici, l’antico parco dello Zar, sul fiume, gli isolotti verdi e i campanili d’oro dei conventi…”), con escursioni a Parigi e Nizza. L’adolescenza è a Pietroburgo (“Hélène la odiava già quella città sconosciuta; la guardava e si sentiva stringere il cuore come nell’imminenza di una disgrazia”). Poi la famiglia fugge in Finlandia (dove Hélène ha una relazione più giocosa che erotica con lo sposato Fred: “Proprio come a lei gli piacevano l’aria pura, il sole, le grida e i capitomboli sulla neve bagnata e soffice”) e ripara (“Il soffio della rivoluzione, e la conseguente, capricciosa diaspora di uomini e cose sulla superficie della terra, nel luglio del 1919 spinse i Karol ad approdare in Francia”) a Parigi (“Era l’epoca in cui la Borsa volava…” “Le donne… portavano un modello d’abito che si chiamava gosse de riches, che fasciava i fianchi e mostrava fino alle cosce le gambe vigorose”).
Il disegno di Hélène
Presto l’idea della vendetta (“Eppure ho la vendetta a portata di mano”) si fa largo (“Vendicarmi! Ah, non posso rinunciarvi!”) perché “ogni giorno che passa toglie un’arma a te e ne aggiunge una a me” e perché “un’infanzia rovinata, quella non si perdona”.
Tra convinzioni dominate dall’astio (“Dammi retta, ragazzo, non si ama un uomo per se stesso, lo si ama contro un’altra donna”), attenuati complessi di colpa (“Ho passato la vita a combattere contro un sangue detestabile, ma questo sangue è anche in me”) e progressiva trasformazione del sentimento negativo (“guardando sua madre con un sentimento che non era più odio ma una sorta di orrore davanti a quel volto devastato, pesto, imbellettato…”), Hélène trova nell’orgoglio e nella determinazione la sua strada: “Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante”.
“Il vino della solitudine” è una tragedia moderna ove la nuova declinazione di Medea incrocia complessi edipici ed Erinni, per ribadire drammatiche verità: il bisogno di sentirsi amati, il diritto ad avere un’infanzia felice, il ruolo tragico del protagonista, che è completamente solo nella sua lotta per la vita. Nello stile magico di un’autrice che incanta anche narrando gli orrori familiari di Hélène.
Bruno Elpis
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Altre opere dell'autrice.
L'ombra di Medea
Nella cinquina finalista del premio Strega 2013, “Nessuno sa di noi” è un romanzo cha affronta un argomento delicatissimo: quello dell’aborto “terapeutico” e dei connessi conflitti personali, morali e psicologici.
La storia si sviluppa in due parti. Nella prima si narrano gli eventi: la promessa di una maternità che finalmente si realizza dopo tanti tentativi (“Il fatto è che io questo figlio lo voglio”; “Non lo voglio un pecorone che segua il branco, voglio che si distingua e che pensi con la sua testa. Bello o brutto, basso o alto, etero o omo, non fa alcuna differenza. Lo voglio speciale, e con un cuore immenso”), la scoperta – durante una visita di controllo – dell’anomalia genetica del feto (“Displasia scheletrica”; “So che gli acondroplastici sono quegli individui comunemente definiti nani”), la sofferta decisione di ricorrere all’aborto terapeutico.
Nella seconda parte si affrontano le conseguenze della decisione assunta da Luce e Paolo: le ripercussioni sul rapporto di coppia (“Vedo ogni giorno dissolversi quello che c’è tra noi”), l’interiorizzazione del senso di colpa, il suo sbocco, se di sbocco si può parlare…
Quanto alla tecnica narrativa, alle parti descrittive del romanzo vengono intervallate parti in forma espistolare: perché Luce è giornalista, tiene una rubrica su un settimanale (“Leggo sempre la sua rubrica. Mi fa compagnia una sera a settimana…”) e a lei scrivono molte donne. Poi, alle lettere della rivista subentrano le mail del forum “lospaziorosa.com”, che Luce frequenta, alla ricerca di conforto e risposte, attanagliata dal proprio senso di colpa.
Il tema dell’aborto terapeutico è affrontato con una sensibilità che mette in luce i tragici interrogativi che esso pone (“un medico obiettore di coscienza definisce improprio il termine terapeutico accostato all’aborto che si pratica per interrompere la gestazione di un feto affetto da un’anomalia cromosomica” … “si tratta di infanticidio, specifica. E spiega che bisognerebbe insegnare ai genitori ad accettare l’handicap, a valutarlo nella sua completezza, prima di ricorrere a scelte così definitive”).
Anche la dinamica del senso di colpa (“Da cosa crede che dipenda allora il suo senso di colpa?”), l’elaborazione del dramma (“Come si possa sentire una mancanza del genere per qualcuno che non abbiamo mai conosciuto”) e la progressiva consapevolezza che interviene dopo una decisione per forza di cose repentina (“E’ un essere puntiforme e luminoso. Lo vedo circondato da un’aura dorata. Un essere uterino e celestiale che emana una luce calma e costante”) sono analizzate in modo originale, con profondo rispetto per il pluralismo ideologico e nella piena coscienza del relativismo decisionale e del soggettivismo. Con un occhio puntato al complesso di Medea.
Un libro che fa molto riflettere. Un libro che può far soffrire.
Bruno Elpis
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Il riscatto della Cayenna
Maurizio De Giovanni, già creatore del commissario Ricciardi, propone un’altra serie che ha per protagonista l’ispettore Giuseppe Lojacono, “siciliano dall’espressione indecifrabile”: dopo “Il metodo del coccodrillo” lo rivediamo in azione tra “I bastardi di Pizzofalcone”.
Il pool del commissariato di Pizzofalcone indaga sulla morte della moglie di un notaio, uccisa con un oggetto che fa parte della strampalata collezione di boule de neige; l’indagine è una lotta contro il tempo in quanto “dopo le prime settantadue ore, le possibilità che venga scoperto l’autore di un delitto diminuiscono del sessanta per cento”…
Accanto alla vicenda poliziesca è interessante seguire gli intrecci umani e familiari dei componenti della squadra investigativa. Perché il commissariato di Pizzofalcone (“Si tratta di un distretto non molto vasto ma assai popoloso, che abbraccia una parte dei Quartieri Spagnoli e giù fino al lungomare”) è una sorta di Cayenna, nella quale vengono indirizzati personaggi che hanno un passato professionale macchiato da qualche ombra.
Così avviene per l’ispettore Lojacono, “cacciato dalla squadra mobile di Agrigento perché un collaboratore di giustizia aveva dichiarato che passava informazioni alla mafia.”
Così è avvenuto per gli altri che compongono il team: “La discarica della polizia, sembrava. Uno che forse è un mafioso; un ragazzino raccomandato e incapace (Aragona), che gioca a fare il poliziotto; una psicopatica fissata con le armi (Alex Di Nardo); una tranquilla madre di famiglia (Ottavia Calabrese), un vecchio che vede fantasmi di assassini in mezzo ai suicidi. E il commissario (Palma), poi: un piazzista di aspirapolvere, con quel suo finto entusiasmo”
Così è avvenuto per il violento e irascibile Francesco Romano, che non sa dominare i suoi impulsi aggressivi e verrà abbandonato dalla moglie.
La profondità dello spessore umano e stilistico di De Giovanni traspare nelle vicende di Lojacono padre divorziato, di Pisanelli vedovo di moglie suicida che indaga sui casi di suicidio, di Ottavia madre insofferente di un ragazzo handicappato, di Alex giovane donna-vittima di un padre tiranno... Tutti impegnati per un solo fine: rimuovere il pregiudizio che grava sul commissariato (“E’ una specie di punizione, di confino o che?”) e portare la giustizia in un distretto ostile.
Un romanzo a tutto tondo, ottimo per dimostrare che anche la letteratura di genere può ben rappresentare un’occasione per riflettere e approfondire sulle dinamiche umane.
“Quando c’è una morte violenta… l’aria diventa portatrice di un dolore immenso e non si purifica più, se non con la presenza di chi di quel dolore non ha alcuna cognizione”.
Bruno Elpis
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Rivedendo Audrey Hepburn
Holly è irrequieta, alla ricerca del suo posto nel mondo. Per questo la targa dell’appartamento, che provvisoriamente occupa a New York, recita: “Signorina Holiday Golightly, in transito.”
Come non ripensare a Audrey Hepburn, l’attrice che interpretò il ruolo in un film epurato da ogni carica trasgressiva che invece il romanzo contiene?
“Aveva le guance di un rosa acceso, la bocca grande, il naso all’insù. Un paio di occhiali neri le cancellava gli occhi.”
“Portava sempre gli occhiali neri, era sempre in perfetto ordine, c’era un innato buon gusto bella semplicità dei suoi abiti, nei grigi, negli azzurri…”
“Erano occhi molto grandi, un po’ azzurri, un po’ verdi, con piccoli punti bruni; variegati come i suoi capelli…”
Truman Capote avrebbe voluto che il personaggio fosse affidato a Marilyn Monroe. Forse la riteneva più adatta a interpretare le intemperanze di una donna che il coprotagonista, dopo un litigio, definisce “una volgare esibizionista, una perdigiorno, un’assoluta montatura”? E che per la benpensante vicina, Madame Spanella, è “moralmente riprovevole e un’animatrice di riunioni notturne che mettono in pericolo la sicurezza e l’equilibrio nervoso dei suoi vicini”.
Certo è che Holly, dietro a volubilità e fragilità, nasconde tante complessità e contraddizioni.
Ha frequentazioni equivoche, visita in prigione il gangster Sally Tomato e riferisce al suo avvocato se “c’è un uragano a Cuba” o se “nevica a Palermo”. Nel suo appartamento intrattiene uomini che “salvo la mancanza di giovinezza, … non avevano nulla in comune, sembravano estranei tra estranei”.
Ha frequenti sbalzi d’umore che vorrebbe affogare nella leggerezza e nella superficialità: “Ma non è per questo che vado pazza per Tiffany. Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie?”
“Mi sono accorta che per sentirmi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany”
Ha rapporti labili: con la modella Mag Wildwood, con un primo fidanzato ricchissimo Rusty Trawler, con il politico brasiliano José, del quale rimane incinta.
Per contro il vicino di casa, scrittore in cerca di successo, allaccia con lei un rapporto occasionato da una strana abitudine: “…nei giorni seguenti cominciò a suonare il mio (campanello), qualche volta alle due del mattino, alle tre e alle quattro”. Un rapporto sbilanciato e al tempo stesso equilibrato tra due polarità differenti: “Ma, se la signorina Golightly continuava a ignorare la mia esistenza, con l’unica eccezione dell’uso del campanello, io, nel corso dell’estate diventai qualcosa di simile a un’autorità sulla sua.”
Una relazione familiare nella quale Holly in qualche modo si riconosce, quando affibbia al vicino il nome del fratello Fred. Quando lo definisce “pieno di desideri, non stupido. Ha una voglia tremenda di essere al di dentro delle cose e di guardare fuori; e chiunque sta col naso schiacciato contro un vetro rischia di passare per stupido.”
Insieme i due rubano (“Non ci togliemmo la maschera per tutta la strada fino a casa”), cavalcano, soffrono, si spalleggiano nella ricerca di una collocazione nel mondo. E maturano una convinzione: “Non può continuare così per sempre. A non sapere cos’è tuo finché non lo butti via”. Nel desiderio fondamentale di arrivare – come il gatto rosso di Holly – “in un posto che era il suo posto”.
Un romanzo tutto da gustare nelle sue oscillazioni, nelle vibrazioni che trasmette, così diverso dal film che è stato cucito sulla bellezza eterea e sulla personalità affascinante di un’attrice indimenticabile. Figura tanto centrale da suscitare nella produzione cinematografica una revisione, propiziata dal puritanesimo americano, dell’intera storia.
Libro da leggere sulle note della colonna sonora di Heny Mancini, film da vedere ripensando agli elementi eterodossi presenti nel romanzo. Un confronto inevitabile nel quale apprezzare l’uno e l’altro.
Bruno Elpis
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365 cartoline di Natale!
“Il tema scelto per i racconti dell’antologia è il Natale. Ogni autore potrà declinare come vuole questo tema, purché esso sia sempre centrale e alla base della sua storia. Sarà possibile sfruttare qualsiasi genere letterario per dare vita a storie natalizie originali e interessanti (potranno esserci racconti di fantascienza, fantasy, storici, contemporanei, gialli e qualsiasi altro genere letterario)”.
Questa era la consegna di Franco Forte, apprezzato autore di romanzi epici come “Carthago” e thriller storici come “Il segno dell’untore”, qui nelle vesti di curatore della nuova opera di Delos che ripropone la fortunata formula delle passate raccolte antologiche. Dopo l’erotismo, l’horror, il millenarismo e il romance delle precedenti opere calendarizzate nei 365 giorni dell’anno, questa volta gli autori si sono dedicati a sentimenti, ispirazioni, emozioni, sogni, distorsioni, paradossi e situazioni legate alla festività più importante dell’anno.
I racconti brevi sono stati selezionati da Writers Magazine nel forum dedicato, ove ogni autore ha interpretato in modo originale e talvolta inaspettato la festività che la cristianità assegna alla nascita di Gesù.
Per tematica e novità di contenuti, l’antologia (disponibile nelle librerie dalla seconda metà di novembre) può ben rappresentare un’idea per un gradito regalo di Natale. In questo modo darete concreta espressione a una polifonia di voci nuove e imprevedibili. Questo il link per prenotazioni e acquisti immediati:
http://www.delosstore.it/delosbooks/44793/365-racconti-di-natale/
Anch’io faccio parte della raccolta con il racconto collocato al 9 gennaio. Ne pubblico l’incipit per fornire una testimonianza infinitesima (che vale meno di un grado nell’angolo giro!) degli altri 364: racconti che traboccano di energia e si nutrono della linfa nuova di molti autori esordienti ed emergenti accanto a coloro che non sono nuovi a un’esperienza di pubblicazione.
La nascita di un dio minore
La chiesa rimbomba di grida. Le carrozzine disegnano disordine di rotte. Non salgono suoni di zampogne o flauti angelici. Né cori celestiali e sinfonie di giubilo adeste fideles. I pastorelli hanno crani a cuspide. Le Madonne sono insolite dietro a lenti spesse e opache. I magi son ribelli. Musetti camusi, occhietti a mandorla, strabismi acuti e obliquità atone. Natale diviene una sfilata di punti interrogativi. Una rassegna di protesi, tutori e sostegni a celebrare un rito di pietà. Negli sguardi assenti e nei sorrisi disarmati vorrei leggere storie misteriose, cause genetiche o casualità. ? un presepe irrequieto l’enigma di manifestazioni ermetiche della vita. Vi brillano frantumi del mio cuore. La processione di agnelli sacrificali sfila. Io assisto impassibile fuori, devastato dal tumulto e dal disagio dentro. Vorrei che la neve tacitasse il mio, il nostro dolore. Così come ovatta il mondo e lo veste con ricami albini e spessori nuovi. Se nella notte sgorgasse un dio minore, nascerebbe anche per me. L’accoglierei. Lo cullerei, canterei la ninna-nanna “astro del ciel”. Me ne farei una ragione. Forse mi convertirei.
…
***
Per fornire un ulteriore assaggio, autorizzato dall’autrice, propongo l’incipit di “Juanito”. L’ha scritto Ilaria Spes, poetessa e fotografa: www.ilariaspes.it, e, nella pagina del 16 dicembre, parla di un’adozione internazionale:
Juanito
Guardo lineamenti dolci che si aprono in occhioni meravigliati. A riflettere intermittenze soffocate. Accarezzo i tuoi capelli di seta nera che cadono su liscia pelle ambrata e lo sento: nelle tue orecchie riecheggiano parole e accenti familiari, Maligayang Pasko!
Le tue iridi color ebano sono attraversate da lampi, frammenti del terrore che ha allagato la tua infanzia e del cataclisma che ha travolto la tua casa, sottraendo chi amavi.
Più che regali, dobbiamo offrirti doni immateriali, perché adesso qui da noi tutto è più contratto: Natale dura un solo giorno, mentre i tuoi ricordi riecheggiano i canti di una festa che iniziava già a settembre.
Non andremo alla messa di mezzanotte, temiamo il confronto con la Misa de Gallo, quella delle quattro del mattino di un 16 dicembre che apriva il Simbang Gabi. Noi non abbiamo la Misa de Aguinaldo. E chissà se mentre assaggi il panettone ripensi ai dolci di riso. Chissà se quando bevi intrugli occidentali rimpiangi il sapore dello zenzero.
…
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Nonostante gli incipit qui riportati, l’antologia ha molti racconti divertenti: per sorridere e perfino ridere. Con la sincerità e le emozioni di 365 autori che attendono di essere letti…
Bruno Elpis
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Rosa, rosae, rosae…
La sarta Serafina Delle Rose è devota e fedele a Rosario, il marito camionista che “arrotonda” facendo il corriere della droga (“Questa notte lo fa per l’ultima volta! Domani smette di portare la roba dei fratelli Romano!”). Ma il marito ha un’amante: Estella Hohengarten, che si rivolge proprio a Serafina perché le confezioni una camicia di seta per l’uomo che ama; Serafina ovviamente ignora che la donna è l'amante del marito. Rosario ha origliato e insegue Estella con il camion: sbanda, il camion s’incendia e Rosario perisce. Serafina si trincera nel dolore e impedisce alla figlia Rosa di avere un rapporto sereno con il ragazzo del quale è innamorata.
Quando Serafina scopre tutta la verità sul marito, in un primo tempo si rifiuta di credere, poi lentamente cede al corteggiamento di Alvaro Mangiacavallo, anche lui emigrante siciliano e camionista come Rosario (“Alvaro scende dall’argine. Ha circa ventisette anni, è bruno e molto attraente. E’ un tipo mediterraneo di quelli che sembrano lucidi torelli.”). Convintasi dell’infedeltà del marito, Serafina fa a pezzi l'urna con le ceneri e accorda maggior libertà alla figlia: la donna si sta finalmente liberando del suo passato e dei pregiudizi…
Tennessee Williams scrisse questo dramma appositamente per Anna Magnani, che però non conosceva l'inglese al punto di potersi esibire in teatro. Il drammaturgo cedette allora i diritti per la realizzazione di un film, del quale fu sceneggiatore. Al fianco di Burt Lancaster, la bravissima attrice italiana vinse l’Oscar nel 1955 come miglior attrice protagonista.
LA COMMEDIA DEI CLICHE’ SUGLI ITALIANI
Come viene rilevato nella prefazione, la pièce è “pericolosamente basata, ai nostri occhi, sul cliché dei nostri connazionali come appaiono agli stranieri, ossia estroversi, rumorosi, superstiziosi, pittoreschi…”
Qualche esempio?
Gli italiani sono rozzi: “Al paese loro abitano nelle caverne sui colli e chi comanda sono i banditi”.
Superstiziosi. Serafina dice di una vicina che è una strega: “Ha un occhio bianco e tutte le dita storte”. La figlia le fa notare: “Ha una cataratta, mamma, e le dita sono storte perché ha l’artrite!”
Legati a tradizioni spesso assurde. Come quella che impone di portare il lutto sine die: “Da tre anni sta davanti alla macchina da cucire e non si mette mai un vestito e non esce di casa…”
Bigotti: “Questa è una casa cattolica.”
Retrivi: “Noi siamo siciliani. Non lasciamo le ragazze sole coi ragazzi con cui non sono fidanzate!”
Sessualmente aitanti e focosi: “Quando penso agli uomini, io penso a mio marito. Mio marito era siciliano… abbiamo fatto l’amore ogni notte della settimana senza saltarne nemmeno una…”
Fedeli ai limiti della cecità: “A me basta ricordare l’amore di un uomo che è stato mio… solo mio!”
E poteva mancare questo luogo comune su di noi? “Io non mi chiamo Maccheroni”. “Va bene, Spaghetti”.
ROSA, ROSAE, ROSAE…
In questa pièce il simbolismo di Tennesse Williams è affidato alla rosa.
Rosario è il marito di Serafina, Rosa la figlia, Delle Rose il cognome.
Rosario ha una rosa tatuata sul petto e il suo tatuaggio è contagioso come una malattia: “Lui aveva una rosa tatuata sul petto, quel balordo, e Estelle… se n’è fatta tatuare una uguale anche lei.”
Il tatuaggio del marito ricorre nelle suggestioni di Serafina: “Mi sono guardata il petto nudo e ci ho visto sopra la rosa tatuata di mio marito, addosso a me, sul mio petto, il suo tatuaggio”.
Rosa è il colore del tessuto della camicia da realizzare: “Le portai la seta color di rosa per fargli una camicia”.
Il pretendente della figlia, il marinaio Jack, per ingraziarsi Serafina le fa un omaggio: “Spero che le rose le piacciano come piacciono a me”.
Le rose sono anche un vezzo: “E certe volte mi mettevo perfino… una rosa nei capelli…”
E un profumo: “Avete… olio di rose… nei capelli…”
E una metafora: “Il tempo delle rose è sempre, per tutti! La rosa è il cuore del mondo…”
Il contagio della rosa si estende prima ad Alvaro, che si fa tatuare il fiore sul petto, poi – in circolarità – si chiude con Serafina: “Proprio ora ho sentito di nuovo sul petto il bruciore della rosa. So cosa vuol dire…”
Bruno Elpis
P.S.
Come sempre, pubblico i miei q-commenti anche in www.brunoelpis.it (nella sezione "recensioni"), questa volta con le foto di Anna Magnani e Tennessee Williams.
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Il rhythm & blues di Tennessee
In questo volume sono raccolti quattro drammi, quattro immaginari blues cantati e musicati da personaggi che cercano nei risvolti estremi dell’immaginazione un surrogato della realtà. Da wikipedia: “blues è una forma musicale vocale e strumentale la cui forma originale è caratterizzata da una struttura ripetitiva di dodici battute e dall'uso, nella melodia, delle cosiddette blue note. Le radici del blues sono da ricercare tra i canti delle comunità di schiavi afroamericani nelle piantagioni degli stati meridionali degli USA.” Direi che la definizione calza: i drammi sono componimenti brevi, ove le battute insistono, esprimono sofferenza e hanno il ritmo di un dolore profondo.
Ne “La camera buia” si nasconde un orrore che ha per protagonista la figlia della signora Pocciotti, “una montagna di carne femminile, italianamente abbronzata”. Il segreto chiuso nell’oscurità della camera trapela grazie alle domande rivolte dalla signorina Morgan, una “meticolosa, schizzinosa zitella che si dedica all’assistenza sociale”.
Analogamente in “Ritratto di Madonna”, il portiere e il ragazzo dell’ascensore fanno affiorare la follia della signorina Lucrezia Collins, “una zitella di mezz’età, smilza e dalle spalle ad arco, con un viso tirato che l’agitazione imporpora.” Epilogo all’insegna dell’intervento di un dottore e di una rude infermiera, sollecitati dall’amministratore, il mite signor Adams.
“La lunga permanenza interrotta ovvero Una cena poco soddisfacente” è quella di zia Rose, ultraottantenne nubile e fragile, anche nell’aspetto, che viene “palleggiata” da nipoti e parenti nelle rispettive case. Anche Baby Doll e il rozzo Archie Lee le danno “il foglio di via”. Finale tragico ove un uragano – la natura chiamata a impersonare la crudeltà umana – sballotta la dolcissima vecchietta mentre “nel cervello, nipoti e pronipoti e cugini le passano innanzi come fogli di album sfogliati rapidamente.”
“Proibito” è forse il più inquietante – anche se è difficile stabilire una gerarchia degli orrori - dei quattro drammi: la bambina Willie (“non ha più di tredici anni”) “avanza su una rotaia tenendosi in equilibrio instabile con le braccia aperte”: è agghindata da entreneuse, ma stringe in una mano “una bambola straordinariamente malridotta con una scarmigliata parrucca bionda”. Il suo colloquio con Tom – un ragazzo che gioca con l’aquilone sulla massicciata della ferrovia sul tratto Memphis/New Orleans/Saint Louis – mette in luce un presente degradato nel quale la ragazzina incontra ferrovieri e gioca a fare la grande, sfidando la morte, dopo aver preso il posto d’intrattenitrice della sorella (“Ho ereditato anche tutti gli innamorati di mia sorella”): Alva è morta giovanissima, di tisi come la protagonista della “Signora delle camelie” ma senza violini che suonavano e senza “fasci di fiori bianchi”...
In queste opere molti ravvisano elementi autobiografici di Tennessee Williams: la schizofrenia della sorella, i disturbi mentali, gli attacchi di panico e le paure per gli aspetti terribili della realtà.
Sono testi da leggere se non si è già depressi. Se lo si è, l’angoscia potrebbe trovare nutrimento. E conferme.
Bruno Elpis
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Quando finisce un amore
“Il malinteso” è il primo romanzo di Irène Némirovsky.
Nella storia adulterina tra Yves Harteloup, giovane prestante con un passato di ricchezza e un presente da impiegato déclassé, e Denise Jessaint, donna della Parigi-bene, ben accasata con il ricco Jacques (“il matrimonio, un vero matrimonio francese, d’amore e di convenienza, poi la maternità…”), ho letto sia l’atteggiamento dell’autrice nei confronti del “genere maschile”, sia la dinamica – oserei dire classica e da manuale – dell’evoluzione del sentimento amoroso.
COME PER MIMI’, ANCHE SECONDO IRENE “GLI UOMINI NON CAMBIANO…”
Per Irène infatti sono:
irrazionali (“Brontolò con la mancanza di logica tipica degli uomini”).
Pratici e dediti agli affari: “Lei aveva immaginato che si occupasse di affari, come Jacques e come la maggior parte degli uomini del suo ambiente, quegli affari di cui le donne non capiscono nulla, se non che si traducono in grosse somme…”
Traditori e, per questo, da perdonare: “Mia madre… lo ha perdonato anche quella volta, una delle tante. Lo perdonava sempre: i suoi tradimenti erano quasi un’opera d’arte…”
Spaventati dall’amore: “Perché non dite chiaro e tondo amore? Vi spaventa così tanto questa parola?”
Suscitano un sentimento contrastante: un “misto di estraneità e di superstizioso rispetto”.
Hanno “una volontà che si subisce senza capire, come la volontà di Dio”.
Infine sono biecamente materialisti: “No, ho un’automobile… E’ meglio di una donna, però succhia altrettanto denaro…”
L’EVOLUZIONE ACCADEMICA DI UN SENTIMENTO
Il sentimento invece:
sboccia in un luogo romantico (“Hendaye all’epoca in cui era un semplice borgo di pescatori e contrabbandieri…”).
Inizialmente è carico di fremiti e poesia: “Quei fugaci e deliziosi momenti erano stati talmente simili a un sogno che ora Denise si chiedeva se li avesse davvero vissuti”.
Calato nella vita di tutti i giorni, si scontra con vincoli di ogni genere, regredisce e getta nel panico, come dice il detto-poesia:
“Amare e non essere amato,
essere a letto e non dormire,
aspettare e non veder arrivare
sono tre cose che fanno morire.”
E’ incompatibile con le certezze: “…Trovava ogni sorta di pretesto per arrivare in ritardo, troppo sicuro della presenza di lei, della sua disponibilità, del suo amore.”
Diviene soffocante, proprio come esclamò un bambino alla madre che lo stringeva: “Mi ami troppo forte, mamma, mi soffochi!”
A lungo andare richiede di essere tonificato da varianti e additivi. Che Denise intravede nel cugino Jean Paul: “E questo non solo la divertiva, ma dava a quei pomeriggi un sapore più intenso e più piccante.”
Infine, è destinato a finire: “Quella cosa doveva accadere”. Una fatalità?
Retrospettivamente è “monotonia, noia, ansia, tristezza…” Un ”amore grigio e malinconico come una giornata d’autunno”. “Immagini sfocate e pallide, come morte”.
Poi interviene un ricordo: “Il suo dolce, imprevedibile sorriso…”
E una consapevolezza: “Io non lo sapevo che era quella, la felicità… E ora è finita…”
Questa autrice mi piace, decisamente mi piace. La storia è un po’ lenta, minuziosa nelle descrizioni, poco votata all’azione. Un finto melodramma sotto il quale covano le ceneri di un fuoco che sta per esplodere. Un romanzo proprio come piace a...
… Bruno Elpis
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Il senso di Amélie per Ensor
Il volumetto contiene due racconti stralunati e surreali nella prosa tagliente e spigolosa alla quale Amélie Nothomb ci ha abituati.
L’ENTRATA DI CRISTO A BRUXELLES
Il protagonista Salvator ha una gioventù piuttosto difficile (“Ci sono casi in cui la compagnia di se stessi è talmente tossica che qualsiasi altra cosa è meglio”). Decide di fare da segretario a uno zio ricco, anche per carpirne l’eredità. Poi “lo zio Nazaire volle presentargli una ragazza. Irène aveva diciannove anni: raffinata quanto incantevole”. Ma interviene una grossa disillusione, alla quale Salvator reagisce con un crimine violento. Da lì una fuga, per riparare a Hong Kong, ove il fuggiasco intraprende una fiorente attività commerciale. Arricchitosi, torna a Parigi ove incontra e impalma l’affascinante e sfortunata Zoe (“Hai lasciato che sposassi una succhiatrice di teste senza avvertirmi!”), che soffre di terribili emicranie. Il viaggio di nozze tra Ostenda, la città di James Ensor, autore di “L’entrata di Cristo a Bruxelles,” e Bruxelles (“Un amore che resiste a una notte a Bruxelles è un amore credibile”), sarà l’anello di congiunzione con il terribile passato e dimostrerà che “non c’è amore più grande di quello edificato sulle macerie di un crimine inconfessato”.
Senza nome
Il protagonista innominato della seconda storia intraprende la follia di un viaggio in solitaria nella Lapponia finlandese: “Come spiegarla se non con quell’estasi del nord che si impadronisce dei sognatori?”
Sopravvive alla fame decimando i cani che trainano la slitta, poi si rifugia in uno stravagante casolare-labirinto, abitato da quattro giovani taciturni e impenetrabili, dediti a un’unica occupazione: la visione di demenziali soap opera videoregistrate. Trascorsa la prima notte, il protagonista “senza nome” penetra il segreto che accomuna gli abitanti della casa: “Scoprii i meriti dei programmi che rincretiniscono. Non solo obbligavano il mio compagno a tacere, ma in più ci mantenevano in una specie di letargia propizia al nostro stato d’animo: passiamo le nostre giornate a rilento, in modo da conservare per la notte l’energia vitale.”
Dopo un’esperienza per certi versi paragonabile a quella che Ulisse visse con le sirene, la conclusione in parte spiazza, in parte no: “In quest’epoca sinistra in cui la maggior parte delle persone si ammazza in lavori stupidi per avere il diritto di dormire in un letto, io avrei passato le giornate a riposarmi per essere fresco e in forma per la voluttà notturna”.
Leggere Amélie Nothomb è sempre interessante e piacevole, ma posso dire che è sempre meno sorprendente? Soprattutto il plot del primo racconto l’ho trovato piuttosto prevedibile…
Forse ravviso tra le righe l’ansia di continuare a sorprendere a tutti i costi, anche forzando un po’ la mano, per non tradire le aspettative di lettori sin troppo affezionati alla “ragazza terribile” della scrittura…
Bruno Elpis
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Inesistenza in acronimo
Il terzo capitolo della "trilogia araldica" è affidato a
Lui: il più inconsistente, il più evanescente e fantasmatico
Cavaliere che mente umana
Abbia mai potuto concepire. La storia: il giovane Rambaldo
Vuole vendicare la morte di suo padre e ci riesce. In un
Agguato viene salvato da Bradamante, di cui s’innamora.
La donna non lo ricambia perché il suo uomo
Ideale è Aginulfo, il cavaliere inesistente. L’inconsistenza
E' causata da una circostanza anomala:
Resosi eroe per aver salvato una vergine da violenza, gli
E‘ revocato il titolo nobiliare quando si scopre che
Invece, la donna, vergine
Non era. Pedinamenti a non finire: Aginulfo
E‘ rincorso da Bradamante, inseguita da Rambaldo… Tra
Scozia e Marocco, passando per
I cavalieri del Santo Graal alla ricerca del padre, Aginulfo
Si preoccupa di riconquistare un’identità. E l’esistenza.
Tanti i colpi di scena, cavallereschi
E non: compreso quello relativo all’identità della
Narratrice, suor Teodora, che altri non é…
Tra i nostri antenati è il più macchinoso, il più cervellotico
E non per questo il meno divertente…viva l’ironia fantastica!
Bruno Elpis
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Acronimo rampante
Il figlio primogenito dodicenne di nobile famiglia decaduta
Le regole dell’etichetta mal sopporta nella
Baronia d’Ombrosa, irreale paese ligure. Cosimo su un
Albero si rifugia e promette che non scenderà più. Il
Ragazzo non scherza, diviene arboricolo e nel giardino degli
Ondariva, vicini di casa, conosce e s’innamora di Violante.
Nel suo mondo Cosimo dorme, mangia, crea una capanna
E prende lezioni dall’abate; per mangiare impara a cacciare.
Rampante sì, ma intesse anche rapporti sociali
Al punto da divenir famoso in tutta Europa. Tra
Mille peripezie e avventure, anche amorose, alla morte del
Padre diviene barone; non verrà mai meno
Alla promessa inziale, raro esempio di coerenza,
Neppure all’atto della scomparsa… in mongolfiera!
Tra i nostri antenati è il mio preferito: avventuroso
E avventuriero, impersona con ironia l’anticonformismo.
Bruno Elpis
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Metà acronimo, metà no.
I nostri antenati sarebbero
L’origine genetica delle turbe dell’uomo contemporaneo. Il
Visconte Medardo di Terralba,
In Boemia durante la guerra con i Turchi,
Si smembra in due parti sotto il
Colpo di un cannone. Un vero
Orrore! Viene ritrovata e fasciata la parte destra, mentre
Non si trova più la sinistra. Il nobile, mela divisa in due!,
Torna a Terralba, ma quella che ritorna
E’ la parte malvagia: per la crudeltà è chiamato il Gramo.
Diversamente, la parte sinistra compie opere di bene e si
Innamora di Pamela, proprio come la
Metà malvagia. Il finale è rocambolesco tra fiori d’arancio
E vede la ricongiunzione dei due mezzi Medardi, entrambi
Zii dimidiati del narratore, uno
Zelante cacciatore di fuochi fatui nel cimitero.
Amabile metafora dell’incompletezza dell’uomo dilacerato
Tra il bene e il male, è un divertente modo per illustrare
O visualizzare le inconciliabili forze che agitano l’uomo.
"Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell'uomo tagliato in due, dell'uomo dimezzato, fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l'altra." (Italo Calvino)
Bruno Elpis
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Opere cavalleresche e picaresche.
Consigliato a TUTTI.
Genio e sperimentalismo
Uno dei romanzi più complessi di Calvino: per contenuti, struttura, influssi e impostazione culturale. Sicuramente un prodotto del suo genio creativo immerso negli sperimentalismi degli anni settanta.
Il contenuto apparente: le città invisibili
Sembra una contraddizione in termini: attribuire l’apparente contenuto a realtà invisibili, le città invisibili. Ma è una costante in Calvino che, fin dalla trilogia de “I nostri antenati”, si è occupato - nell’ordine - di un personaggio fisicamente dimidiato, di un eroe rampante e arboricolo, di un’entità cavalleresca inesistente. Contraddizioni viventi o personificazioni di fantasmi umani.
Ogni capitolo è introdotto dal dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari: Kublai Khan interroga l’esploratore sulle città del suo sterminato impero. E Marco Polo descrive città reali o immaginarie, suscitando interesse e attenzione nel Gran Khan.
Le cinquantacinque città descritte da Marco Polo hanno nomi di donna e sono il simbolo della complessità reale da imbrigliare nella struttura il meno possibile rigida di un’opera.
La struttura e la letteratura combinatoria
Tecnicamente, il romanzo pubblicato nel 1972 rappresenta – per ammissione dello stesso autore (“questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po' dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”) – un esperimento della letteratura combinatoria.
I dialoghi di Marco Polo e Kublai Khan sono una cornice, un telaio. All'interno dei nove capitoli, il lettore può assumere un ruolo attivo e giocare a “gatto e topo” o a “nascondino” con l’autore, cercando le combinazioni cifrate dell’opera e i significati.
Le città sono organizzate in undici categorie: memoria, desiderio, segni, le città sottili, scambi, occhi, nome, morti cielo, le città continue, le città nascoste.
Il lettore può valutare se seguire la sequenza proposta dall’autore, oppure visitare le città per categorie o addirittura spigolare a proprio piacimento saltando di palo in frasca. Un tradizionalista come me, incantato dall’originalità di Calvino, ha ovviamente seguito pedissequamente l’ordine narrativo impartito dall’autore. Ma non escludo, in futuro, una lettura più creativa ed egoriferita dell’opera.
L’impostazione culturale tra simbolismo, utopia ed esistenzialismo
Ne “Le città invisibili” ho ritrovato tutti i principali influssi culturali del novecento, sintetizzati in un’opera potentemente simbolica, plastica nell’architettura organica e fotografica nelle tappe.
La ricerca di Calvino riscopre le valenze oniriche illuminate dalla teoria psicanalitica: le città sono sogni perché “tutto l'immaginabile può essere sognato, ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra”.
Il sogno poi sconfina in una nuova proposta di utopia: destrutturata, discontinua, immaginifica, cavalcando una realtà che non è concreta, ma fluida, ideale, fantastica.
I temi del ricordo e del tempo evocano Proust in modo nuovo, mentre l’angoscia del disordine – che sia questa la matrice dell’ansia struttural-semiotica di Calvino? – fa rivivere l’esistenzialismo di Sartre nel fuoco dell’inferno reale. Con una proposta: vi sono due modi per affrontare “l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme” . “Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Come dire, delle due l’una: o conformarsi o ribellarsi…
Un romanzo che fornisce sempre nuovi spunti
Come quello che anima "Invisible cities", rappresentazione ispirata alle città invisibili di Italo Calvino. Se queste sono "luoghi della mente", per riprodurre in modo nuovo la pièce di Christopher Cerrone il regista Yuval Sharon ha scelto la Union Station di Los Angeles. Un'orchestra, otto cantanti e sette ballerini, coreografati da Danielle Agami, sono collegati da un sistema di microfoni e auricolari senza fili. Gli stessi strumenti vengono forniti a duecento passanti, che decidono liberamente quale delle parti dell'opera vogliono ascoltare e se rapportarsi con gli interpreti… (notizia liberamente tratta da “Repubblica on line”).
Bruno Elpis
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Stanley Kowalski e Marlon Brando
Meglio leggere l’opera imprimendo negli occhi le immagini del film (1951) di Elia Kazan, interpretato da Marlon Brando, o vedere il film stimolati dall’opera (di Tennessee Williams) che per prima vinse uno dei due Premi Pulitzer (nel 1948 con “Un tram che si chiama Desiderio”; nel 1955 con “La gatta sul tetto che scotta”) riconosciuti al grande drammaturgo americano?
Comunque si risponda alla domanda, vero è che la vicenda di Blanche Du Bois, trentenne schiava dell'alcool e del sesso che dissimula la sua profonda inquietudine sotto un'elegante, petulante e sofisticata apparenza, è una pietra miliare nella storia del teatro.
Da una cittadina del Mississippi Blanche rende visita alla sorella, Stella Kowalski, che vive con il marito a New Orleans in uno squallido appartamento. L’itinerario per raggiungere il luogo è una veemente metafora:
“M’hanno detto di prendere un tram che si chiama Desiderio, poi un altro che si chiama Cimitero, e alla terza fermata scendere ai Campi Elisi!”
Giunta dalla sorella, Blanche comunica che Belle Reve, la piantagione di famiglia, è stata "persa":
“Belle Réve? Perduta? No!”
E dichiara di essersi presa una pausa dall’insegnamento: poi si scoprirà che, in realtà, è stata sospesa dall’incarico a causa di una sua relazione con uno studente minorenne. Nel passato di Blanche c’è anche un breve matrimonio segnato dal suicidio dell’ambiguo e bellissimo marito, Allan. Questi trascorsi hanno inciso sulla personalità dell’ex insegnante: “Sei un po’ giù di nervi, esaurita, mi pare.”
Stanley Kowalski, il marito polacco di Stella, è un uomo rozzo e sensuale (“Stanley spalanca la porta della cucina e entra. E’ di media statura, robusto e taurino. E’ implicito nei suoi atteggiamenti e nelle sue attitudini il piacere animale di vivere. Le donne hanno costituito dalla sua prima virilità, il valore della sua vita”), che domina Stella fisicamente ed emotivamente. Stella è attratta dalla natura primordiale del marito, ma l'arrivo di Blanche sconvolge gli equilibri. Tra Blanche e Stanley scoppiano i fuochi d’artificio…
Nell’appartamento di Stanley si tengono partite di poker: “Stanley, Steve, Mitch e Pablo giocano al poker. Portano camicie a forti tinte … e sono uomini nel colmo della loro virilità, brutali e schietti e robusti come i sette colori.”
"Mitch" Mitchell si innamora di Blanche e lei intravede una possibilità di ricostruire la propria vita…
Stanley distruggerà tutto, anche in senso fisico, ristabilendo il suo predominio minato dalla cognata, che precipita nel baratro della follia…
La bellezza del dramma risiede nella violenza immaginifica ed esplosiva che contrappone personalità diverse e antitetiche in un chiassoso ambiente piccolo e chiuso. Sullo sfondo le musiche di una New Orleans onirica, elettrizzata da una realtà multirazziale ove risuona la ricorrenza di una polka varsouviana. Una tragedia contemporanea che non può mancare a chi ama la potenza dell’espressione.
Bruno Elpis
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Siamo fragili come cristalli
Gruppo di famiglia in un interno di Saint Louis, in una vecchia casa ormai fatiscente. I componenti di questa famiglia sono in buon ordine:
Tom Wingfield, giovanotto insoddisfatto del proprio lavoro in un magazzino di scarpe, insofferente alle prediche ossessive della madre;
Amanda, donna sull’orlo di una crisi di nervi (come molti personaggi femminili nelle opere di Williams), abbandonata dal marito e preoccupata in modo patologico per l'avvenire della figlia maggiore;
Laura, timida e complessata (“Vive in un mondo per lei, un mondo di… fragili figurine di vetro…”) per il fatto di essere claudicante:
“Tom: Laura … è nostra e le vogliamo bene. Non ci accorgiamo neanche più che è zoppa.
Amanda: Non dire zoppa! Tu sai che questa parola non la sopporto!”
Amanda assilla i suoi ragazzi con il suo fare esasperante e trasforma il suo morboso amore in persecuzione psicologica.
Tom scrive poesie, passa il suo tempo al cinema e si ribella all’atteggiamento soffocante della madre, litigando con lei frequentemente.
Laura si chiude sempre più in se stessa, nella sua vita monotona e senza sbocchi. Ha rinunciato al diploma e ha interrotto un corso di dattilografia: le uniche sue occupazioni sono una minuscola collezione di animaletti di vetro e l'ascolto di vecchi dischi (“Non fa altro che trastullarsi con quei cosini di vetro e suonare vecchi dischi”).
La madre desidererebbe veder accasata la figlia (“Dopo il fiasco della dattilografia, l’idea di scovare un pretendente per Laura si fece il motivo determinante delle macchinazioni di mia madre. Diventò un’ossessione”). Quindi chiede insistentemente a Tom di trovare un ragazzo per la sorella. Così Tom una sera invita a cena il collega Jim, che fu suo compagno di liceo e che anche Laura conosce (ne era innamorata!).
Amanda è eccitata, fa grandi spese per rinnovare la casa, compra un grazioso abito per Laura, prepara una cena. Jim arriva a casa con Tom: Laura è imbarazzatissima.
Terminata la cena, la madre e Tom lasciano soli Jim e Laura. La conversazione è dapprima molto difficile per l'eccessiva timidezza della ragazza, ma poi l'ospite vince la diffidenza di Laura e i due iniziano a parlare senza problemi, si confidano, si apprezzano:
“Jim: Adesso vuol sapere che malattia ha lei? Complesso d’inferiorità. Sa cos’è? Quando uno si sottovaluta.”
Quando Jim si accorge che Laura lo guarda estasiata… be’ il finale non si può svelare.
Pièce complessivamente molto triste, in essa Tennessee Williams gioca sull’allegoria dello “zoo di vetro”:
“Le mie statuine di vetro mi prendono molto tempo. Il vetro ha bisogno di attenzioni.”
“Non è nulla. Il vetro si rompe così facilmente. Per quante precauzioni si prendano. Il traffico della strada fa tremare gli scaffali e ogni tanto ne cade uno.”
Abbinando, in modo magistrale, la potenza drammaturgica a quella simbolica.
Bruno Elpis
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Tempo di Nobel
Onitsha è la storia di Fintan, un ragazzo europeo che da Bordeaux raggiunge il porto di Marsiglia ove s’imbarca per navigare prima lungo la costa Africana e poi, dopo averne imboccato la foce, lungo il fiume Niger sino a Onitsha, colonia della Nigeria.
Il viaggio si svolge con la madre italiana (chiamata affettuosamente Maou). Corre l’anno 1948.
Scopo del viaggio è incontrare Geoffroy Allen, il padre inglese di Finntan, dirigente di una società petrolifera, che il dodicenne Fintan non ha mai conosciuto.
L’incontro avviene tra i contrasti sociali ed etnici del continente nero, che presto sfociano in una rivolta della popolazione locale.
Paesaggi, miti, leggende dell’Africa si fondono in descrizioni cupe e dalle tinte fosche; probabilmente sono ricordi in chiaroscuro dell’infanzia dello stesso autore, premio Nobel per la letteratura nel 2008.
Il tono tenebroso ed onirico della narrazione si coniuga con il sogno di scoprire l’antica città di Meroe, fondata da una regina egiziana. Le Clézio critica razzismo e colonialismo con prosa a volte impenetrabile, attraverso pennellate impressionistiche piuttosto che in modo organico.
Onitsha rimane principalmente un romanzo di viaggio: un percorso in una terra ancestrale, a tratti selvaggia, a tratti contaminata e inquinata dal dominio occidentale, un cammino simbolico che è anche incursione nelle più oscure e tormentate profondità della storia, della memoria e dell’animo umano.
Bruno Elpis
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Sentimenti e occasioni
Nel 2005 il regista Ange Lee, con il film “I segreti di Brokeback Mountain”, sdogana un cliché americano e racconta la drammatica passione amorosa tra due cowboy del Wyoming. La storia – tratta da un racconto di Annie Proulx – è ambientata nelle zone rurali e montuose ove imperversa la mentalità più conservatrice degli anni sessanta. Il film ottiene successo di pubblico e numerosi riconoscimenti: dal Leone d’Oro a tre Oscar.
Operazione analoga ha in fondo compiuto Pier Vittorio Tondelli nel 1982 in “Pao Pao”, opera che annienta lo stereotipo del militare integro e virile pur raccontando “una storia di soldati, di gente alta e bella, di eroi da romanzo, impervi, granitici e sublimi”. Una storia di esperienze giovanili ove trova ampio spazio il sentimento: “L’amore è come un dono degli dei che si muove sulle ali del vento sempre inafferrabile e sempre inseguito”.
Il protagonista di Pao Pao attraversa le fasi canoniche che caratterizzavano il periodo della leva, quando questa era obbligatoria: l’incognita più o meno reale per destinazione e incarico (“… Sapevo già non solo la mia destinazione definitiva, ma anche l’incarico e il ruolo che avrei svolto sotto leva … Starsene in un Car è abbastanza un privilegio perché non si fanno campi armati ed esercitazioni in tenda, e insomma non si è reparto operativo …”), in un sistema dominato da meccanismi tutti italiani (“storie di un’Italia policlinica e poliambulatoriale, certificati su certificati, e io raccolgo, schedo, istruisco, compilo …”) ove si consumava il sacrificio variamente vissuto di un anno di vita.
Irrituale e originale è l’atteggiamento del giovane militare: sensibile al fascino dei luoghi (“Mi aprirò dunque e mi distenderò a questo panorama umbro, alla macchia che attacca le colline, ai boschi; mi allargherò in questi sguardi dall’alto che danno pace e senso e finalmente quel lungo e lieve respiro di cervello che conferma la tua presenza al mondo, che suggerisce qui, ora, finalmente ci sei”), ne interpreta stimoli e fascino in chiave personale (“Ho anch’io la mia storia, i miei sedimenti e i miei territori d’affetto. Non avrei mai pensato che il servizio militare … si insinuasse nella mia esistenza …”), affrontando la vastità degli incontri (“nella piazza d’armi che smista verso altre storie tutti i miei amici, io sento in pieno questa precarietà degli affetti e della vita … questo essere in balia di trasferimenti e ordini e comandi …”) che l’esperienza totalizzante e collegiale riserva: “… i vecchi equilibri sono del tutto saltati e … ora sei una persona diversa in cerca di alleati, alla disperata ricerca di ragazzi che abbiano il tuo stesso odore.”
L’anno trascorso prima a Orvieto e poi a Roma è una babele di personaggi (“piccolissimo e storto nella gambe e nel viso, Magico Alvermann somigliantissimo a Marty Feldmann per via degli occhietti tondi … corpo piccolo molto Hobbit della terra di mezzo …”), un’esplosione di vitalità (“nelle libere uscite … noi schiamazzanti e urlanti come quel giorno al lago di Bolsena …”), una varietà di situazioni anche estreme (“Faceva canne meravigliose e imponenti con filtri lunghi dai trenta ai quaranta centimetri tanto che a fumarli sembrava di star lì a suonare le trombe di Gerico perché il fumo arrivava talmente forte e talmente in blocco che rimanevi sotto choc per dieci minuti buoni”) che oscillano tra ritualità (“senza mai per un attimo accorgerci che quello era già un passato e un rito…”), obblighi imposti (“a far continue guardie all’Altare della Patria e tutti quei santini e quelle madonnine lì che han bisogno dei suoi vent’anni per tirare avanti”), eventi di cronaca nera (“…la stazione di Bologna è saltata… Il fatto di Bologna con quelle cento e più storie distrutte ci atterrì…”), impegni civili (“i miei amici, tutti spediti al Sud a spalare macerie e rivoltare i cadaveri del sisma del ventitré novembre”).
Perché questo era l’anno del militare di leva: non un servizio irrigidito da regole e protocolli marziali, ma una convergenza di vite (“Ma le occasioni della vita stupiscono mai abbastanza nella loro frammentarietà che poi un bel giorno si salda in una sottile e delicata vibrazione che ricorda e riannoda e uniforma il tono di diversi percorsi …”), un ventaglio di occasioni (“Ma le occasioni della vita stupiscono mai abbastanza nella loro frammentarietà che poi in un attimo si salda e poi, un attimo dopo, svanisce inghiottita dall’insensato ritmo delle ore e dei giorni”) nell’incertezza esistenziale (“Le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo”) di stati e prospettive.
Bruno Elpis
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Il complesso di Elettra secondo Camilleri
L’omicidio di Cosimo Barletta fa emergere un profilo spregevole della vittima. Donnaiolo perverso e ricattatore (“Nel primo cascione … c’erano ‘na vintina di biste gialle … Supra da ognuna c’era scrivuto un nomi di fimmina …Ammostravano tutte alla stissa picciotta, nuda, in posizioni oscene o mentri faciva all’amuri con Barletta”), in vita praticava l’usura (“Barletta ‘mpristava dinaro a strozzo”) e si era creato molti nemici tra le donne ricattate e le persone strangolate dai debiti.
Di fronte a tale profilo, il commissario Montalbano quasi quasi non sa per chi parteggiare: “… ‘na cosa è mannare ‘n galera a uno che ha ammazzato a un galantuomo e ‘n’autra cosa è mannare ‘n galera a uno che ammazzato a un fitenti farabutto.”
Il romanzo è ricco di riferimenti culturali (non ultimi quelli alla tragedia greca e ai complessi edipici), presentati con leggerezza dai personaggi che ispirano familiarità e simpatia.
Come simpatia ispirano la carnalità godereccia (“Da Enzo si era fatta ‘na gran mangiata di purpi a strascinasali, tinnirissimi, e i purpi è cosa cognita che sunno strenui combattenti dintra alla panza prima d’essiri sconfitti dalla digestioni”), l’intellettualismo peculiare (“Il ciriveddro è ‘na gran camurria di machina che non sulo non s’arresta mai, ma t’obbliga a pinsari a quello che voli lui”), la complessità (“L’autro Montalbano, quello che stava acquattato dintra di lui e viniva fora alla minima occasioni, si fici subito vivo”) di Montalbano.
Lo stile narrativo di Camilleri – la parlata sicula trasformata in linguaggio scritto - è unico e contagioso: mentre leggo un suo romanzo, non posso fare a meno, io stesso, di utilizzare termini come cabasisi, ammazzatina e camurria, verbi come taliare e congiunzioni come macari.
Sul piano contenutistico, trame come quella di “Un covo di vipere” sono sempre avvincenti: stimolano, divertono, incuriosiscono… e l’ironia diffusa tra le righe conquista anche il lettore più recalcitrante.
Bruno Elpis
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Piccoli Hannibal Lecter crescono
“Gioventù cannibale” è un ferocissimo esperimento letterario (degli anni novanta) nel quale diversi autori danno sfogo a impulsi di varia natura, tutti riconducibili alla dissacrazione di schemi e canoni sul piano stilistico, alla demolizione di morale e limiti sul piano dei contenuti.
La prefazione di Daniele Brolli, intitolata “Le favole cambiano” mi ha illuso: “Si sa che il moralismo è quella pulsione sadica che spinge chi ne è vittima a conservare i propri cadaveri negli armadi altrui. Ed è anche l’unica forma di perversione socialmente ammessa, capace di relegare tutte le altre a comparse sul palcoscenico degli atti proibiti. Moralismo e ipocrisia, poi, sono complici e il loro legame indissolubile governa l’universo del pregiudizio”. Ho pensato infatti di trovarmi di fronte a racconti interessanti che magari ripetessero l’esperimento (pur rapportato ai tempi) che Gide compì ne “L’immoralista”. Questa aspettativa in realtà è stata travolta dalla sequenza delle composizioni che realizzano la loro trasgressione con la solita consunta triade (sesso, droga e rock&roll) spruzzata – anzi inzuppata - da un effluvio di sangue che scorre con ritmi e modalità mutuate dalla cinematografia splatter e truculenta. Cosa ci sia di innovativo e trasgressivo nello strumento al quale tutti ricorrono da diversi decenni (direi almeno dagli anni settanta) qualcuno me lo dovrebbe spiegare.
“Seratina” di Niccolò Ammaniti e Luisa Brancaccio racconta di un delirio notturno nel quale Emanuele si lascia coinvolgere da Aldo (“una persona accettabile, ma se lo si scomponeva ogni suo gesto, pensiero e azione erano detestabili, volgari e malsani”). Il programma della seratina prevede: rimorchiare un’amica infermiera, assumere sostanze psicotrope e alcol, introdursi nello zoo e trafugare un cucciolo di canguro (“E poi cercò di infilarsi nel marsupio, l’unica tana sicura che conosceva”), infierire su un trans…
Alda Teodorani (“E Roma piange”) coniuga il rosso del tramonto capitolino con il sangue di omicidi efferati, giacché il protagonista presta servizio per realizzare un’opera discutibile di pulizia socio-etnica (“Hai mai pensato di diventare uno spazzino?”).
“Il mondo dell’amore” di Aldo Nove è il mondo di Michele e Sergio: due giovani che – forse ispirati da un film pornografico – intraprendono una sanguinosa via verso la transessualità.
Daniele Luttazzi reinterpreta una fiaba di Perrault. In “Cappuccetto splatter”, Cappuccetto rosso è una modella, la mamma è la sua agente, il lupo è un P.R., la nonna uno stilista. Il bosco da attraversare è una Milano surreale. Cannibalismo e sangue in frenesia libera non pregiudicano uno strampalato lieto fine della cruentissima storiella.
Andrea G. Pinketts, con lo slogan “Diamonds are for never”, imbastisce la sua carneficina sul pullman Milano-Lido della Pentola.
Nelle pagine di un “Diario in estate” (di Massimiliano Governi) è scritta la triste storia d’amore di una ragazza che trascorre il suo tempo a Villa Pamphili a stordirsi di fumo. Lì conosce un neonazista, Nicolas, che la introduce ai cristalli di shaboo (“Lo usavano i kamikaze giapponesi durante la seconda guerra mondiale … mi snetivo una belva e avrei fatto senza sforzo dieci volte il giro della villa”). Di fronte al padre, che si oppone alla relazione sbagliata di Asia (“Le ho comprato la bara di Barbie…”), la furia di Nicolas è tremenda.
“Treccine bionde” è un cadavere che balla. Nel racconto di Matteo Curtoni l’atmosfera è pervasa da “alcol, frastuono e assenza di pensieri, una miscela diabolica e inebriante che li spingeva, talvolta, verso il sospetto che quei tre elementi fossero la creta con cui era stato modellato il paradiso. O l’inferno. O tutt’e due.”
In “Cose che io non so” Matteo Galliazzo riproduce una saga di blasfemia (“Eliah voleva costruire una statua della Madonna, una di quelle statue che sanguinano”), eresia, esercizi semantici e linguistici (“Esistono infiniti nomi di Dio. Nessuno potrà mai pronunciare il Suo nome”), teorie cosmogoniche elaborate da due giovani, che sono cellule impazzite dei testimoni di Geova e che cercano ispirazione in un atroce serial killer.
“Il rumore” di Stefano Massaron è il racconto forse più complesso: è la triste storia di Debora la Palla, una bambina obesa, vittima del branco, che decide di seguire una sua fantasia (“sorridendo, sale sulla schiena dell’uomo che vola”) dopo essere stata umiliata dai ragazzini che giocano a campana e dopo aver assistito alla barbarie che suo padre sfoga sulla mamma.
“Il giorno di paga in via Ferretto” di Paolo Caredda precede la postfazione (“Spazzatura e violenza: sull’estetica cannibale”), nella quale Emanuele Trevi tira le fila dell’opera muovendo le sue considerazioni dal “Dialogo della Moda e della Morte” (tratto dalle Operette morali di Leopardi), autentica boccata d’ossigeno per il lettore che, avendo resistito sino alla fine, è ormai in iperventilazione:
MODA. Io sono la Moda, tua sorella.
MORTE. Mia sorella?
MODA. Sì: non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla caducità?
Ipotizzando che il primo autore splatter sia stato Salgari, Trevi attribuisce all’opera originalità e carica innovativa: “è in questione infatti una violenza senza motivo, senza sfondo psicologico, senza l’ombra di una dialettica tra delitto e castigo”. In tale convinzione, “i cannibali” rappresenterebbero un’avanguardia che si muove “in direzione antipsicologica” e incarnerebbero “l’estetica di fine millennio”.
I canoni di questa estetica? “Un aspetto (la spazzatura) implica ed è implicato dall’altro (la violenza) in una circolarità che più viziosa di così non si potrebbe”…
Personalmente, preferisco altre estetiche. Sull’opera ovviamente lascio ai posteri l’ardua sentenza. Io, come contemporaneo, ho espresso una semplice opinione, che non vuole essere una sentenza.
Bruno Elpis
Indicazioni utili
- sì
- no
Colpire al cuore
Torna “l’ispettore superiore Negro”, la creatura di Carlo Lucarelli, in una nuova avventura che la vede impegnata sul fronte personale a inseguire un travagliato sogno di maternità: lei e il suo compagno, l’ipovedente Simone, ricorrono alla fecondazione assistita e affrontano difficoltà e complessità psicologiche conseguenti. Con un’aggravante: l’affascinante Grazia prende una sbandata per Pierluigi detto Pigi (ma Pierluigi è il cognome!), timido e a sua volta innamorato capitano dei CC che affianca Grazia nella nuova indagine.
Sul fronte professionale la scena è occupata da un delitto: “Senti, hanno ammazzato un ragazzo, ieri notte.”
“Lo so, l’ho sentito, uno studente. Mica è un caso nostro, è della omicidi. Che c’entra l’antimafia?”
“… è il nipote di Giannello Carmelo … nella lista dei dieci latitanti più ricercati in Italia…”
L’omicidio è orrendo: “Gli hanno strappato il naso e le orecchie e gli hanno slogato la mascella per strappargli anche la lingua…”
E presenta un particolare inquietante: “E poi quello strappo sui vestiti, all’altezza del cuore. Vorrà dire qualcosa, no? E tutta quella violenza…”
Come se l’assassino volesse strappare il cuore alle vittime!
Poi il delitto viene replicato. Nuova vittima una donna, che ha la colpa di affittare immobili ‘in nero’: “Se questa è una guerra di mafia – disse Pierluigi – è parecchio strana. Non è che la signora fosse un killer o un boss, come non lo era Enzino.”
Il serial killer prende di mira “Tutte persone che a vario livello avevano a che fare con la sfera dell’illegalità.”
Anche per questo gli inquirenti sono disorientati e prospettano un’ipotesi: “Le perquisizioni compiute nelle abitazioni di accertati, conclamati e sospettati appartenenti a gruppi eversivi e antagonisti, con particolare attenzione all’area anarco-insurrezionalista.”
Grazie a un blog e alla canzone di Andrea Buffa intitolata “Il sogno di volare”, le ricerche prendono altre direzioni. Si individua un presunto colpevole pregiudicato, che farà una brutta fine; poi si sospetta del tenente Rosario, che aveva indagato sulla morte bianca di un tunisino in un cantiere edile.
Il serial killer, per le caratteristiche dei delitti che inscena, viene chiamato “il cane”. E l’indagine viene denominata “Furia Rabbiosa”.
“Se la gente sapesse che c’è in giro un assassino che morde la gente come un cane idrofobo…”
“Vuole fare un buco. Per arrivare fino al cuore.”
Lucarelli narra, come spesso accade nei suoi romanzi, anche dal punto di vista dell’omicida: “Verrò a prendervi uno per uno, stronzi maledetti, e vi mangerò il cuore”.
Il romanzo è, come sempre, interessante anche dal punto di vista tecnico: “Negli omicidi in serie il primo è sempre quello meno accurato, il più spontaneo. Gli altri raccontano quello che il killer vuole dirci, ma il primo parla sempre un po’ di più.”
Tra i personaggi della storia, interviene anche un uomo in carne e ossa: il criminologo Massimo Picozzi, che fornisce informazioni sul disturbo della personalità multipla: la patologia dissociativa che sembra affliggere “Il cane”…
Bruno Elpis
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Danzare con la morte
“Ti propongo una scommessa (lo dice sofferente, dalla sua scomoda posizione): tu verrai ogni Natale, e se ti farò vivere ancora, mi lascerai vivere fino al Natale successivo…”
Ne “L’ultimo ballo di Charlot”, opera finalista al premio Campiello 2013, Fabio Stassi alterna gli “Interno notte” del 24 dicembre 1971, 1972 … 1977 a capitoli intitolati “Primo rullo”, “Secondo rullo”…
Negli “Interno notte” si riportano i metafisici colloqui tra Charlot e La morte (“Non devi farmi ballare, Charlot, devi farmi ridere…”) e le circostanze grazie alle quali l’uomo per ben sei volte procrastina l’appuntamento estremo.
Nei “Rulli” Charlot scrive un’immaginaria lettera a Christopher, il più piccolo dei suoi figli, che nel 1971 ha soltanto nove anni e rappresenta la ragione principale per la quale Charlot chiede alla morte di ripresentarsi l’anno successivo.
Nella lettera, Charlot rievoca dettagli sconosciuti (secondo l’autore “inventati”) della sua vita e il passato circense (“Lì imparai le capriole, i salti mortali, a camminare sulle mani”) disseminato da personaggi come Frida la donna cannone, Marceline il mimo o il ventriloquo, sul quale aleggia la leggenda di Arlequin (“Quel tipo più nero della notte che pulisce la sabbia degli elefanti e toglie gli sgabelli dalla pista”): “la commovente storia del montambanco che inventò il cinematografo per amore” di “Eszter, la cavallerizza ungherese”, fuggita in America per cadere vittima di un terribile incidente durante un’esibizione.
Nella “compagnia di Fred Karno, la Fun Fantasy… solo uno era più bravo di me, anche se doveva farsi le ossa: un ragazzo magrolino dall’aria pasticciona, i capelli dritti e gli occhi perennemente sul punto di lacrimare. Allora usava ancora il suo nome: Arthur Stanley Jefferson, ma tutti l’avrebbero conosciuto come Stan Laurel”.
Proprio con il futuro “Stanlio”, Charlot intraprende un viaggio in America, ove i due si introducono clandestinamente. Poi le tappe si susseguono: New York, San Francisco, Los Angeles Chicago, sulle tracce dell’equilibrista a cavallo… talvolta tirando la monetina per decidere la tappa successiva.
Con le tappe del viaggio, le esperienze si infittiscono. A San Francisco diviene imbalsamatore (“Ho scuoiato parecchie carcasse, gli ho svuotato le vene, strappato budella e nervi, cucito bocche, maneggiato la formalina e ogni tipo di unguenti e resine”) presso il signor Archibald (“Mi esaltava la possibilità di sfidare la Morte fino in fondo”), lavora in una fabbrica di candele, è tuttofare in una palestra di boxe, diviene apprendista tipografo e conosce il mondo dei libri…
A Los Angeles con un espediente si procura un impiego come “scrittore di didascalie in un cinematografo”: è l’occasione per realizzare il suo primo cortometraggio (David Copperfield), anche se svolge il suo ruolo sulla scia dell’improvvisazione (“Andavo a braccio, sperando che quel mestiere fosse talmente nuovo che nessuno sapesse ancora in cosa consisteva”).
Ne seguono altri: “Quei cortometraggi duravano più o meno un quarto d’ora ciascuno. Ne finivamo anche tre alla settimana, ma nessuno uscì con il mio nome.”
Sino al successo: “Fu quel giorno che diventai Charlot, the Tramp, il vagabondo con la bombetta e il bastone di bambù…”
“L’ultimo ballo di Charlot” è un romanzo particolare, di nicchia, soffuso com’è della malinconia che campeggia nel mondo dello spettacolo e del circo, colorato dalla varietà di personaggi anomali e tragici, nostalgico nel ripercorrere il ventesimo secolo che saluta ai suoi albori due “invenzioni” rivoluzionarie: il cinematografo e l’aeromobile…
Bruno Elpis
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Sulle cime tempestose degli aforismi
Questo commento è un acronimo composto traendo dal romanzo frasi che cercano di mettere in luce l’essenza romantica – in senso letterario – della storia tra Heathcliff e Catherine: la storia di un amore che è una forza contrastata dagli eventi umani, che sfida tutto e tutti, che invade i luoghi e si identifica nella natura, che sopravvive inquieto alla morte insinuandosi nel vento della brughiera.
Un romanzo che ha ispirato film, un musical (Cliff Richard, Heathcliff) e canzoni, come quelle di “Wind & Wuthering” dei Genesis e “Wuthering” heights” di Kate Bush:
“Torna a casa, ho così freddo!
Lasciami entrare dalla tua finestraHeathcliff,
sono io Cathy
Torna a casa, ho così freddo!”
C
Condussi una ben dura esistenza, dal giorno che ho cessato di udir la tua voce. Ma tu devi perdonarmi: perché ho lottato solo per te.
I
Io gli ho dato il mio cuore, e lui lo ha preso e lo ha stretto crudelmente fino a ucciderlo.
M
Mi dimostri come sei stata crudele, crudele e falsa. Perché mi hai disprezzato? Perché hai tradito il tuo stesso cuore, Catherine?
E
E non gli dirò quanto lo amo, e non perché sia attraente, ma perché è per me più di quanto lo sia io stessa.
T
Talvolta ci facciamo prendere dalla compassione per creature incapaci di provare sentimenti sia per se stessi che per altri.
E
E mi domandavo stupito come mai, come mai qualcuno potesse fantasticare d'inquieti sonni, per coloro che dormivano in quella terra tranquilla.
M
Ma non è così, no: è che ho perduto la facoltà di godere della loro distruzione, e son troppo pigro per distruggere senza motivo.
P
Perdonami perché ho lottato solo per te.
E
E non lasciarmi vedere i tuoi occhi. Io ti perdono per quello che hai fatto a me. Io amo il mio carnefice; ma il tuo? Come potrò?
S
Se tu morissi... io ne morirei...
T
Tutte le sere io prego di potergli sopravvivere, perché preferirei essere infelice io, piuttosto che saperlo infelice. È la prova che l'amo più di me stessa.
O
Oh Dio! Tu vorresti vivere, se la tua anima fosse nella tomba?
S
Se tutto il resto perisse e lui restasse, io continuerei ad essere; e, se tutto il resto persistesse e lui venisse annientato, l'universo mi diverrebbe estraneo; non mi sembrerebbe di esserne parte.
E
Egli è stato sempre, sempre nel mio spirito: non come un piacere, allo stesso modo ch'io non sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere.
Bruno Elpis
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Eros e Thanatos
“Camere separate” di Pier Vittorio Tondelli è una storia d’amore e morte che indaga nel profondo del sentimento e scava il dolore dell’amante che sopravvive e affronta il processo che – nelle razionalizzazioni – viene generalmente chiamato “elaborazione del lutto”.
Tra analessi e prolessi continue, la narrazione si svolge in tre parti:
Primo movimento: Verso il silenzio
Secondo movimento: Il mondo di Leo
Terzo movimento: Camere separate
VERSO IL SILENZIO
Le fasi della conoscenza e dell’innamoramento (“nessuno può tenere distanti due persone che si appartengono e che si stanno cercando”) sono soltanto accennate e seguono la dinamica dell’istinto: “Le parole non sono contemplate in questo momento per entrambi primordiale, arcaico, in cui la vita chiama la vita attraverso la più profonda energia della specie”.
I ricordi vengono posseduti dal dolore per la scomparsa e dal tragico senso di solitudine: “Così, privato ogni giorno del contatto con l’ambiente in cui è cresciuto, distaccato dal rassicurante divenire di una piccola comunità, lui si sente sempre più solo, o meglio, sempre più diverso”.
Leo è sospinto da forze difficilmente governabili, ma che sa analizzare: “Stava discendendo in sé e questa discesa muta, senza parole, avveniva come un aggiustamento continuo di prospettiva”.
IL MONDO DI LEO
La seconda parte è dominata dalla presa d’atto (“Abbiamo bisogno di molto tempo per accettare la brutalità del fatto di non essere più soli”) di una realtà che Leo non riesce ad accettare (“Sentiva che fra gli orrori della Storia esisteva per lui un punto di riferimento e che avrebbe potuto fidarsi di quello”) nonostante i tentativi culturali e coscienti che compie per incanalare il proprio dolore (“Leo deve incominciare a difendere questa solitudine”).
L’immagine della morte della persona amata (“nel sudario”) si carica di sacralità, assume la dimensione di un ritorno all’infanzia che si stampa sul volto e si imprime negli occhi sofferenti, apre a un’introspezione che assume i caratteri del percorso religioso: “Così quella che lui chiama preghiera, altro non è che un atteggiamento di ascolto delle cose e degli uomini, un osservare e contemplare, che ha a che fare con il suo stesso modo di essere.”
In queste dinamiche, la mente scava nelle modalità in cui si è svolta la storia d’amore: “Per questo chiamava il loro amore camere separate”. Per rimproverarsi, ricredersi o convincersi che “la separazione era una forza costitutiva della loro relazione e ne faceva parte…”
Mentre amore, vita e morte si compenetrano in modo indissolubile e producono la trasformazione di chi non c’è più “in una presenza che pulsa e che vive dentro di lui, lo sforzo maggiore della sua vita è accettare di scoprire il senso della propria solitudine.”
Naturale per Leo, che ormai “sa vivere esclusivamente di simboli”, cercare un rifugio: il ritorno a casa (“Tutto lo spinge all’indietro, verso le tradizioni della sua famiglia”) diventa la forma esteriore di una ricerca disperata per trovare la ragione di un evento “contro natura”: non tanto la scomparsa prematura della persona amata, quanto “la sopravvivenza forzata del più vecchio.” Perché per Leo “non è morto solo l’amore, ma anche la sua, personale, strategia d’amore”.
CAMERE SEPARATE
Il “terzo movimento” si fa concitato. Leo si getta in disperati tentativi: incontra un vecchio amore, fa un viaggio negli Stati Uniti, cerca sollievo in incontri sessuali a pagamento, si lascia coinvolgere in incontri organizzati dagli amici. Tutto inutile.
Nella confusione emotiva emerge un sentimento religioso “confinato in uno spazio non di verità ma di ricerca”.
Ma soprattutto dirompe l’analisi retrospettiva: “Che fine avrebbe fatto il loro amore? Dovevano per forza normalizzare un rapporto che la società non poteva recepire come norma?... Non sarebbero diventati, nel corso del tempo, due androidi isterici…?” La radiografia di una scelta (“Voleva continuare a essere un amante separato, voleva continuare a sognare il suo amore e a non permettergli di infangarsi nella quotidianità”) praticata anche con forme inconsuete (come la conduzione del rapporto in forma epistolare: “Così le lettere, da parole d’amore, si trasformavano in documenti del divenire e, da questi, calcificavano, bianche come il granito, in reperti di una archeologia del loro impossibile, ma vero, tentato amore”; o la scelta di un regalo: “due copie di uno stesso romanzo affinché lo potessero leggere insieme”) per preservare “un rapporto di contiguità, di appartenenza, ma non di possesso”. Anche a costo di un rischio: “Dopo tutti quei mesi, e quelle lettere, erano realmente due persone differenti”.
Soltanto nel finale, Leo intravede uno spiraglio artistico: “La sua diversità, quello che lo distingue dagli amici del paese in cui è nato … è … proprio il suo scrivere, il dire continuamente in termini di scrittura quello che gli altri sono ben contenti di tacere”.
* * *
Volutamente ho commentato il romanzo tacendo quello che invece nel romanzo è chiaro sin da subito: Leo ama Thomas, la storia narra fin dalla prima pagina di un amore omosessuale, declinato nelle sue difficoltà (“Vivendo insieme sarebbero diventati uno la caricatura dell’altro, come due osceni e imbellettati dioscuri sulla scena di un cabaret berlinese”) e gelosie (“Quando Leo apprese che Thomas viveva con un’altra persona - ndr: Susann - diventò furioso”).
Ho voluto in questo modo esprimere quella che è l’idea di fondo del romanzo: l’amore non ha un genere, né è uno schema. Tanto più che la storia d’amore è sempre condotta con un respiro cosmico ed è immersa in coralità multiformi: quella di un concerto al momento della conoscenza (“C’è un’atmosfera irreale come se una tribù di primitivi avesse iniziato una danza di guerra”), quella di una processione di “uomini delle confraternite, raccolti davanti alla cattedrale” (“Il suono dei tamburi giungeva ossessivo, ritmico, un colpo, un altro colpo, un terzo colpo e poi la cadenza”), quasi un’oreibasia (“Seguirono il rullo dei tamburi fino alla piazza centrale della vecchia città”), o di uno spettacolo (“Il giorno di Pasqua Thomas insistette per andare alla corrida”) durante il viaggio in Spagna, quella della comunità locale nel ritorno al paese…
Bruno Elpis
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Morte apparente di Thomas Enger
Le apparenze di un reato
Mi sono accostato a questo romanzo attratto dal titolo (“Morte apparente”) più che dal successo riscosso dalla letteratura scandinava di un genere che ha vissuto sull’abbrivo impresso dal successo della trilogia di Stieg Larsson.
Assorbito da questa evocazione – probabilmente ancora sotto l’effetto di “La sepoltura prematura” di Poe – ho pensato all’antica paura della morte apparente: il senso di soffocare, svegliarsi rinchiusi in una bara, per colpa di un sonno profondo che, annullando le funzioni vitali anche minime, viene scambiato per morte.
In realtà nel romanzo non si parla di questo tema, perché l’apparenza riguarda non già la condizione della morte e il terrore già descritto da Poe, bensì le modalità di effettuazione del crimine.
Il giornalista Henning Juul ha il volto sfregiato da cicatrici, segno indelebile di un dramma familiare che l’ha travolto: il figlioletto Jonas è perito in un misterioso incendio, anche perché lui non è riuscito a salvarlo. Senza voglia alcuna, il giornalista torna al lavoro. Con il gelo nell’animo. Per Henning anche l’incontro con l’ex moglie è problematico. Come è difficile lavorare con il nuovo compagno di lei. Tanto più se il lavoro lo porta a interessarsi di un reato che ha turbato la quiete di Oslo: la studentessa Henriette Hagerup è vittima di un delitto che richiama i rituali della Shari’a. E’ stata fustigata, mutilata di una mano e lapidata, su una collina dell’Ekeberg.
Gli indizi a disposizione conducono a dubitare pesantemente di Mahmoud, il fidanzato pachistano colluso con i narcotrafficanti.
Henning scava nella vita della studentessa di cinema, giovane affascinante, disinibita e ammirata per il suo talento. Prima di essere assassinata, stava realizzando con l’amica Anette un film sull’islam…
Mentre Henning Juul tenta di comprendere lo svolgimento dei fatti, impegnandosi contemporaneamente nel combattere sensi di colpa e fantasmi del passato, una banda di delinquenti uccide il fratello dell’indiziato principale e poi cerca di sbarazzarsi anche del giornalista.
La trama è intrigante e ben congegnata. Nello svolgimento dinamico del thriller, affiorano i temi che la società multirazziale propone: con le sue contraddizioni e i pregiudizi sulle culture “diverse” da quella occidentale.
Bruno Elpis
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Doppia coppia d’assi
In genetica il crossing-over è “l'importante meccanismo di ricombinazione del materiale genetico proveniente dai due genitori, che permette una maggiore varietà nei prodotti della riproduzione sessuata” (da wikipedia!).
Questo processo si presta a ben rappresentare il mio commento a “Acqua in bocca”.
L’IMPORTANTE MECCANISMO…
Il meccanismo del crossing-over presuppone un incontro tra persone che si scambiano pezzi di genoma. Qui funziona a due livelli: quello autoriale (il binomio Lucarelli-Camilleri), quello dei protagonisti (il binomio Grazia Negro-Montalbano).
L’idea del romanzo è nata durante un'intervista ai due scrittori – correva l’anno 2005 – e si è concretizzata nei successivi cinque anni, durante i quali è avvenuto l’interscambio.
Se poi pensiamo al titolo, “Acqua in bocca”, anche questo detto presuppone un meccanismo. Quello del silenzio imposto. Ad esempio dai servizi deviati che si propongono di occultare segreti imbarazzanti. O, peggio ancora, da una donna assassina che uccide le sue vittime annegandole.
Il 27 maggio 2006, in un appartamento nel centro di Bologna, viene ritrovato un cadavere: quello di un uomo, riverso in cucina con la testa chiusa in un sacchetto di plastica e una sola scarpa. Lì vicino giacciono alcuni pesci rossi. Anch’essi morti stecchiti.
… DI RICOMBINAZIONE…
La ricombinazione avviene grazie ai protagonisti. L’omicidio è consumato a Bologna, la vittima – tal Arturo Magnifico - è di Vigata. E due più due fa quattro.
“Da: isp. capo Grazia Negro
A: dott. Salvo Montalbano c/o commissariato di Vigata
Oggetto: richiesta di informazioni su omicidio dei pesciolini rossi
Caro collega,
ti scrivo di mia iniziativa personale e senza che lo sappiano né il dirigente del mio ufficio né il questore, che, ti dico subito, non approverebbero, avendo un'ipotesi investigativa del tutto diversa sul caso in oggetto... Se un po' ti conosco e se la tua fama corrisponde a verità, sono sicura che mi aiuterai...”
…DEL MATERIALE GENETICO…
I due personaggi – che nel romanzo assumono anche l’aspetto fisico degli attori che li interpretano sul piccolo schermo: Lorenza Indovina e Luca Zingaretti - si scambiano parti del corredo genetico (acume, abilità investigative, intuito) con i mezzi più insoliti: corrispondenza informale, spedizione di cannoli e tortellini, amici di passaggio a Bologna. Per risalire all’azione dei servizi deviati che si sono serviti di una spietata donna killer. Quando la vita dei due investigatori è seriamente in pericolo, Montalbano e Grazia s'incontrano a Milano Marittima, dove organizzano una trappola nella quale dovrebbe cadere l'assassina.
Ma lo scambio di materiale genetico è anche incrocio di caratteristiche della personalità: Grazia è coraggiosa e volitiva; Montalbano è un creativo egocentrico. I due sono assai diversi, ma si completano sotto un denominator comune: l’impegno civico in nome del quale entrambi sono disposti a ricorrere a metodi poco ortodossi, trasgredendo i regolamenti.
…PROVENIENTE DAI DUE GENITORI…
I due genitori hanno stili narrativi diversi
Nella narrazione Lucarelli privilegia il punto di vista criminale e frequentemente si pone nei panni dell’assassino.
Camilleri inquadra la scena dall’angolatura del commissario, nel rapporto con il suo staffi e nella vita privata.
“Acqua in bocca” è anche il risultato di questo incontro-scontro.
…CHE PERMETTE UNA MAGGIORE VARIETA’ NEI PRODOTTI DELLA RIPRODUZIONE SESSUATA.
Sì, la varietà della fusione. Dell’ibrido. Dell’esperimento. Con una nota positiva: la destinazione dei diritti d'autore a due enti benefici.
Bruno Elpis
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Senilità in giallo
Il "Re dei giochi" è il biliardo nuovo che giunge al BarLume di Pineta, mandando in fibrillazione i più assidui avventori: quattro aitanti ottantenni, i quattro acciaccati moschettieri che animano i gialli di Mavaldi con pettegolezzi, alterchi, espressioni idiomatiche e dialettali, osservazioni più o meno fuorvianti, congetture quasi sempre strampalate. Quattro clienti tanto fedeli quanto fallimentari per il bilancio del bar.
Vittima dell’arzillo spirito di nonno Ampelio, dell’intellettuale Aldo, del conservatore Rimediotti e del tradizionalista Pilade Del Tacca è Massimo, un giovanotto di belle speranze che, dopo essersi laureato alla Normale di Pisa, ha pensato bene di dedicarsi alla gestione del bar coadiuvato dalla procace Tiziana.
Argomento del momento – tra una bevanda rovesciata e il commento del quotidiano sportivo - è l’incidente stradale nel quale è perito un ragazzino: Giacomo Fabbricotti, figlio di un ricco costruttore. Con lo sfortunato giovane sull’auto viaggiava la madre Marina Corucci, che viene condotta all’ospedale in coma. Marina è la segretaria di Stefano Carpanesi, candidato sindaco per il centro sinistra alle imminenti elezioni amministrative. La donna non sopravvive e il lutto si abbatte come un fulmine a ciel sereno sia sul partito, sia sugli avversari politici.
L’evento è una tragedia fortuita o nasconde un delitto?
Senza ombra di dubbio è un reato, forse a sfondo politico, forse a sfondo patrimoniale, per le fantasiose illazioni dei quattro nonnetti maldicenti, impertinenti e sospettosi. Suo malgrado, Massimo si trova a ragionare sui fatti, infastidito dalle invadenti abitudini degli inopportuni avventori del suo bar. Ragiona e intuisce. E non si dà pace finché…
Marco Mavaldi cattura con la simpatia dell’allegra brigata da lui ideata e compone un intreccio che segue i canoni del giallo classico imbastito sullo scheletro della farsa. Approfittando della matrice toscanissima, la sceneggiatura si fonda su dialoghi vivaci, battute divertenti e ritornelli-tormentoni, pronunciati da personaggi familiari e vivi. Talmente efficaci che in loro probabilmente riconosciamo qualche nostra conoscenza…
Bruno Elpis
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Gialli intelligenti e che creano affezione ai personaggi.
La consapevolezza di Guerrieri
Nel primo episodio della serie, l’avvocato barese Guido Guerrieri è in profonda crisi personale e professionale. Ha appena divorziato dalla moglie Sara ed è facile preda di complessi psicologici: ha paura di utilizzare l'ascensore, soffre di crisi d’ansia, è insonne, ipocondriaco (quanta simpatia per l’ironia di alcune pagine che mettono gli ipocondriaci come me di fronte agli aspetti spesso grotteschi della loro inclinazione!) e talvolta piange senza motivo.
Sul piano professionale è insoddisfatto e irrealizzato.
Poi però una frequentazione e un caso giudiziario, piano piano, lo riconquistano (moderatamente) alla vita.
Il caso giudiziario: Abdou Thiam, un ambulante senegalese, è stato arrestato con una triplice, pesantissima accusa: sequestro, omicidio e occultamento di cadavere. Il corpo del piccolo Francesco Rubino, un bambino di nove anni che Abdou ha conosciuto con il nomignolo di Ciccio sulla spiaggia di Monopoli, viene ritrovato in un pozzo...
La testimonianza tanto incongruente quanto accalorata di un barista xenofobo, le imprecisioni nelle indagini, le irregolarità negli interrogatori e la reticenza dell’accusato - che non ha un alibi e cerca di dissimulare i suoi commerci di indumenti dai marchi falsificati – non offrono speranze al senegalese: assistito da un difensore d’ufficio, il giovane si avvia verso una scontata condanna a vent’anni secondo il rito abbreviato.
Guerrieri s’interessa del reato superficialmente attribuito all’extracomunitario e fonda la sua arringa incentrandola sulla distinzione tra verità e verosimiglianza. Così, mettendo in luce contraddizioni e incertezza… affronta il caso con l’intento di ristabilire il senso della giustizia e, forse, ritrova il senso di una professione appassionante.
Sul piano personale l’avvocato barese risale la china della depressione grazie a Margherita, una vicina di casa che ha lottato contro la dipendenza dall’alcol e che lo aiuta a credere in se stesso e a riscattarsi.
Semplicità stilistica, concretezza avvolta in un alone indorato dalla cultura, indagine psicologica dei personaggi, casistica giudiziaria paradigmatica, riferimenti a libri e musica – in un interessante viaggio immaginario tra le aule di tribunale – sono gli ingredienti del successo di questo primo fortunato romanzo, al quale (buon per noi!) ne sono seguiti altri.
Nella riflessione sulla distinzione tra verità e verosimiglianza è ravvisabile l’interesse, non soltanto nominalistico, che Carofiglio nutre per espressioni linguistiche, semantica e concetti; interesse che sarà ripreso in “Ragionevoli dubbi” ove l’autore si sofferma sul criterio, giuridico e non, della ragionevolezza e, naturalmente, nella “Manomissione delle parole”.
E - last, not least - posso chiudere in bellezza con un fragoroso plauso a una storia che in modo più o meno esplicito si scaglia contro pregiudizi razziali e mentalità ottuse e rozze con le quali abbiamo a che fare ogni giorno?
Bruno Elpis
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Esiste la saggezza?
"Non esiste saggezza" è la raccolta dei racconti di Gianrico Carofiglio, nei quali l’autore dà prova di possedere la stessa abilità – già riconosciutagli per i romanzi - anche nella narrazione breve, ossia in un genere ove il processo artistico-creativo si deve concentrare nella sintesi piuttosto che nell’analisi, nel tacere più che nel descrivere, nel selezionare più che nel diffondersi.
L’opera raccoglie testi già pubblicati che sarebbero rimasti altrimenti sparpagliati nel mare magnum di ciò che è stato scritto. Come “Non esiste saggezza”, il racconto che dà il nome alla raccolta e che narra di un incontro improbabile tra un automobilista e una bambina che, comparsa in prossimità di un casello autostradale, chiede di essere accompagnata verso il mistero.
Inedito è invece “Il maestro di bastone”, la storia di un adolescente che, nella fase conflittuale della separazione dei genitori, trascorre una vacanza dai parenti nella Murgia. Nella villa di campagna Enrico scopre il fascino dell’avventura e fa esperienza del discrimine tra coraggio e incoscienza nei turbamenti e nelle inquietudini che caratterizzano l’adolescenza.
In “Intervista a Tex Willer” ci si interroga sull’autonomia che i personaggi hanno rispetto agli autori che li creano: «Tex W.- Lei sa cosa c’è negli spazi fra le vignette?… C’è tutta la vita che non è mai stata raccontata. Ci sono le vicende che non diventano storie – per scelta o più spesso per caso – e si perdono nei gorghi del tempo che passa. Ci sono le occasioni non colte, le cose che non vogliamo ricordare o non vogliamo sapere di noi stessi e degli altri. Gli spazi fra le vignette sono il sottosuolo della nostra coscienza». Come dire che lo spazio bianco non è vacuo, ma è zona vitale e scenario ove i protagonisti e il loro mondo se ne stanno zitti zitti a tramare. A crearsi in un processo insondabile.
Salvo affermare, in un altro punto, che "Le cose non esistono se non abbiamo le parole per chiamarle."
Anche “Il paradosso del poliziotto” non è un racconto classico, ma un palcoscenico sul quale rappresentare metodi, tecniche e, per quanto possibile, regole. Nel testo si sostiene che un interrogatorio deve essere condotto attraverso tre fasi:
creare un rapporto con il sospettato;
razionalizzare e minimizzare il suo comportamento;
proiettare la sua responsabilità.
Se non si usano le parole “omicidio, morto, delitto”, ma soltanto “fatto, incidente, episodio” si evita che espressioni cariche dal punto di vista emozionale riportino il sospettato alla gravità del suo comportamento, compromettendo le possibilità di una sua confessione. E soprattutto bisogna che l’inquirente sospenda ogni giudizio morale, per non offuscare l’intuito investigativo.
Il paradosso del poliziotto, in fondo, consiste proprio in questo: nel fatto che l’investigatore – almeno in parte - ha le medesime pulsioni criminali dell’assassino…
In definitiva: non aspettatevi soltanto racconti, ma riflessioni. Metastorie. Filosofia. Qualcosa di più rispetto a quanto generalmente ritroviamo in una semplice novella… E ottimi spunti anche per chi si diletta a scrivere.
Bruno Elpis
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Metodi e casi per riflettere
Nel terzo episodio (dopo i precedenti “Testimone inconsapevole” e ”Ad occhi chiusi”) che ha per protagonista l’avvocato Guido Guerrieri, Gianrico Carofiglio affronta in forma romanzata alcune tematiche metodologiche della professione forense.
Prima questione, quella che attanaglia l’uomo comune: ma un difensore penalista sa se la persona che sta difendendo in tribunale è colpevole o innocente? E se è a conoscenza della colpevolezza – perché gli è stata confessata o perché se ne è convinto in via autonoma – come si deve comportare?
Benissimo. In “Ragionevoli dubbi” il mesto Guerrieri deve difendere una sua vecchia conoscenza: Fabio Paolicelli detto Raybàn, che ai tempi dei movimenti studenteschi, era un picchiatore di estrema destra. Costui, al ritorno da una vacanza in Montenegro, è colto in flagranza di reato: sulla sua vettura viene rinvenuto un enorme quantitativo di droga. Anche per non coinvolgere la moglie, Fabio si dichiara colpevole e in primo grado – per effetto della confessione e delle prove schiaccianti a suo carico - viene condannato a sedici anni di carcere, nonostante la difesa di un avvocato romano sbucato dal nulla.
Secondo tema: la deontologia professionale consente di confliggere con un collega? "Oltre alle regole scritte, quelle del codice e delle sentenze che lo interpretano c'è una serie di regole non scritte. Queste ultime vengono rispettate con molta più attenzione e cautela. E fra queste ce n'è una che più o meno dice: un avvocato non difende un cliente buttando a mare un collega. Non si fa, e basta. Normalmente chi viola queste regole, in un modo o nell'altro, la paga. O perlomeno qualcuno cerca di fargliela pagare". L'avvocato Guido Guerrieri decide però di agire contro il collega, Corrado Macrì, in nome della professione di innocenza del condannato in primo grado.
Terzo argomento: qual è il ruolo del ragionevole dubbio? In uno stato di diritto. Di fronte alle certezze matematiche di prove concordanti. Dinnanzi alla naturale antipatia per un personaggio che ha un passato politico orrendo e di fronte a un uomo che costituisce un ingombro perfino nelle vicende sentimentali di chi lo deve difendere in secondo grado. Guido si trova infatti alla fine di una storia d’amore e si sente attratto dalla bellissima moglie del detenuto, Natsu Kawabata, figlia di un giapponese e di una napoletana…
Quanti dubbi deve affrontare un uomo come Guido, già di per sé afflitto dai conflitti interiori ("Mi dissi che ero un imbecille e un incosciente, che avevo quaranta anni passati - ampiamente passati - e che mi stavo comportando da irresponsabile e anche da stronzo")!
Complicazioni introspettive e professionali si intrecciano nella malinconia di un professionista che vive nel suo mondo barese cercando al tempo stesso un respiro più ampio. In lui Carofiglio trasfonde le sue abilità tecniche e psicologiche con eleganza di scrittura e giusto equilibrio tra cultura e dimensione pop (pizze e birre, citazioni musicali che spaziano dai cantautori al jazz, il pugilato come valvola di sfogo…).
Bruno Elpis
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Irrequietudine etiope
La forma narrativa
Il romanzo è scritto in forma ibrida: un misto tra un dossier e un epistolario, articolato in una successione di immaginari verbali, relazioni, lettere, articoli di quotidiani, discorsi riportati… Il flusso delle informazioni è vario: il Ministero degli Esteri manda missive al direttore della Scuola Mineraria, il Commissario di Montelusa comunica con il Questore, quest’ultimo interessa Prefetto e Podestà, e interpella Il Segretario Federale del Partito Fascista e la Curia vescovile. Oggetto delle comunicazioni ora lungimiranti, ora preoccupate, ora concitate è un ragazzo etiope: “Il nipote del Negus”.
Ambientazione storica
La vicenda si svolge nel periodo tra il 1929 e il 1932. Il fascismo si sta affermando come dittatura, dopo la firma dei patti lateranensi, e reputa che il colonialismo possa far assurgere l’Italia al rango delle altre potenze europee: la ricerca del "un posto al sole" si orienta nell’unica zona lasciata ancora libera dall’imperialismo occidentale, il corno d’Africa. Questo interesse sfocerà nel 1935 con la guerra d’Etiopia e la cacciata del re abissino, il Negus Ailé Selassié.
La storia
In questo contesto, la presenza sul territorio italiano del Principe Grhane Sollassié Mbassa, nipote diretto del Negus, è un’ottima occasione per il regime, che si preoccupa di ben comparire agli occhi dello studente mentre frequenta la Regia Scuola Mineraria di Vigàta con l’intento di conseguire il diploma di perito minerario.
Sarebbe tutto perfetto, non fosse che … il ragazzo - un focoso diciannovenne, energico e ottimamente attrezzato da madre natura – ne combina di tutti i colori! Si caccia in ogni sorta di guaio, non disdegna lusso (pronuncia: abiti di sartoria e gioco d’azzardo) e lussuria (pronuncia: frequenti visite al bordello), approfitta della liquidità elargitagli dalla corte etiope: mille lire mensili, che non bastano al vorace ed esuberante giovane. All’eccedenza pensa il Partito Fascista, preoccupato di evitare incidenti diplomatici e disposto a tollerare capricci e intemperanze del ragazzo di colore nell’impazienza di firmare un accordo diplomatico con l’Abissinia.
Un fatto reale?
“In questo romanzo prendo spunto da un fatto realmente accaduto. Negli anni Trenta a Caltanissetta, prima della guerra d’Etiopia, venne a studiare nella scuola mineraria il nipote del Negus, ovviamente spesato dalla sua Corte. Si trattava di un principe di sangue reale, un personaggio interessante, originale. Si discuteva dei confini con la Somalia e prese in giro tutti.” Se dunque la ricostruzione è romanzata e i documenti sono costruiti con l’arte della finzione, il principe Brhané Sillassié, nipote del Negus Hailé Selassié I, frequentò realmente negli anni 1929-1932 la Regia Scuola Mineraria di Caltanissetta, conseguendo il diploma. Sembra inoltre che quando il principe tornò nella patria ormai occupata dagli italiani si trovò, per una serie di circostanze, in gravi difficoltà economiche causate dalla sua dissolutezza. Nei momenti di difficoltà fu aiutato da Giovanni Curcuruto, ex compagno di scuola nonché ispettore minerario ad Addis Abeba. Quando gli inglesi riconquistarono la capitale etiope, Brhané si adoperò per evitare che il suo amico Giovanni finisse in carcere.
Il giudizio
Camilleri sfodera comicità irriverente e spirito satirico, in un miscuglio di riferimenti storici, elementi fantastici e gusto per la beffa, per confezionare una farsa divertente. Con l’occasione critica un regime ipocrita, violento e aggressivo che fece della guerra uno strumento di affermazione, firmando in questo modo anche la propria condanna.
Bruno Elpis
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Volare per il gusto di volare
Un anno fa (era il 1° settembre 2012) mi ha molto colpito la notizia dell’incidente a Richard Bach, l’autore de “Il gabbiano Jonathan Livingstone”, un cult degli anni settanta, una lettura allora d’obbligo nel clima post sessantottino, sussulto di spiritualità e prodromo della new age. Oggi “il gabbiano” è divenuto un classico.
Bach fu pilota riservista per l’US Air Force e pilota acrobatico (e come non pensare a un altro pilota-scrittore, l’Antoine de Saint Exupéry del Petit Prince?): dalla sua esperienza di aviatore trasse spunti per scrivere manuali tecnici di volo e le successive opere di narrativa, tra le quali “il gabbiano “per l’appunto.
La fiaba di Jonathan è sempre stata considerata una metafora: secondo l’interpretazione prevalente le vicende del gabbiano rappresentano la tensione alla perfezione (“Puoi arrivare da qualsiasi parte, nello spazio e nel tempo, dovunque tu desideri”), la purezza del pensiero (“Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola.”), la ricerca della felicità (“Se superi il tempo e lo spazio, non vi sarà nient'altro che l'Adesso e il Qui, il Qui e l'Adesso”), il rifiuto del conformismo (“Bisogna esercitarsi a discernere il vero gabbiano, a vedere la bontà che c'è in ognuno, e aiutarli a scoprirla da se stessi, in se stessi. È questo che intendo io per amore. E ci provi anche gusto, una volta afferrato lo spirito del gioco”). E molto altro.
L’incidente aereo del 2012 è accaduto mentre lo scrittore si stava recando da un amico sull'isola di san Juan: durante l'atterraggio l’idrovolante ha agganciato un cavo elettrico.
Questa notizia mi ha ispirato l’idea di una lettura del “gabbiano” più aderente alle parole del racconto nella considerazione che troppo spesso, nelle cose, ricerchiamo significati reconditi o nascosti. Senza pensare che le cose, in fondo, potrebbero anche essere nient’altro che quello che sono: allora il volo di Jonathan rimane il volo di un gabbiano e il mondo superiore che Jonathan raggiunge non è un ideale, ma una dimensione reale (“Il paradiso non è un luogo. Non si trova nello spazio, e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti”).
In questa prospettiva, rileggere l’opera spogliandosi delle sovrastrutture culturali significa assaporare il piacere – anche soltanto mentale - di volare, librarsi, imparare tecniche di sospensione, cabrare e planare, sperando – in un’attività che sembra negata all’uomo sul piano fisico – di poter essere finalmente liberi e felici.
Per la cronaca, dopo quattro mesi dal terribile incidente, Richard Bach è stato dimesso dall'ospedale e ha dichiarato che da questa esperienza ha tratto l'ispirazione per il completamento della quarta parte de “Il gabbiano Jonathan Livingstone”. Come dire che il gabbiano perde qualche penna, ma non il vizio!
Bruno Elpis
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La bellezza della complessità
“Rimini” di Pier Vittorio Tondelli è un romanzo complesso nel quale confluiscono il gusto descrittivo, la profondità della poesia, un disegno narrativo che accarezza la letteratura di genere senza incasellarsi in essa, l’attenzione allo sfondo socio-politico, l’intreccio pluridimensionale dei personaggi, la disperazione strutturale.
La varietà degli elementi è amalgamata nell’esperienza giornalistica dell’io narrante, Marco Bauer, un giovane e ambizioso cronista (“Ero troppo giovane per un’investitura di quel genere…”), di fronte al quale si spalanca un’opportunità unica (“Ho la direzione della pagina dell’Adriatico”) “… in un afoso mattino di metà giugno, a Milano, il diciotto giugno millenovecentoottantatré …”.
A una condizione: “Pr-prepari le valigie. Andrà a passare due mesi laggiù.”
Laggiù è RIMINI e l’incarico viene affrontato con ardore e con qualche dubbio: “Ma era davvero un lavoro importante o forse invece si trattava di un noiosissimo spostamento di sede, un banale trasferimento?”
IL GUSTO DESCRITTIVO
A partire da un’impressione labile (“Rimini per me era semplicemente un’espressione geografica simbolo di vacanze a poco prezzo, confusione, intasamento”), Tondelli spruzza le sue pagine con macchie di colore e le impregna di emozioni, ritraendo località come Rimini e Riccione (“La sequenza ordinata delle cabine – dipinte a blocchi con tonalità pastello – aveva in sé qualcosa di metafisico e infantile nello stesso tempo: come si trattasse di un paesaggio costruito per i giochi dei bambini … oppure di un assemblaggio ordinato di altri materiali per altri uomini…”) attraverso scorci visivi e stralci acustici (“Non avevo mai visto nulla di simile in Italia. Ovunque suoni, musiche, luci, insegne sofisticatissime che si accendevano e spegnevano seguendo un ritmo preciso; disegni elettronici …”) che lasciano affiorare un’essenza inquietante (“La gente crede che sia un posto di villeggiatura. E’ al contrario un luogo faticosissimo. Si vive di notte, tutta la notte”).
In “Rimini” ritroviamo descrizioni indimenticabili della riviera frenetica, modaiola e popolare, descrizioni vivide e palpitanti, che pulsano con le luci e i suoni dell’umanità danzante e disperata: “… le città dai nomi così perfettamente turistici – Bellariva, Marebello, Miramare, Rivazzurra – apparvero come una lunga inestinguibile serpentina luminosa che accarezzava il nero del mare come il bordo in strass di un vestito da sera.”
In una visione olistica dei particolari fisici e spirituali: “Quella strada che per chilometri e chilometri lambiva l’Adriatico offrendo festa, felicità e divertimento, quella strada … segnava il confine fra la vita e il sogno di essa, la frontiera tra l’illusione luccicante del divertimento e il peso opaco della realtà”.
LA PROFONDITA’ DELLA POESIA
Il temporale – nella mutevolezza delle manifestazioni e nelle molteplici tonalità che può assumere come evento atmosferico nel quale facilmente si proietta e si identifica l’animo umano - è un evento naturale da sempre celebrato nella letteratura in generale e nella poesia in particolare.
Io ho scelto questo “territorio di scontro” nel quale si confrontano lirismi di diversa ispirazione per rappresentare il livello che la poesia della prosa di Tondelli riesce a raggiungere: “Verso il promontorio di Gabicce s’addensavano nuvoloni neri e gravidi di pioggia. A Rimini, invece, una luce spettrale e metallica illuminava tratti di spiaggia e di mare. Oltre, verso Cesenatico, altri nuvoloni, altri raggi di sole, altri squarci argentei. La linea del mare pareva un neon acceso.. Una striscia di chiarore pallidissimo e freddo separava infatti la linea color mercurio delle acque da quella gonfia e sinuosa del cielo.” In perfetto equilibrio tra classicità, impressionismo e avanguardia: “Il cielo nero di tanto in tanto mostrava, in un bagliore, le sue nervature elettriche.”
UN DISEGNO NARRATIVO CHE ACCAREZZA LA LETTERATURA DI GENERE SENZA INCASELLARSI
A Rimini, Bauer deve anche affrontare un caso di cronaca nera relativo alla morte di un senatore (“In tutte le redazioni d’Italia … si rivoltavano gli archivi per stendere ‘i coccodrilli’ sulla immatura scomparsa del senatore Lughi”), il cui corpo viene ritrovato in mare. Si tratta di omicidio o è un caso di suicidio?
Tondelli sembra accarezzare l’idea di percorrere un genere (“La vicenda del senatore Lughi era caduta di interesse in attesa che si conoscessero gli esiti delle perizie necroscopiche”) e, se lo fa, lo fa i maniera del tutto personale (“Avevo in mano la prova. Le ultime due righe scritte dal senatore…”) pur rispettandone metodi (“Lo scoop, dicevano le scuole di giornalismo, non è nient’altro che trovarsi sul luogo giusto al momento giusto. E questo vuol dire una sola cosa. Avere il demonio che lavora per voi”) e topoi, non ultimo quello dello sbocco sorprendente. Dimostrando sensibilità spiccata e…
… ATTENZIONE PER LO SFONDO SOCIO-POLITICO
Perché il caso giornalistico e poliziesco è occasione per svolgere alcune riflessioni sul tessuto della società italiana: “Quanti… hanno tramato, intascato corrotto, insabbiato, però con la certezza di agire per qualcosa che in fondo li giustificava? Se non capisci questo, non credo tu possa capire quarant’anni di scandali italiani. Perché non hai mai davanti dei semplici corrotti. Hai gente ben più pericolosa. Gente che agisce con la certezza di seguire la strada giusta.”
L’INTRECCIO PLUIRDIMENSIONALE DEI PERSONAGGI
“Rimini” è un vortice di eventi. “Rimini” è girandola di personaggi.
Lì si svolge un concorso letterario: ne è disinteressato protagonista lo scrittore Bruno (“Sono convinta che vincerà lui, quest’anno”), personalità tragica che vive un amore omosessuale nell’alternanza di sentimentalismo, intemperanze e deliri letterari, con il supporto di un religioso e di un mecenate, Oliviero Welebansky (“Non era solo un party. C’era almeno metà della colonia Vermilea, sai?”)
Interessante è raffrontare erotismo e sentimento che caratterizzano la storia d’amore tra Bruno e l’inglese Aelred rispetto alla sensualità che connota la relazione tra Bauer e Susy, affascinante membro della redazione de “La pagina dell’Adriatico”: “Susy sorrise, la sentivo aderire al mio corpo come una spugna pagata, rinfrescante e morbida. Salimmo in macchina. Si rannicchiò attorno al mio braccio come un serpente.”
In uno di questi molteplici eventi (l’elezione del Tipo da Spiaggia!) la tedesca Beatrix, giunta in riviera alla ricerca della sorella fuggita e scomparsa, in maniera fortuita scopre un indizio che la porterà sulle tracce di Claudia nel mondo subliminale e simbolico del parco dei divertimenti: “Le torri di Fiabilandia svettavano color rosa salmone nella notte illuminata da grandi fari…”
L’intreccio è ricco, addirittura eccessivo, perché ricalca la realtà intricata, esuberante e caotica della riviera: così, in parallelo si narrano la storia dell’hotel Kelly e della strana educazione sentimentale che Renato vi riceve, le vicende di uno sceneggiatore e di un produttore in cerca di successo e altro ancora.
LA DISPERAZIONE STRUTTURALE
In tanta ricchezza – io ho compiuto un atto contro natura: riassumere, ingabbiandola in uno schema, la complessità della scrittura di Tondelli – lo scrittore prematuramente scomparso non dimentica mai intimismo e diffonde il senso di una disperazione strutturale e pervasiva. Semplicemente, limpidamente, in passaggi come questo: “Sapeva che tutto sarebbe finito con il sopraggiungere dell’autunno. Le luci si sarebbero fatte più fioche e più tenui, la spiaggia più rada, le strade più scorrevoli e più vuote.”
Bruno Elpis
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Neve sull’alta società
Le perfezioni provvisorie è il quarto romanzo che ha come protagonista l'avvocato Guerrieri.
Guido Guerrieri esercita la professione di penalista a Bari, ma in questo episodio svolge le funzioni di un détective privato, sollecitato – alla vigilia della discussione di un ricorso in Cassazione a Roma - da un amico civilista. Questi gli presenta i coniugi Ferraro, che gli sottopongono il caso di Manuela, la figlia studentessa universitaria scomparsa da oltre sei mesi. Le indagini svolte dagli inquirenti e la partecipazione a una trasmissione televisiva dedicata alle sparizioni (sì, proprio quella!) sono state infruttuose.
Di Manuela si sono perse le tracce mentre tornava da un fine settimana trascorso con gli amici in un villaggio turistico esclusivo.
Guerrieri svolge le sue indagini brancolando nel buio: intervista informatori, contatta le amiche di Manuela e l'ex fidanzato, il maggior sospettato, sul quale incombe – come aggravante - l’ombra dello stalking.
La storia sembra assumere una piega ben precisa, quando comincia a farsi strada l’ipotesi di un reato connesso ad assunzione e spaccio di cocaina.
Sarà un particolare – una specie di scintilla nella mente dell’avvocato, scoccata dall’intuito e dall’analisi dei dettagli - a suggerire l’amara soluzione del caso.
Nel corso delle sue indagini, Guerrieri ha modo di intessere due rapporti: quello con Nadia, ex prostituta che gestisce un locale gay. Guerrieri, in passato, era riuscito a farla assolvere dall’accusa di sfruttamento della prostituzione, eccependo un vizio formale durante il processo. Tra i due si instaura una sincera amicizia, mentre il quarantenne avvocato si sente attratto da Caterina, la migliore amica di Manuela, una ragazza vivace, disinvolta e sfrontata che nel corso delle ricerche affianca l’avvocato del quale sembra essersi incapricciata.
Guido Guerrieri è un personaggio malinconico. Si divide tra lavoro e attività come la musica, i giri in bicicletta, la lettura e il pugilato, che lo vede conversare durante gli allenamenti domestici … con il sacco da boxe!
Il romanzo è avvincente, disseminato com’è di casi giudiziari che tuttavia non lo rendono un legal thriller in senso tecnico, perché sono occasioni di arricchimento della narrazione piuttosto che elementi necessari allo sviluppo della trama. Anche perché l’attenzione di Carofiglio sembra concentrarsi prevalentemente sull’analisi psicologica dei personaggi e sulla descrizione della società barese, con particolare riferimento – in questo caso – all’alta borghesia: un mondo apparentemente equilibrato e invidiabile che in realtà nasconde risvolti oscuri e inquieti, nei quali talvolta si aprono sprazzi e squarci di provvisori e perfetti momenti di felicità. Le perfezioni provvisorie che danno il titolo al romanzo…
Bruno Elpis
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Roma et Carthago delendae sunt
Pubblicato nel mese di luglio anche nella collana dedicata ai “grandi romanzi storici” dal Corriere della Sera, Carthago - sottotitolata “Annibale contro Scipione l’Africano” – narra lo scontro tra due personaggi carismatici e dotati di forte personalità: il cartaginese Annibale e il romano Pubblio Cornelio Scipione, detto l’Africano.
I fatti sono quelli della seconda guerra punica: dalla presa di Sagunto (“Ma sapevano che l’obiettivo di Annibale non era quella piccola città dell’Iberia”) lungo tutto l’itinerario (“Attraverseremo l’Ebro … poi marceremo verso i Pirenei, attraverseremo il Rodano e giungeremo in prossimità delle Alpi”) nel corso del quale i cartaginesi sotto l’egemonia del Barcide mettono a ferro e fuoco l’Italia.
Le battaglie si susseguono vittoriose per Annibale, che si avvale sia della cavalleria Numida (“Neri come la notte, cavalcavano senza l’ausilio delle briglie … per tenere le mani libere e lanciare i loro corti giavellotti …”) sia dell’ausilio degli elefanti (“Durante la traversata del Rodano, alcuni elefanti si erano spaventati a tal punto da arrivare a gettarsi in acqua …”) in un drammatico conto alla rovescia (“Gli elefanti avevano patito più di tutti le fatiche della lunga marcia, l’attraversata delle montagne e il clima rigido di quelle regioni”): “Alla fine era sopravvissuto un solo elefante.”
Dopo la battaglia del Ticino, Annibale e gli “africani dagli occhi selvaggi” – passando per “Clastidium, una cittadella fortificata eretta come avamposto avanzato dell’Urbe in Gallia Cisalpina” – si scontrano con i romani presso il Trebbia (“I cartaginesi hanno attirato i nostri in una trappola”), in prossimità del lago Trasimeno e nella famosa battaglia di Canne.
Alla strategia cinica, non soltanto militare, di Annibale (“… I sacrifici che compivano in onore di Mot, Baal e Anat non erano sufficienti, ma Annibale aveva sempre reagito con collera, affermando che la loro impresa non doveva sottostare al capriccio degli dei…”) si contrappongono la razionalità e la lungimiranza politica di Scipione: “Publio era contento che il Barcide fosse ancora alla testa del suo esercito … Perché voleva esserci anche lui sul campo di battaglia, quando le legioni l’avrebbero affrontato e sconfitto.”
Quando i romani sembrano in balia dell’invasore punico, Scipione intraprende la riconquista astuta di Nova Carthago: “Le maree, da queste parti, sono ricorrenti e di un certo peso”. Un atto che avvia l’offensiva romana, che avrà il suo epilogo in terra d’Africa: a Zama.
La contrapposizione tra i due titani della guerra che impegnò l’ultimo scorcio del III secolo a.C. è molto efficace e plastica. La narrazione romanzata, anche grazie agli aneddoti che rinverdiscono le memorie di chi al liceo si è spesso cimentato in traduzioni dal latino, risulta avvincente e affascinante.
Franco Forte, anche autore di thriller storici come “Il segno dell’untore”, combina riferimenti colti senza appesantire il romanzo con espressioni latine (“i centurioni primipili e … due littori con le insegne”) e accompagna il lettore tra battaglie, convivi sui triclini, mercati di schiavi e messaggi in pergamena, senza trascurare sentimenti ed erotismo dei personaggi.
Un libro che non può mancare agli appassionati del romanzo storico e a chiunque voglia imBARCArsi nel genere letterario del quale Franco Forte è maestro.
Bruno Elpis
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Romanzi storici e thriller storici.
Nei penetrali di Barcellona
Leggendo questo romanzo, ho avuto conferma di come una città possa essere vissuta in senso soggettivo da chi vi abita o da chi la visita.
Così Barcellona – che per alcuni è la città d’arte del modernismo catalano di Gaudì, per altri è il fulcro della mediterraneità più solare, per altri ancora è centro culturale di incontro e di divertimento (anche calcistico e sportivo!) – per Carlos Ruiz Zafon è un dedalo intricato, misterioso e sorprendente, che nasconde nelle proprie viscere una realtà sommersa che si rivela lentamente se qualcuno vi scava (in senso narrativo più che archeologico).
Il compito di disvelare il fantasioso inconscio di Barcellona viene affidato in questo romanzo a Oscar che, a distanza di anni, racconta una straordinaria vicenda:
"Non sapevo ancora che, prima o poi, l'oceano del tempo ci restituisce i ricordi che vi seppelliamo. Quindici anni più tardi, mi è tornato alla mente quel giorno. Ho visto quel ragazzo girovagare nella bruma della stazione Francia e il nome di Marina si è infiammato di nuovo come una ferita recente.”
I fatti evocati, sospesi tra sogno e realtà, oscillano tra romanticismo gotico e horror e si riferiscono al periodo che va dal settembre 1979 al maggio 1980: quando Oscar era studente quindicenne in un lugubre collegio, dal quale era solito evadere eludendo sorveglianza e regole, per la curiosità di esplorare angoli e interstizi della metropoli spagnola.
In una di queste fughe clandestine, Oscar si lascia ammaliare dalla musica di un grammofono. Ne segue le note e penetra in una casa sconosciuta, dalla quale trafuga la fonte del suono. Poi si pente e decide di tornare a restituire la refurtiva. In quest’occasione conosce l’evanescente Marina e suo padre Germàn Blau, un pittore perduto nel dolore per la morte dell’amatissima moglie. Oscar si sente irretito dal mistero che avvolge la realtà familiare di Marina: quelli che ha conosciuto sono fantasmi o persone reali? E se sono persone reali, da quali fantasmi del passato sono agitati? Di quali segreti inconfessabili sono i metafisici custodi?
“Tutti custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell'anima. Questo è il mio."
Addentrarsi nel mistero di Marina (“Non si capisce niente della vita finché non si comprende la morte...”) significa imbattersi in una donna velata di nero, che ogni giorno visita una tomba anonima nel cimitero di Sarría. E significa imbattersi in uno stuolo di esseri mostruosi, ibridi malformati, spaventosi nell’aspetto ma forse capaci di provare sentimenti.
E se il romanzo fosse tutto un’allegoria? E se dietro a una storia di fantasmi, di morti viventi e di vivi trasognati e letargici si nascondesse la pantomima del mistero esistenziale e del doloroso transito dall’adolescenza alla maturità? Io l’ho sospettato, ma non nascondo che può essere altrettanto divertente leggere il romanzo per quello che è nelle parvenze: un fantasy horror, gotico per le atmosfere e altrettanto gotico – non in senso tecnico - nella sua architettura, lambiccata e fiammeggiante come quella della Sagrada Familia …
Bruno Elpis
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Astenersi facili alle lacrime.
Astenersi sensibili, a meno che loro - i lettori sensibili, posso inserirmi anch’io nel novero? – vogliano abbandonarsi a quella che i latini chiamavano “voluptas dolendi”. Il piacere che si prova nel piangere, la tristezza compiaciuta di se stessa.
Basta dare un’occhiata alla trama per comprendere cosa sto dicendo: Doss Michaels è ritrattista di talento poco riconosciuto dal mercato; Abigail Grace Coleman è una splendida modella e un’apprezzata designer. I due si amano alla follia e, in nome di questa grande passione, vanno contro le convenzioni tradizionaliste della Carolina del Sud. In particolare Abigail scontenta il padre senatore e decide di sposare il suo artista squattrinato, che proviene dalla baraccopoli. La stessa Abigail viene però colpita da un tumore molto aggressivo. Dopo mastectomia e chemio, il male del secolo torna a infierire con una metastasi polmonare che lascia alla donna pochi giorni di vita. Mentre la disperazione dilaga, i due innamorati decidono di trascorrere gli ultimi giorni (dal 30 maggio all’11 giugno!) con un intento ben preciso: Doss cercherà di esaudire i dieci desideri (tra gli altri: salire su un aeroplano e fare acrobazie in cielo) che Abigail ha espresso. Doss – riuscirà nel difficile obiettivo? - accetta la sfida, in un’avventura che ha i colori del sentimento e della tragedia. Si parte da un desiderio che farà da contenitore alla realizzazione degli altri nove: discendere in canoa il fiume St Marys, Georgia, lungo un percorso che Doss ben conosce perché lì ha trascorso l’infanzia. In un viaggio che il buon senso sconsiglierebbe a una malata terminale. In un itinerario ove l’unico palliativo sono i medicinali rubati…
Gli ingredienti della love story ci sono tutti: il sentimento socialmente contrastato, l’appartenenza dei protagonisti al mondo dell’arte e della moda, lo sfondo naturale, il conflitto familiare con i genitori, il dualismo amore-morte…
La narrazione procede in due sensi.
All’indietro nel ricordo della storia d’amore: il colpo di fulmine, il rifiuto della famiglia di lei, il matrimonio furtivo con fedi rimediate al mercatino dell’usato, la luna di miele improvvisata…
In avanti la narrazione si sviluppa nella rocambolesca e progressiva realizzazione dei desideri: i coniugi partono con due canoe (una a traino con tutto quello che può servire), poi le perdono entrambe, vengono derubati dai ladri, sono assaliti dalle zanzare, incontrano strani personaggi, si immergono nell’ambiente fluviale con spirito panico … in una corsa contro il tempo e contro il dolore che flagella Abbie.
Come facilmente intuibile, il romanzo tocca tutte le corde del coinvolgimento emotivo. Secondo me riesce a farlo con modalità che, pur nell’abbondanza di elementi e situazioni limite, non risultano mai né forzate né fastidiose.
Catartico nella funzione di liberazione che la morte talvolta assume e improntato al senso del ricongiungimento nel grembo di madre natura, il finale – così come molte pagine intermedie – lascia una magone che, se ci ripenso, nuovamente mi assale…
Bruno Elpis
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Perché l’hai fatto?
Florens ha "le mani di una schiava e i piedi di una signora portoghese", ama sua madre e vive in una povera capanna fino all’età di sei anni.
"Proprio allora la bambina emerse da dietro le spalle della madre. Ai piedi portava un paio di scarpe da donna troppo grandi per lei. Forse fu quel senso di sfrenata libertà, quella ritrovata sventatezza unita alla vista delle gambette che spuntavano come due rami di rovo dalle scarpe rotte e sfondate, che lo spinse a ridere. Una risata sonora, a pieni polmoni, per il ridicolo, l’irritazione senza speranza di quella visita."
Figlia di una schiava e probabilmente del tiranno latifondista portoghese, Florens deve affrontare un’esperienza traumatica: quella della separazione dalla madre. Senza capirne il perché. Quando nella fattoria della piantagione del Maryland giunge Jacob, commerciante anglo-olandese che deve riscuotere il suo debito, il padrone portoghese propone uno scambio: pagherà il suo debito cedendo una schiava. La madre di colore, che rappresenta l’indennizzo da offrire, intuisce la bontà d’animo dello straniero creditore e allora convince il forestiero a prendersi Florens. Così offre all’ignara figlioletta il suo dono: la possibilità di un futuro migliore.
Da questo momento Florens si prodigherà per lenire l’esperienza dell'incomprensibile abbandono materno cercando l’amore degli altri nella sua nuova vita: la serva Lina; la padrona Rebekka; Sorrow, una strana ragazza che ha trascorso l'infanzia in mare; il fabbro africano che vive libero esercitando l’artigianato.
Toni Morrison, premio Nobel per la Letteratura nel 1993, racconta in modo diretto, senza antefatti e spiegazioni, lasciando parlare i suoi personaggi.
La polifonia narrativa e il policentrismo delle voci, l’ambientazione nel 1690, l’espressione diretta di pensiero e mentalità infantili, immature o incolte rendono piuttosto difficoltosa e, in alcuni punti inaccessibile, la comprensione del testo.
La bellezza della storia e la particolarità della scrittura possono tuttavia giustificare qualche smagliatura nel nostro desiderio di lettori di tutto penetrare: a volte, ma mi rendo conto che è una mia caratteristica personale, io trovo bella e musicale anche qualche frase insondabile; qui vi sono interi paragrafi che risultano tali.
Nell’opera si coglie la profondità dei sentimenti artistici dell’autrice, mentre i temi - talvolta soltanto delineati – propongono di riflettere sulla storia della libertà, che poi ha il suo contraltare nella storia dell’egemonia occidentale.
Bruno Elpis
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- sì
- no
Non dire oggi quello che potresti dire domani…
In “Per nessun motivo” Marco Vichi, l’inventore del commissario Bordelli, abbandona per un attimo registro e copione che hanno per protagonista l’inquirente fiorentino e narra una storia a metà strada tra la commedia degli equivoci e il dramma sentimental-erotico.
Primo equivoco: Loredana ha tenuto nascosta al marito una lettera che ha intercettato nel primo anno di matrimonio. Nell’epistola ormai ingiallita Christine, l’ex fidanzata parigina di Antonio, annunciava di aver avuto una figlia da lui. Un fulmine a ciel sereno si abbatte sulla vita di Antonio (e lo incenerisce!): ha vissuto per venticinque anni sulle colline del Chianti senza conoscere la figlia. Per il pensionato, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, non vi sono dubbi: abbandona sui due piedi l’hobby del modellismo e così – detto fatto, pronti e via - si fionda a Parigi per conoscere la figlia e assumersi le sue responsabilità.
Secondo equivoco: a Parigi, Antonio scopre che l’ex fidanzata è morta. Memore di essere scrittore di gialli, Vichi dirige il suo personaggio sulle tracce della figlia sconosciuta. Quando finalmente Antonio identifica e individua Corinne … “La prossima volta, sì. La prossima volta le avrebbe detto tutto.”… Antonio tace la sua identità, la frequenta … Ma cos’è quella strana attrazione reciproca che lega un uomo maturo a una giovane venticinquenne? Possibile che quest’ultima riconosca in lui, per istinto, il padre e decida prontamente di corrisponderlo? Antonio è terrorizzato quando capisce che l’attrazione, con il procedere della frequentazione, va assumendo un’altra sfumatura.
Terzo, quarto e quinto equivoco… Non li posso raccontare!
Ho trovato questo romanzo molto ben orchestrato: una piacevole sorpresa nella produzione di Vichi.
L’ambientazione parigina – qui fosca e malinconica – ha sempre il suo fascino.
Il tema del tempo e di un passato mobile, che si trasforma esso stesso per effetto delle esperienze successive, fanno da sfondo esistenziale al dipanarsi dell’avventura parigina di Antonio. Il senso del tempo poi si complica sotto il pungolo di un rovello: se l’avessi saputo, quale sarebbe stata la mia vita nel ventaglio delle vite possibili?
L’amore senile nelle sue sfumature – è amore paterno? O piuttosto è amore per l’idea della gioventù? O, ancora, è l’ultimo sussulto della vitalità dei sensi? – è un motivo variamente affrontato in poesia e letteratura. Il nostro autore ne fornisce un’interpretazione interessante, divertente e beffarda al tempo stesso.
L’intrigo tra vicende personali ed emozioni si infittisce sotto la regia di Vichi che – non dimentichiamolo – è scrittore di gialli. Quindi si porta appresso dimestichezza e gusto della sorpresa…
Bruno Elpis
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Champagne, ragtime e disperazione
Innanzitutto due parole sul titolo di quest’opera che io ho apprezzato anche perché ha per protagonista Francis Scott Fitzgerald, l’autore de “Il grande Gatsby”, tragico protagonista insieme alla moglie Zelda dei ruggenti anni venti.
Alabama Song (altrimenti nota come Moon of Alabama) è un brano scritto da Bertolt Brecht e musicato da Kurt Weill. Fu ripreso dai Doors di Jim Morrison in una cover del 1967 e successivamente da David Bowie nel 1980.
L’opera che ha vinto il premio Goncourt nel 2007 riproduce lo stile di vita della coppia Fitzgerald in un racconto interpolato dall’inventiva e arruffato nella sequenza logico-temporale dalla scrittura personale di Gilles Leroy.
La narrazione parte da quando – corre l’anno 1918 – a Montgomery, per l’appunto in Alabama, Zelda, "Bella del Sud" figlia di un giudice, conosce il sottotenente Scott Fitzgerald. Decide di sposarlo e la sua famiglia d’origine la rinnega. Segue la stagione newyorkese e poi quella francese, in Costa Azzurra.
Ne deriva una girandola di situazioni che hanno diversi ingredienti: la smania di successo di Fitzgerald, il rapporto altalenante con la moglie – fatto di passione, tradimenti, gelosie, rivalità, invidie, eccessi alcolici con conseguenti impatti sulle prestazioni amorose – e con la sua follia. Follia che poi diventa il filo conduttore di una vita consumata tra celebrità, successi alterni e perenne bisogno disperato di soldi.
Il profilo di Zelda è davvero centrale e preponderante, e alimenta il sospetto che il grande scrittore americano - chiamato Goofo - si sia appropriato della creatività della moglie, che dipinge e scrive diari. Scott sottrae o attinge agli scritti di Zelda per trarre spunti da trasfondere nelle sue opere, suggendo e trafugando ispirazione da destinare al successo economico.
Bellezza e dannazione, amore per la scrittura e appropriazione indebita di ingegno, follia e disperazione sono i binomi prevalenti in un testo scritto in modo originale, che non è una biografia classica perché scava nella profondità della disperazione e della dissoluzione, seguendone i circuiti non canonici e destrutturati. Magari su un immaginario sottofondo jazz o imitando mentalmente i passi del foxtrot e del ragtime…
Bruno Elpis
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L'amore ai tempi delle lettere
“Novemila giorni e una sola notte” di Jessica Brockmole è un romance raffinato, scritto in forma epistolare, che narra l'amore a distanza tra una poetessa scozzese e un giovane americano. Il sentimento sboccia nel 1913, grazie all'ammirazione che David nutre per le poesie di Elspeth; la passione poi cresce e viene coltivata nonostante (o forse grazie alla) lontananza.
Dopo la prima lettera nella quale David esprime la propria devozione alla poetessa, ne seguono molte altre. I due innamorati sono persone affini e diverse, così che il sentimento cresce sia per comunanza spirituale, sia per dialettica.
Lei, Elspeth Dunn, detta Sue, ama la geologia e vive a Skye, un'isola selvaggia delle Ebridi, che è al tempo stesso prigione, rifugio, fonte d'ispirazione: “Qui si dice che il mare sia infestato dall'each uisge, un cavallo marino che trascina a fondo le vittime e le dilania con le sue fauci, risparmiando solo il fegato, che risale in superficie ed è uno spettacolo orribile a vedersi. Essendo cresciuta ascoltando racconti siffatti, perché mai dovrei avventurarmi nell'acqua?”
Lui, David Graham, è inizialmente uno studente dell'Illinois un po' inconcludente (“Io trascorro le giornate a rapinare banche insieme con la gang di Jesse James, con altri fuorilegge nonché con svariati cowboy”), che il padre vorrebbe medico e che invece sogna di fare il ballerino (“I ragazzi mi chiamano Mort perché sono convinti che, prima o poi, le mie prodezze mi condurranno all'obitorio”).
Poi, quando scoppia la prima grande guerra, decide di partire per la Francia come conducente di mezzi di soccorso umanitario. Si crea così l'occasione per incontrare l'amata...
Nelle lettere, i due discutono di tutto: si confrontano sulla letteratura (“Io adoro Walter Scott... Poi nutro un affetto sincero per la mia copia malridotta di Alice nel paese delle meraviglie, il mio primo libro”; “Senz'ombra di dubbio, Mark Twain è il mio autore prediletto... Mi piacciono Jack London, Wilkie Collins e H. Rider Haggard. Storie piene di misteri e di avventura. Poe è il maestro del brivido”) e su ogni altro argomento. Come la condizione della donna: “Cosa ti fa pensare, mio caro, che le donne siano migliori nel crescere i figli?”
Ma l'amore ideale è contrastato dalla vita reale: David sta per sposarsi, Sue è già sposata.
La seconda serie di lettere, grazie alla quale l'autrice conduce la sua narrazione, è quella che ha come fulcro Margaret, la figlia di Sue, che nel 1940, quando scoppia il secondo conflitto mondiale, decide di indagare sulla sua discendenza. Il che equivale a risalire alla storia della madre: “Paul, sto sbagliando a scavare così nel suo passato? Dovrei lasciarlo sepolto, come vuole lei? Come vuole mio zio? Come sembrano volere tutti?”
La curiosità comincia durante un bombardamento, quando Margaret scopre il carteggio: “Mentre raccoglieva le lettere aveva un'aria sconfitta, disperata”. La scoperta induce la figlia a cercare nel passato di una donna che “sta inseguendo qualcosa. Ricordi, rimpianti, il suo passato.” Per ricomporre un'identità familiare travolta dagli eventi e dalle guerre: “Anche mio fratello Finlay si è arruolato con Iain (ndr: il marito di Elspeth). Quei due sono sempre stati inseparabili, fin da ragazzi.”
Oggi, nell'era telematica che circolarizza messaggi frettolosi e approssimativi; oggi, in giorni ove i rapporti si risolvono in connessioni simultanee che evaporano in un secondo scoppiando come bolle di sapone; oggi nell'epoca del consumismo comunicativo e dell'impazienza relazionale, in un romanzo come questo ritroviamo il gusto dell'approfondimento dei sentimenti e delle emozioni. Magari per scoprire meccanismi che ravvisiamo anche nei rapporti virtuali: “Davanti alla cattedrale di Saint Mary, tu aspettavi una Elspeth Dunn ideale: non volevo che restassi deluso da quella reale.” O per prendere atto della complessità dei rapporti reali: “Tu e io siamo fortunati: non abbiamo mai dovuto preoccuparci della prima parte, quella dell'esame visivo; siamo andati direttamente al nocciolo, esplorando la vastità e la profondità delle nostre anime.” Per raggiungere una nuova consapevolezza erotica: “Una volta, troppo tempo fa, mi sono innamorata: un amore impetuoso, inatteso. Non ho voluto rinunciarci.” O una nuova forma di romanticismo anche grazie, o nonostante, “una corrispondenza durata anni, facendo emergere tracce d'amore tra le righe e le macchie d'inchiostro; un ardore alimentato dalla posta, anziché dalla luna e dalle maree.”
Bruno Elpis
In www.brunoelpis.it potete leggere la mia intervista all’autrice.
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La ribellione è donna
Rossovermiglio, romanzo che si è aggiudicato il premio Campiello nel 2008, è uno squarcio sulle ipocrisie della società aristocratica italiana nel periodo che va dal 1928 all’immediato dopoguerra, quando nel 1946 si svolse il referendum per la scelta tra monarchia e repubblica.
La protagonista, Manuela, vive sulla propria pelle una scelta drammatica: diciannovenne, deve decidere chi sposare tra cinque uomini “di buona famiglia” in una lista stilata dal padre. In tale condizione è ovvio che scelga Francesco Villaforesta, un uomo al quale si sente accomunata … dalla passione per i cavalli! Inevitabile, dunque, che il matrimonio naufraghi.
La giovane fugge da Torino e si rifugia in Toscana, a San Biagio, in una tenuta denominata 'la Bandita' ed ereditata dal fratello Enrico. Con ciò intende dimostrare – soprattutto a se stessa - il proprio spirito d’indipendenza, per attuare una reazione volitiva. Nella tenuta si produce il Rossovermiglio, un vino pregiato che otterrà ambiti riconoscimenti.
Lì alla Bandita, Manuela riceve Trott, un uomo conosciuto durante il viaggio di nozze a Parigi e poi rivisto a Torino nel 1939. L’uomo, dedito a misteriosi traffici, alla Bandita dimostra grande abilità nella coltivazione del vino. Ma anche il rapporto con Trott – una sorta di infatuazione emozionale - è minato dalle ipocrisie. L’uomo sparisce all'improvviso lasciando incinta l’amante. Il bambino che nasce, Dino, viene affidato a Mario e Novella, che si occupano della gestione della tenuta. Dino vive accanto alla madre senza sapere di esserne il figlio…
Seguiranno altri intrighi, l’ex marito ritorna per interesse … o forse per dimostrare che ha sempre vigilato sull’ex moglie, scongiurando le truffe di Trott.
La ribellione e l’intraprendenza di una donna che si sente estranea al tessuto sociale di appartenenza si intrecciano alle complessità di rapporti umani spesso viziati da apparenze, convenzioni e inganni. Il contatto con la terra sembra l’unico modo per vivere emozioni autentiche, mentre lo sfondo della guerra e dei bombardamenti rimarca spavento e solitudine di chi già deve condurre un proprio personale conflitto contro le imposizioni sociali.
Nell’apprezzare l’analisi socio-storica condotta dall’autrice e la caratterizzazione psicologica della protagonista, ho trovato vagamente ermetico lo sbocco della vicenda. Questo mi ha lasciato un vago senso di insoddisfazione, di indefinito: ma in fondo – per il buon esito di un romanzo - non è necessario che una trama risulti trasparente in controluce …
Bruno Elpis
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Anatra o cigno?
Peter Carey è autore che ha vinto ben due volte il Booker Prize. Conseguenza ovvia di questa circostanza: avvicinarsi al suo romanzo con aspettative alte.
La storia de “La chimica delle lacrime” è la storia di due dolori paralleli. Quello di Catherine, nostra contemporanea; quello di Henry, vissuto nell’ottocento. Ciascuno dei due protagonisti – a ritmo alterno – dà il nome ai capitoli. I due dolori, sembra dire l’autore, sono come le rette parallele e si incontrano all’infinito. In capitoli che recano il nome di entrambi.
Il dolore di Catherine
Catherine Gehrih è sovrintendente al Museo Swinburne. Scopre che il proprio amante è morto. Annega nel dolore (“Chiudo le finestre in modo che nessuno possa sentirmi piangere”), che vanamente cerca di sedare in modo artificiale.
“Trovo il Lorazepam e ne mastico uno.”
“Apro la bottiglia del cognac e ne bevo un sorso direttamente dalla bottiglia.”
Non bastassero farmaci e alcol, la vediamo consumare cocaina con Eric Croft, il curatore capo del reparto Orologeria del Museo: l’unica persona al corrente della relazione clandestina.
Il dolore di Henry
Innanzitutto è il dolore per la malattia del figlioletto. Ed è anche quello per il fallimento del suo matrimonio. Per contrastare questo dolore decide di realizzare un sogno unico (“Quando il mio bimbetto vide il progetto della ingegnosa papera di Monsieur Vaucanson scoppiò in un grido di gioia”): far realizzare un orologio-anatra secondo il progetto dell’inventore Vaucanson. Per questo intraprende un viaggio surreale in Germania: a Karlsruhe, ove un’improbabile congerie di personaggi gli promette la realizzazione del progetto: “La porteremo a Furtwagen e là verrà costruita l’anatra come lei desidera.”
“… Mi lascio catapultare nella Foresta Nera, un luogo del quale avevo sentito parlare solo dai fratelli Crudeli”.
Così Henry spende tutti i suoi quattrini: “Ma il mio bambino in fondo è il patrimonio più importante della famiglia.”
“Nessun altro bambino in Inghilterra avrà un oggetto come questo, nessun bambino al mondo.”
Il punto d’incontro dei dolori
Avviene nella fase di restauro.
“Informo quindi l’uomo che osava stare vicino alla tomba del mio amore che l’automaton è irrecuperabilmente incompleto…”
Mentre Catherine rilegge i quaderni di Henry (“Infilo i quaderni di Brandling nella nuova borsa”) e si dibatte nel proprio personale dolore.
“Non posso dubitare della sincera intenzione di Henry Brandling di mantenere la promessa che aveva fatto al figlio… Credeva davvero che sua moglie si sarebbe di nuovo innamorata di lui? O stava forse costruendo, senza saperlo, un folle monumento al dolore, una specie di Taj Mahal sotto forma di orologio? O quella sono forse io?”
Il punto d’incontro del dolore è rappresentato dall’anatra (“il Sacro Graal dell’orologeria”), anzi no: dal cigno: “la creatura ‘non morta’ era e sarebbe sempre stata un maestoso cigno”.
Quando finalmente viene restaurato, rimesso in funzione ed esposto: “Henry, il tuo cigno d’argento è magnifico e spietato… Restiamo sbigottiti, nonostante le centinaia di ore in cui abbiamo lavorato ci rendiamo conto che per noi il cigno è ancora sconosciuto, straordinario, sinuoso, flessuoso, plastico, tortuoso, arcuato, aggraziato.”
La mia valutazione
Il romanzo ha alcune idee interessanti e inconsuete.
La narrazione è surreale, a tratti incomprensibile nelle connessioni in modo addirittura irritante.
E non pensiate che il tema venga sviluppato sulla base di romanticherie tipo carillon o filosofeggiando sul tempo, come alcune frasi lascerebbero sospettare: “Per tutta la vita mi sono lasciata stupidamente sedurre dal ticchettio degli orologi senza mai prestare ascolto all’orrore che nascondeva”.
Il tecnicismo è spinto: si parla di camme, ingranaggi e flange…
Il titolo, il titolo sta tutto nella complessità del dolore: “Le lacrime prodotte dalle emozioni sono chimicamente diverse da quelle di cui abbiamo bisogno per la lubrificazione della cornea. Così … i miei piccoli svergognati tessuti ora contengono un ormone … dell’appagamento sessuale, un altro che riduce lo stress e, infine, un analgesico naturale molto potente.”
In definitiva le mie aspettative sono state tradite. Anche se la lettura di un libro quasi mai risulta inutile.
Bruno Elpis
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Autobiografia in chiave horrror
“On writing” di Stephen King si può suddividere in due parti: la prima, quella iniziale, è un'autobiografia, che si ricongiunge all'appendice finale nella quale il 'basileus' dell'horror racconta in modo molto personale il terribile incidente stradale che lo afflisse nel 1999 e il duro periodo di riabilitazione che ne conseguì.
La seconda parte descrive l'arte dello scrivere, dispensando consigli a chi desidera incamminarsi lungo la strada della scrittura, ed è particolarmente interessante perché, nel consigliare, l'autore americano tratteggia - più o meno involontariamente - i canoni della sua poetica.
In questo commento mi occuperò della prima parte, quella autobiografica, per rilevare originalità e ironia con le quali “il re” affresca la propria vita, spesso contestualizzando la genesi di opere come “Carrie”, “Le notti di Salem” e “L'ombra dello scorpione”.
La propensione all'horror può essere facilmente individuata nelle modalità descrittive di episodi dell'infanzia: le angherie di una corpulenta baby sitter, l'incontro con due morti violente nei racconti di una madre fragile con la quale la vita non è mai stata generosa, le esperienze traumatiche del bimbo Stephen sulla poltrona dell'otorino, la tonsillectomia. O le conseguenze perniciose e dolorose di un espediente adottato per espletare le funzioni corporee nel bosco: “...strofinandomi sul sedere qualche bel mazzo di lucide foglie verdi. Che erano di rus velenosa.”
Anche le descrizioni delle persone tradiscono la propensione naturale verso un genere ben preciso: “La mia nuova maestra era la signora Taylor, una donna materna con i capelli grigi di Elsa Lanchester (quella di La moglie di Frankenstein) e occhi sporgenti.”
L'autobiografia indulge ovviamente alla descrizione del concepimento delle opere, a partire dagli albori: “Quattro racconti. Venticinque cent cadauno. Fu il primo dollaro che guadagnai in questo mestiere.” Quando a scuola lo studente non propriamente modello già praticava la sua arte, attirandosi gli strali degli insegnanti:
“Tu hai talento. Perché sprecarlo in questo modo?”
“Ho passato un bel po' di anni … a provare vergogna per ciò che scrivo.”
“... quasi tutti gli scrittori … sono stati accusati da qualcuno di aver buttato via quel dono di Dio che è il talento.”
Ho trovato particolarmente toccante il passaggio in cui King narra la sua lotta contro le dipendenze. Lo fa con sincerità, senza mistificazioni.
“Nel 1985 avevo aggiunto alla mia dipendenza dall'alcol quella alla droga...”
“Hemingway e Fitzgerald non bevevano perché erano creativi, diversi o moralmente deboli. Bevevano perché è quello che fanno gli alcolisti. Probabilmente è vero che le persone creative sono più vulnerabili … e allora? Siamo tutti uguali quando vomitiamo ai bordi della strada.”
Quanto allo scrivere, anche nella sezione autobiografica si colgono lampi della poetica di King: “...ti piombano addosso di punto in bianco: due pensieri che prima erano del tutto indipendenti tutto a un tratto trovano un punto d'incontro e si concretizzano in qualcosa di assolutamente nuovo.”
Mentre l'opera è pervasa da un leitmotiv, quello motivazionale: “Scrivere è magia, è acqua della vita come qualsiasi altra attività creativa. L'acqua è gratuita. Dunque bevete. Bevete e dissetatevi.”
Come non essere d'accordo?
Bruno Elpis
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A tutti coloro che scrivono!
Per chi parteggiare?
Romanzo che ha vinto il premio Fedeli nel 2004, è ambientato – come gli altri che hanno per protagonista il commissario Bordelli – nella Firenze degli anni sessanta. Per la precisione, qui siamo nel dicembre del 1965.
Con un paio di forbici conficcate nella nuca, viene ritrovato ucciso Totuccio Badalamenti. Nella sua vita, la vittima non è certo stata uno stinco di santo: praticava infatti uno dei più ignobili “mestieri”, era uno … strozzino! E veniva chiamato dalla gente "il nuovo venuto". Durante le indagini emerge che in molti vivono la morte dell’usuraio con soddisfazione, quasi a dire: “Ben ti sta!”. Lo stesso Bordelli conduce le investigazioni con sentimento contrastato: il desiderio di individuare il responsabile di un omicidio, per consegnarlo alla giustizia, confligge con il disprezzo per un individuo che in vita è stato vile e ha approfittato delle disgrazie altrui per arricchirsi. Al punto che, a tratti, l’inquirente sembra quasi parteggiare per l’omicida: il superego del commissario deve calmierare la naturale simpatia verso chi probabilmente ha commesso un reato perché era in preda alla disperazione.
Nella prima fase l’indagine ristagna in un’impasse dalla quale sembra impossibile uscire. Poi con l'autopsia il medico legale Diotivede offre il primo spunto utile e Bordelli si aggrappa all’indizio con tutte le forze della razionalità analitica…
Questo è stato il primo romanzo di Vichi che ho letto. Con esso ho conosciuto l’inquieto e malinconico commissario che – memore del passato di partigiano, che spesso rivive nella narrazione dei ricordi di guerra – si impegna a far rispettare la legge e a difendere i più deboli, ma interpreta questo ruolo con complessità psicologica e in modo informale, frequentando anche persone che per necessità vivono ai confini del lecito.
I romanzi di Vichi hanno il pregio di intrecciare vicende “poliziesche” ben costruite a descrizioni di eventi storici e di episodi di cronaca nera, che ridipingono in chiave romanzata quadri della società e del capoluogo toscano degli anni sessanta.
Bruno Elpis
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Un altro gatto nero?
La gatta del “racconto lungo” intitolato “La maledizione” di Tennessee Williams “si chiama Nicevo”.
“Cosa significa?”
“Oh, non lo so. Penso qualcosa di strano in russo.”
L’animale sembra avere un potere terapeutico sul protagonista (“Egli la guardava e, guardandola, la sua mente si quietava”): Lucio (“Lo strano piccolo uomo addormentato sul letto con il gatto arrotolato contro il petto nudo”) arriva in una città ove il fumo della fabbrica “restava sospeso in un banco inquieto sopra il cimitero” e trova ricovero affittando la stanza del russo (“stava qui prima di ammalarsi”) che era stato il padrone della gatta. Decide di adottare la gatta. Intanto trova lavoro in città: un’occupazione alienante (“…la catena … ogni volta che passava oltre il tuo posto nella linea, si porta via con sé una parte di te”) in fabbrica, che tuttavia gli consente di sopravvivere.
Lucio ha un gemello (“stava scontando una condanna a dieci anniin una prigione in Texas”), con il quale intrattiene un rapporto epistolare. Ben presto l’inquilino diviene oggetto di attenzione della bionda padrona “di casa dall’ossessionante florido petto”.
L’equilibrio esistenziale del forestiero è però fragile. Nell’aria vi sono strani presagi, che prendono corpo soprattutto quando Lucio si imbatte in un ubriaco che recita strane profezie. E avvertimenti del tipo: “Stai attento al sole! Spunta fuori dal loro cimitero ogni mattina!”
Il racconto è piuttosto inquietante e pervaso da qualche spunto leopardiano: “Il Creatore … aveva concesso al regno animale un beneficio inestimabile, privandolo … della inquietante facoltà di pensare al futuro”.
Bruno Elpis
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I drammi di Tennessee Williams
Tesi, antitesi e sintesi (parte seconda)
L’antitesi: La porta stretta (1909)
Ne “La porta stretta” si narra una vicenda speculare a quella de “L'immoralista”: come se Gide capovolgesse nuovamente la clessidra narrativa per rappresentare ancora riferimenti tanto autobiografici quanto ingombranti.
Jérôme ama di un amore casto e platonico la cugina Alissa, che lo ricambia. Nonostante la purezza e la potenza del sentimento, l’innamorato non riesce a impedire la morte alla quale la giovane amata si abbandona per sacrificio religioso. Quasi a significare che il fanatismo spirituale è pernicioso come l'immoralità.
Ma è possibile una sintesi…
… tra l’immoralismo di Michel e la spiritualità di Jérôme?
Io non lo credo.
“L’immoralista” Michel incarna Gide, come Alissa e Marceline assomigliano alla moglie di Gide (la cugina Madeleine), con la quale lo scrittore ebbe un rapporto coniugale impossibile e contrastato tra cultura e natura, tra l’ideale dell’amore platonico e la realtà dei sensi. Un dramma mai risolto. Forse insolubile.
Difendendosi dalle accuse che gli vennero rivolte per lo scandalo suscitato dalla pubblicazione de “L’immoralista”, Gide dichiarò: "Credo che sarebbe un grave errore considerare L'immoralista un’apologia della nuova teoria scoperta da Michel. E', piuttosto, l'esposizione di questa teoria e al tempo stesso la scoperta di tutti i pericoli che essa può rappresentare... Il prezzo che Michel paga per la sua gioia (il sacrificio di Marceline) non è più alto della gioia ottenuta?... Credo che bisogna vedere in questo, come nella parte dei miei libri, un libro di critica".
André, ma chi volevi convincere con questo sofisma?
Bruno Elpis
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Pane e … companatico!
L’autore che l’anno scorso ha vinto il premio Campiello con “La collina del vento” propone un nuovo romanzo, “Il bacio del pane”, sempre ambientato a Spillace, immaginario borgo calabrese ove Francesco compie la maggiore età scoprendo l’amore per Marta in un’estate indimenticabile trascorsa con un gruppo di amici.
LA NATURA DELLA CALABRIA
Non fa soltanto da sfondo; è essenza, impregna gli esseri umani con i suoi profumi intensi, con i colori forti, con i contrasti grazie ai quali, dopo l’aridità della fiumara (“il letto della fiumara, uno squarcio secco come un’antica ferita”), si scopre un paradiso naturale: la cascata del Giglietto (“Ai piedi della cascata si apriva un laghetto ovale”), alla quale si accede – dopo uno slargo - attraverso “un dedalo di mulattiere… che si perdevano tra le ultime vigne e il bosco fitto di lecci. In mezzo brillava una fiumara di pietre e oleandri fioriti, senza una goccia d’acqua”.
Nel luogo paradisiaco, ove i ragazzi si recano per divertirsi e fare il bagno, c’è un vecchio mulino, dopo gli “otto ruderi dei mulini lungo la fiumara”. Lì avviene …
… L’INCONTRO
Grazie al quale Francesco e Marta oltrepassano la soglia dell’adolescenza verso la maturità, venendo a contatto con una storia incredibile.
Lì conoscono “un vagabondo che secondo me è pure ciòto”. Presto si accorgono che “quell’uomo ha bisogno di” loro!
Lorenzo è un tipo strano: “Leggo Dante, la Divina Commedia: lì c’è tutto, l’amore e l’odio, il bene e il male, la vita e la morte”. E ha un passato che lo costringe a vivere in solitudine e terrorizzato: “Vi raccomando, non parlate con nessuno del nostro incontro, se mi volete rivedere ancora vivo”.
Nell’eremo in cui vive, “L’unica cosa che… manca è il pane”
IL SAPORE BUONO DEL PANE
E allora i due ragazzi glielo portano, il pane, quello sfornato dalla mamma di Francesco con un’arte che affonda le radici nella tradizione: “Un pane da resuscitare i morti, non quella specie di spugna inodore che si compra nei supermercati”.
E, negli incontri successivi, i due giovani avranno modo di capire che “non si scappa dai luoghi … si scappa semmai dalle persone subdole e violente, a volte persino da se stessi, dalla propria storia di rimorsi”.
Il nuovo romanzo di Carmine Abate è breve, ma intenso. Ancora una volta emana i sapori della Calabria: primo fra tutti l’aroma del pane fatto in casa, da gustare con i fichi appena colti dall’albero. O con i peperoni. Il nuovo romanzo di Carmine Abate trasuda di amore per la terra d’origine e si esprime in un linguaggio che riecheggia la parlata locale.
Bruno Elpis
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Il senso del riccio per gli aculei
L'eleganza del riccio è l’eleganza del nascondimento.
Il riccio è un animale dolcissimo, ha occhietti appuntiti e vivaci. Utilissimo nella catena ecologica (ma quale animale non lo è, forse soltanto l’uomo!) è una polpetta di carne palpitante sotto la scorza gotico-fiammeggiante degli aculei.
L'Élégance du hérisson è occultata nell’eleganza esteriore di Rue de Grenelle: una via parigina ove negozi esclusivi coesistono con palazzi lussuosi in stile déco. Al civico 7, ritroviamo Renée Michel: in apparenza una modesta portinaia che, sotto le mentite spoglie del personaggio dimesso, provinciale e dozzinale, cela artatamente una cultura profonda, segnalata dal nome del gatto Lev (il felino si chiama come Tolstoj!), e – forse inconsapevolmente - un segreto doloroso.
Sotto un vestito di ignavia, fingendo di guardare la TV, Renéè s’interessa di ogni espressione artistica (tra le altre: filosofia, cinema, musica classica e cultura giapponese). E il suo interesse non è sterile: perché la cultura nella donna si fonde a una sensibilità umana straordinaria e inconsueta, che fa della dissimulazione una tecnica di difesa e una filosofia di vita.
In un appartamento dello stesso civico 7 abita la dodicenne Paloma Josse, figlia di un Ministro della Repubblica: una ragazza che vive in perenne conflitto – generazionale e culturale - con una madre superficiale e fragile, con un padre aggressivo e spregiudicato, con la sorella Colombe… Insoddisfatta, critica e attanagliata dal disagio, con l’estremismo cinico e l’integralismo spinto che caratterizzano l’età dell’adolescenza, Paloma spietatamente pianifica di suicidarsi. Giorno programmato per la fine: quello del compleanno, quando darà fuoco all'appartamento in cui vive per cancellare ogni impronta della sua vita.
Paloma e Renée hanno un’affinità elettiva grazie alla quale si incontrano, si parlano, si identificano. E piano piano medicano l’una il malessere dell’altra.
Poi nel palazzo, un bel giorno, arriva il giapponese Kakuro Ozu, che riuscirà a stanare l’umanità di Renée, smascherando con le doti della sensibilità tutto il mondo sommerso del riccio-portinaia.
“È molto piacevole ascoltarlo parlare, anche se quello che racconta ti è del tutto indifferente, perché ti parla davvero, si rivolge a te. È la prima volta che incontro qualcuno che si preoccupa di me quando mi parla: non aspetta l'approvazione o il disappunto, mi guarda con l'aria di dire: Chi sei? Vuoi parlare con me? Mi fa proprio piacere stare con te! Ecco cosa volevo dire con la parola gentilezza, questo modo di fare che dà all'altro la sensazione di esserci.”
Si realizza così la magia di un incontro nel quale ormai Renée disperava di incappare: “Per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e vede oltre. Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all'incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell'altro guardiamo solo noi stessi, che stiamo soli nel deserto, potremmo impazzire. (...) Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.”
Ci sono tutte le premesse per uno splendido lieto fine. E invece… invece quanta rabbia ho provato quando in una sola riga Muriel Barbery tira al lettore una sassata a tradimento. “Ma il mondo, così com'è, non è fatto per le principesse!”
Ho molto amato quest’opera ricca di riferimenti e di allusioni culturali: impareggiabile l’ironia dell’autrice che, facendo il verso a Heidegger, riversa il suo sarcasmo sulla sterilità dell’erudizione autoriferita in una delle pagine più spiritose della letteratura contemporanea, in un romanzo che racchiude mille significati, interpretando esso stesso … l’eleganza del riccio!
Bruno Elpis
P.S.: come sempre, le mie recensioni di qlibri vengono riportate anche nel mio sito (www.brunoelpis.it). Questa - con le foto di ricci e istrici - si trova ali link:
http://www.brunoelpis.it/recensioni/723-leleganza-del-riccio-di-muriel-barbery-qlibri
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Alla deriva?
Lo dice anche il titolo: la primavera tardiva della signora Stone sboccia in quel di Roma. La Roma delle “cupole delle vecchie chiese, che si inturgidivano al disopra dei tetti angolosi come seni giganteschi”. La Roma che possiede “l’immensa cascata di gradini di pietra che da Trinità dei Monti scende a Piazza di Spagna”. La Roma mondana di via Veneto. Quella equestre di Villa Borghese.
La signora Stone, a Roma, vive una stagione piuttosto difficile: “Vi sono periodi in cui la vita si vela di un senso di irrealtà, in cui si smarrisce ogni certezza… In tali momenti, si ha la sensazione di andare alla deriva, se non di essere sommersi, in un mondo di vapori e di acque che ci incalzano con furia violenta, tumultuanti”.
Se avete provato queste sensazioni, ebbene sappiate che state andando alla deriva, proprio come la signora Stone. Può risultare allora interessante conoscere come vive questa drammatica, smottante stagione la protagonista dell’unico romanzo scritto dal drammaturgo di “Zoo di vetro”, “Un tram che si chiama desiderio” e “La gatta sul tetto che scotta”.
Mrs Stone è un’ex attrice che vive rimpiangendo successo, bellezza e gioventù. In un’epoca (gli anni Cinquanta) nella quale la chirurgia estetica non operava a pieno ritmo e con i portentosi (?) risultati dei giorni nostri.
Nonostante la decadenza in atto (“Tre avvenimenti di grande importanza e di vaste conseguenze si erano verificati a un anno di distanza…: il ritiro dalle scene, la morte del marito e la menopausa”), la donna è ancora di bell’aspetto e ha “occhi viola”, proprio come Liz Taylor!, indimenticabile e indimenticata interprete della trasposizione cinematografica de “La gatta sul tetto che scotta”. E “camminava ancora per la strada come se stesse per comparire sul palcoscenico”.
La bellezza della signora bien âgée è insidiata e assediata da quello che oggi si chiamerebbe uno stalker: un giovanotto poco abbiente, la cui “bellezza era notevole anche in un paese dove è quasi un’eccezione che un giovane ne sia privo” (detto tra parentesi: ma gli americani, noi italiani, ci vedono ancora così?). Un giovanotto che non esita ad attirare l’attenzione su di sé, anche compiendo atti osceni (“Laggiù, sotto l’ago di pietra che veniva dall’antico Egitto, c’era ancora il giovane straordinariamente bello che, il giorno prima, le aveva fatto un gesto osceno”).
Ma lei, la signora Stone, è presa dalla sua storia (“l’esperienza sessuale dalla quale e per la quale il giovane conte Paolo aveva una ragione di esistere”) e ha occhi soltanto per Paolo Di Leo (“elegante dell’equivoca ‘dolce vita’ cui … apparteneva”), conte marchettaro ed esca (“si percepiva anche il sentore di muschio del sesso, cui la signora Stone era particolarmente sensibile”) che una truffaldina nobildonna squattrinata (“Quello che la signora Stone non sapeva era che tali richieste erano state suggerite dalla contessa e che le somme ottenute erano divise dai giovani con la vecchia signora”) ha abilmente piazzato nei salotti romani, per estorcere quattrini all’ex attrice.
Ma la verità viene presto a galla: “La tua amica contessa è una mezzana fornita di una raccolta di bei ragazzi che chiama ‘marchette’ e che mette a disposizione del miglior offerente…”
Io ovviamente sorvolo sull’evoluzione della storia e sulla soluzione esistenziale che la signora Stone imbocca per risolvere il suo “complesso del viale del tramonto”, perché il mio interesse è tutto concentrato sulla …
… DERIVA
Che è inesorabile: “Stava andando alla deriva, fuori dal bagno nella camera da letto, fuori dalla camera da letto sulla terrazza.”
E imperscrutabile: “Quell’andare alla deriva aveva una direzione, se non uno scopo, e qualche volta la direzione è tutto ciò che conosciamo dello scopo.”
Perché la deriva è addirittura cosmica: “Se avesse guardato fuori dalla finestra, o se fosse uscita sulla terrazza, avrebbe visto che anche il cielo stava andando alla deriva.”
Ed è scandita dal tempo: “Ma il tempo continuava a fuggire. Il ticchettio continuo gliene dava prova.”
E si alimenta con il nichilismo: “Il nulla continuava. Quella deriva che era il nulla continuava.”
Con questa digressione sulla “deriva” siete ancora sicuri di voler prendere – come consigliavo all’inizio – la signora Stone come esempio? In caso negativo, cerco di riconquistarvi con alcuni …
… AFORISMI DI TENNESEE WILLIAMS contenuti nel romanzo:
“Sapere non significa di necessità essere consapevoli.”
“Abbi pazienza, Roma non è stata costruita in un giorno!”
“Non le era rimasta altra protezione all’infuori della ricchezza, e la ricchezza non assicura dignità.”
“E’ sempre un’esperienza sconcertante ascoltare discorsi fatti su di noi da persone che non sospettano la nostra presenza.”
“Quella sorta di panico che rende preferibile precipitarsi verso il pericolo piuttosto che sfuggirlo…”
Bruno Elpis
Indicazioni utili
Tesi, antitesi e sintesi (parte prima)
La tesi: L’immoralista (1902)
Manifesto delle inquietudini e degli estremismi intellettuali che alimenteranno la letteratura mondiale del Novecento, L’immoralista di André Gide ha per protagonista Michel, filologo che sposa Marceline, un raro esempio di devozione coniugale riversato su un marito che ha in sé il germe della distruzione.
Il viaggio di nozze ha per destinazione l’Africa: lì Michel contrae la tubercolosi e soltanto le cure amorevoli della moglie lo trattengono in vita. Ma l’esperienza della malattia e la prospettiva della morte inducono nell’intellettuale una nuova concezione della vita: la filosofia elaborata è terribile, perché sospinge Michel a valorizzare aspetti della personalità repressi, senza porsi vincoli morali. Completamente blandito dal male, il filologo distrugge la sua identità etica per rifondare l’esistenza su altri presupposti ("Da quel momento fu lui che io volli scoprire: l'essere autentico, il "vecchio uomo" in noi, quello che il Vangelo aveva rifiutato; quello che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori e io stesso, ci eravamo sempre sforzati di sopprimere... Da quel momento provai disprezzo per l'altro essere, secondario, costruito, che l'istruzione aveva formato al di sopra. Dovevo scuotermi di dosso quelle sovrapposizioni").
Intanto, a sua volta Marceline è afflitta dalla tubercolosi, ma il marito è in preda a un egoismo che lo rende insensibile alle sofferenze della moglie malata e la trascina in un'inopportuna, esiziale rotta verso l’Italia e l’Africa. Il viaggio è per Michel uno sprofondare nel baratro, per Marceline una condanna a morte.
Mi piace visualizzare l’opera di Gide con l’immagine della clessidra, un alambicco ove l’ampolla superiore si svuota a beneficio di quella inferiore, in un contrappasso esistenziale spietato che opera secondo la legge dell’inversione della morale: Michel guarisce per le cure della moglie e matura odio verso ogni forma di malattia, Marceline si ammala per altruismo e perisce per l’incuria del marito, che afferma: “Sapersi liberare non è niente; il difficile è sapere essere liberi”.
Un’opera tanto breve, quanto incisiva nel rappresentare gli estremismi e i sentimenti illeciti che affliggono la natura umana. Grazie all’arte di Gide la spietatezza dell’immoralismo rimane velata da uno stile superbo e allusivo: e questo contrasto – tra rappresentazione accennata e devastante potenzialità maligna insita nei contenuti - scatena l’inquietudine più di quanto possa fare una frase esplicita o diretta.
Bruno Elpis
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