Opinione scritta da Bruno Elpis
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Per riflettere, su parole e contenuti
In “Ma come tu resisti, vita”, Mariapia Veladiano raccoglie componimenti brevi (una pagina ciascuno), raggruppati in tre sezioni: sentimenti – azioni – parole.
Così tra i “sentimenti” ritroviamo la gioia (“Gioia è scoprirsi parte della creazione. Creatori anche noi”), il rimpianto (“Di non aver detto”), il desiderio (“C’è un età in cui il desiderio è moltitudine”). E molti altri.
Tra le azioni, a titolo esemplificativo cito “cantare” (“Non è necessaria la voce limpida e accordata. Il cuore leggero però sì”).
Per le parole, scelgo “ombra” (“Capita di dover vivere con un’ombra che ci precede nel nostro andare, sempre”).
Alla fine di ogni sezione, troviamo il più citato tra i sentimenti, le azioni e le parole. Che sono: “amore” (“Si chiama in molti modi” – “A volte è malamore” – “A volte è amore finito”), “vedere” (“Dal basso” – “Vedere dall’alto è un bel sollievo” – “Come un contemplare”) e “parole” (“Di parole si vive”).
Un libro ricco di spunti filosofici e meditativi, adatto a chi ama riflettere, un libro dal quale emergono nitidamente il senso religioso della vita e la visione profonda della realtà.
Bruno Elpis
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Con l’amaro in bocca
Tornano i “bastardi di Pizzofalcone”. In “Buio” la squadra capitanata dal commissario Palma è questa volta impegnata in un doppio caso: il rapimento del bambino Dodo (“Adesso abbiamo la certezza che si tratta di un rapimento, con ogni probabilità a scopo di estorsione, e dobbiamo aspettarci un’altra chiamata con una richiesta di riscatto”) e uno strano furto nell’appartamento di uno strozzino (“E’ cosa insolita che i ladri non portino via niente se non il contenuto della cassaforte”). A questi misfatti, si aggiunge la personale lotta che il vice Pisanelli ingaggia contro il “killer dei depressi”.
Del doppio caso si occupano i componenti del team coordinato dall’ispettore Lojacono, nella vita privata conteso tra la ristoratrice Letizia e il procuratore Laura Piras in un duello complicato dall’arrivo a Napoli di Marinella, l’adolescente figlia dell’ispettore divorziato.
I “bastardi di Pizzofalcone” sono, come sempre, ben caratterizzati e le loro vite s’intrecciano con le vicende del commissariato. Basta leggere come ciascuno degli agenti reagisce al medesimo particolare: “La faccia di quel bambino, nell’istante in cui si era girato verso la telecamera, le aveva procurato un misto di sensazioni…”
La familiarità con i protagonisti (ciascuno ha un soprannome: così Lojacono è il cinese, Pisanelli il presidente, Romano Hulk e Aragona Serpico…) aumenta in ogni episodio, nel rinnovato “clima che si respirava in commissariato dopo la rifondazione”.
La vicenda è narrata anche dal punto di vista del piccolo rapito: nei suoi sentimenti d’amore verso mamma, papà e nonno (“I soldi ce li hanno sia il padre sia il nonno del bambino”) in perenne e violento dissidio tra di loro, nella paura per il buio (“Non lo sa nessuno della piccola luce, di quelle che si infilano direttamente nella presa di corrente, che lasciano appena un chiarore, che nemmeno si può chiamarla luce”), nel morboso attaccamento ai giocattoli.
La scrittura di Maurizio De Giovanni è sempre avvolgente e affascinante. Eppure questo episodio, quando ho chiuso l’ultima pagina del libro, mi ha lasciato l’amaro in bocca.
Per l’epilogo inaspettato e/o temuto?
Per la figura stereotipata del carceriere basista-straniero dell’est?
Per la riproposizione di situazioni (espediente necessario per creare il tormentone) già lette nella precedente puntata?
Vallo a capire…
Bruno Elpis
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Les liaisons dangereuses del Sol Levante
“Le relazioni pericolose” è un’opera di Pierre-Ambroise-Francois Choderlos de Laclos che, alla fine del settecento, narra le avventure libertine della nobiltà francese. Pericolosa, in senso nipponico, è la relazione che l’aristocratica e divorziata Taeko (“Taeko aveva lineamenti luminosi e splendidi che la facevano apparire molto più giovane dei suoi trentanove anni”) – in altra epoca! - instaura con Senkichi, bellissimo giovane conosciuto in un locale gay alla fine della seconda guerra mondiale, in un periodo storico nel quale il Giappone delle tradizioni, tra i cocci del nazionalismo, è costretto a subire l’invasione della cultura occidentale e americana.
Ho trovato interessante l’evoluzione del rapporto, che diventa ossessivo, sullo sfondo delle tensioni sociali e culturali del dopoguerra.
Il rapporto è studiato con abilità e originalità: nasce come capriccio (“un uomo che non sarebbe stato niente più che l’avventura di una notte”) e ricerca del piacere (“Senkichi aveva un contegno da gigolo”), è alimentato dalla diversità sociale (“un uomo con cui formava una coppia tanto mal assortita”) e da una sorta di compensazione sado-masochistica (“Nessuno aveva mai trattato Taeko a quel modo”) tra due personalità dissonanti (“E così, fin dal principio, i due iniziarono a ferirsi a vicenda”) e con pulsioni opposte (“Sul suo viso insolente era affiorata quell’espressione soddisfatta tipica di un professore che punisce uno degli allievi prediletti”), procede nell’ambiguità (“Vista la loro ambigua e disinvolta amicizia, che talvolta sconfinava nell’amore…”) e nell’incertezza (“Taeko sapeva che in un modo o nell’altro la cosa sarebbe finita…”).
La relazione, più pericolosa che mai, si staglia sullo sfondo della contaminazioni occidentali: la moda (“un gala in cui Yves Saint Laurent, uno stilista la cui fama cominciava a scalare il firmamento della moda parigina, avrebbe presentato la sua collezione”) è allora predominio incontrastato degli stilisti francesi come Dior, le incursioni culturali (“La donna dei sogni con Anita Ekberg”) dilagano nei costumi e nelle abitudini giapponesi…
Senkichi incarna la malizia (“Aveva un sorriso colmo di malevolenza e malizia, ma allo stesso tempo lasciava trapelare qualcosa di terribilmente puro e dolce”), l’edonismo effimero (“Era convinta che il solo pensiero di qualcosa di duraturo costituisse per lui una specie di tabù”), il sadismo (“Taeko sapeva che si trattava di un gioco, che era una violenza fittizia, e ne era amareggiata”), il mistero (“Più lei cercava di capirne il mistero, più questo s’infittiva”), l’opportunismo (“Conosceva bene l’opportunismo di Senkichi”) e l’arroganza del dominatore (“Ma lui… lui è una persona orribile!”). Ma è ancor più interessante seguire le reazioni della donna giapponese che cerca una propria via esistenziale nell’emancipazione e nell’indipendenza (salvo subire il giogo della passione e dei sensi).
La parte finale s’impenna: su di essa aleggia il binomio eros-thanatos, e la relazione sembra imboccare la via maledetta di una morte (“Sarebbe stato magnifico, quella notte, seguire Senkichi in un doppio suicidio d’amore!”) anticipata con le tonalità che la stessa biografia di Mishima ha rappresentato in modo plateale.
L’epilogo giunge per nulla scontato, in un crescendo ove tensione, ricatto, vendetta e riscatto si accavallano tra tinte fosche e iridescenze impressionistiche: tutte rigorosamente orientali…
Bruno Elpis
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Branca-branca-branca… Leon-leon-leon!
Il sequel di Shining ha stimolato in me una pluralità di idee e di reazioni.
Così ho suddiviso i miei commenti per tematiche: (molti) vizi e (poche) virtù dei sequel, il fascino indiscreto del “paranormal horror” imputabile alla luccicanza, l’interpretazione che il Doctor Sleep fornice all’eutanasia…
In questo commento mi soffermerò sulla gang dei nemici che devono affrontare i luccicanti Dan-Doctor Sleep (sì, proprio lui: il bimbo in triciclo, ormai cresciuto, ma sempre figlio del fulminato Jack Torrance-Nicholson) e Abra, la bambina prodigio che ha i medesimi, spettacolari poteri telepatici di Dan.
Una regola essenziale del romanzo d’azione è la seguente: quanto più il nemico è forte (intelligente, scaltro, potente…), tanto più risalterà la figura del protagonista eroe. Stephen King trasgredisce questa regola (ovvio, a lui tutto è consentito) e imposta il remake di Shining ingaggiando il conflitto tra eroi luccicanti e… un’armata Brancaleone!
Il “Vero Nodo” (così si chiama il gruppo di mostri) ha infatti caratteristiche al limite del grottesco: in tutto il romanzo si respira la miscredenza di King, quasi egli fosse il primo a non credere alle fandonie che va raccontando.
Il gruppo del vero Nodo è capitanato da Rose, la donna con il cilindro (“il cappello sulle ventitré”), e opera per mano di Papà Corvo e Andi Serpente.
Le creature degenerate si celano sotto mentite spoglie (“L’America è un organismo vivente, le statali e le autostrade sono le sue arterie, e quelli del Vero Nodo le percorrono come un virus silenzioso”) e sono inquiete per via del nutrimento di cui necessitano (“Dovevano trovare un bel po’ di vapore e riempire almeno qualcuno dei vuoti”). Naturalmente sono cannibali proprio come la strega di Hansel e Gretel (“Come migliaia di altri ragazzini sfortunati, era stato inghiottito in un solo boccone”), hanno una strategia di razionamento del cibo (“Noi li ammazziamo quando le bombole scarseggiano o li sottoponiamo al cambiamento se possiedono qualche dote che può tornarci utile…”) e orientano le loro aggressioni su una fascia privilegiata della popolazione americana (“I ragazzini con la luccicanza sono le loro prede… I diavoli vuoti infestano il mondo peggio di un cancro”).
In pratica assomigliano ai più celebri vampiri (“Loro si fanno chiamare il vero Nodo. Per la maggior parte sono vecchi e si comportano tipo vampiri”), ma da questi si differenziano in modo netto (“Di giorno non dormono dentro le bare, di notte non si trasformano in pipistrelli… ma sono dei parassiti e di certo non sono umani”).
La loro crudeltà (“Prima di ucciderli, li torturano. Per purificare il loro vapore…”) viene castigata da un banale incidente di percorso (“Sono malati… hanno il morbillo”), che credono di risolvere con il più efficace degli antidoti (“Sono convinti che il supervapore di Abby sia in grado di curarli”).
Orrore degli orrori: il loro quartier generale è il luogo ove un tempo sorgeva l’Overlook, lo spettrale albergo che fu teatro della follia di Jack Torrance- Nicholson, (“E dove sarebbe questo Vero Nodo?... In Colorado… a Sidewinder, nel campeggio Bluebell”).
La pantomima è esaltata dai nomi ridicoli dei componenti il branco: i gemelli Piso e Pisello, Terri Acciuga, Leccapiedi, Jimmy Pitagora, Phil Sozzone, Annie Grembiule e Doug Gasolio…
Non bastassero i nomi, questi Twilight di serie B sono indisciplinati e riottosi: “Gas li aveva convinti che non ci si poteva più fidare di Rose…”
Il romanzo, beninteso, è divertente e non deluderà i fan del Re.
Io rimpiango la malinconica inclinazione che King sembrava aver imboccato con Joyland…
Bruno Elpis
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Acronimo
Modellare la vita di provincia su sogni alimentati da letture
A volte, quasi sempre?, è pericoloso: Emma coltiva così un
Desiderio smanioso di evasione dalla realtà.
“Amore , riteneva, doveva arrivare di colpo”
Magari “con schianti e folgorazioni”, a mo’ di temporale,
E “come uragano celeste che si abbatte sulla vita”. Illusa!
Bovarismo oggi è antonomasia: d’insoddisfazione spirituale
O di tendenza a costruirsi una personalità fittizia.
Vero è che, in Flaubert, “la parola è un laminatoio che
Affila sempre i sentimenti”. Né “bisogna toccare gli idoli”,
Ricorda lui, “se non si vuole che la doratura ci resti sulle mani.” Antidoti?
Yin e yang contro “l'eterna monotonia della passione che non cambia mai forma, non cambia mai linguaggio…” Oppure, senza ricorrere all’oriente, traendo spunto dallo stesso Flaubert: “L'amore è una pianta di primavera che profuma ogni cosa con la sua speranza, persino le rovine dove si aggrappa.”
Bruno Elpis
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Bye bye fantasy!
Prima di dire il mio definitivo addio al fantasy, mi accingo a un’impresa improba: cercare di commentare con decenza un’opera che – se devo dirla tutta, ma proprio tutta e fino in fondo – ha catturato la mia attenzione per il titolo (che scimmiotta Freud) e per il cognome dell’autore (così simile, non fosse per l’iniziale, a quello del più celebre filosofo danese). Ovviamente, questi criteri per la scelta di un libro sono troppo labili e le premesse sono troppo deboli per fondare l’interesse in un genere che – evidentemente – mi è alieno…
Vediamo allora come posso razionalizzare una bislacca storia intorno alla quale viene scritta la bellezza di 399 pagine fitte fitte.
AMBIENTAZIONE E PROTAGONISTI
Siamo nella Copenaghen di metà ottocento (“Solo ora, a più di cinquant’anni dal nostro primo incontro, avvenuto nel 1846, posso narrare le nostre esperienze comuni”). Qui si aggira l’adolescente narratore: è figlio di un bibliotecario che perisce in strane circostanze (“A causa della malattia, la morte di mio padre fu considerata un suicidio”), non prima di aver lasciato al protagonista un libro sibillino (“Ex Libris Somniorum era scritto sopra il disegno”). Dopo la morte del padre, l’intera famiglia cade in disgrazia e il figlio-narratore vive sulla strada, compie piccoli misfatti, finisce in prigione e viene liberato da colui che diverrà il suo “maestro”:
“Mortimer Welles
Agente di pegno
Restauratore di libri
Razionalista praticante”
“Conoscevo vostro padre … eravamo intimi amici, fino all’ultimo…”
Il ragazzo non sa bene se sia meglio disfarsi del libro ricevuto in eredità o conservarlo (“Separandomi dal libro avevo perduto l’ultimo resto fisico di mio padre, ma allo stesso tempo era un sollievo essermi liberato dall’enigma che mi tormentava da tanti anni”): vero è che il libro rappresenta la chiave d’accesso a un mondo occulto…
ATMOSFERA LIBRESCA
Nella bottega di Mortimer, il ragazzo dovrebbe apprendere l’arte della rilegatura, che potrebbe praticare restaurando le Metamorfosi di Ovidio, affidategli da Klara. In realtà il laboratorio è l’occasione per frequentare, insieme a Mortimer (sì, il maestro si chiama proprio come il protagonista di “Arsenico e vecchi merletti”!), un circolo di personaggi dal nome cavalleresco (come Parsifal e Galahad), dediti più a bere acquavite che a condurre strampalate indagini. Il tutto è intercalato da frequenti visite alla biblioteca comunale (“Una biblioteca è espressione di tutte le conoscenze di un paese, misurate in volumi e pagine”).
MISTERIOSE SPARIZIONI
A Copenaghen continuano a sparire persone (“Il poeta scomparso senza lasciar tracce”), proprio come in passato era accaduto alla moglie di Mortimer (“Ebbi la netta sensazione che si trattasse della moglie di Mortimer, la donna ritratta nel quadro al pianterreno”): “Era stata a uno spettacolo al teatro reale e sparì fra il teatro e casa”.
FAZIONI OPPOSTE
Intanto monta il conflitto tra potere oscurantista (“Se il Ministero trova la Biblioteca, finiranno tutti nei forni del ministero”) e libertà intellettuale (“Noi vogliamo il contrario. Vogliamo liberare la parola!”): un tema di per sé apprezzabile, se a un certo punto… non andasse alla deriva, al punto che il lettore comincia a parteggiare per la repressione. Questo perché nel libro prende piede una realtà sommersa e onirica (“Trovarmi nel sogno cominciava a piacermi”), una biblioteca ove i bibliotecari sono soggiogati e tenuti prigionieri, un luogo raggiungibile soltanto attraverso un misterioso fluido che la mia mente schematica e semplificatrice identifica con la “droga” (“Era la prima volta che facevo un’iniezione a qualcuno e le mani mi tremavano un po’”). L’autore però continua imperterrito nelle sue macchinazioni e dà un colpo al cerchio e uno alla botte: “Il pastore vi ha detto che la Biblioteca smetterebbe di esistere se tutti lasciassero il sogno?”
IL MIO GIUDIZIO
Naturalmente è negativo. Ma un merito questo libro ce l’ha: per reazione, andrò a leggermi “Arsenico e vecchi merletti” di Joseph Kesselring!
Sul romanzo, oltretutto, si addensano ombre consapevoli di plagio (“Come la storia del Libro delle anime, che raccoglie le anime di tutte le persone che lo hanno letto, o il Libro dei morti, che rivela la data di morte di ciascun cittadino”); tuttavia non è questo il peccato peggiore del libro. Ammesso che il peccato non risieda in me, che con convinzione esclamo: bye bye, fantasy addio!
Bruno Elpis
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The other side of Medea (una madre amorevole)
E se Medea non fosse l’infanticida che mitologia e tragedia euripidea ci hanno consegnato?
La Wolf, in ambito artistico-letterario, compie la medesima operazione che Cartesio esperì in filosofia. Come Cartesio - esercitando il dubbio iperbolico dello scetticismo metodologico – negò gli assunti da sempre ritenuti incontestabili per costruire un nuovo sistema di pensiero, così Christa Wolf nega la tradizione e ripropone una mutazione di Medea: non già la donna passionale e accecata dall’amore, che tradisce la patria, aiuta Giasone a impossessarsi del vello d’oro, lo segue a Corinto ove – sentendosi respinta – follemente uccide i figli cha da lui ha avuto; bensì un essere pensante e positivo a partire dal nome (“Medea ossia colei che porta consiglio… guaritrice”), decisa ad andare sino in fondo per smascherare il delitto (“A Medea è toccato portare alla luce la verità sepolta che determina la nostra convivenza, e … noi non lo tollereremo”) sul quale il potere si basa (“Dovevo conoscere il segreto di quella regina”), carismatica per i colchi approdati a Corinto e sfidante nei confronti del re Creonte e del suo apparato (“Lo dicono i corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di testa sua”), protettiva e materna verso i figli (“Erano spensierati, pieni di vita, quello che assomiglia a Giasone è più prestante di quello scuro, ricciuto, che però è più selvaggio e ribelle del fratello”) che vengono uccisi non da lei, ma dalla furia collettiva (“La scrittrice parte … dal presupposto che dal matriarcato non possano discendere pulsioni distruttive”).
Il metodo di narrazione prescelto è quello delle sei “voci” (“una struttura a sguardi incrociati”) che si alternano in monologhi: Medea, Giasone, Agameda (della Colchide, un tempo allieva di Medea), Acamante (primo astronomo del re Creonte), Leuco (secondo astronomo), Glauce (figlia di Creonte e Merope).
La figura di Medea, nel racconto delle sei voci, trasmuta rispetto alla tradizione greca e viene completamente rifondata: la monarchia di Corinto nasconde un orrendo delitto (“a quello stretto cranio infantile, a quelle scapole sottili, a quella friabile colonna vertebrale”), che Medea penetra; questo atto di insubordinazione scatena la reazione del potere (“Pare tuttavia che il segreto sulle cui tracce lei si è messa sia così orribile che non sia possibile usare pubblicamente tali prove contro di lei”), che addensa su Medea le nubi del sospetto cittadino (“Il piano era geniale perché lasciava aperte tutte le possibilità. Medea sarebbe stata accusata di aver ucciso suo fratello Apsirto in Colchide…”). Quando poi gli eventi naturali flagellano i corinzi, il potere ne approfitta per scoccare il colpo finale e ostracizzare la donna.
La parte finale dell’opera è notevole per il clima tragico di tensione (“Si sarebbero liberate tutte le forze funeste che normalmente una comunità ordinata era in grado di tenere a bada”) intorno alla figura di una donna volitiva e tenace. Tutto è in crescendo: dapprima il terremoto (“morti destinati a imputridire per settimane sotto le macerie della case”), poi la pestilenza, infine l’eclisse di luna che nelle credenze antiche era considerato funesto. Gli eventi richiedono sacrifici propiziatori (“Fra poco dovrà essere sacrificato un prigioniero ogni cento”) e vengono abilmente utilizzati contro Medea (“molti corinzi sostengono che si tira dietro la malattia”). In un clima misterico (“Presi il lauro che mi diedero da masticare ed esso ci trasportò nell’ebbrezza, sicché vedemmo Demetra che vagava esultante nella notte”), orgiastico (“la nostra danza che divenne più selvaggia, la danza del labirinto”) e sanguinario (“Turone… gli recidevano il sesso”), Medea diviene il capro espiatorio (“fu spinta attraverso la porta a sud, come si usa per il capro espiatorio, fuori dalla città”) e così a lei viene ascritto anche il delitto dei figli…
Questa originale rivisitazione del mito può essere interpretata sia alla luce del femminismo teorico dell’autrice (“la tendenza, soprattutto nei momenti di crisi, a caricare di segni negativi una determinata figura – spesso femminile, si chiami essa Cassandra o strega destinata al rogo – per destituirla di ogni autorevolezza”), sia in chiave biografica in relazione al complesso processo di riunificazione della ex DDR. In quest’ultima accezione il superamento dell’impostazione euripidea (“il testo di Euripide, teso ad affermare la superiorità della ratio greca sul tenebroso mondo dei barbari”) va letto anche a contrariis (ossia valutando la “incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una cultura come quella della Colchide”).
Bruno Elpis
P.S.: Le citazioni critiche sono tratte dalla postfazione di Anna Chiarloni
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Narrazioni zoomorfe
Mi affascinano. Perché gli animali ben si prestano a rappresentare pregi e vizi, a interpretare vicende umane e a personificare tipologie antropiche.
Così avviene nella mitologia prima ancora che nella favolistica di Esopo e Fedro. Così avviene nella narrativa fiabesca di Andersen (la sirenetta, il brutto anatroccolo), di Perrault (il lupo di Cappuccetto, il gatto con gli stivali) e dei fratelli Grimm (i musicanti di Brema, il lupo e i sette capretti, i tre porcellini) e nel cinema di Disney (Bambi). Così succede nella satira di Lafontaine o nella “Fattoria degli animali” di George Orwell.
Lo stesso miracolo tuttavia non avviene in “Toby” di Russel Potter, una storia che l’autore immagina affidata a un curatore: “l’unica e sola autobiografia di una creatura non appartenente al genere umano”.
Toby è un maialino portentoso. “Io venni al mondo nel 1781 o pressappoco… in un podere presso Salford, non lontano dalla vasta città di Manchester”. Il suo padrone, Mr Lloyd, è “un uomo moderato in tutto… In una sola cosa, ahimè, non era affatto moderato: nel trattare le bestie”. Dopo aver vinto un concorso per le caratteristiche che lo rendono appetibile sul piano culinario, il porcellino evita il suo destino di morte grazie all’intervento del figlio di Lloyd: Sam. Con lui fugge e viene accolto da Mr Bisset, un ammaestratore di animali che – dopo aver intuito che Toby è molto intelligente – lo avvia allo spettacolo, facendo di lui un fenomeno e un’attrazione circense. Ma le abilità di Toby sono molto raffinate (“La vita da teatrante cominciava già a a stancarmi”) e così anche il suo spirito critico (“Avevo già veduto in più di uno spettacolo degli animali abbigliati da pagliacci e l’avevo sempre giudicato degradante”). Inoltre il rapporto con Mr Bisset s’incrina (“Non tollererò una seconda volta di essere messo in ombra da te!”).
Il circo viaggia da Liverpool a Dublino e poi verso Oxford, ancora con Sam che sostituisce Mr Bisset nel ruolo di accompagnatore. Dopo un passaggio nel luogo natio (“Eccomi dunque a ripercorrere la stessa strada per la quale Mr Lloyd mi aveva condotto al mercato”), Sam e Toby si dirigono verso la Scozia, affrontano un maiale emulo in una singolar tenzone, passano per Glasgow e finiscono a Edimburgo ove Toby matura il proprio exit dallo spettacolo per dedicarsi a meriti accademici (“conferendoti … cum laude il titolo di baccelliere delle Arti”) e alla cultura con tanto di citazioni latine (“Tempus fugit, non autem memoria”).
La storia mi è sembrata molto narcisistica, con riferimenti metaforici generici (“Ero stato più di una volta testimone della crudeltà umana, la quale sceglie per vittime tanto i propri simili, quanto gli animali inermi”), piuttosto ovvi (“Il maiale non vuole farsi uomo, ma l’uomo, ahimé, tende spesso al maiale”) e non particolarmente originali (“Conoscere i limiti del proprio sapere è una forma assai rara di conoscenza, tanto tra gli umani quanto tra i suini”). A parer mio, il retro pensiero oltre l’allegoria zoomorfa ha solo qualche spunto interessante (“Studi letterari e filosofici: grazie a questi ultimi potei scoprire che molti dei bislacchi meccanismi che governano l’uomo servono in realtà… non tanto a renderne ragionevole l’agire, quanto piuttosto a farlo sembrare tale”), che non riscatta la noia diffusa aleggiante sulla lettura.
Bruno Elpis
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Lettura anacronistica?
Inizio la lettura del volume che ha il titolo di un vecchio film di Pupi Avati e che contiene sei racconti, insidiato da un sospetto che è quasi una certezza: sono fuori tempo massimo rispetto alle ormai archiviate feste di Natale, denominatore comune di questa antologia?
La raccolta è aperta da Alicia Giménez-Bartlett con “La principessa Umberta”. L’ispettore Petra indaga sul caso di “una principessa italiana che si dà alle opere di bene, ma che contemporaneamente entra in contatto col mondo del crimine organizzato!”
Racconto lineare e senza sussulti, ma trasversale rispetto alle classi sociali dei protagonisti.
Maurizio De Giovanni scrive “Un giorno di Settembre a Natale”. Protagonista del racconto è Mina, assistente sociale alle prese con giorni storti (le cosiddette GdM, vi risparmio la declinazione dell’acronimo), una mamma rompiscatole (“Il problema”), un marito magistrato troppo puntiglioso e prevedibile dal quale ha divorziato e un prestante collega ginecologo che sembra avere requisiti creativi opposti a quelli dell’ex marito. La vigilia di Natale, giunge al consultorio una prostituta d’alto bordo, minacciata dalla camorra, e chiede aiuto a Mina in un caso complicato: “Spettava a lei, proprio a Settembre Gelsomina detta Mina, assistente sociale, cercare e trovare la via per risolvere la questione…”
Racconto rocambolesco, nel quale il solito De Giovanni riesce a delineare con sapienza, e con un quarto delle pagine solitamente disponibili in un romanzo, la psicologia dei personaggi.
Francesco Recami localizza in un condominio il rito dello “Scambio di regali nella casa di ringhiera”. I personaggi ruotano intorno a Angela e ai suoi regali: perché “La signora Angela Mattioli per Natale amava regalare libri”. Ma quando Angela accompagna in banca la vicina invalida, rimane invischiata in una rapina surreale (“Fermi tutti, questa è una rapina!”), che scatena inevitabili meccanismi mass-mediatici (“Sul posto arrivarono giornalisti e troupe televisive, nella speranza di assistere al massacro o per lo meno a una sparatoria”).
Racconto grottesco, nel quale emerge uno spiccato senso per la commedia.
Antonio Manzini augura “Buon Natale, Rocco!” Il vicequestore Rocco Schiavone deve fare i conti con una delle protagoniste indiscusse del periodo natalizio: l’influenza che, grazie a un amico, lui combatte con un rimedio tanto naturale quanto efficace (“Trinidad moruga scorpion. Solo un pizzico. E’ il peperoncino più potente del mondo”). Tenendo a bada la febbre, il vicequestore risolve un caso che riecheggia in qualche modo la parabola del figliol prodigo: una coppia anziana viene trovata massacrata. Tutti i sospetti sono naturalmente puntati sul figlio tossico…
Racconto ironico, condotto con il senso della sospensione (visto che Rocco attende la lettera di trasferimento).
Bill James propone “Arriva Natale eccetera eccetera”: e qui io piazzo il mio “pollice verso”. L’unico racconto che non ho apprezzato. La successione dei racconti presuppone un rapido cambiamento di situazione e richiede che ciascuno dei racconti fin da subito catturi il lettore. Cosa che qui non avviene.
Marco Mavaldi, come da copione (il suo!), affida il caso de “La tombola dei troiai” al barista Massimo, ai soliti quattro vecchietti arzilli (Aldo, Ampelio, Rimediotti e Pilade) e a un nuovo commissario-donna. Tutti sono variamente impegnati a far luce sull’assassinio del farmacista-strozzino, ma c’è anche spazio per la satira sul riciclo di regali natalizi improbabili e di cattivo gusto: “La tombola dei troiai funzionava in questo modo: il ventisei dicembre, previa iscrizione in apposito foglio volante appeso al portone della chiesa, ci si presentava in parrocchia con in mano un pacco regalo incartato di fresco. Il pacco conteneva un troiaio; ovvero il regalo più ingiovibile ricevuto per Natale”. Sì, perché tra i regali della riffa parrocchiale c’è anche l’arma del delitto (“Questo Corinaldesi, riesce in qualche modo a nascondere l’arma del delitto al posto di uno dei regali della tombola dei troiai”).
Racconto molto pop, imbastito con il senso folk della sagra.
Tempo di bilanci: lettura anacronistica?
Tutto sommato, no. I racconti sono sì imbevuti di atmosfera natalizia, ma si possono davvero leggere in un qualunque week end disimpegnato del calendario gregoriano… magari rassicurandosi sul fatto che il prossimo Natale è ancora così distante!
Bruno Elpis
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Sincerità-tà-tà
Devo ammetterlo, in periodo sanremese mi sono accostato a questo libello incuriosito dalle evoluzioni camaleontiche della cantante che qualche anno fa aveva suscitato tenerezza nei più benevoli, frizzi e sberleffi nei più cinici, per il suo look da cartone animato. Allora aveva calcato le scene del festival più canterino del nostro sconclusionato Belpaese accompagnata da un maestro d’eccezione: quel Lelio Luttazzi che i più attempati tra di noi ricorderanno come presentatore della hit parade che nel mezzogiorno del venerdì scandiva i successi dei favolosi anni sessanta.
Quando ho visto il libro (che titolo! Il titolo potrebbe benissimo essere quello di una canzonetta!) mi sono detto: dopo averci sorpreso, si fa per dire, con un repentino cambio di rotta (perché, dismessi i panni del cartone animato, la nostra ha virato verso un’immagine più sofisticata e sexy), vuoi vedere che Arisa spinge l’acceleratore sul trasformismo e mi diventa anche una letterata?
Il romanzo – per chi resiste fino in fondo – si lascia leggere in un paio d’ore, volendo esagerare nella concentrazione che richiede. La storia è ambientata in montagna a Lago Scuro e l’incipit porta la data del 5 dicembre 1975.
Nella sua baita, ove ormai vive, Lara attende l’uomo del quale è innamorata. Lo aspetta per trascorrere con lui il santo giorno di Natale. E mentre attende ai preparativi più classici (dagli addobbi al cenone), la donna si lascia travolgere dai ricordi. Rivede la sua storia d’amore per lo psicanalista (“Era stata una mia amica a consigliarmi di cominciare una terapia con te”), ripercorre le sedute (e un sogno ricorrente: “Sono in mezzo a una strada e una macchina mi segue…”) sino al momento in cui capitola e si dichiara (“Si chiama transfert. Nulla di più della classica reazione psicologica fra medico e paziente”), ricorda gli incontri, il sesso, i regali (“Me l’hai regalata tu, la Mehari, questa strana macchina con cui vado in giro qui…”), i conflitti familiari (“Venti più di nostra figlia. E magari ha pure una famiglia”)… Sino alla rivelazione finale, che vorrebbe sorprendere.
Trama originale, trama banale? Giudicate voi.
La mia opinione su Arisa scrittrice, tuttavia, deve fare anche la tara allo stuolo di editor e consiglieri che alla versatile “ugola d’oro” è stato certamente riservato da Mondadori. In tutta SINCERITA’, che fa rima con semplicità, felicità e taratatà, Arisa, forse è meglio che tu torni a cantare… e magari vinci ancora un premio (naturalmente sto parlando di Sanremo, non di un concorso letterario!)…
Bruno Elpis
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- sì
- no
CAMBIARE PER NON CAMBIARE MAI
L’opera-scandalo di Gore Vidal venne pubblicata il 10 gennaio 1948 e creò un terremoto nella cultura e nell’opinione pubblica in quanto mise ‘nero su bianco’ una vicenda omoerotica che ha per protagonisti due ragazzi ‘più che normali’, belli e atletici, Jim Willard e Bob Ford: “Erano sempre stati insieme nella squadra di baseball e insieme avevano giocato a tennis, anche se, con disperazione di Bob, vinceva sempre Jim.”
In particolare Jim è di buona famiglia (il padre “era opinione della famiglia che non avrebbe avuto alcun problema a essere eletto governatore”) ed è tanto sportivo (“il più bello della scuola… non capiva perché non ti dessi da fare di più… pensava che tu avessi paura delle ragazze”) quanto timido e introverso.
Anche Bob è di bell’aspetto e, agguantato il diploma, vuole imbarcarsi e abbandonare il paese natale della Virginia (“Tutto quello che voglio è viaggiare e fare baldoria”).
I due amici, prima della partenza di Bob, passano insieme l’ultimo fine settimana nella capanna (“La capanna era stata la casa di uno schiavo liberato, morto poco tempo prima”) in riva al fiume (“Nel caminetto di pietra c’era della cenere spenta da poco tempo: oltre agli amanti, là si fermavano anche vagabondi”) e lì – complici l’esuberanza fisica e la suggestione del luogo - consumano una notte d’amore tanto giovanile quanto proibito.
La notte d’amore è destinata a rimanere un momento magico per Jim che, un anno dopo, decide parimenti d’imbarcarsi. Lontano da casa, il ragazzo segue un percorso che lo porta da Seattle all’Alaska, poi a Beverly Hills, a New Orleans, nello Yucatan e infine ad arruolarsi. Lo ritroviamo a New York (“Atmosfera di giubilo. Da fine guerra”), reduce da una malattia (l’artrite reumatoide) che gli ha causato il congedo. Lì ricontatta le persone che sono state importanti nel suo vagabondare e le incontra nuovamente: l’attore Ronald Show, lo scrittore Paul Sullivan, l’affascinante Maria Verlaine e… Bob (“Ma almeno la guerra era finalmente terminata e la marina mercantile non avrebbe potuto trattenerlo ancora a lungo”), l’amico che è rimasto saldamente annidato nel suo cuore (“E’ il mio segreto”).
Il percorso di Jim è una traversata nella dolorosa scoperta della propria natura, difficile da accettare (“Eppure si rese conto che sarebbe stato difficile vivere in un mondo di uomini e donne senza partecipare al loro duetto antico e necessario”), oltre che nel mondo omosessuale dell’America puritana. Nonostante le relazioni instaurate con l’attore e con lo scrittore, Jim si sente solo (“Mi limito ad andare nei bar, mi piacciono gli sconosciuti, credo”. “Sembra un po’ solitario”. “Non lo è sempre?”) ed è disposto a tutto pur di rintracciare l’antico amore, al quale è stato sempre intimamente fedele nel suo sogno: per verificare se il suo sentimento radicato è corrisposto…
Al di là dei risvolti socio-culturali di questo romanzo – che contiene spunti delle ancor oggi attuali lotte contro l’omofobia (“La vita sarebbe stata senz’altro migliore in un mondo dove il sesso venisse considerato come qualcosa di naturale e non spaventoso…”) e tracce di ribellione all’omologazione (“E tu, quando ti sposi? Ancora quella domanda”) – il tema interessante e cruciale che esso pone è quello dell’antinomia tra cambiamento (“Quando si è sfiorata la morte, si cambia. Quando si è fatto il soldato, si cambia. Quando si invecchia, si cambia”), perché “il cambiamento è nella natura delle cose”, e l’opposta incapacità/impossibilità di cambiare (“Una volta di più fu sulla riva di un fiume, finalmente conscio che lo scopo dei fiumi è di sfociare nel mare. Niente cambia. Eppure nulla di ciò che è, potrà mai essere ciò che è stato”). Una contraddizione strutturale ben rappresentata nel dramma della biblica Sara: “Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Genesi 19, 26).
Ho chiuso le ultime pagine del libro afflitto dalle domande che agitano l’uomo dai tempi delle antiche filosofie che contrappongono l’essere al divenire: “Ma ora è giusto tornare? Tu riesci a tornare e a vivere nella stessa casa, con la stessa gente, un giorno dopo l’altro? E’ possibile?”
Inutile dire che non ho trovato risposta alcuna…
Bruno Elpis
P.S. Sull'eredità di Gore Vidal (il suo patrimonio ammonta a 37 milioni di dollari, oltre ai diritti sulle opere) è in corso una battaglia legale: lo scrittore ha infatti beffato gli eredi, che hanno impugnato il testamento, in quanto Vidal ha devoluto l'asse ereditario all'università di Harvard. Ma questa è un'altra storia e formerà oggetto di un altro articolo...
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VITE SPERICOLATE E GENERAZIONE DI SCONVOLTI
Come la storia biblica dell’uomo è inizialmente macchiata dal fratricidio primordiale di Caino, così anche la beat generation ha il proprio peccato originale. Di questo delitto si parla nell’opera in commento che, a parer mio, ha un interesse più storico che letterario, in quanto è scritta da due autori che avranno un grande seguito nel movimento culturale noto come beat generation: William S. Burroughs e Jack Kerouac.
Il “quattro mani” si sviluppa in capitoli alternati: comincia il barista Will Dennison alias Burroughs (“In qualche modo Dennison mi ricordava un cowboy. Ma non il cowboy che si vede nei film su un destriero bianco… Will è il tipo di cowboy … che si dilegua pian piano con i soldi appena il buono e il cattivo aprono il fuoco”), prosegue il marinaio Mike Ryko alias Kerouac. E così via di paragrafo in paragrafo. Un dittico baciato e specchiato, ove si alternano la sregolatezza allotropica di Burroughs e la natura itinerante di Kerouac, a raccontare il grave fatto di cronaca nera che si colloca agli albori della cultura beat.
Ambientato a New York nel 1944, il dittico riflette l’irrequietudine di un gruppo di giovani, dediti a pratiche estreme e all’assunzione di sostanze alcoliche (“Ora delle tre eravamo zeppi di Pernod”) e psicotrope (“Allora, fonti affidabili mi dicono che a causa della guerra in questo paese c’è una carenza paurosa di stupefacenti”).
Accanto agli alter ego dei due scrittori, su tutti emerge la relazione tra Al e il turco Phil, giovane inquieto occupato da teorie che avranno grande richiamo negli anni successivi (“Tutti artisti… La società ultima dev’essere completamente artistica. E nel corso della sua vita ognuno di questi cittadini-artisti deve completare il suo cerchio spirituale”).
La New York che fa da contenitore alla storia è enucleata negli appartamenti ove i giovani si ritrovano e nei bar (“Il posto si chiama Continental Café. D’estate è tutto aperto perché ha le porte a soffietto”) in una dimensione acustica vivacizzata dalle emissioni delle radio e della televisione (“Il barista aveva la radio accesa. Un giornalista radiofonico raccontava di un incendio divampato in un circo e l’ho sentito dire: e gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche”). Intanto Mike e Phil manovrano per imbarcarsi (“Hanno intenzione di andare in Francia e di abbandonare la nave”): il secondo principalmente per sfuggire all’insistenza delle insidie di Al (“Partire con lui. Ho paura di un’eventuale reazione e non concluderei niente”).
Le occupazioni pericolose, la propensione agli eccessi, le teorie estremizzate e l’insofferenza interpersonale sono una miscela esplosiva. Il 13 agosto 1944 il giovane Lucien Carr (nell’opera il turco Phillip Tourien), per difendersi dalle avance dell’amico David Kammerer (Al), lo uccide (nel romanzo con un’ascia) e ne getta il corpo nelle acque dello Hudson.
I due scrittori saranno sospettati di complicità e passeranno seri guai giudiziari. Sotto questa nefasta stella nacque la beat generation…
Bruno Elpis
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Baby Jane feat. Bette Davis
Cinematograficamente reso in un fantastico film interpretato da Bette Davis e Joan Crawford – due vecchie glorie di Hollywood, rivali anche nella realtà – “Che fine ha fatto Baby Jane” di Henry Farrell è un melodramma gotico che narra il drammatico epilogo delle gelosie reciproche di due sorelle.
Jane è stata enfant prodige (“Baby Jane era una gloria nazionale”), una realtà che il mondo dello spettacolo spesso crea (“Era una bambina piccola, compatta, dagli occhi grandi, luminosi e una gran massa di capelli neri, vestita completamente di bianco”) e poi cinicamente distrugge.
Vezzeggiata e viziata dai genitori, dopo che questi sono periti tragicamente, Jane viene offuscata nella fama dalla sorella Blanche, che diviene una diva del cinema.
Ritroviamo le due sorelle sinistramente rinchiuse nella loro casa-monumento (“Il locale era stato allestito come sala prove per Blanche”): vivono pressoché isolate, in un rapporto di reciproca dipendenza fisica e psicologica, considerato che Blanche è inferma dopo un incidente d’auto nel quale Jane sembra avere pesanti responsabilità.
Jane perseguita la sorella in un climax di angherie: la atterrisce con scherzi di cattivo gusto, la spia, la isola dal mondo esterno intercettando le telefonate e licenziando la domestica, infine la segrega in una cattività crudele. Intanto sogna di tornare agli antichi fasti (“Molti divi del passato tornavano sulle scene. Buster Keaton, Gloria Swanson…”) e per questo, con il denaro di Blanche, assolda un pianista da quattro soldi per realizzare il suo sogno di calcare ancora le scene...
Il ritratto della donna frustrata nei suoi sogni è impietoso (“una stupida vecchia alcolizzata, vestita come una donnina allegra”) e grottesco (“una maschera vuota, senza colore, con occhi enormi, febbricitanti”). Ma suscita la compassione del lettore/spettatore che ha modo di riflettere sulle devastanti conseguenze della carenza d’amore (“Papà l’abbracciava tanto forte da farle mancare il respiro…”) e della solitudine (“Gli infelici han bisogno di compagnia”).
La follia viene resa in un horror di tensione che nulla condivide con le attuali declinazioni delle rappresentazioni orrifiche: le pagine del libro – ora incalzanti, ora beffardamente malinconiche - hanno fatto riaffiorare nella mia mente la magistrale interpretazione di Joan Crawford e la teatralità unica, parossistica e caricaturale di una Bette Davis lampeggiante e spiritata.
Per gli amanti del genere: romanzo da leggere, film vintage assolutamente da vedere.
Bruno Elpis
P.S. Nella sezione “recensioni” di www.brunoelpis.it il commento viene pubblicato con alcune foto di repertorio dell’attrice che ha ispirato una ballata rock (“Bette Davis eyes”) degli anni Ottanta… In questo ambito è da citare anche la “Baby Jane” di Rod Stewart…
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Agli appassionati di gotico.
Criticare dalla quarta di copertina
Comincio il mio commento invocando indulgenza e perdono. Soprattutto agli appassionati di fantascienza chiedo benevolenza e uno sconto, perché ho scelto questo libro con le migliori intenzioni: cimentarmi in un genere che mi vede incompetente. Ma soprattutto miscredente.
Poi aggiungo un’avvertenza sul metodo scelto per condurre la mia critica a questo libro(!): commentare le frasi riportate nella quarta di copertina (virgolettate a mo’ di titolo di ogni paragrafo).
“LORO ci danno la caccia”
Quelli che danno la caccia sono i Mogadorian che “hanno occhi ovunque”. E “sono piuttosto riconoscibili: hanno una pelle così chiara che sembra sbiancata con la candeggina…”
Quelli che subiscono la caccia sono i “nove Garde sopravvissuti del pianeta Lorien”. In parole povere: sono alieni. “Eravamo nove Cêpan e nove Garde”. Cosa siano poi questi Cêpan, vallo a capire. Alieni di rango inferiore? Cloni? Animali domestici? Però, a ben pensarci, i Garde hanno un animale vero e proprio (si fa per dire) al seguito: Bernie Kosar, un cane che all’occorrenza si trasforma in falco, salvo poi tornare “alla sua forma di beagle”.
Ma questa incomprensione ben mi sta: non ho ascoltato il consiglio del mio amico Robbie (rimando tutti alla sua opinione) e non ho letto il primo episodio della serie!
“LORO sono sempre più vicini”
Facile capirlo (che sono sempre più vicini)! Ogni volta che i cacciatori sterminano uno degli alieni sopravvissuti, sulla pelle dei superstiti compare una cicatrice. In un drammatico conto alla rovescia “siamo rimasti soltanto in sei, contro un numero imprecisato di nemici”.
“LORO sanno chi siamo veramente”
Anch’io, pagina dopo pagina, comincio a capirlo, chi siete veramente. Avete molte “eredità” (banalizzo, le eredità sono i poteri), tipo la telecinesi (“Io tengo i tre uomini sospesi in aria”), “la capacità di vedere nel buio” e – udite, udite – hanno palmi delle mani che si trasformano in fari (“punto i palmi delle mani verso il cielo e accendo le luci”). Last but not least: sanno rendersi invisibili!
“NOI non possiamo più scappare”
Nonostante il piano iniziale fosse “aspettare il momento in cui ci saremmo sentite abbastanza forti e al sicuro per partire”. Però, attenzione, nella gara per la sopravvivenza vale un postulato: la proprietà consecutiva della matematica (così il numero sei “non poteva essere uccisa finché non fossero morti i Garde coi numeri da uno a cinque”).
Intanto gli alieni scappano e, a pagina 77, “Sei … solleva le mani davanti a sé: le acque del fiume cominciano a dividersi sotto i nostri occhi”. Al punto che qualcuno, esterrefatto, esclama: “Incredibile, proprio come Mosé!”.
“NOI dobbiamo combattere.”
Eccome se combattono!
Dalla loro però hanno alcuni vantaggi innegabili, come l’indistruttibilità finalizzata alla trama: “Hanno tentato di tutto, ma davvero di tutto, per uccidermi: elettrocuzione, annegamento, esplosivi. Mi hanno iniettato del cianuro, che non è servito a nulla…”
“PERCHE’ SIAMO GLI UNICI IN GRADO DI FERMARLI”
Conclusione ovvia: considerate le premesse, non avevo alcun dubbio! Intanto il mio scetticismo prima rosola e poi frigge in un’aporia che la ragione non riesce a risolvere: ma gente che ha di questi poteri, perché non li sfrutta fino in fondo in modo da risolvere tutto in dieci pagine e nella famosa modalità del finire a “tarallucci e vino”?
Concludo con una postilla sulla fascetta gialla, che avvolge il volume e trionfalmente recita: “Adrenalinico, romantico, sorprendente. Il romanzo numero 1 delle classifiche americane.”
Questi americani, valli a capire!
Bruno Elpis
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Uomini e donne
Cassandra sacerdotessa di Apollo, profetessa, dissidente (“Io, la tremenda. Io, che volli la rovina di Troia”), perseguitata (“Io sono stata, di tutti i suoi figli io, come il padre affermò, quella che ha tradito la nostra città e lui”): simbolo dell’autonomia, dell’andare “contro corrente”, strega dell’antichità, drammaticamente destinata a declamare verità alle quali non viene dato credito.
Christa Wolf ripropone il tragico personaggio della veggente troiana in una narrazione che potrebbe costituire il prius temporale dell’Agamennone di Eschilo: “Cassandra” è la retrospettiva della donna che, giunta a Micene come prigioniera di Agamennone, rievoca la sua vita, le sue scelte, la guerra di Troia e il viaggio verso la Grecia. I ricordi seguono il libero flusso delle idee, con continue analessi e prolessi, e si esprimono in un linguaggio cifrato e sincopato: per iniziati.
In questo commento mi soffermerò sulla partigiana prospettiva sessista dalla quale l’autrice guarda il vate più misconosciuto della storia.
GLI UOMINI
Per la Wolf hanno un grosso, genetico, strutturale difetto: sono maschi (“Tutti i maschi sono bambini egocentrici”). Così:
- Achille è “la bestia”.
- Agamennone è “l’imbecille”.
- Calcante un infedele (“Calcante passato ai Greci?”).
- Paride è “il bambino pericoloso”; “debole, fratello, debole. Un vigliacco”.
- il “piccolo Aiace” è uno stupratore.
- Andro, amante di Polissena, è un traditore.
- Ulisse è “un Nessuno che non era capace di fede”.
- Perfino l’eroe omerico Ettore perde la sua aura epica: “Non era l’uomo di cui si fa un eroe”… “Ce l’avevo con Ecuba, che lo aveva viziato impedendogli di crescere, e trovavo giusto e ragionevole che ora lo proteggesse.”
In questo campionario si salva soltanto Enea (“a cui credetti sempre, perché gli dei trascurarono di donargli la capacità di mentire”), l’unico rappresentante - insieme al padre Anchise - “di una possibile forma diversa del maschile”. “Un modo d’essere maschile che non trova forme, non parole, per manifestarsi.” Enea: che non consuma il rapporto carnale con Cassandra nella notte dedicata alla rituale deflorazione delle vergini.
LE DONNE
Possiedono tutt’altro materiale genetico. Di Cassandra abbiamo già parlato in apertura. Inoltre:
- Marpessa è ancella fedele e coraggiosa (“Prendi me”).
- Polissena è da ammirare, pur incarnando la seduzione da sfoderare per catturare i maschi che detengono il potere.
- Perfino Clitennestra, la diabolica uxoricida, è una complice: “Niente in altri tempi avrebbe potuto impedire di chiamarci sorelle, questo lessi sul viso dell’avversaria”; “Ci guardammo, ci capimmo, come solo le donne si capiscono”.
- Elena viene mitizzata e si dematerializza: “Sì, lei non era qui. Il re d’Egitto l’aveva tolta a Paride, quello stupido ragazzo” e rende il conflitto “una guerra condotta per un fantasma”. “In Elena, che avevamo inventato, noi difendevamo tutto ciò che non avevamo più”.
- Infine ci sono i collettivi: le donne della comunità dissidente dello Scamandro, che si radunano da Anchise e coltivano il culto della Grande Madre Cibele; le coraggiose guerriere Amazzoni…
E se non fosse soltanto misantropia? E se non fosse soltanto vetero-femminismo?
Perché la De Filippi a “Uomini e donne” (esiste ancora questa trasmissione trash?), per rimanere fedele al titolo del suo spettacolo, non propone la lettura di questo libro con relativa discussione? Oppure oggigiorno la rappresentazione della dialettica uomo-donna evapora nella patinata contrapposizione tra veline e tronisti?
Bruno Elpis
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Il delfino Jonathan Livingstone
Daniel Alexander Dolphin – già protagonista de “Il delfino”, del quale quest’opera rappresenta il sequel - è un delfino anticonformista: si differenzia dagli altri suoi simili perché gioca con le onde della barriera corallina, mantenendo intatto lo spirito giocoso del cucciolo piuttosto che lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni della vita adulta ("I primi raggi del sole mattutino filtravano dolcemente attraverso la ragnatela di nuvole che diradandosi lasciavano intravedere un atollo remoto di incontaminata bellezza, un vero gioiello incastonato nel manto azzurro del mare"). Per questo motivo Daniel viene criticato dagli altri delfini, che lo definiscono “un perdigiorno”. Un giorno Daniel rompe gli indugi e decide di abbandonarsi ai richiami del mare e della libertà (“Arriva un momento nella vita in cui non rimane altro da fare che percorrere la propria strada”): così abbandona le certezze che la laguna garantisce e prende il largo per inseguire il suo sogno (“Se ascoltiamo la saggezza del cuore il tempo infallibile ci farà incontrare il nostro destino”): cavalcare l’onda perfetta.
Nel suo viaggio Daniel scopre cose nuove, incontra creature marine e conosce un animale molto pericoloso: l’uomo. Per scoprire molte verità: “I sogni sono fatti di tanta fatica. Forse, se cerchiamo di prendere delle scorciatoie, perdiamo di vista la ragione per cui abbiamo cominciato a sognare e alla fine scopriamo che il sogno non ci appartiene più”. Per scoprire che “quando stai per rinunciare, quando senti che la vita è stata troppo dura con te, ricordati chi sei. Ricorda il tuo sogno”.
Spesso accostato a “Il gabbiano Jonathan Livingston” di Bach e a “Il piccolo principe” di Antoine De Saint-Exupery, questo racconto condivide molti messaggi delle due opere: primo fra tutti, l’invito a credere nei propri sogni e a non omologarsi.
“Tutti abbiamo i nostri sogni, pensò. L’unica differenza è che alcuni lottano, e non rinunciano a realizzare il proprio destino, a costo di affrontare qualunque rischio, mentre altri si limitano a ignorarli, timorosi di perdere quel poco che hanno. E così non potranno mai riconoscere il vero scopo della vita”.
Bruno Elpis
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I romanzi di Bambaren...
Nuotare con i lamantini
Sergio, autore e protagonista di questa fiaba di ampio respiro (animalista, ecologista, idealista), si reca sulle sponde del Crystal River, in una zona ancora selvaggia della turistica e antropizzata Florida. Lì vivono i lamantini, miti mammiferi acquatici e mansueti che trovano nella sorgente di acqua calda del fiume una condizione favorevole di vita.
Sergio ricerca i lamantini per nuotare e comunicare con loro. Per incontrarli giunge dal capitano Mike, un uomo che organizza escursioni turistiche alla scoperta dei lamantini. Sergio e Mike condividono un’autentica passione e quindi diventano amici e questa è la premessa di una straordinaria avventura. Perché il desiderio di Sergio ben presto si concretizza nel contatto diretto con i lamantini: un’esperienza unica per un amante della natura.
Particolarmente struggente è l’incontro con Swami: il lamantino, da piccolo, è stato ferito dall'elica di una barca e, nello stesso incidente, ha perso la mamma che, pur morendo dissanguata, è riuscita a salvare il suo cucciolo.
Tra Sergio e Swami s’instaura un’amicizia intensa e palpitante, alimentata da una forma di comunicazione che trascende le parole (“Il significato della vita non può essere espresso in parole. È qualcosa che si sente in certi momenti: quando si è vicini a una persona cara, o a un albero che ci incanta con la sua bellezza, o quando si è in completa comunione con se stessi e la Natura. Il significato della vita è un'esperienza, non un concetto, e non la si può fermare nel tempo...”).
L’avventura raccontata è da gustare in sé e per sé, ma anche nella consapevolezza che il contatto con la natura rappresenti una forma di ricerca profonda, una conquista di pace, un ideale al quale tendere: “Noi siamo la natura. Imparate a leggere i suoi cambi d’umore e imparerete a leggere voi stessi”.
Bruno Elpis
P.S. questo commento di qlibri, come sempre, viene pubblicato anche su www.bruonelpis.it nella sezione “recensioni”. Lì vi sono le foto nat-geo dei lamantini…
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Shintoismo letterario?
Dalla più frugifera (?) delle autrici che affollano il panorama letterario internazionale giunge una storia che a mio sommesso parere meglio si comprende se la si considera imbevuta di shintoismo, la “religione nativa del Giappone” che “prevede l'adorazione dei kami, un termine che si può tradurre come divinità, spiriti naturali o semplicemente presenze spirituali. Alcuni kami sono locali e possono essere considerati come gli spiriti guardiani di un luogo particolare, ma altri possono rappresentare uno specifico oggetto o un evento naturale…” Ma anche con questa sommaria e rudimentale infarinatura di cultura orientale, miseramente raccattata da wikipedia, non sono riuscito ad apprezzare fino in fondo una storia che ho trovato macchinosa nella costruzione, lenta nello svolgimento, non particolarmente sbalorditiva nello sbocco finale.
Yumiko (la mesta io narrante: “Il solo mio esistere fa sì che ogni luogo si tinga sottilmente di un’ombra di morte”) e Shoichi sono figli di due gemelle (“i nostri percorsi di vita erano stati completamente diversi”): hanno trascorso insieme l’infanzia, poi qualcosa si è inceppato nei rapporti tra le loro madri, che discendono da una famiglia economicamente affermata (“una grande azienda come il Konamiya”) ove la nonna era una strega (“Le nostre madri erano figlie della fondatrice di una particolare setta religiosa, vero?”) e praticava lo spiritismo (“è una casa in cui c’è stato un omicidio”). Caratterialmente le gemelle non sono due gocce d’acqua, anzi rappresentano due polarità antitetiche: la madre di Shoichi (polio +) è dolce e positiva, quella di Yumiko (polo -) malvagia ai limiti della follia. Quest’ultima, dedita all’occultismo (“Durante la seduta spiritica, mia madre uscì totalmente di senno e uccise mio padre con un coltello, dicendo che era posseduto da uno spirito maligno… poi anche mia madre si colpì alla gola con il coltello e morì”), durante una scellerata seduta commette una strage (“Quando sono ritornata nel mondo, tutto mi era stato rubato dalla famiglia Konami e dagli zii sopravvissuti a quella serata”). Yumiko (“Vivere così, dopo aver fallito in tante cose e senza alcuna capacità, in realtà è di una tristezza infinita”) è la vittima innocente di questo antefatto e il romanzo è la storia della ricongiunzione tra i due cugini, essendo stato Shoichi incaricato dalla madre morente (“Che ti aiutassi, è stata davvero l’ultima volontà di mia madre”) di rintracciare la sfortunata cugina (“Ma se desiderassi tornare a come eri da bambina, prima che tante cose accadessero, vorrei che ti lasciassi aiutare da Shoichi”) per aiutarla a riappropriarsi dei ricordi (“Io, sarà forse perché ho un rifiuto inconscio, non riesco a ricordare”). I due ragazzi insieme compiono un percorso a tappe attraverso le case natie, l’ospedale (“Forse le tante medicine che mi hanno dato hanno contribuito a cancellare i miei ricordi”) ove le madri furono ricoverate, le tombe dei defunti: è il faticoso cammino verso l’autocoscienza (“Nella mia mente balenò qualcosa. Sto per ricordare qualcosa, pensai”), la scoperta della verità (“Per quanto cerchi di chiuderli in una scatola, facendo finta che non esistano, questi buchi della memoria si aprono dentro di me come enormi trappole”) e l’emostasi psichica (“Anche questo viaggio si avvicina alla fine… però sono veramente felice di aver ritrovato i ricordi più importanti, i più preziosi…”).
Un consiglio agli scrittori esordienti: non prendete esempio dal finale di Banana (!), verreste tacciati di grossolano errore nel pdv. Ma questa è pura accademia, che personalmente non condivido, un cliché sicuramente non applicabile a una scrittrice del calibro della Yoshimoto (perché preferisco chiamarla per cognome?), che può concedersi (come tutti noi possiamo, evvivaddio!) ogni licenza poetica…
Bruno Elpis
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...a proposito di sedute spiritiche, "Piccolo mondo antico" di Fogazzaro.
Zitti! Lasciamo parlare la natura…
Antonio ha vissuto per sette anni su un’isola del Pacifico che è un paradiso: per gli animali che la popolano (uccelli, leoni marini e delfini), per i paesaggi (valorizzati dai tramonti, polverizzati nelle sabbie dorate, movimentati dal vento, dalle onde e dalle correnti marine), per la colonna sonora principalmente intessuta di… silenzio. Queste premesse sono importanti, perché se è vero che le esperienze infantili sono fondamentali, allora ecco spiegato come si forma la personalità di Antonio.
Quando giunge il momento di affrontare la città e la cosiddetta civiltà, il bambino è spiazzato: non soltanto perché la città è “isola del cemento”, ma anche perché lì si annidano convenzioni, preconcetti e tutte le manifestazioni deteriori dell’uomo. Nonostante il duro scontro con la realtà, Antonio riesce a individuare la sua via, senza rinnegare passato e abilità personali, senza soggiacere allo stereotipo del successo a ogni costo. Per continuare ad alimentare un sogno (“I sogni sono come piume: se nella vita ne raccogli abbastanza, un giorno spiccherai il volo alla volta dei tuoi sogni, verso il tuo destino. Raccogli una piuma ogni volta che la vedi, perché è scesa dal cielo, la meta a cui si deve anelare”): quello di ricongiungersi all’armonia della natura.
Il romanzo contiene verità semplici ed elementari, raccontate con stile essenziale, immediato, naïf: verità non per questo scontate e anche per questo affascinanti.
Il silenzio non è assenza di suoni, ma altruistica posizione d’ascolto finalizzata a cogliere l’armonia del cosmo (“Tempo fa, mi venne detto che il silenzio non ha suoni; niente da spiegare, è solo silenzio. Eppure durante gli anni, nella solitudine delle mie isole, ho imparato che il silenzio ha una sua essenza, e che, se chiudi gli occhi e lasci fluire te stesso nel divenire dell’universo, ha suono e ritmo propri”). Il silenzio è una partitura (“Il silenzio è una musica eseguita dalla natura, non dagli esseri umani”) tanto sorprendente (“Ho imparato anche che nel vero silenzio sei in grado di trovare le risposte che l’universo ha in serbo per te, se soltanto dimostrerai la volontà di sottrarti alla ‘pazza folla’), quanto preziosa (“Il silenzio come quello che stai vivendo ora è difficile da trovare, e ancor più difficile da capire”). Il segreto per penetrare l’euritmia del mondo è vivere a contatto con la natura (“Ho scoperto tesori sul mio angolo d'isola. Li porterò con me tutta la vita, ma non li sottrarrò mai a quel luogo, perché sono sulla terra a cui appartengono...”), senza ansie di possesso (“Stupisciti della luna piena, ma non cercare di portartela con te: il suo posto è in cielo. Riscaldati al sole, ma non dimenticare che non ti appartiene: appartiene a tutte le creature, grandi e piccole. Sogna pure con le stelle, ma lasciale brillare di notte nell'alto del cielo: quello è il loro posto. Non cercare di fermare il vento o di ripararti da esso. Sussurrerà alla tua anima la verità”), in posizione d’ascolto (“Spalanca porte e finestre quando le scorgerai nella tua vita, così potrai tenerti sempre la tua voglia di vivere”) e di rispetto per se stessi (“Ma più di tutto fidati di chi sei: sii sempre sincero con te stesso. Vivere la vita di qualcun altro ti condannerà ad uccidere una parte di te”).
E allora, con una nuova consapevolezza che deriva da semplici ed evidenti riflessioni, forse anche noi potremo sintonizzarci sulle onde musicali percepibili lontano dai rumori artificiali della città e dal frastuono del consumismo. Che si sia in riva al mare, sotto a un cielo stellato, in un bosco ove il vento suona le fronde, sull’orlo di un precipizio o di un dirupo…
Bruno Elpis
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Quando il lupo è un genitore
“Per proteggerti meglio, figlia, mia” è un’opera teatrale che scaturisce dallo spirito critico di Dacia Maraini sul delicato tema dei diritti dell’infanzia.
Come indicato nell’intervista all’autrice che accompagna l’opera, il testo risale al progetto “Teatro per l’Unicef”, nell’ambito del quale l’ambasciatrice dell’Unicef, Maria Rosaria Omaggio, chiese a Dacia di “scrivere un breve dramma nel quale si riflettesse il termine protezione, una delle parole che riassumono la Convenzione internazionale delle Nazioni unite sui diritti per l’infanzia e l’adolescenza.”
L’autrice – sensibile al tema degli abusi di ruolo e sempre pronta a schierarsi contro ogni forma di violenza, anche psicologica - ha risposto alla sollecitazione con quest’opera la cui rappresentazione (e quindi lettura) dura circa mezz’ora. Un mezzo per interpretare una preoccupazione: “I bambini, soprattutto quando sono maltrattati, tendono a caricarsi sulle spalle il peso di tutte le colpe. Inconsapevolmente vogliono difendere la famiglia dall’autodistruzione…” E una convinzione: “Una violenza di questo genere non nasce dalla natura, ma da una cultura antica e androcentrica. L’uomo di famiglia si sentiva, e si sente ancora in certi casi, responsabile del comportamento sociale delle donne di casa.”
L’opera sottolinea il rischio che il desiderio di protezione in realtà soffochi il minorenne, senza riconoscerlo come persona meritevole di rispetto. La trama è paradossale: la sedicenne Maria, orfana di madre, vive reclusa sotto l’ossessiva e possessiva protezione del padre Ettore, che la imbocca, le vieta di uscire, svolge il ruolo di precettore e d’ insegnante di piano: in poche parole la tiene in ostaggio fisico e psichico. Trasportato dal suo ruolo, Ettore non esita a percuotere la figlia con la cinghia di fronte a ogni minima minaccia di ribellione o di autonomia. Per rendere più efficace il suo ruolo, il padre ben presto sostituisce la cinghia con una pistola…
La critica di Dacia si rivolge principalmente alle insidie di stereotipi (“Lo fa per il mio bene”) spesso ammantati di retorica (“Dice che sono la sua principessa”) e di mistificazione (“Quando fa sì con la testa sorride come un re”): trappole che di fatto limitano diritti e libertà dei minorenni. Il ragionamento viene realizzato con un semplice dialogo, quasi specchiato, tra padre e figlia: un dialogo nel quale i punti di vista di entrambi si confrontano su temi come protezione e fragilità (“La proteggo, ecco, credo che la mia bambina abbia soprattutto bisogno di protezione poiché ha la tendenza a perdersi come una coccinella su una foglia di lattuga”), il matrimonio, le maniere forti, la dialettica tra prigionia e libertà, l’equilibrio tra aspettative genitoriali e desiderio filiale di non deludere le aspettative.
L’opera è completata da un articolo giuridico che spiega come la protezione del minore è tutelata nella legislazione nazionale e internazionale.
Bruno Elpis
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Montalban sul Mar Morto
Tre aragonesi contattano Pepe Montalban: “Tre riccastri di Saragozza incaricano un detective privato in decadenza di rintracciare un uomo che è il segreto più importante di questo stato…”
L’incarico che gli conferiscono è una delle poche cose chiare del romanzo: “Vogliono che trovi Roldàn prima che lo facciano la Guardia Civil o il CESID… e lo costringano a scucire i nomi di chi si nasconde dietro le iniziali in questione”.
Scena e indagine per il ritrovamento sono complicate dalla proliferazione dei cloni/sosia di Roldàn: perché qualcuno li ha ingaggiati per confondere le idee non soltanto al detective, ma anche e soprattutto ai poveri lettori (“Se lei assomiglia all’ex direttore generale della Guardia Civil e parla con accento aragonese, scriva e spedisca una sua foto alla Casella Postale…”).
A un certo punto della storia le strade di Pepe e del suo assistente Biscuter divaricano: il primo finisce a Damasco e, dopo una grottesca puntata erotica nell’harem del ricercato (“Mi sono lasciato accogliere dall’ospitalità del provvidenziale Hafez al-Assad…”), viene rapito dagli agenti del Mossad che gli fanno fare un volo turistico sul Mar Morto (!). Intanto il secondo investigatore insegue i sosia nel sistema fognario di Saragozza (“Biscuter si avvicinò all’ingresso della fogna di Saragozza dal quale era scomparso il presunto Roldàn…”) perché “Saragozza era piena di sosia di Roldàn e le fogne della città erano diventate una rete di incontri e scontri di misteriose genti” (!!).
Francamente mi sfugge il motivo per il quale qualcuno dovrebbe interessarsi a complicate vicende politiche camuffate in un poliziesco indecifrabile: trovo più lineare, per gli interessati, leggere un bel saggio di approfondimento. O più semplicemente, la cronaca… Nonostante qua e là, nella narrazione, si colga qualche meritoria preoccupazione metastorica: “I giovani vanno spontaneamente verso il fascismo senza sapere cosa sia il fascismo”.
Ho letto pagina dopo pagina sempre accarezzando l’idea di scaraventare il libro fuori dalla finestra, ma alla fine hanno prevalso la mia pazienza e la curiosità di capire le cause del successo, commerciale e non, di questo autore. Cause che non ho né individuato né compreso!
Sconsiglio la lettura di questo romanzo, se posso, anche agli intellettuali.
Bruno Elpis
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UNA DONNA TRA I DELFINI
“Storia di Irene”, il primo dei tre racconti di Erri De Luca contenuti in quest’opera, è una storia…
MEDITERRANEA…
Nel Mediterraneo solcato dalle vele dei VIP e dai barconi dei disperati, l’autore traccia un’ideale congiunzione tra la sua Napoli (“Il sole sorge dietro il vulcano e tramonta sui campi che fumano zolfo”), così impregnata di mitologia (“La sua prima divinità, Partenope, era una ragazza delle onde”) e la Grecia delle isole (“L’isola è sfrangiata, con ripari gettati alla rinfusa da eruzioni scivolate a mare”), del vento (“Il cielo greco è strigliato dal vento. Per mesi qui non galleggia un fiocco di nuvola”), dei tramonti (“Il tramonto addosso alla sua isola è un crollo di luce che si schianta in frantumi”). La Grecia è l’isola di Lipsi e Patmos (“Aspetto dal terrazzo la sua calata paonazza sull’isola di Patmos”).
… MITOLOGICA…
E come nella mitologia Romolo e Remo sono stati allattati da una lupa, Irene vive con i delfini: “Ora so che lei sta con i delfini. La portarono a riva da bambina. La nutrirono del loro latte denso e delle alici azzurre. Imparò le onde sonore che ricevo e sono un fruscio di mare dentro la conchiglia dell’orecchio.” E non conosce la sua discendenza: “Chi erano i suoi. Non lo sa, è stata raccolta sulla spiaggia dopo una burrasca”.
… ALLEGORICA…
Sul trauma (“Poi si viene espulsi, è successo a ognuno, cacciato via da un grembo, il più perfetto centro di universo”) della nascita (“Nascere in mare è passare da un liquido stretto a uno sconfinato”), sul significato della vita (“L’immensità del mare è sorella maggiore del grembo materno”)
… DA RACCONTARE
Irene ha una storia da raccontare, la sua: “Irene chiede se raccolgo pure le storie che non sono ancora un resto. Lei ne porta una nel ventre.”
“Irene cerca in me il vuoto di bottiglia in cui imbucare il suo racconto.”
Naturalmente, lo scrittore aderisce alla richiesta per realizzare la sua natura: “Ci si affranca dagli incubi e dalle visioni spargendole tra gli altri”.
In questa raccolta di racconti ritroviamo l’amore dell’autore per la classicità (nella gratulatoria: “il mio debito greco”), per gli aspetti linguistici (“… alla Grecia che ha sparso nel mondo il suo vocabolario, neanche grazie”) e culturali (“Ho studiato al liceo la lingua di Omero, ma per parlare con un suo nipote greco devo andare a bussare a casa di Shakespeare”), numerico-simbolici (“Il sei è il beniamino di natura: l’esagono perfetto eseguito dalle api, dai fiocchi di neve, dal ghiaccio, dai cristalli”) e ludici (la giostra degli specchi, la morra cinese: sasso, forbice, carta).
Quanto allo stile, quello di Erri De Luca è inconfondibile: procede per aforismi. Come questo, sulla corona: “Solo quella di spine, intorno alla fronte dell’uomo, riscatta l’oggetto e il soggetto.”
L’opera contiene anche IL CIELO IN UNA STALLA, storia della fuga (“Chiese all’anziano come stava. Come uno che è passato a piedi nel Mar Rosso”) – durante il secondo conflitto mondiale - di Aldo De Luca, sottotenente degli alpini che si rifugia a Capri in compagnia di altri fuggiaschi, tra i quali un ebreo (“Da quanto tempo sei clandestino? Da duemila anni”); e UNA COSA MOLTO STUPIDA, un racconto molto triste sulla vecchiaia.
Bruno Elpis
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IL MIO DECALOGO PER CINQUANTENNI IN CERCA D’AMORE
Nel mio commento, in modo del tutto arbitrario e personale, e spero in modo ironico, formulerò un decalogo per cinquantenni innamorate ispirandomi alla storia di questo romanzo, che si articola in due parti (la prima deliziosa, la seconda più cervellotica e pirandelliana) ed è ambientato a Parigi (“La moda, il lusso, il Louvre”). La protagonista del romanzo è una donna, ma – mutatis mutandis – il decalogo potrà essere adattato da ciascuno in funzione del proprio genere di appartenenza/preferenze sessuali. Sempre che il/la cinquantenne destinatario/a del decalogo, nel corso della vita, non sia stato talmente ustionato dall’amore da rifuggirlo piuttosto che inseguirlo.
PERSONAGGI (non in ordine di apparizione) del romanzo
Catherine Tournant, seria ed integra insegnante di francese (“Un bravo soldatino, la Tormento”) in un liceo della periferia di Parigi, viene ingiustamente incolpata da una diceria (“le voci sulla sua presunta tendenza a sedurre le studentesse”). Alle soglie della menopausa e in una fase riflessiva della vita (“dopo il divorzio, che le sembrava risalire alla notte dei tempi, e la partenza di sua figlia, quattro anni prima”), è pronta a vivere una nuova storia d’amore.
Dimitri Diop, professione idraulico, è un avvenente ventenne palestrato e dal fisico scultoreo. In crisi d’identità (“Non si era reso conto di considerarla un sostituto materno … la madre che gli mancava”), in occasione di un lavoro idraulico, incontra Catherine…
Robert Diop, professore di storia, di origini africane (“ora amo un senegalese”), è il padre di Dimitri. Intreccia una relazione amorosa con la professoressa.
Eve-Marie Sada, nipote di Catherine, psicoterapeuta con un problema irrisolto (“ne aveva abbastanza di portarsi addosso quella doppia origine”), è l’analista di Dimitri.
Natacha Jackowska, neo-maggiorenne e neo-orfana, allieva di Catherine, decide di abbandonare la scuola per affrontare la vita di testa sua.
Jéremie Lesdiguièeres, costumista omosessuale, anche lui in crisi d’identità (“è esiliato nella propria città”), conosce sia Catherine (“il progetto di un’uscita didattica”), sia Dimitri nell’occasione di un lavoro e ne diviene amico.
Tutti i personaggi convergeranno in modo improbabile (“la probabilità che si verificasse una situazione simile era praticamente nulla”) e sorprendente (“una situazione degna di una commedia degli equivoci”) a La Ferté-Loupière nello Yonne, nella casa di campagna di Catherine.
IL MIO DECALOGO PER CINQUANTENNI
1) Per iniziare una storia occorre sempre un impulso iniziale (“Catherine Tournant aveva spiegato alla sua quinta che ci vuole sempre un fattore scatenante perché esista un racconto”).
2) Nei limiti del possibile, non ricorrete ai siti di incontri on line (“Cinquantenne in cerca d’amore sul sito di incontri on line”).
3) Non seguite il richiamo della foresta né l’istinto materno che vi indurrebbe ad avventarvi su una preda troppo giovane (“non poteva fare a meno di notare i suoi muscoli gonfi per lo sforzo”).
4) Piuttosto, puntate le vostre attenzioni sui genitori della giovane e potenziale preda (“Pur ammettendo di essere turbata e che Robert Diop le piaceva, s’immaginò a braccetto con lui e si domandò cosa avrebbe pensato la gente vedendo una donna bianca con un nero”).
5) Non lasciatevi accecare dal fascino dell’illecito (“la conseguenza della profonda sensazione di illegittimità che provava”).
6) Non lasciatevi sopraffare da pregiudizi (“Come poteva essere spontanea di fronte a Robert Diop mentre era ossessionata dal suo colore?”) e preconcetti (“non sarò mica omofoba oltre che razzista?”). Create le occasioni per vincerli (“approfittando di una lezione sull’Otello… aprì una discussione sugli amori misti”), anche se queste occasioni potranno rivelarsi un’arma a doppio taglio (“Lo sanno tutti perché certe donne bianche si fanno i neri, non è un mistero”) o imbarazzanti (“La donna bianca in cerca del fallo selvaggio”).
7) Se credete nel detto che “ogni lasciata è persa”, approfittate delle occasioni. Canoniche (“accettò molto semplicemente di accompagnarlo a casa sua per quel famoso bicchiere della staffa che sapeva bene cosa implicasse”) e non.
8) Parlate di difficoltà e problemi che vi assillano, affrontateli con coraggio (“Devo parlargli del colore della sua pelle”), la tecnica dello struzzo non funziona!
9) Abbandonatevi ai sentimenti (“lo trovò bello”), lasciatevi stregare dalle sensazioni (“Credo proprio di amarlo. Lo perderò perché è nero?”)..
10) Recuperate la spontaneità, rimuovete i vincoli (“A cinquant’anni… le mie scelte sono diventate dei divieti”) e cercate di superare la tendenza – naturale per l’età – a ragionare troppo sulle cose (“Devo piantarla di prendere le distanze, devo piantarla di osservarmi dall’esterno”).
Bruno Elpis
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A chi ha visto "Indovina chi viene a cena?"
FRIDA KAHLO IN TUTTE LE SALSE!
Alexandra Scheiman decide di scrivere la biografia romanzata della grande pittrice messicana cogliendone principalmente la dimensione gastronomica e onirica, in un’opera che riflette l’arte composita ravvisabile in ogni dipinto di Frida.
Il filo conduttore dell’opera è il patto con la morte (“la Madrina”) che Frida stipula sul letto d’ospedale, ove viene ricoverata perché vittima di un tragico incidente dal quale si salva in modo miracoloso (“Quando si sveglia, capisce due cose: che il suo destino era quello di sopravvivere, e che i suoi giorni saranno un calvario”): da quel momento, ogni anno – il giorno dei morti – un misterioso cavaliere torna a farle visita (“La Casa Azul è un luogo in cui gli amici e i conoscenti sono ricevuti con gioia, e il cavaliere è una vecchia conoscenza della padrona…”) e le offerte gastronomiche serviranno a rimandare di un anno l’appuntamento con la morte (“Ricorda anche che ogni anno dovrai portarmi un’offerta”).
Bambina strutturalmente fragile (“La poliomielite non paralizza Frida, ma la lascia con una gamba più piccola dell’altra”), figlia di genitori che non si amano (“Da papà Guillermo, il tedesco, la ragazzina ha preso la cocciutaggine, da mamma Matilde l’alterigia di tutte le donne della nobiltà messicana”), alla propria sfortuna Frida oppone vitalità, creatività (“Disegnare non è una novità per Frida, i suoi quaderni di scuola sono selve di volti, paesaggi, scenette spiritose, e più di una volta ha aiutato Guillermo a ritoccare le fotografie…”) e tenacia.
Incontri saffici (“la sua anima gemella, che tutti chiamano Tina” Modotti), il tormentato matrimonio con il più grande pittore muralista messicano, Diego Rivera (“Alla notizia che Diego ha chiesto in sposa la piccola Frida, Tina non sa se piangere o ridere”), la relazione con Trotsky e gli incontri parigini con i sureralisti (“Trotsky fa un brindisi, alzando il bicchiere di tequila. Diego tace e gli siede accanto… Il surrealista André Breton è arrivato dalla Francia…”) non inibiranno i dolori (“I suoi ritratti le ricordano che ormai è solo una caricatura della sposa che Diego ha posseduto alle pendici dei vulcani, una parodia della principessa azteca che ha conquistato gli Stati Uniti, una grottesca imitazione della donna che ha amato artisti, pittori e un rivoluzionario russo”) e il tormento, vistosamente ritratti nei suoi dipinti.
Il romanzo, pur essendo scorrevole e avvincente, a parer mio è troppo ibrido: ogni capitolo si chiude con ricette etniche messicane (“Ecco, sono già dentro lo stesso mondo fatto di spezie, peperoncini, zuppe”) che spezzano la tensione narrativa richiesta dalla vita intensa e travagliata di Frida Kahlo.
Bruno Elpis
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CINQUANTA SFUMATURE DI MILLER…
Il libro scandalo di Arthur Miller, pubblicato nel 1934, è un’autobiografia che coglie l’intemperante autore nella sua stagione parigina (“È l’autunno del mio secondo anno a Parigi”), dedito a una vita trascorsa sopra le righe tra sfrenatezze ed eccessi sessuali e alcolici. Una versione riveduta e corretta dell’ottocentesco stile bohémien (“Non ho soldi, né risorse, né speranza. Sono l’uomo più felice del mondo”), a concretizzare una poetica (“Una sola cosa mi interessa, ora, e ha per me un’importanza vitale: registrare tutto quello che nei libri è omesso”) che vorrebbe essere innovativa per il XX secolo (“Il secolo vuole violenza, ma abbiamo soltanto esplosioni mancate”) nelle ansie di un decennio proteso tra crisi economica ed esplosione del secondo conflitto mondiale.
… E CINQUANTA SFUMATURE DI PARIGI
Non soltanto sullo sfondo, Parigi invade l’artista con i suoi monumenti (“Alberi scarni, nudi, matematicamente fissi nei loro graticci di ferro; la tetraggine degli Invalides che scaturisce dalla cupola e inonda le strade buie adiacenti alla piazza”), con i templi della mondanità (“Vedo la platea vuota delle Folies Bergère e in ogni crepa ci sono scarafaggi, pidocchi e cimici; vedo gente che si gratta frenetica…”), con lo spirito di pittori (“A sera, di tanto in tanto, sfiorando i muri del cimitero, inciampo nelle fantomatiche odalische di Matisse legate agli alberi…”) e poeti (“A pochi palmi, ma distante incalcolabili ere temporali, giace lo spettro prono di Baudelaire, avvolto in bende come una mummia…”): una realtà metropolitana pervasiva (“Ci vorrebbe una vita a esplorarla di nuovo. Questa Parigi, di cui io solo avevo la chiave, non si presta a un giro, nemmeno con le migliori intenzioni; è una Parigi che bisogna vivere, che bisogna provare giorno per giorno in mille diverse forme di tortura, una Parigi che ti cresce dentro come un cancro, e cresce e cresce finché non ti ha divorato”) che viene descritta come incubo (“A ogni stazione della metropolitana ci son teschi ghignanti… Ovunque siano muri, là sono lucidi tossici granchi che annunziano l’avvicinarsi del cancro. Dovunque tu vada, qualunque cosa tu tocchi, è cancro e sifilide. Sta scritto in cielo: fiammeggia e danza come un malaugurio. Ha roso le anime nostre e noi non siamo altro che una cosa morta, come la luna”) in analogia a quanto avviene in molta arte figurativa dell’epoca.
Il romanzo è un capolavoro creativo nell’espressione della concezione artistica (“Fino a oggi… ho avuto idea di abbandonare la base aurea in letteratura, La mia idea, in breve, è di offrire una resurrezione dei sentimenti, di raffigurare la condotta di un essere umano nella stratosfera delle idee, cioè in un accesso di delirio”) e in alcune intuizioni estetiche, come ben illustrato da un prefatore d’eccezione: George Orwell che scrive l’introduzione all’opera intitolandola “Nel ventre della balena”.
L’opera mi ha respinto per le concezioni maschiliste (“L’importante è non prendere lo scolo”), materialiste (“Ci son da qualche parte i quindici franchi di cui a nessuno importa un accidente e che nessuno alla fine avrà, ma i quindici franchi son come la causa prima delle cose…”) e nichiliste (“Tutto questo mistero del sesso, e poi ti accorgi che è nulla, un vuoto e basta”) di un sesso praticato senza trasporto sentimentale (“Né lui né io abbiamo un briciolo di passione”) tra i postriboli e sotto l’incubo del mal francese.
Bruno Elpis
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Non ogni nube porta tempesta (Shakespeare)
Aspettavo la seconda prova di S.M. May.
Dopo averci dato le referenze di autrice in “Good References”, rieccola qui, impegnata a scrutare l’evoluzione delle “Nuvole” in cielo e pronta a cimentarsi con un’altra storia a sfondo erotico.
Nella sua prima fatica, la May ha convogliato le abilità narrative nella vivace impresa di assecondare una protagonista desiderosa di dire addio alla propria verginità. In questa seconda storia la stessa May si cimenta nel forse più impegnativo – anche se non nuovo – sforzo di sdoganare la classicità eterosessuale delle love story. Ma andiamo con ordine e affrontiamo in successione:
1. L’effetto sorpresa
2. Il parallelismo atmosferico
3. Le scene hot e il mio negazionismo
L’EFFETTO SORPRESA
Luca è un bel ragazzo, riccioluto, concreto e di poche parole. Ha una relazione stabile con l’amica di sempre: Bea.
La collaudata coppia, di ritorno dalle vacanze, s’imbatte in Mircea, medico dall’aspetto apollineo (“quel viso dal profilo apparentemente delicato, che era capace di passare dal candore ambiguo alla durezza in pochi battiti di cuore, e quei due occhi scuri, a volte intensi a volte gelidi…”) e dal fascino vagamente straniero.
Secondo il più tradizionale degli stratagemmi Lucotto e Bea cercano di accoppiare - in una Padova ben descritta dall’autrice – il bel dottore con la più sparigliata delle loro amiche: Anna.
Ma sul conciliabolo si abbatte l’effetto sorpresa: la coppia collaudata dovrebbe portare la candela (o reggere il moccolo, che dir si voglia) e invece… la May ci mette il suo zampino impertinente e spariglia le carte, come l’asso nella scopa d’assi. Se invece preferite il poker, sappiate che nel romanzo non vedrete la formazione della doppia coppia.
Avrà dunque ragione Paulo Coelho quando sostiene che “gli incontri più importanti sono già combinati dalle anime prima ancora che i corpi si vedano”?
IL PARALLELISMO ATMOSFERICO (“Dannazione. Mircea portava pioggia.”)
Per me è stato automatico, leggendo il titolo “Nuvole”, pensare a quelle di Aristofane. Ma la May non utilizza – come già fece il commediografo greco - le formazioni atmosferiche per rappresentare l’astrazione dei pensieri e l’evanescenza dei filosofi. Lei, nubi, cumuli, nembi, cirri e strati aerei li utilizza per metafore efficaci e anche poetiche. Così accredita una corrispondenza di derivazione chiaramente romantica tra vicende umane e manifestazioni celesti e naturali…
SCENE HOT E (IL MIO) NEGAZIONISMO
E qui devo muovere il mio appunto - del tutto personale, ovvio - all’autrice, che se un po’ mi conosce, già sa dove voglio parare. Con una premessa importante: avrei rivolto la medesima critica anche se le scene bollenti (ma con la temperatura, forse, sto un po’ esagerando: in parole povere, sto parlando delle due scene di sesso esplicito) fossero state di stampo "etero". Io avrei taciuto un paio di parole, che secondo me spezzano l’atmosfera, e forse avrei anche evitato di descrivere un gesto… lasciando all’immaginazione del lettore più spazio per interpretare la sensualità che, a parer mio, viene esaltata dall’ombra più che dalla luce, ed espressa più da un cenno che dall’affermazione esplicita.
Ho preferito scrivere il mio commento in modo ironico, per la simpatia che mi lega a questa autrice, ma non mi sentirei in pace con me stesso se non formulassi apertamente due ulteriori considerazioni, questa volta molto serie.
La prima: plaudo al senso di libertà, equità e imparzialità con il quale l’autrice ha rappresentato l’evoluzione di un amore non canonico. Dimostrando di sapersi muovere con disinvoltura anche quando il tema si fa più impegnativo, o difficile rispetto a mentalità e convenzioni.
La seconda: ho trovata molto belle le descrizioni del senso di brivido (“Chi non aveva mai provato l’ebbrezza di sfiorare una cosa troppo bella quando gli passava accanto?”) e di sgomento che accompagnano la scoperta di un sentimento, così come il conflitto tra il desiderio e la paura di abbandonarsi alla passione nel vano tentativo di resistere a ciò che è più grande di noi…
Bruno Elpis
P.S. Come sempre, i miei commenti di qlibri vengono pubblicati anche sul mio sito personale. A questo link trovate questo stesso commento con le immagini delle nuvole che ho dedicato a S.M. May:
http://www.brunoelpis.it/recensioni/837-nuvole-di-sm-may-qlibri
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Fioccano racconti Sci-Fi
“Il magazzino dei mondi 2” è una raccolta di “duecento imprevedibili racconti di fantascienza istantanea”. Già, la fantascienza: un genere troppo anglofono, un genere spesso trascurato (forse perché genere?)… eppure un genere che – come dimostra questo esperimento ben riuscito – anche in Italia ha entusiasti proseliti ed estimatori.
Gli autori qui convenuti hanno seguito i dettami del bando: “Il tema scelto è la fantascienza in tutte le sue sfumature e accezioni. I racconti non devono superare la lunghezza massima e tassativa di 2000 battute... Il numero di righe totali del racconto non deve essere superiore a 35.”
Dunque: racconti brevi, pillole di fantascienza, reperibili a questo link:
http://www.delosstore.it/delosbooks/45294/il-magazzino-dei-mondi-2/
Io, come alcuni di voi già sapranno, non sono un esperto di questo genere. Ma ho raccolto la sfida. Il risultato, ahimé sotto gli occhi di tutti, non è certo un racconto di fantascienza pura (non ne sono capace!), anche se parte dallo stimolo di una notizia scientifica, considerata da un sondaggio come la più importante del 2012 e che è valsa il Nobel per la fisica:
4 luglio 2012: una data da ricordare nella storia della scienza. Al Cern di Ginevra viene annunciata la scoperta del bosone di Higgs, o per lo meno di qualcosa che gli assomiglia molto. Il bosone di Higgs (chiamato anche «particella di Dio»), teorizzato da un fisico scozzese circa 50 anni fa, è la particella quantistica che determina la massa e quindi l'esistenza della materia come noi la conosciamo.
Con "Fioccano particelle di Dio", racconto incluso nell’antologia, ho voluto significare che alcuni filosofi con le loro intuizioni, forse, sono i veri scrittori di fantascienza… Quanti secoli fa Leucippo, Democrito, Anassagora ed Epicuro - senza alcun mezzo o strumento - hanno anticipato la scienza! Rivestendola di poesia. Eccone l'incipit.
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Fioccano particelle di Dio di Bruno Elpis
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.
Senti: una zana dondola piano piano.
Nuvole di miliardi di protoni si scontrano con un'energia di 14 TeV.
Divisionismo della natura, puntinismo dell’unità. L’uomo bambino riposa, nel silenzio stupefatto del cosmo dominato. Sotto un gioco di fiocchi impazziti.
Un pezzo di mondo che comprende astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nell’infinito. (Epicuro)
Le particelle di Dio producono luce e risolvono il mistero dell’aggregazione. Poi si sgretolano e si ricompongono. L’uomo bambino ascolta la nenia dell’infinito polverizzato.
Evaporato lo strato di rugiada, apparì sulla superficie del deserto qualcosa di minuto, di granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal vista i figli d'Israele si chiesero l'un l'altro: «Che cos'è questo?», perché non sapevano che cosa fosse. (Esodo)
L’energia si fa massa, ancora piovono i bosoni di Higgs. Neve di raggi gamma, coriandoli di tenebra. L’uomo bambino apre occhi che sanno sostenere la luce della verità.
Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono forme di vita di eguale destino. (Lucrezio, De rerum natura)
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Scrivendo questo pezzo ho pensato: ma non è che la Bibbia, la filosofia, la letteratura e la scienza parlano tutte della stessa essenza e della stessa verità? La nostra…
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Autorizzato dall’autrice, pubblico l’incipit di un racconto di vera fantascienza, per risarcire i coautori dell’antologia e per rassicurare i puristi del genere: l’antologia contiene davvero tanti racconti belli come questo incipit dimostra.
Di lucciole e di farfalle di Roberta Eman
«Il mio bisnonno diceva che quand’era piccolo c’erano insetti con le luci, e altri con le ali colorate.»
«Embè, perché queste cosa sono?»
Lukas rincorre un brusio nel cielo arancione, finché riesce ad azzittire il ronzio metallico appiattendo il volatile al suolo. Gli apre le ali quando ancora le zampette annaspano nel vuoto e mi guarda con un ghigno.
«Vedi?», mi chiede. «Blu indaco e striature nere.»
Lo osserva attentamente per accertarsi che non vi siano microfoni o videocamere, e con un pugno lo consegna all’inefficienza perpetua.
«Sarà stato un sensore di sostanze ipertossiche. Neanche lo verranno a recuperare.»
Con le mani nude raschia il terreno, sabbia e sassi, e tumula la sua ennesima vittima elettronica. Sostiene che tutti abbiano diritto a una degna sepoltura; è ancora arrabbiato perché suo fratello, dopo essere stato ammazzato in terra straniera, è stato cremato e aspirato con un vacuum cleaner di ultima generazione. Le sue ceneri confuse con quelle di migliaia di altri soldati.
(…)
___________________
Buon anno q-mondo!
Bruno Elpis
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E che, sei wonder woman???
“Aiuto! Sono diventata mamma!” di Loredana Ronco è un saggio umoristico, ma anche non, che si colloca nel filone di quei simpatici e scanzonati manuali di sopravvivenza che vengono scritti sugli argomenti più disparati.
Nello specifico Loredana – e il doppio punto esclamativo del titolo la dice lunga sull’intonazione delle sue riflessioni – si occupa di confortare quelle mamme che, lungi dal mistificare il loro ruolo e le loro capacità di essere all’altezza delle situazioni, come lei si trovano a barcamenarsi tra notti insonni, fatiche fisiche e difficoltà pratiche dopo il lieto evento.
Anche il sottotitolo (“Tutto quello che le donne non dicono sulla maternità!”) è un chiaro proclama d’intenti: negandolo, l’autrice racconta tappe e passaggi di un percorso che si snoda dalla decisione di procreare. Lo stick che si colora di rosa, i mesi della gravidanza tra nausee e timori, il momento cruciale (“Non temete, non vi terrorizzerò con racconti terrificanti sul dolore o su strane manovre…”) e ciò che ne consegue: allattamenti a ore improbabili, notti in bianco, nuove incombenze, nuovo modo di rapportarsi al partner, vacanze adattate alla nuova presenza…
Nel prologo l’autrice dichiara che il suo saggio è naturalmente destinato a due categorie di lettori, anzi lettrici:
“1) Avete appena fatto un test di gravidanza…
2) Siete già diventata mamma e avete un disperato bisogno di non sentirvi l’unica donna che…”,
pur tuttavia non esclude un possibile, marginale interesse maschile: “Già, tu che stai leggendo potresti appartenere a quello zero virgola qualcosa percento di lettori che appartiene all’universo maschile.”
E proprio dei maschi, la paladina dell’ideale crociata contro le mamme “wonder woman” (mai stanche e sempre perfette nell’aspetto) delinea alcune caratteristiche comuni (“Si agitano per un nulla molto più di noi e la nostra volubilità li manda letteralmente ko”) e traccia la distinzione tra:
- collaborativi
- bambinoni
- fancazzisti
- romantici
- carrieristi
Tra un passaggio umoristico e il tentativo di ripristinare un minimo di serietà per rispettare l’obiettivo dichiarato (“far sentire ‘normali’ tutte le donne che si sentono frustrate e a volte un po’ ‘strette’ nel ruolo di mamma”), non mancano i momenti ispirati dalla consapevolezza di un ruolo e dalla forza di un amore orientato verso la vita che è appena sbocciata.
La lettura veloce e leggera (il testo conta poco più di cento pagine) suggerisce che il testo può ben rappresentare un’occasione per un regalo simpatico da indirizzare a gestanti, primipare, puerpere… o – contravvenendo alle aspettative dell’autrice – ai loro palpitanti partner!
Bruno Elpis
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L’importanza dei ricordi
“Bella e Sebastiano” di Cécile Aubry è un romanzo che negli anni Sessanta fu rappresentato in uno sceneggiato in bianco e nero, di produzione francese, e racconta la storia del piccolo Sebastiano che viene partorito in montagna in un giorno freddo e tempestoso. La mamma muore di parto e il neonato viene accolto nella famiglia del guardiacaccia Cesare.
Lo stesso giorno, in altro luogo, viene alla luce una cucciolata di pastori dei Pirenei. Tra i cuccioli, Bella (“Era ancora soltanto un cucciolo, ma già s’intuiva che sarebbe divenuta enorme e forte come la madre, tenera e dolce con chi le sarebbe stato amico, minacciosa nella collera”) è strappata alla madre e regalata a un commerciante. Dopo una lunga serie di peripezie e abbandoni, Bella ormai cresciuta (“La sua pelliccia… l’avviluppava in un vello soffice, spesso, lungo, brillante come quello d’un orso polare, macchiato soltanto dall’impronta del suo naso e dalle due lunghe linee che le circondavano gli occhi”) si abbandona all’istinto (“Non sapevano che, nella sofferenza della prigionia, l’animale ritrovava l’astuzia dei suoi selvaggi antenati”) e si rifugia sulle montagne (“Bella, ascoltando il richiamo delle alte montagne che avevano cullato la sua razza, fuggì verso i rifugi che esse potevano offrirle”).
Sebastiano, all’età di sei anni, affronta insieme a Cesare e ai figli Gianni e Angelina “i dispiaceri cui va incontro una onesta famiglia quando adotta un bambino di origine ignota” e l’ostilità dei coetanei (“Ecco Sebastiano!... il Gi-tano!”).
Il bambino spesso fugge dalla cascina ove vive con chi l’ha accolto, affronta la montagna (“per rimanere solo, a valle del salto del Lupo quando il torrente, uscito dalla gola, diventa più calmo. E’ là che Sebastiano aveva costruito due mulini…”) e arriva sino al “rifugio di pietre secche, là dove s’alzava da quasi sette anni la grande croce funebre”.
Intanto Cesare continua a offrire protezione e comprensione al bambino (“Che sarebbe diventato Sebastiano se non lo si aiutava a rassomigliare un poco agli altri?”).
La montagna al confine italo-francese (“Là, alla fine del Petit Défilé, c’è la frontiera”) è neve, bosco di abeti, torrente Gordolasque e covo di animali (“Entrambi avrebbero atteso il passaggio della volpe”).
“Il sole faceva scintillare le cime della Demoiselle e del Baou e, fra di esse, la cresta a forma di falce dove passava la frontiera”.
Lì, sulla montagna Sebastiano incontra Belle (“L’animale doveva ancora percorrere molta strada prima di ritrovare l’amore per l’uomo”) e, vincendo la diffidenza iniziale, stringe un’amicizia indissolubile con il cane bianco. Un legame che sarà più forte di ogni contrasto (“Doveva salvare Bella ed era solo. Negli altri non aveva fiducia: nessuno l’aveva avvertito” che gli uomini del canile sarebbero venuti a catturare Bella), di ogni pregiudizio, di ogni insidia della montagna (“Perciò bisogna andare nel Grand Défilé! Perché loro ne hanno paura. Tutti.”).
Questa storia giaceva sepolta nella mia memoria di bambino ed è riaffiorata grazie a una discussione intervenuta proprio qui, a q-libri. Con la lettura del testo (poi ho anche reperito sul web il cofanetto con il vecchio sceneggiato in francese) ho potuto riscoprire e riassaporare alcuni ricordi e suggestioni che giacevano sotto strati di anni e di esperienze. Anche per questo, il commento vuole essere il mio modo personale per augurare a tutti i q-amici e alla redazione un felice Natale.
“Nevicò tutta la notte. Poi spuntò il giorno di Natale…”
Bruno Elpis
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Napoli tra sogni, smorfia e realtà
In una vecchia canzone (“Anche un uomo”) Mina, da adulta, ammoniva una giovane donna sulle creature dotate di cromosoma xy: “Ragazza mia, ti spiego gli uomini…” Poi seguivano, tra gorgheggi, sospiri e miagolii, le disincantate considerazioni dell’inossidabile cantante sul genere maschile.
Operazione analoga - almeno nella struttura, non certamente nei contenuti - compie in “Novanta” Lorenzo Marone, che nella dedica autografata in prima pagina recita: “A Bruno… provo a spiegare la mia città”.
Perché in quest’opera composta da novanta racconti, lo scrittore partenopeo affresca altrettante situazioni e regala altrettante impressioni, ciascuna delle quali viene abbinata al numero e al simbolo de La Smorfia.
Per esemplificare la varietà di eventi e personaggi rappresentati nei racconti, mi avvarrò del medesimo espediente e dunque fornirò… due combinazioni da giocare sulla ruota di Napoli. Ma anticipo subito la mia conclusione: l’esperimento di Lorenzo Marone – spiegarmi Napoli - è perfettamente riuscito!
PRIMA COMBINAZIONE
21. ‘A femmena annura – Un racconto che illustra la doppia anima di una città complessa e anche sotterranea: “Esistono due Midtown qui: quella di sopra e quella di sotto”.
26. Nanninella – Le adolescenti non rinunciano ai loro sogni, neppure “a cavallo della superstrada Nola-Villa Literno… la terra dei fuochi … da quando quello scrittore si è messo a parlare della camorra che si serve dei rom per accendere i rifiuti tossici…”
29. ‘O pate d’e ccriature - La religione è più superstizione che fede, dinnanzi all’immagine di San Raffaele: “Non deve baciare il santo, ma il pesce che questi ha in mano”.
46. ‘E denare – Un particolare ragguardevole di questo racconto è che il termine “usuraia” o “strozzina” non viene mai impiegato per Donna Assunta (“Li devi restituire in due anni. Ventiquattro rate da cinquemila euro”. E, visto che parliamo di numeri, la somma è “quasi il doppio di quanto ha avuto”).
86. ‘A puteca – La bottega è un minimarket di Scampia. Lorenzo Marone qui scatta le istantanee dei clienti…
SECONDA COMBINAZIONE
22. ‘O pazzo – Non poteva mancare lui, il parcheggiatore abusivo. Perché l’estorsione può anche essere infinitesima e “con un euro, in questa città, ti compri la pace”.
27. ‘O cantaro – Così come non poteva mancare il falso cieco smascherato nei fatti di cronaca: “Sei invalido”, glielo deve ricordare il narratore!
28. ‘E zizze – Alias l’erotismo rappresentato con lo stilema della sceneggiata: “Patrizia si affaccia al balcone per ritirare i panni… ha il seno più bello del rione.”
47. ‘O muorto – Quante manfrine, quanti legulei per seppellire il caro estinto! E che dire della scaramanzia…
90. ‘A paura – Paura è quella di una ragazza che si sente inseguita quando “è tardi e le strade sono buie”.
Però adesso la smetto, di dare i numeri. Ma aggiungo una piccola raccomandazione: se giocherete una di queste combinazioni e vincerete, ricordatevi di chi ve l’ha suggerita.
Concludo il mio commento su “Novanta” tornando alla dedica e, guarda caso!, al testo della canzone di Mina:
… Son tanto fragili, fragili
tu maneggiali con cura
fatti di briciole, briciole
che l'orgoglio tiene su…
Lorenzo Marone, che ne dici, questi versi si adattano anche ai napoletani?
Bruno Elpis
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Fuochi d'artificio sulla costiera amalfitana
Il “giallo” di Fiorella Franchini è ambientato nella costiera amalfitana, nell’antico borgo di Atrani (“Un piccolo presepe simile a Positano, ma meno colorato, meno allegro, che non mi costringeva ad essere per forza felice, e quando pioveva mi piaceva lo stesso”).
Il romanzo si apre con il misterioso omicidio di Barbara (“Professoressa napoletana uccisa ad Atrani. I carabinieri escludono che si tratti di suicidio”), avvenuto in occasione della festa della santa patrona (“Il rumore degli spari era stato confuso con gli scoppi dei fuochi d’artificio che dal tardo pomeriggio si erano susseguiti in paese per la festività di Santa Maria Maddalena”).
L’ex marito, l’editore Walter Alineri, viene raggiunto da una telefonata che lo informa dell’inspiegabile assassinio: Barbara è stata uccisa con due colpi di pistola nella casa atranese, che Walter non ha mai sentito come “sua”, perché ormai da un decennio vive separato dalla moglie.
Durante il funerale, l’editore viene avvicinato da una donna che gli rivela alcuni precedenti episodi intervenuti nella scuola ove Barbara insegnava (“Come se le avessi chiesto io di indicarmi le sue nemiche e temesse di dimenticarsene qualcuna”): trascorsi burrascosi che potrebbero in qualche modo gettare sospetti su persone ostili alla ex compagna (“Perché quella donna così addolorata aveva voluto dirmi che due colleghe di Barbara non l’avevano amata in vita e forse non ne piangevano la morte ora?”).
Ben presto gli inquirenti incolpano dell’omicidio un malavitoso trafficante d’arte e, in modo troppo sbrigativo, ritengono concluso “il caso”.
Walter – che ha un alibi inattaccabile per via della “coincidenza tra la serata in televisione e l’ora del delitto” - non crede a questa ricostruzione superficiale della vicenda e, in proprio, pur afflitto e contrastato dal ricordo della tormentata esperienza coniugale (“Capricciosa? Era una donna prepotente, che riteneva suo diritto prendere e lasciare ogni cosa a suo arbitrio”), dopo aver ricevuto una lettera anonima che contiene una sorta di indovinello, intraprende un’indagine privata per ricostruire dinamica e moventi del delitto.
I sospetti dell’investigatore improvvisato si orientano sia su Tiberio, il secondo marito di Barbara che ha un passato non proprio specchiato (“una paziente … l’aveva accusato di aver compiuto atti di libidine su di lei mentre era in stato d’ipnosi… coinvolto in una storia di falsi certificati medici… un violento…), sia su due colleghe della vittima.
Mentre l’editore-detective cerca di tirare le fila di una vicenda che ha il suo nucleo nella personalità capricciosa e scostante di Barbara (“con il carattere che aveva le inimicizie se le costruiva anche quando dormiva”), sulla scena si susseguono personaggi dal profilo variegato e riaffiorano relazioni intricate e torbide che si stagliano su paesaggi e tessuto sociale dei dintorni di Napoli.
La storia è intrigante, il romanzo è veloce e dialogato, lo stile è avvincente e intercala nelle pieghe della trama sia descrizioni di una delle più belle zone d’Italia, sia battute che ci ricordano la localizzazione dell’azione.
Di Fiorella Franchini, che recentemente ha collaborato con le edizioni Savarese per l’antologia di interviste Donna è Anima, ho letto anche “I fuggiaschi di Lokrum”: una storia ambientata nella ex Jugoslavia che ha per protagonisti la volontaria Mirella, un ufficiale delle forze italiane e la cronista Terry. I tre, con alcuni bambini, fuggono dal terribile attentato che ha colpito anche l’orfanotrofio e dopo mille peripezie – con l’aiuto di un contrabbandiere spagnolo e assistiti/inseguiti da un altro personaggio dall’identità ambigua - raggiungono l’Albania attraversando gli orrori e le violenze di uno dei peggiori conflitti dell’epoca contemporanea...
Bruno Elpis
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Quando le fiabe si tingono di nero
Gaia Conventi (“già vincitrice del Myfest – Gran Giallo città di Cattolica”, così recita la fascetta sulla copertina del libro) è un’autrice satirica, oltre che blogger nota per la franchezza e la schiettezza delle opinioni che esprime.
Con “Giallo di zucca”, la scrittrice nativa di Goro (sì, proprio lui, il paese che già diede i natali a Milva, la pantera di Goro) dà sfoggio di ironia e umorismo in una storia che oscilla a mo’ di pendolo tra normalità e surrealismo, nella magica cornice di Ferrara. Ma procediamo con ordine e parliamo dei protagonisti, della storia, del contesto urbano e… naturalmente di Gaia.
I PROTAGONISTI
L’eroe-antieroe protagonista si chiama Luchino (un nome che odia!) ed è fotografo della polizia scientifica (“Dovessi attaccare bottone direi che sono un cultore del glamour, ma sono in ritardo e vi dirò la verità. Fotografo cadaveri”).
Incarna normalità e dolcezza (“Del resto, nello scampolo di vita che non coincide con la mia permanenza in ufficio, io leggo romanzi d’amore”), è un poco goffo e imbranato (odia guidare l’auto), non è particolarmente acuto, non è particolarmente fortunato con le donne e forse anche per questo cattura le attenzioni di Mary, aspirante scrittrice di gialli, alla quale non osa confessare la sua professione (“A volte scordo che per Mary sono un fotografo di cresime e matrimoni”).
Luchino ha un amico inseparabile e, a modo suo, fedele: “Poirot è il mio cane, un meraviglioso esemplare di pastore belga”, un animale che – come da teoria fisiognomica piuttosto accreditata – riproduce su scala canina il suo padrone. Perché anche Poirot incarna normalità (“Ah sì, il mio cane sa usare il telecomando”) e dolcezza, è un poco goffo e imbranato (ed è anche molto riservato quando espleta le proprie funzioni, le “eme p” e le “eme c” ove “eme” sta per emergenza, mentre la p e la c… confido nella vostra perspicacia!), non è particolarmente acuto, non è particolarmente fortunato con le donne e forse anche per questo cattura le attenzioni di Dolly, la vezzosa dalmata di Mary (“I ragazzi, i nostri cani per intenderci, stanno al passo della futura gloria del mistery nostrano e zampettano allegramente verso la strada”).
LA STORIA
Ferrara e dintorni sono funestate da un serial killer, che la creativa fantasia popolare ha sinistramente ribattezzato “l’assassino delle favole” per via di alcuni indizi che sembrano ricollegare gli omicidi a Cappuccetto Rosso e ad Hansel e Gretel: “Quindi, tirando le somme, è morto Broccoletti, il tuo professore. E’ morta anche la cuoca dell’asilo in cui tu andavi, e che lo zio ha denunciato per furto… Adesso è sparita anche Emy, che tu conosci e che veniva a dare una mano nella libreria dei tuoi.”
Di delitti e sparizioni viene sospettato il cugino di Luchino: il Pierfi (che sia lui “la zucca” del titolo?), un bamboccione che finalmente, dopo un tortuoso percorso scolastico, arriva ad agguantare una laurea in geologia grazie alle lungimiranti e machiavelliche strategie del suo tutor, Vito Vitali che – guarda caso! - è anche il figlio di una delle donne scomparse…
IL CONTESTO URBANO
Decisamente Ferrara, fotografata a più riprese in una delle sue manifestazioni più vitali e autentiche (“Dicono sia il Palio più antico, di certo le gare di musici e sbandieratori sono parecchio sentite in città”), descritta attraverso espressioni idiomatiche (“A Ferrara sandron non è esattamente un complimento”), oggetto di un amore incontrastato (“Piazza Municipale, forse la più bella piazza d’Italia quando ci si esibisce in gare di bandiere”) e sincero (“Piazza delle Erbe, è un angolo di mondo dove ogni cosa appare al meglio di sé”).
Poi ci sono i dintorni: “Di solito i ferraresi vanno al Lido degli Estensi o al Lido di Spina, io ho sempre preferito Volano, il più placido dei nostri lidi”.
E non può mancare il paese natio (“Oggi hanno trovato a mollo, a Goro … Nereide Pausilli, di anni settanta…”; “…la Gattara è stata trovata nella sacca di Goro e pare fosse in acqua da almeno un mese…”) de…
…L’AUTRICE
Amante delle situazioni grottesche (“La signora delle pulizie ha detto che dobbiamo stare qui finché non ha terminato…” nel capitolo intitolato “Una giallista da balcone”), anche al limite del paradosso (“Con Mary queste cose vanno per le lunghe, come quando si spiega a un bambino di cinque anni come funziona il sistema solare”), dice pane al pane (l’insegnante di arti plastiche dell’asilo, per l’agente che verbalizza, “è quella che aiuta i bambini a creare assurdi lavoretti che poi si è obbligati a tenere sulla credenza anche se fanno schifo”) e vino al vino (così le lucciole sono “quelle che s’illuminano bruciando copertoni”). Non disdegna riferimenti colti, ma si lascia sempre trascinare dall’abilità nel caratterizzare situazioni e personaggi (“zia Italia con un vestitino a fiori che la fa sembrare un’attempata ceramica di Capodimonte”).
Dopo una narrazione sempre in bilico tra la commedia e il cartone animato, nella scena madre finale Gaia si abbandona all’umorismo in una variante macabra che già aveva lasciato presagire (“La scena, vista da lontano, potrebbe ricordare lo scambio di condoglianze in sala mortuaria”) in corso d’opera (“lugubre anche di giorno, di notte sarebbe la gioia di Dario Argento”), per affondare la lama della sua satira nel cinismo popolare e mediatico che – come da italico costume - accompagna i peggiori delitti.
Come in ogni fiaba, bianca o noir che sia, eccoci giunti alla morale della favola: questo è “Giallo di zucca”, questa è Gaia Conventi. E con lei il divertimento è assicurato…
Bruno Elpis
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A chi ha visto "La carica dei 101" di Walt Disney.
Ma soprattutto a chi apprezza il genere satirico in gradazione noir.
Contro ogni forma di violenza
Wulf Dorn si riconferma un maestro del thriller psicologico in questo romanzo dalle atmosfere cromatiche e musicali, ricco di suggestioni che nutrono la tensione della storia di Dorothea (detta Doro), impegnata ad affrontare trauma e rimorso per la morte del fratellino Kai.
In questo commento cercherò di illuminare con la torcia del mio interesse personale (una torcia, come quella che utilizzano Doro, David e Julian, adolescenti variamente dediti alla ricerca della verità tra il capanno del giardino e i sotterranei della vecchia fonderia abbandonata dell’immaginaria cittadella di Ulfingen) gli spettri che minacciano la psiche della sedicenne protagonista.
Doro è reduce dal trattamento sanitario dell’esaurimento che l’ha colpita da quando si sente in qualche modo responsabile per la morte del fratellino. Il suo animo, già messo a dura prova, deve affrontare la separazione dei genitori, l’insediamento nella nuova casa (“Ho provato una sensazione singolare nel rivedere i miei mobili in un ambiente nuovo”), le ombre del passato (“Ho estratto da uno scatolone alcuni disegni che erano nella mia vecchia camera”), la conoscenza di nuovi amici, l’attrazione per Julian.
IL DISTURBO PSICHICO SPESSO SI CONIUGA CON UNA STRAORDINARIA SENSIBILITA’
Infatti, Doro ha una caratteristica non comune: “Tua madre mi ha riferito che sei una sinestetica”.
“La sinestesia è un dono particolare… Per lo più è ereditario. Sai di persone della tua famiglia in grado di cogliere e definire numeri, odori, esseri umani e ricordi attraverso percezioni sensoriali?”
SENTIRE LE VOCI, AVVERTIRE PRESENZE
“E le voci?”
Doro è perseguitata da echi e rumori: “Da qualche parte alle mie spalle, al di là della parete, mi è parso di sentire una risatina sardonica. Una di quelle risatine che sono capaci di fare solo i conigli di peluche.”
Parimenti, Doro è afflitta da allucinazioni, rivede il fratellino e ha un incubo ricorrente: la “ragazza-insetto” che rappresenta “il mio cuore cattivo” del titolo.
Pur assorbita dalla sua personale lotta contro voci e presenze (“Credimi, Doro, ce la farai a liberarti della presenza sconosciuta che ti affligge”), Doro è assolutamente certa che la visione di Kevin, il ragazzo scomparso in un incidente, non sia un’allucinazione!
AMNESIA
Doro soffre di un’amnesia a causa della quale non ricorda cosa successe la notte in cui Kai morì.
Se ha ragione Freud, l’amnesia è una forma di rimozione, una difesa volta a proteggerci da un dolore troppo intenso.
Ma i ricordi progressivamente affiorano… e con essi, irrompe il dolore.
FENOMENI IPNAGOGICI
Altrimenti detti, con termine orrendo, “ipnopompici”.
Per il vocabolario Treccani ipnagogico è un “fatto che si verifica immediatamente prima del sonno” (o, aggiungo io, immediatamente dopo, in prossimità del risveglio), mentre la fase ipnagogica è la “fase di sonnolenza che precede l’addormentamento, caratterizzata da un particolare stato fluttuante della coscienza e dal carattere vago e sfumato dei pensieri, durante la quale possono prodursi fenomeni a tipo di illusioni o di allucinazioni”.
Ne soffro anch’io, nella forma della cosiddetta “paralisi del sonno”: un’angoscia che, con interpretazione del tutto personale, io vedo artisticamente rappresentata ne “L’incubo” di Fusseli.
Ma, nel romanzo, è possibile che la visione di Doro sia soltanto un fenomeno ipnagogico?
TELEFONOFOBIA
Doro ha paura del telefono e del suo suono.
“Come si manifesta nel tuo caso la telefonofobia?”
Anche questa fobia la differenzia dai coetanei, che hanno sempre smartphone e cellulari tra le mani…
Wulf Dorn accompagna il lettore nel labirinto degli incubi e delle colpe (“Voglio risalire a ciò che hai rimosso, che non sei più capace di ricordare. Alla notte prima della morte di Kai. Deve essere successo qualcosa che ti fa sentire colpevole benché non ve ne sia alcun motivo apparente”) in una storia scandita da rapidi capovolgimenti di situazioni e scene. Per fornire una personale interpretazione del male (che io estendo a ogni forma di violenza, compresa quella verbale, e di intolleranza) che si annida in ciascuno di noi e per ipotizzarne un antidoto: sperimentale sicuramente, efficace forse... speriamo bene!
Bruno Elpis
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Le poesie di Martin Luther King
Lapsus talami
Psicopatologia della vita quotidiana è un'opera nella quale Freud dà ampia prova di concretezza fondando la propria teoria su una ricca gamma di esemplificazioni e casi sperimentali. La genesi dell’opera è stata piuttosto complessa: la pima edizione è del 1901, l’ultima è datata 1924.
L'analisi svolta da Freud parte da un principio: l’inconscio si manifesta in tutta la sua potenza quando le difese vigili dell’uomo sono allentate. Questo si verifica non soltanto durante il sonno – quindi nei sogni – ma anche nelle ore della veglia: in tutti quegli atti apparentemente casuali e non intenzionali, che – al contrario di ciò che sembrano – sono invece precise manifestazioni delle dinamiche che serpeggiano nella profondità dell’animo umano (“Che nel lapsus si affermi proprio quell'idea che si vorrebbe escludere, è fatto molto comune”).
In questa prospettiva, le cosiddette “disfunzioni mnestiche” (dimenticanze di nomi, parole e frase e/o "falsi ricordi"), i lapsus (“Nelle perturbazioni grossolane come anche in quelle più sottili del discorso che si possono far ricadere sotto la categoria dei lapsus verbali, io non ritengo sia decisivo l'influsso degli "effetti di contatto dei suoni", ma quello di pensieri estranei al discorso intenzionale, sufficienti a provocare il lapsus e che bastano a chiarire l'errore occorso”), le amnesie, le falle nell’agire (dimenticanze varie, errori di ogni tipo, inconvenienti imputabili a sbadataggine) e le disattenzioni trovano il loro fondamento nei meccanismi che scatenano anche le nevrosi: in particolare, ciò che è stato rimosso e sotterrato nel subconscio tende a riaffiorare e si esprime squisitamente negli atti mancati e nei lapsus che dunque rappresentano non già un evento casuale, bensì un sintomo.
IL LAPSUS FREUDIANO
Dalla prefazione: “I lapsus sono inquadrati all'interno della categoria più generale degli atti mancati. Essi sono considerati forme di espressione indiretta dell'inconscio: l'errore che prende corpo nel lapsus, secondo Freud, è solo apparentemente casuale. Il lapsus non solo sarebbe la manifestazione di un desiderio inconscio che affiora e trova, così, soddisfacimento, ma costituirebbe anche un canale attraverso il quale trovano sfogo pensieri che, altrimenti, resterebbero rimossi dalla censura.”
Le défaillance sono distinte da Freud in quattro tipologie.
Innanzitutto i lapsus linguae, ossia gli errori per i quali viene pronunciata una parola diversa da quella che si voleva dire (“Il lapsus verbale diventa un mezzo di espressione mimico, e sovente invero per esprimere quel che non si voleva dire, diventa cioè un mezzo per tradire sé stesso”).
Poi vi sono i lapsus calami (e per esemplificare un lapsus nel lapsus: il lapsus talami!), gli errori nello scrivere, in virtù dei quali viene scritta una parola diversa da quella desiderata.
La terza specie è quella dei lapsus memoriae: sono i vuoti temporanei di memoria specialmente relativi a una parola, che non si ricorda, anche se si ha l'impressione di averla nella mente.
Infine, nella quarta categoria ricadono i lapsus manus, cioè gli errori nel compiere un gesto.
Talvolta questi sintomi sono di facile lettura; se invece il contenuto rimosso è emotivamente significativo (e quindi rappresenta un trauma nella vita psichica dell’individuo) il lavoro di ricostruzione (quello affidato alla psicanalisi) sarà più complicato perché si scontra con le censure e le negazioni della coscienza.
La “psicopatologia della vita quotidiana”, in ultima analisi, dimostra che i processi psicologici delle persone sane sono i medesimi dei soggetti nevrotici e differiscono soltanto nell’intensità e nell’importanza della reazione…
Anch’io, dopo questa lettura, sono passato dalla teoria alla pratica (!): ho posato la “Psicopatologia” e ho brandito “Il mio cuore cattivo”, psicothriller di Wulf Dorn che mi ha tenuto inchiodato finché non ho letto la gratulatoria dell’autore… ma questa è tutta un’altra storia.
Bruno Elpis
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Ipse dixit
Zarathustra scende dalla montagna al mercato per portare l'insegnamento all'umanità: ne derivano viaggi fittizi e predicazione.
Zarathustra è l'antico profeta (noto anche come Zoroastro), fondatore del monoteismo persiano e teorico della contrapposizione manichea di bene e male.
Zarathustra con Nietzsche si rinnova e - mantenendo caratteristiche e vocazione di profeta - diviene fondatore di religione, ossia colui che al mondo predica la trasmutazione dei valori.
In quest’opera ritroviamo tutti i temi di Nietzsche: l'eterno ritorno, la morte di Dio (“E' già da molto tempo che gli antichi dei finirono: e , invero , ebbero una buona e lieta fine da dei! Essi non trovarono la morte nel crepuscolo, questa è la menzogna che si dice”), la volontà di potenza (“Fate pure ciò che volete , ma siate prima di tutto di quelli che sanno volere”), la dottrina del superuomo (“L'uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo; una fune sopra l'abisso. Un pericoloso andare di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardare indietro, un pericoloso rabbrividire e arrestarsi. Ciò che è grande nell'uomo è d'essere un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell'uomo è il suo essere un passaggio e un tramonto”) come superamento di sé (“Io vi insegno il superuomo. L' uomo è qualcosa che deve essere superato”) e delle aspirazioni mediocri.
Lo stile è criptico (“Mille sentieri vi sono non ancora percorsi, mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancora l'uomo e la terra dell'uomo”), carismatico (“Chi volesse imparare a volare, deve prima imparare a camminare, e andare e saltellare. Il volo non si impara a volo”), simbolico (“La mia più cara cattiveria e arte è che il mio silenzio abbia imparato a non tradirsi nel tacere”) e interpreta il delirio visionario e oracolare del profeta.
L’atmosfera è ieratica (“Bisogna avere in sé il caos per partorire una stella danzante”), misteriosa (“Ogni anima ha un suo mondo; per ogni anima ogni altra anima è un mondo fuori dal mondo”), rarefatta (“Il vostro amore per la vita sia amore per la vostra speranza più alta: e la vostra speranza più alta sia il più alto pensiero della vita!”).
La teorizzazione è aforismatica (“Dove non si può amare, bisogna passare oltre”), spesso ermetica, in ogni caso mai immediata.
Un testo da affrontare con preparazione filosofica (salvo decidere di abbandonarsi al fascino degli aforismi) e con la consapevolezza delle distorsioni storiche e delle strumentalizzazioni che gli sono state proditoriamente inflitte.
Bruno Elpis
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"Gli aforismi" di Oscar Wilde.
A single man
Pubblicato nel 1964, il romanzo ripercorre l'ordinaria giornata dell'inglese George, un anziano professore (“a dargli quest’aria da ragazzo avvizzito è solo la vanità. Sì, nonostante le rughe… s’intravede il fantasma di una persona tenera, giovanile, affascinante. E’ una combinazione bizzarra, ma innegabile”) che insegna presso un college di Los Angeles. Rimasto solo, dopo la morte del compagno Jim (“Ma Jim è stato fortunato alla fine, cioè l’unica circostanza in cui la fortuna conti davvero. Il camion ha preso la sua auto nel punto giusto; non se n’è neppure accorto”), il protagonista vive una giornata nel periodo prenatalizio (tra “le grandi e goffe decorazioni natalizie”) in un clima di tensioni internazionali (“Poco più di un mese fa, prima che Chruscev accettasse di ritirare i suoi missili da Cuba…”), tra pensieri e parole, sentimenti alterni e senso della morte. Il romanzo è dedicato a Gore Vidal.
Dopo il risveglio, momento della consapevolezza (“Io sono ora”) e del contatto visivo con i vicini, il professore passa la mattinata in università dove tiene una lezione su Huxley con divagazione sui miti di Titone ed Eos di fronte a un gruppo eterogeneo di studenti. Poi, consuma il pranzo al refettorio con il collega Grant e Cinthya, con la quale - per misoginia - intavola una polemica sul confronto tra la cultura europea e quella americana.
Con il trascorrere delle ore il malessere dell’abbandono (“In tutte le vecchie crisi, degli anni Venti, degli anni trenta, la guerra … quello che gelava il sangue era la paura dell’annientamento Ora ci portiamo dentro una paura ben più terribile, la paura di sopravvivere”) e la solitudine (“L’artista da circo non ha un sipario che cali e lo nasconda, lasciando intatto l’incanto e la magia del suo numero. Sospeso al trapezio sotto il fascio delle luci, ha brillato e tremato come una stella. Ma ora che è a terra, senza i riflettori addosso, eppure chiaramente visibile da tutti – anche se tutti, ora guardano i clown – corre oltre le gradinate, verso l’uscita. prende corpo, attraverso pensieri “) prendono corpo. Così come nelle tappe successive: la visita in ospedale (“dove Doris è concentrata nel suo compito: morire”) a trovare Doris (“E’ una creatura completamente diversa; un manichino rattrappito, giallo, con le braccia e le gambe come stecchini, la carne appassita, il ventre scavato che disegna sotto il lenzuolo una sagoma angolosa”), sua ex rivale nel rapporto con Jim, pone George di fronte al tempo (“Il tempo per lei deve essere diventato uno stranissimo labirinto di specchi, e i labirinti possono trasformarsi in ogni momento da divertenti a spaventosi”) e alla consapevolezza del distacco (la gelosia… “era stato quello il legame tra lui e Doris. E ora è spezzato. Un altro frammento di Jim gli era stato sottratto per sempre”).
Poi c’è la seduta in palestra, un inutile giro sulle colline, la tappa al supermercato (“chiude a mezzanotte. Brilla. Il suo alone di luce offre un riparo contro la solitudine e il buio”) ove il ricordo di “Jim, spaventosamente vivido, pugnala George”: “Ma non è un pericolo mortale dire stasera non mangerò da solo?”
Dopo un invito inatteso e imbarazzato della vicina, vi è la cena con l’amica-confidente Charlotte (“Charlotte è già una sopravvissuta, anche lei. Del sopravvissuto ha la tipica tenacia un po’ pesta”) nella quale, grazie all’alcol, George “comincia a provare una sensazione del tutto misteriosa e banale: non è beatitudine, non è estasi, non è gioia, ma quella pura e semplice felicità – das Gluck, le bonheur, la felicidad – cui sono stati attribuiti tutti e tre i generi…”
Già ubriaco, George prosegue la sua ebbra maratona in un pub, ove incontra lo studente Kenny (“raggiante di rapporto”): finale nell’oceano, con scena equorea ed esplosione di vitalità (“E sto per diventare ancora più pazzo”).
“Ma anche una lunga giornata finisce”: quella del professore finisce con il giovane Kenny (“Ora sembrava indossasse una tunica greca, la clamide del giovane discepolo – il favorito, ovvio – di un qualche filosofo”) e un attimo dopo…
Un’opera amara sulla solitudine, sulla voglia di vivere, sulla disperazione per l’assenza. Da essa Elton John ha mutuato il titolo (“A single man”) per un disco che contiene la struggente ballata strumentale “Song for Guy”, tributo al giovane Guy Burchett, fattorino diciassettenne della Rocket Records (etichetta discografica di proprietà dell’artista) deceduto tragicamente in un incidente motociclistico…
Bruno Elpis
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Sogno… ergo sum
Ne “L'interpretazione dei sogni” Freud affronta il mondo onirico a tutto tondo e attribuisce alla dimensione ipnotica un’importanza fondamentale nella vita psichica dell’uomo (“Nell’ingenua opinione di chi si sveglia, il sogno, se pure non proviene da un altro mondo, ci rapisce tuttavia, mentre dormiamo, in un altro mondo”).
L’opera comincia con una premessa storico-culturale nella quale Freud passa in rassegna le teorie più o meno esplicite che si sono avvicendate nei testi, nella mitologia, nella poesia e nella scienza. A cominciare dal “sogno del faraone” interpretato dal biblico Giuseppe.
L’interpretazione del sogno diviene poi, nel corso dell’opera, sempre più una tecnica che – abbinata alle libere associazioni – rappresenta un caposaldo del metodo psicoanalitico, uno strumento ritenuto indispensabile per accedere ai contenuti inconsci della psiche.
Questo sulla base di una considerazione: durante il sonno si allenta l’attività censoria della ragione (il super-io) e l’abbassamento delle difese consente all’inconscio di manifestare liberamente le proprie pulsioni e i propri contenuti, spesso inconfessabili (“Il sogno nulla sa delle esigenze etiche”).
Nel sogno sono individuabili un contenuto manifesto – quello che si palesa come storia o trama del sogno (ad esempio: sogno di volare e compio acrobazie nel cielo) – e un contenuto latente, che costituisce il significato vero del sogno, ma che viene mascherato o camuffato nell’esteriorità del contenuto manifesto.
L’interpretazione del sogno è dunque la tecnica analitica che “smaschera” e coglie ciò che il sogno realmente significa (“All’interpretazione del sogno è lasciato il compito di ristabilire la connessione che il lavoro onirico ha distrutto”). Per pervenire all’esegesi e penetrare il significato di un sogno, occorre decifrarne gli indizi, tenendo conto che l’attività onirica opera secondo leggi ricorrenti (“Il sogno riproduce un nesso logico come simultaneità; procede in ciò come il pittore che, per il quadro della scuola di Atene o del Parnaso, raffigura riuniti tutti i filosofi o i poeti, che non sono mai stati insieme…”).
Così l’inconscio agisce per condensazione e stabilisce collegamenti tra elementi che nella veglia sarebbero scollegati tra di loro (“… un enorme lavoro di condensazione. Il sogno è scarno, misero, laconico, in confronto alla mole e alla ricchezza dei pensieri del sogno”); per spostamento attribuisce a un elemento un carattere che non gli è proprio (“Il risultato di questo spostamento è che il contenuto onirico non somiglia più al nucleo dei pensieri del sogno e che il sogno riflette soltanto una deformazione del desiderio onirico esistente nell’inconscio”); per drammatizzazione rappresenta un significato in un’azione; per simbolizzazione fornisce a una situazione inaccettabile una forma più tollerabile (“Soltanto dopo aver valutato il simbolismo nel sogno, possiamo proseguire nell’argomento dei sogni tipici…); per opposizione trasforma un contenuto nel suo contrario.
Le leggi operano sulla base di un principio essenziale: il sogno è un modo per soddisfare un desiderio più o meno lecito, più o meno inibito dalla morale (“Il sogno è l’appagamento di un desiderio”). E sulla base di una constatazione empirica: il sogno trae spunto dall’esperienza diurna (“Tutto il materiale che costituisce il contenuto del sogno deriva in qualche modo da ciò che abbiamo vissuto e viene riprodotto, ricordato nel sogno”) utilizza residui psichici, impressioni, fatti (“Degni di ricordo non sono soltanto i fatti più importanti, come si verifica di giorno, ma anche quelli più indifferenti e insignificanti”) che vengono elaborati nella sfera onirica per esprimere il desiderio sottostante.
Per scoprire, spesso, che il desiderio affonda le proprie radici in un tempo assai remoto (“Nel sogno possono comparire impressioni appartenenti alla primissima infanzia, delle quali la memoria vigile non sembra disporre”), preferibilmente nell’infanzia (“Quanto più a fondo si penetra nell’analisi dei sogni, tanto più spesso si è condotti sulla traccia di vicende infantili che nel contenuto onirico latente fungono da fonti del sogno”).
La bellezza di questo testo risiede nella sua concretezza, per quanto concreto possa essere il mondo dei sogni (“Che al mattino il sogno si dissolva, è proverbiale”)…
Ciò si traduce nell’analisi clinica e sistematica di molti sogni e nella loro classificazione in “sogni ricorrenti”. In modo da giustificare – nell’ambito della teoria del desiderio – anche i sogni più difficili: “Rimangono ora i sogni d’angoscia, come particolare sottospecie dei sogni di contenuto penoso, e sarà molto difficile per i profani concepirli come sogni di desiderio”.
Tra le gemme preziose che Freud estrae dalla miniera dell’inconscio e interpreta, vi sono sogni tipici quali: il sogno d’imbarazzo per la propria nudità, i sogni della morte di persone care, il sogno d’esame, “i sogni da stimolo dentario”, “i sogni di fuoco”, i sogni d’acqua (“sono sogni di nascita”), i sogni apparentemente assurdi e – naturalmente - il sogno di volare (“la stretta connessione dell’atto di volare con l’immagine dell’uccello”). Nell’ermeneutica dei sogni, l’infanzia è sempre lì in agguato (“Altri sogni tipici dai quali ci si lascia trasportare con piacere o si cade con senso d’angoscia… ripetono impressioni dell’infanzia… Quale zio non ha fatto volare un bambino, correndo per la stanza tenendolo sollevato sulle braccia … o non lo ha sollevato in aria facendo finta all’improvviso di togliergli il sostegno?”), sempre pronta a motivare anche un incubo (“Che cosa significa la sensazione di movimento impedito, che compare così frequentemente nel sogno e che rasenta l’angoscia? Si vuole andare e non ci si muove affatto, si vuole fare qualcosa e si incontrano continuamente ostacoli. Il treno sta per mettersi in moto e non lo si può raggiungere…”).
Die Traumdeutung è una lettura fondamentale per comprendere non soltanto molti retroscena del nostro agire, del pensare e del sentire, ma anche per capire meglio molte manifestazioni dell’arte e della letteratura. Scoprendo motivazioni e dinamiche insospettate…
Bruno Elpis
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Ipocrisia e inconsistenza di un sogno
Nel più celebre dramma di Arthur Miller, in Willy Loman, anziano commesso viaggiatore, vengono rappresentate le ipocrisie del maccartismo e gli esiti fallimentari di una vita spesa per realizzare l’ossessione del successo e l’illusoria convinzione che la felicità materiale possa surrogare ogni altra forma di felicità.
In apertura di dramma, il commesso viaggiatore (“Ha portato i prodotti di questa ditta nei posti più fuori mano”) è reduce dall’ennesimo viaggio di un lavoro itinerante divenuto insostenibile (“Vuoi vedere che ha fracassato di nuovo la macchina?”): Willy è ormai incapace di far fronte a un ritmo non più appropriato all’età e alla fragilità psicologica (“Non ci sta con la testa. Ferma al verde, passa al rosso…”) causata da tensioni familiari, stress e desideri irrealizzati (“E’ un fallito come Biff ma in un modo diverso perché non si è mai rassegnato a riconoscere la propria disfatta ed è quindi più confuso e ostinato, benché apparentemente più soddisfatto”).
Anche le speranze riposte nei due figli, Biff e Happy, sono andate deluse (“E’ questo il suo premio – voltarsi indietro a sessantatré anni e vedere i suoi figli, per cui ha dato la vita, uno – un donnaiolo vanesio…”): nessuno dei due ha raggiunto il successo economico, nessuno dei due ha coronato i sogni materialisti del padre. Entrambi, trentenni e inconcludenti, sembrano schiacciati dal peso delle aspettative genitoriali: Happy svolge un lavoro di basso profilo, mentre Biff (“… avrò fatto più di venti mestieri”) non ha realizzato le brillanti premesse di giocatore di football e oscilla tra un presente di ladruncolo (“Lui non è che una barchetta che cerca il suo porto”) e un sogno agreste (“…potrei comprarmi un bel ranch”).
La famiglia si coagula intorno a Willy in un estremo tentativo di riscatto: Biff promette che andrà a cercare un lavoro da un vecchio conoscente, Willy stesso si rivolge al suo principale per cercare di ottenere un lavoro fisso a New York, ma viene liquidato in malo modo e licenziato (“A uno che ha dedicato trentaquattro anni della sua vita a questa ditta…”). Willy subisce l’onta di elemosinare i soldi necessari per tirare avanti presso un caro amico, Charley.
Figli e padre si incontrano al termine della giornata in un ristorante e si confessano confusamente le rispettive sconfitte (“Papà! Io non valgo una cicca! E neanche tu, papà!”). I due giovani, anziché cenare con il padre, si allontano in compagnia di due donne allegre. Tra padre e figlio scoppia una lite furiosa (“Scorpione velenoso!”; “Per amor di Dio, perché non mi lasci andare? Perché non prendi quei sogni bugiardi e non li bruci prima che succeda qualcosa?”), preludio di tragedia.
Nel finale Willy si lascia travolgere dal proprio rimorso per aver tradito la fiducia di Biff (“Che successe a Boston, zio William?”) ponendolo di fronte all’evidenza dell’infedeltà coniugale e causando nel giovane una crisi irreversibile.
Chiusura tragica tra requiem, funerale nell’indifferenza dei conoscenti e sospetto che Willy si sia suicidato per permettere alla famiglia di incassare il premio assicurativo sulla vita: proprio nel giorno in cui scade l’ultima rata del mutuo (“Ho pagato l’ultima rata della casa oggi. Oggi caro. E la casa è vuota.”)…
Il dramma ha avuto grande successo di pubblico, infinite repliche e due trasposizioni cinematografiche (nel 1951 con film di Laszlo Benedek e nel 1985 con un film che ha Dustin Hoffman come protagonista).
Nell’opera vi è una notevole confusione scenica tra passato e presente, con ricordi, che tornano e contaminano lo svolgimento dell’azione, proiettati dalla mente confusa del “commesso viaggiatore”. I riferimenti al consumismo (il frigorifero da sostituire, l’acquisto di un magnetofono che promette meraviglie…) e alle miserie della vita quotidiana (il tradimento, la rata incombente del mutuo, la vita che vale meno del premio assicurativo, il funerale andato deserto come quello del grande Gatsby!) acuiscono e ingigantiscono il senso di tristezza, vuoto e sconfitta che, tenendo in ostaggio il lettore/spettatore, lo inducono a riflettere sui valori veri della vita e sulla validità di un modello sociale fondato su esteriorità e prigionia…
Bruno Elpis
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La riedizione del Tartuffo
UNA STORIA CHE E’ UN INCUBO
Henri Miller conosce Conrad Moricand a Parigi. Gli viene presentato (e rifilato) dall’amica scrittrice Anais Nin.
“Moricand non era solo un astrologo e uno studioso versato nelle filosofie ermetiche, ma un occultista”.
“Internamente era un essere tormentato, un uomo nervoso, capriccioso e ostinato”.
“Ciò che avevamo in comune erano i dati fondamentali del Capricorno.”
Dopo la frequentazione parigina, lo perde di vista: “Dallo scoppio della guerra fino al 1947 non una parola da Moricand.”
Lo ritrova per via epistolare in Svizzera: è in difficoltà e così Miller convince la moglie a ospitarlo a casa loro, in California, a Big Sur, sull’oceano, nonostante non abbia alcun debito nei confronti dello strano personaggio (“Cosa dovevo a Moricand? Nulla. E tutto. Chi era stato a mettermi in mano la Seraphita?”). Per puro altruismo (“Non si lascia andare a fondo un uomo che affoga”) gli paga il viaggio transoceanico e lo ospita a proprie spese in un modesto locale di casa sua (“Le candele dettero alla sua cella un’aria funebre che era perfettamente in carattere col suo cupo stato d’animo”). Da lì comincia l’orrore in un crescendo inarrestabile.
All’inizio è soltanto disagio (“Era come invitare la malinconia a venirsi ad appollaiare sulla vostra spalla”), poi si fa strada una netta percezione di disgusto (“In quel momento vidi la sanguisuga di cui Anais aveva cercato di liberarsi”), fino alla consapevolezza (“A un tratto non provai più compassione per lui, né per qualsiasi altra delle sue disavventure”) che viene corroborata dagli amici che frequentano lo scrittore: il generoso e volgare produttore cinematografico Leon, che è sul punto di acquistare i disegni sconci che tradiscono la perversione di Moricand, la mistica Jean Wharton, i servizievoli Lilik e Bertrand che aiutano Miller nel difficile compito di sbarazzarsi dell’ospite. Che progressivamente rivela tutte i suoi lati peggiori: fisici (“Nel frattempo il prurito continuava a tormentarlo”), psicologici e morali (questi ultimi emergono nel corso di un agghiacciante monologo: “Non era più Moricand, quello che mi stava davanti, ma Satana in persona”).
Sbarazzarsi di lui non è impresa semplice, ma alla fine “il senso di sollievo che provai al mio arrivo a casa è inesprimibile”.
IL PARADISO PERDUTO…
… è Big Sur, che l’ospite disprezza.
“Ma come, questo è un paradiso.” “Un paradiso perduto! Ribattei io.”
In senso figurato è un impulso esistenziale: “L’unica differenza tra l’uomo del tempo di Adamo e l’uomo di oggi è che il primo è nato per il paradiso e l’altro se lo deve creare”.
“Il Paradiso perduto è dappertutto e tutte le strade vi conducono.”
“Al mondo non c’è niente che non va. Quello che non va è il modo con cui noi lo guardiamo.”
HENRY MILLER…
… è l’autore degli scandalosi “Tropici”. Viene così definito da Pietro Citati in “Ritratto di Henry Miller”: “Sfacciato, rissoso, impulsivo, sanguigno, cinico e sentimentale, mistico ed erotomane."
“Tra il mondo dell’esperienza e la foga con cui Miller lo possiede, si estende un grande spazio vuoto.”
“Gli scrittori come Miller riescono difficilmente a contenere le proprie forze dentro un libro.”
LO STILE…
… è un ibrido tra note autobiografiche e personaggi reali, e stravolge i canoni del romanzo tradizionale, perché combina riflessioni filosofiche (nell’opera: sulla guerra, sulla carità e l’elemosina), annotazioni critiche e culturali, surrealismo.
Un romanzo interessante, in molti punti eccessivo, incalzante, a tratti persecutorio nei confronti del lettore…
Bruno Elpis
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Il mio criterio estetico
Commentare un romanzo implica – a livello più o meno consapevole – l’assunzione di un criterio estetico.
Perché diciamo che un’opera (letteraria nel nostro caso) ci piace?
A questa domanda possiamo rispondere in modo emotivo e sentimentale: un testo ci cattura quando a esso aderiamo intimamente, quando ci sentiamo coinvolti, quando ci identifichiamo. Un testo crea in noi il senso dell’appartenenza quando in esso vediamo riflesso il nostro gusto contenutistico e stilistico e questa coincidenza ci appaga in un processo di soddisfazione per molti versi assimilabile al piacere che sperimentiamo nel soddisfacimento di qualsiasi altro bisogno vitale.
Sul piano razionale, possiamo raggiungere un livello di consapevolezza più elevato se in un’opera riscontriamo il nostro senso estetico.
Questa convinzione ragionata la possiamo conquistare anche grazie al testo di un filosofo: in questo caso un pensatore tanto difficile da essere stato spesso travisato.
La Nascita della Tragedia dallo Spirito della Musica è la prima opera matura di Nietzsche.
Nietzsche individua due principi antitetici, che nella tragedia attica si fondono in modo armonico.
Il primo è l’Apollineo: il sogno, la forma delle arti plastiche, il canone, la serenità imperturbabile delle divinità olimpiche.
Il secondo è il Dionisiaco: l'ebbrezza, il senso della musica, la vitalità estrema, crudele e sensuale della frenesia orgiastica.
Quando questi due poli si fondono, allora nasce l’opera d’arte e diviene possibile “gettare lo sguardo nell'abisso”, penetrare anche l’orrore e lo sgomento esistenziale senza esserne risucchiati, proprio come accade nella tragedia attica che mette in scena i mali peggiori suscitando nello spettatore il rapimento artistico che culmina nella catarsi.
Certamente, l’opera del filosofo è complessa e deve essere inserita nelle acrobazie evolutive del pensiero di Nietzsche. Ma da essa si possono anche trarre alcuni principi semplici, perfino elementari. Così, adattando l’antinomia tra apollineo e dionisiaco a nostro uso e consumo, pensiamo che il “romanzo bello” sia quello che coniuga un contenuto dionisiaco – emozionalmente coinvolgente - a una forma apollinea, che non abbia parole dissonanti, che non sia approssimativa o presenti espressioni inadeguate al contenuto che devono esprimere. Per questo anche la singola parola diviene importante e può macchiarsi di una colpa grave: rompere l’incanto o l’atmosfera…
Come dire che nell’arte vera ritroviamo tumulti e disarmonie della natura umana, che indossano le forme della poesia e della musica. E convergono nell’estetica che sentiamo come parte integrante del nostro essere anche talvolta infedeli e contradditori...
“I Greci, che esprimono e al tempo stesso nascondono la dottrina segreta della loro visione del mondo nei loro dèi, hanno stabilito come duplice fonte della loro arte due divinità: Apollo e.Dioniso. Questi nomi rappresentano nel dominio dell'arte dei contrari stilistici, che incedono l'uno accanto all'altro quasi sempre in lotta tra loro, e appaiono fusi una volta soltanto, quando culmina la «volontà» ellenica, nell'opera d'arte della tragedia attica. In due stati, difatti, l'uomo raggiunge il sentimento estatico dell'esistenza, nel sogno e nell'ebbrezza.”
Bruno Elpis
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Il fascino discreto della fantascienza vintage
Premetto che non sono un appassionato di fantascienza.
Anzi, i romanzi Sci-Fi, con tutti loro tecnicismi a volte spericolati e roboanti, generalmente non incontrano il mio gusto.
Ma un’eccezione la devo fare: Jules Verne, il Nautilus, il capitano Nemo… Cercherò di spiegare perché per loro devo fare un’importante eccezione.
LA VICENDA
Un mostro viene avvistato in mare aperto: è “una cosa enorme, di forma affusolata, talvolta fosforescente, più grande e più veloce di qualsiasi balena”.
Il potere costituito e l’ansia di dominio dell’uomo civilizzato entrano subito in azione. Ingaggiando un uomo di scienza: “Quell’anno io, professor Pierre Aronnax, mi trovavo negli Stati Uniti allo scopo di raccogliere materiale per il Museo di Storia Naturale di Parigi”.
Viene allestita una spedizione per la caccia al mostro: “Se volete unirvi alla spedizione dell’Abraham Lincoln, il governo degli Stati uniti avrà piacere che la Francia sia da voi rappresentata in questa impresa”.
Dell’equipaggio fanno parte “Conseil, il mio fedele domestico” e il fiociniere canadese Ned Land.
La Lincoln incrocia il mostro nelle acque del mar del Giappone ed è subito scontro: “E quando scoprii che il suo dorso era fatto di piastre di metallo fissate da bulloni, capii che l’animale misterioso, il mostro, era stato costruito dall’uomo”. Il professore, il suo domestico e il fiociniere vengono catturati e fatti prigionieri a bordo del Nautilus, un sottomarino che incarna le fantasie tecnologiche dell’epoca e che oggi ci appaiono straordinarie intuizioni. Il sorprendente batiscafo è comandato da…
… IL CAPITANO NEMO, EROE ROMANTICO
Nemo così si materializza di fronte ai suoi prigionieri: “La testa dritta sulle spalle e lo sguardo freddo dei suoi occhi neri rivelavano una grande sicurezza di sé.”
Indossa “abiti di un tessuto che non avevo mai visto e che aderiva al corpo”.
Ha una sua filosofia di vita (“In superficie gli uomini possono combattersi e distruggersi a vicenda, ma negli abissi il potere degli uomini non esiste più”) che ben presto Aronnax comprende: “Capisco la vita del capitano Nemo. Si è fatto un mondo a parte, un mondo unico, solo per sé”.
Il capitano Nemo è un eroe romantico (“e io sarò sempre, finché vivrò, un difensore degli oppressi”), una specie di Robin Hood delle profondità marine (“Io raccolgo quello che gli uomini hanno perduto”). Suona l’organo (“Era il capitano Nemo che suonava con molto sentimento, ma solo di notte e al buio, mentre il sottomarino dormiva, cullato dall’oceano”) e ha alle spalle una storia di sofferenza (“Io rappresento la giustizia e là c’è l’oppressore! A causa sua ho perso tutto ciò che amavo: patria, moglie, figli, padre e madre”). Coniuga senso della giustizia e spirito d’avventura (conquista il Polo Sud, il 21 marzo 1868), ma su un punto è irremovibile: “Chi entra nel Nautilus non deve più lasciarlo”.
UN VIAGGIO INCREDIBILE
Procede dal Giappone a Ceylon, continua attraverso un immaginario tunnel sotto quello che diverrà il canale di Suez, passa per il Mediterraneo, raggiunge le meraviglie sommerse di Atlantide, conquista l’Antartide, doppia capo Horn, sfida le gigantesche piovre del mar dei Sargassi per finire nel vortice del terribile gorgo del Maelström, già descritto da Poe…
Come non fare un’eccezione per un’avventura profonda come i fondali oceanici? Come non consigliare questo sogno ad occhi aperti come riflessione di fronte agli effetti scenografici rutilanti e pretenziosi di certa fantascienza contemporanea?
Bruno Elpis
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Il simbolismo di Freud
Il simbolismo di Freud
In quest’opera di Freud vengono analizzate patologie e perversioni (Primo saggio: le aberrazioni sessuali), viene elaborata una rivoluzionaria teoria sulla sessualità infantile (Secondo saggio: sessualità infantile), viene proposta una tesi di psicologia evolutiva (Terzo saggio: le trasformazioni della pubertà) sulla base della teoria psicanalitica che individua nell’inconscio un serbatoio vitale di pulsioni e nella “libido” la forza inesauribile che alimenta la vita psichica e fonda l’agire umano (la libido è rappresentata come un torrente in piena: “Altre malattie di questo genere si possono manifestare più tardi, quando la libido non riesce ad ottenere soddisfazione attraverso i canali normali. In entrambi i casi la libido si comporta come un torrente il cui letto principale sia rimasto ostruito. Occupa allora i canali collaterali che possano essere rimasti vuoti”).
Al di là delle critiche che oggi sorgono spontanee leggendo un testo che – non dimentichiamolo – è del 1905, critiche che ovviamente risentono della successiva evoluzione della scienza, del costume e delle teorie sociali, di Freud – e in particolare dei “Tre saggi” – mi colpiscono sia l’originale matrice culturale della scrittura, sia la portata rivoluzionaria e dirompente delle teorie.
Nel primo saggio già si intravedono alcuni temi sociali ed etnici che poi saranno sviluppati in opere successive (“Totem e tabù”, “Il disagio della civiltà”) e che costituiscono la prova della capacità sistematica e delle doti culturali del padre della psicanalisi.
Così avviene nell’analisi del feticismo (“Questi sostituti somigliano veramente ai feticci nei quali i selvaggi credono che i loro dei siano materializzati”), che non trascura riferimenti alla letteratura (“Portami uno scialle dal suo seno una giarrettiera che abbi stretto il suo ginocchio” Goethe, Faust) e alla poesia (“La scelta del feticcio dipende dall’influenza di qualche impressione sessuale, ricevuta di solito nella prima infanzia… on revient toujours à ses premiers amours”).
Parimenti, nella teoria sul sadismo: “Alcuni autori sostengono che questo elemento aggressivo dell’istinto sessuale è in realtà un residuo di desideri cannibaleschi; esso deriva dall’apparato disposto per ottenere il dominio, il quale ha appunto a che fare con l’appagamento dell’altro dei grandi bisogni istintuali, ontogeneticamente più antico, l’assunzione del cibo”.
Nel secondo saggio, Freud distrugge la concezione vittoriana e puritana che postulava nel bambino la totale assenza di una sessualità infantile, con una serie di affermazioni destinate a suscitare scandalo e scalpore (ad esempio, Freud sostiene che “l’enuresi… corrisponde all’emissione notturna”) e nella celebre teorizzazione delle tre fasi dello vita psico-sessuale:
- “la prima è quella orale o, se vogliamo, l’organizzazione sessuale pregenitale cannibalesca”
- “una seconda fase pregenitale è quella dell’organizzazione sadico-anale”
- la terza è quella genitale
nonché con l’individuazione di attività autoerotiche destinate a rivestire un’importanza fondamentale nella vita umana: “l’esistenza di queste sensazioni piacevoli causate dall’eccitazione meccanica del corpo è confermata dal fatto che i bambini amano tanto i giochi di movimento passivo, di cui non si stancano mai come il dondolio e l’essere lanciati in aria… Le vibrazioni della carrozza e più tardi quelle del treno esercitano un tale fascino sui fanciulli che ogni ragazzo prima o poi vuole diventare ferroviere o cocchiere”.
Anche in questo secondo componimento mi affascinano i richiami alla classicità, potentissimi nel loro simbolismo. Su tutti, l’enigma della Sfinge: “La minaccia alle basi dell’esistenza del bambino portata dalla scoperta o dal sospetto dell’arrivo di un altro bambino e la pura, di conseguenza, di non essere più curato e amato, lo rendono pensieroso e perspicace. E questa storia dell’origine della pulsione è in linea col fatto che il primo problema che essa affronta non riguarda la distinzione tra i sessi ma l’enigma della provenienza dei bambini. (Questo, in forma distorta, ma tuttavia facilmente rettificabile, è lo stesso enigma proposto dalla Sfinge Tebana).”
Gli spunti che fornisce Freud sono tantissimi, non soltanto di stampo psicanalitico. Così come moltissime sono le discussioni che i suoi testi suscitano e le chiavi di lettura che si ricavano…
Bruno Elpis
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Il porto dell'ossessione
Eddie Carbone è un portuale newyorchese di origini italiane. Abita a Brooklyn con la moglie Beatrice e la nipote diciottenne Catherine, figlia della sorella della moglie. Per Catherine l’uomo nutre un amore ossessivo, che si manifesterà in tutta la sua morbosità nell’occasione in cui a casa di Eddie verranno ospitati due cugini immigrati clandestini: Marco, padre di tre figli, e il giovane Rodolfo. Quest’ultimo, biondo (“Com’è che lui è così scuro e tu così chiaro, Rodolfo?” “Nu usaccio! Dicono che mille anni fa i danesi sono venuti giù in Secelia!”), allegro ed estroverso, simpatizza subito con Catherine, con la quale allaccia una relazione con relativa promessa di matrimonio.
Eddie le prova tutte per contrastare la relazione: insinua nella nipote il dubbio che Rodolfo stia cercando di farsi sposare per ottenere la cittadinanza americana (“Lo sai che se ti sposa ha diritto a diventare cittadino americano”; “Dacché c’è l’America, dacché c’è l’Ufficio Immigrazione, non fanno altro! Pigliano una ragazza che non sa niente e la…”), accusa il giovane di mancare di rispetto alla ragazza (“Al tuo paese non ti porteresti fuori una ragazza giorno e notte senza chiedere il permesso”), ipotizza addirittura che Rodolfo “non sia regolare” perché canta, diverte gli altri, ha interessi vanesi come l’abbigliamento e i dischi…
Gelosie e provocazioni si susseguono (“Rodolfo e come impietrito – sono due animali che si sono azzannati e lasciati senza una decisione finale, e ognuno aspetta quel che farà l’altro”) fino a che Eddie giungerà a denunciare i cugini all'ufficio immigrazione e a farli arrestare.
L’avvocato Alfieri funge da narratore: “Lo ricordo adesso, entra nel mio ufficio, gli occhi come due gallerie nere – lì per lì pensai che avesse assassinato qualcuno, ma poi m’accorsi che era soltanto passione, una passione che era entrata in lui come una straniera”.
Finale tragico nel secondo dei due atti di cui è composto il dramma, che fu reso nel 1962 da Sidney Lumet con un film girato in studio a Parigi e con esterni a Brooklyn, interpretato da Raf Vallone e Jean Sorel (Rodolfo), nel quale venne variato il finale e che fece scandalo per una scena.
Il dramma della gelosia viene reso con potenza scenica che utilizza il cliché dell’italiano passionale e impulsivo; anche molte battute adottano una lingua con le inflessioni dialettali degli immigrati. Particolare lo sfondo dell’ambiente portuale e della gente che lavora ai Docks.
Bruno Elpis
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Ricordi, la nascita di un amore
Avevo sedici anni, tanti sogni e ideali per la testa, sentimenti vivi che si agitavano nel cuore. Frequentavo la prima liceo classico. Durante le vacanze di Natale ci fu assegnata la lettura dell’apologia di Socrate, scritta da Platone.
Lessi l’opera in un pomeriggio. Nevicava. In un’atmosfera liliale ebbi il mio primo contatto diretto con la filosofia, quello con la “storia della filosofia” era avvenuto nei tre mesi antecedenti.
Fui folgorato dalla figura del filosofo settantenne (“E’ la prima volta questa, vecchio come sono di compiuti settanta anni, che salgo i gradini di un tribunale”), che non lasciò alcuno scritto e che fece della consapevolezza dell’ignoranza una straordinaria forma di sapienza (“la Pizia rispose che più sapiente di me non c’era nessuno”), dopo aver cercato invano la saggezza tra politici, poeti e artisti.
Mi fece tenerezza sentirlo parlare per bocca dell’allievo Platone, fui incantato dalla forza con la quale Socrate articolò la sua difesa nei confronti dei tre rozzi accusatori (Meleto, Anito e Licone), percepii il senso dell’ingiustizia (che si sarebbe ripresentato negli anni a venire di fronte a ogni vittima dell’ignoranza e dell’intolleranza) nel sentirlo imputato di corruzione della gioventù e di spregio della religione ufficiale (“Socrate è reo, e si dà da fare in cose che non gli spettano: investigando quel che c’è sottoterra e quello che c’è in cielo; tentando di far apparire migliore la ragione peggiore; e questo medesimo insegnando ad altri”). Ne ammirai la fierezza (“Ho anch’io famiglia e figlioli… eppure io nessuno ve ne ho condotto qui per muovere la commiserazione vostra ad assolvermi”) anche nella scelta della pena (rifiutò l’esilio, preferì la morte), fui assalito dalla rabbia per la condanna ingiusta e risicata (“io non immaginavo che ci sarebbe stata una differenza così piccola”) che gli fu inflitta. Fui rapito dalla conclusione dell’apologia: “Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti, fuori che a Dio”.
Oggi ho riletto quest’opera, perché i primi amori ritornano, a volte prepotentemente, cavalcando le onde della nostalgia che monta sotto il vento sferzante delle idee. Anche oggi nevica, come allora. Ed è la prima neve dell’inverno.
Bruno Elpis
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Stessa strada, stessa porta
“Stessa strada, stessa porta” è un verso di “Fiori rosa, fiori di pesco”, canzone della premiata ditta Mogol Battisti.
“Stessa strada, stessa porta” ben si addice a “Estasi culinarie”, romanzo che l’autrice de “L’eleganza del riccio” ambienta nel medesimo palazzo di Rue de Grenelle che custodisce le gesta della portinaia Renée.
Con un’avvertenza: “Estasi culinarie” è l’antecedente e quindi “stessa strada, stessa porta” si riferisce più al riccio che a “Une gourmandise”.
In questo primo capitolo della saga siamo al quarto piano del palazzo signorile e qui troviamo il sessantottenne Monsieur Arthens, il più grande critico gastronomico del mondo, che è… in punto di morte. E, come dice un altro detto (questa volta non mutuato da una canzone di Battisti), ognuno in punto di morte rivede la propria vita. Ovvio dunque per il moribondo chef veder scorrere i fotogrammi delle delizie, dei manicaretti e delle altezzose tappe di una carriera che ha raggiunto il culmine della fama, dell’arroganza e dell’aridità umana.
Assenza di doti umane ed estetica del palato si fondono in una retrospettiva che ha un unico fine per il moribondo: quello di individuare disperatamente l’unico sapore che il buongustaio vorrebbe assaggiare di nuovo prima di morire ("Ormai niente ha più importanza. Eccetto questo sapore che inseguo nei recessi della memoria e che, furente per un tradimento che io nemmeno ricordo, mi resiste e ostinatamente mi sfugge"). Del resto chi non ha mai sperimentato qualcosa di analogo? A me, anche in questi giorni, per esempio capita di avere nella mente uno sceneggiato televisivo, che guardavo da bambino e al quale associo alcuni ricordi visivi e sensazioni vivide, ma non riesco a identificarlo e a ricordarne il titolo, neppure digitando parole chiave nella stringa di google…
La ricerca del sapore perduto nel tempo (o di qualsiasi altra sensazione nell’esperienza personale) è la riscoperta di una sfumatura essenziale dell'infanzia, sepolta sotto le sovrastrutture di una vita trascorsa tra raffinatezze inutili, e per il lettore ha il sapore di una beffa: "E se, in fin dei conti, a sfidarmi beffardamente fosse qualcosa di insipido?"
Un romanzo lezioso, da leggere quando si è già letto di tutto, per apprezzare un particolare, un dettaglio, una raffinatezza culturale più che gastronomica.
Bruno Elpis
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"Di viole e liquirizia" di Orengo.
L’Italia su due ruote
“Tutti primi sul traguardo del mio cuore” è una retrospettiva romanzata del Giro d’Italia 2013, scritta da Fabio Genovesi che – nello staff del Corriere – parte per un’avventura a tappe in compagnia dell’amico-autista Enzo.
L’autore ricorda il suo amore giovanile per la bicicletta: si era ripromesso di coronare un sogno, quello appunto di partecipare, un giorno, al Giro d’Italia, da protagonista: “All’epoca non l’avrei mai detto che al Giro poteva servire uno scrittore”! La scrittura diventa dunque il modo attivo e personale di vivere un’avventura che appassiona l’Italia intera. Così, con tanta ironia e con una punta di nostalgia, Genovesi ci conduce attraverso località, tradizioni, manie e sogni che aleggiano sulla nostra penisola, scandendo l’itinerario con le tappe del giro ciclistico e proponendo una divertente cronaca della gara (“Maglia rosa, maglia azzurra del miglior scalatore, rossa per la classifica a punti e bianca per il miglior giovane saranno protette dalle Ombrelline…”).
Oltre all’escursione geografica, il romanzo è anche l’occasione per narrare aneddoti e curiosità sui campioni del ciclismo: del passato e di oggi. A partire da colui che vincerà il Giro 2013: Nibali, “il giovane siciliano soprannominato lo Squalo dello Stretto, che sente l’odore del sangue ed entra in frenesia. Il sangue è quello di Wiggins…”
In questa rassegna naturalmente non possono mancare Gino Bartali (corre l’anno 1948: “Si racconta che De Gasperi e Andreotti telefonarono a Gino, che arrancava al Tour, chiedendogli una grande impresa perché gli italiani si esaltassero per la bicicletta e scordassero i bollori rivoluzionari”) e Fausto Coppi, Darwin Atapuma detto “El Puma” (“timidissimo… doveva fare il campesino…”), il Girardengo degli anni venti, il velocista colombiano Edwin Avila, i tre rivali Zandegù, Merchx e Gimondi. E naturalmente non può mancare il Pirata: “Da ragazzino ero innamorato di Pantani, come tutti. E quello che esaltava del Pirata non erano i suoi primi posti, erano le imprese, era il fatto che lui ci provava, sempre”.
Da non sportivo quale sono, durante la lettura mi sono sorpreso ad apprezzare il retrogusto di un romanzo che racconta lo sport non soltanto come tale, nelle sue gioie e nei suoi dolori, ma anche come disciplina di vita e come allegoria. E’ il caso del “paradosso della solitudine del ciclista”: “Quando le tappe sono adatte alla volata, i tuoi compagni non hanno il passo per starti accanto e lanciarti nello sprint, quando invece ci sono le montagne, loro se ne vanno lassù a tutta velocità mentre tu annaspi da solo in fondo al gruppo, sperando di sopravvivere in qualche modo”. Non è forse, questa, una metafora della solitudine umana?
Bruno Elpis
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Sally Bowles, Liza Minnelli
Christopher, scrittore in cerca di fortuna, si reca a Berlino e lì insegna l’inglese. Soggiornando nella capitale tedesca dall’autunno del 1930 all’inverno 1932-33, Chris conosce la città e intreccia relazioni respirando le atmosfere minacciose che preludono alla tragedia europea che sta per scoppiare (“Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto; non penso, accumulo passivamente impressioni”).
Chris alloggia nella pensione di Frl. Schroeder e i suoi primi contatti sono con i coinquilini: la prostituta Frl. Kost, la soubrette Frl. Mayr, Bobby il barman della Troika (Diario berlinese – autunno 1930). Intanto impartisce le sue prime lezioni (“Anche fingere d’insegnare qualcosa a Frl. Hippi è uno spreco di tempo”) e frequenta i locali di Berlino con l’amico di sempre, Fritz Wendel.
Ben presto irrompe sulla scena Sally Bowles, attrice e cantante di cabaret (“Cantava male, senza espressione, con le braccia penzoloni, eppure il suo numero faceva un certo effetto per via del suo aspetto sconcertante e della sua aria d’infischiarsi di quello che il pubblico pensava di lei”) in cerca di successo, una ragazza dalla personalità prepotente e volubile. Presente in un solo capitolo e in un richiamo successivo, Sally domina il romanzo in modo centrale ed energico. Sempre sopra le righe, enfatizza le sue espressioni utilizzando avverbi a iosa (“Muoio letteralmente di sete”), esagerata di natura (“Sei stato un angelo a venire! Mi sentivo spaventosamente sola”), vorrebbe scandalizzare (“Anche se andassi a letto con tutti gli uomini di Berlino…” “Non credo che una donna che non abbia avuto molti love-affairs possa diventare una grande attrice”) con i suoi discorsi e uno stile di vita disinvolto (“Sono una di quelle che portano via i mariti alle mogli, ma non sono mai riuscita a trattenerli a lungo”), è bugiarda (“Sally snocciolò alcune bugie davvero enormi”), insieme e senza Chris trascorre le sue notti brave (“Chris, tu le capisci meravigliosamente, le donne: più di tutti gli uomini che ho conosciuto”), con Chris sogna (“Chissà cosa direbbero se sapessero che due cenciosi come noi diventeranno il più grande romanziere e la più grande attrice del mondo”) e ride, lo domina (“Tu, per esempio, sei spaventosamente poetico, non te ne intendi un corno di affari e tutti credono di poterti mettere nel sacco”), con lui frequenta il ricco Clive (“Clive ci aveva completamente corrotti”) e a lui si appoggia in un’esperienza dolorosa che camuffa sotto la consueta finta superficialità (“Oggi una ragazza non può permettersi di far aspettare un uomo. Se rifiuta un’offerta, può essere facilmente soppiantata. Le donne sono in tale soprannumero…”): così come è piombata nella vita di Chris, Sally se ne andrà via e sparirà nel nulla.
Negli altri capitoli vengono narrate una vacanza che Chris trascorre con il borderline Peter e Otto (“Sull’isola di Ruegen”), il successivo soggiorno presso la famiglia di quest’ultimo (“I Nowak”) per fronteggiare un periodo di ristrettezze economiche, il ritorno alla pensione di Frl. Schroeder, la frequentazione di una ricca famiglia di imprenditori ebrei (“I Landauer”), soprattutto nelle persone di Natalia (in questo capitolo, in flash back, si racconta dell’incontro tra Natalia e Sally: “Sally con la sua eterna sciocca pornografia e Natalia col suo arcigno puritanesimo”) e del cerebrale Bernhard.
Sullo sfondo intanto si intensificano eventi (“la sparatoria della Bulowplatz”) e violenze (pestaggi agli ebrei, retate, “gli avventori dei negozi ebrei venivano pubblicamente svergognati stampigliandoli con un timbro sulla fronte e le guance”) che testimoniano il dilagare del nazismo, mentre (“Diario berlinese – Inverno 1932-33”) “Berlino è uno scheletro che rabbrividisce di freddo; è il mio scheletro indolenzito”.
Il romanzo offre uno spaccato sulla Germania dei primi anni trenta, su “quella che Brecht avrebbe chiamato la resistibile ascesa del nazismo”.
Da “Addio a Berlino” venne tratto “Cabaret”, il film musicale di Bob Fosse che nel 1973 vinse una pioggia di premi Oscar. Leggendo il romanzo, si apprezza ancor di più la bravura di Liza Minnelli, che ha visivamente reso con assoluta fedeltà il personaggio irresistibile di Sally Bowles.
La lettura dell’opera è impegnativa, il film è assolutamente da (ri)vedere.
Bruno Elpis
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Il disagio della lettura
Ho già avuto modo di dire, riprendendo le parole del saggio critico (che ho commentato in precedenza e dal quale ancora una volta attingo) su Pier Vittori Tondelli, che lo scrittore di Correggio è stato variamente definito (“il Bukowski emiliano”, “il fenomeno Tondelli”; l’alfiere della “letteratura generazionale”) e ha impressionato per la “multiforme e polifonica … energia linguistica, espressiva, emotiva”. Quest’ultima qualificazione stilistica è tanto più vera se si confronta lo stile narrativo impulsivo e concitato degli scandalosi (furono messi all’indice per le bestemmie e la brutalità di alcune scene) “Altri libertini” con l’esposizione intimistica e tormentata di “Camere separate”.
“Altri libertini” è una raccolta di sei racconti su disagi collettivi e inquietudini giovanili degli anni settanta. Nel mio percorso di lettura e commento delle opere di Pier Vittorio Tondelli, fatico a parlare di quest’opera, che mi ha fatto “stare male” (espressione banale, ma efficace) durante i giorni della lettura. Ancor oggi, se ci ripenso, in me dilaga l’inquietudine nel ripercorrere gli stimoli mentali ed emotivi di racconti che trasudano malessere e rabbia nelle convulsioni di un’epoca – gli anni settanta - di disagio culturale, di sussulti che si sono propagati dal profondo e di estremismi viscerali. Un’epoca presente nei miei ricordi, un’epoca sulla quale lo stesso Tondelli – da intellettuale qual era - ebbe a dire: “Vorrei commemorare qui gli anni settanta, anni molto cari e molto amati per quello che hanno effettivamente rappresentato per un ragazzo che li ha attraversati dai quindici ai venti anni… essere giovani in quel decennio significò una cosa importantissima: essere presi in considerazione, avere la consapevolezza che il destino della società si giocava (ed era giocato) sulle proprie spalle. I ragazzi erano «la piazza»”.
In realtà la lettura delle vicende degli “Altri libertini” mi ha impressionato. Per il nichilismo che la pervade. Per l’uso di un linguaggio spesso violento, per la descrizione di immagini che prostrano. Ma soprattutto perché trovo incredibile che lo stesso artista che ha saputo profondere il lirismo di “Camere separate” abbia potuto scrivere pagine che sono un pugno nello stomaco di chi legge. Perché comprendo che forse solo chi sa toccare il fondo delle cose può raggiungere anche le vette più elevate.
Altri libertini fu pubblicato nel 1980 da Feltrinelli ed ebbe, soprattutto presso il pubblico giovanile, uno straordinario successo che indusse l'editore a predisporne tre edizioni. Nel frattempo la procura ordinò il sequestro dell’opera per oscenità e oltraggio della pubblica morale.
Oggi il testo è da molti considerato innovativo per linguaggio e stile: un mosaico tra slang giovanile, forme dialettali, abbondanti riferimenti alla cultura pop della musica, del cinema e del fumetto, ed è ritenuto importante per gli influssi che esercitò sulla letteratura dei decenni successivi.
Credo di aver fornito alcuni elementi perché ciascuno valuti – in ragione della propria sensibilità, interesse letterario e curiosità culturale - se leggere un’opera tanto controversa…
Bruno Elpis
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- sì
- no
La mia lettera
Anch’io voglio scrivere la mia personale lettera ad un bambino mai nato. Lo faccio in acronimo, virgolettando le citazioni tratte dal capolavoro (parafrasando una sua opera) di una Penelope che non ha mai smesso di combattere la sua guerra.
“La vita è una fatica tale, bambino.”
“E’ una guerra che si ripete ogni giorno”
Te lo dico con sicurezza, “i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi”
Ti confermo che quei momenti “si pagano un prezzo crudele”.
E “molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché?”
Ragiona
Anche su questo: “Il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini”
A loro immagine e somiglianza, “per gli uomini”, si dice “bambino per
Dire “bambino e bambina… omicidio per indicar l’assassinio di
Un uomo e di una donna”
Non credere sia facile vivere in questo mondo,
Bambino mai nato, bambina mai nata
Anche se “Essere donna è così affascinante” e essere
“Mamma non è un mestiere, non è nemmeno un dovere”,
Bambino, bambina, “è solo un diritto fra tanti diritti”. Ma
“Il niente è da preferirsi al soffrire”?
No, io non lo credo,
Oppure “perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti”
Mi dico “che soffrire sia da preferirsi al niente”.
“Amore è una stagione”
Inutile
Negarlo,
Anche se penso che “niente è peggiore del niente”. Così
Ti dico “il brutto è dover dire di non esserci stato”.
O forse sbaglio.
A distanza di quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione (1975), questo libro ti rimane dentro, con la sua autrice, icona di una Penelope che grazie alle sue opere è ancora in guerra, non ci ha lasciato, anche là dove adesso si trova, forse nel “ niente” sul quale si è così drammaticamente interrogata.
Bruno Elpis
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La poetica della vitalità dei personaggi
“Chiara di Assisi. Elogio della disobbedienza” è l’ultimo romanzo di Dacia Maraini. Al di là della curiosità che suscita l’opera con la quale la grande scrittrice affronta - in modo originale e autorevole al tempo stesso - la figura carismatica di una santa che è nel cuore della gente, il romanzo si sviluppa da una premessa che ha catturato il mio interesse, in quanto condensa la poetica di una delle figure di primo piano della letteratura contemporanea italiana.
L’occasione – immaginaria? Reale? Reale perché immaginaria? - di scrivere un’opera su Chiara d’Assisi è infatti rappresentata da una mail che Dacia riceve: “Cara scrittrice, sono una studentessa siciliana, di un piccolissimo paese alle falde dell’Etna… Mi chiamo Chiara… sono nata proprio il giorno in cui si festeggia la santa, l’11 agosto…”
La mail colpisce la scrittrice, che – con la generosità che contraddistingue “i grandi” – risponde. La risposta è una gradita sorpresa per la mittente:
“Sono talmente contenta della sua risposta che mi sono messa a ballare da sola. Pensavo che mi avrebbe ignorata.”
Inizialmente Dacia è guardinga e ha un atteggiamento fondato di sospetto.
“Cosa voglio da lei?”
La giovane siciliana ha le idee molto chiare (secondo il detto maschilista nomen omen!) ed è proprio lei che sfodera un sunto della poetica di Dacia Maraini, che a me piace definire “la poetica della vitalità dei personaggi”:
“Ho letto in una sua intervista qualcosa che mi ha colpita: lei dice che i personaggi vengono a trovarla. Bussano alla sua porta, entrano, si seggono e raccontano la propria storia … quando un personaggio… mi chiede anche un letto per dormire… capisco che è venuto il momento di cominciare un nuovo romanzo.”
Un’evoluzione del pirandelliano “personaggio in cerca d’autore” che, rifiutato dall’autore e desideroso di mettere in scena il suo dramma, si rivolge al Capocomico? Certo è che alla base vi è un atto di altruismo: lasciarsi conquistare da una persona o da un’idea, talmente viva, talmente meritevole di essere oggettivata, che l’autore mette il proprio talento, i propri giorni, la propria personalità al servizio della storia. Sino a immedesimarsi e artisticamente confondersi, divenendo uno con la creatura-creazione.
Nella sequenza delle mail, la “Chiara siciliana” esprime meglio i suoi intenti: chiede alla scrittrice di documentarsi e di comporre un’opera che l’aiuti “ad approfondire il senso di questo nome che mi sembra tanto pesante da comunicarmi un senso di responsabilità storica.”
Oltretutto, la giovane si sente accomunata alla santa della quale porta il nome da molte circostanze: l’anoressia (“Nel rifiuto del cibo di molte donne e ragazze c’è una richiesta di spiritualità”), il rapporto difficile con la corporeità (“Vorrei imparare a digiunare ma questo succederà solo se arriverò a posseder un corpo felice”), la verginità (“Chiara era vergine. Io sono vergine… per inappetenza sessuale e forse per pura noia”), l’identificazione spirituale e culturale (“Senza Chiara non ci sarebbe l’altra Italia, quella della passione gentile e della povertà scelta come libertà del cuore”).
Dopo un “tira e molla” tra diffidenza e curiosità, la scrittrice si lascia progressivamente coinvolgere, sino ad ammettere: “Inutile dire che sono stata contagiata. Ora sono immersa nella lettura e mi sembra di scivolare piano piano dentro un’epoca lontanissima eppure forse più vicina di quanto pensiamo”.
La studentessa se ne accorge e gode del suo successo: “Ecco, lei è già entrata nella storia. Ha già afferrato la piccola magrissima mano di monna Chiara, figlia di Favarone di Offreduccio e di Ortolana Fiumi.” Ottenuto l’obiettivo, la ragazza sparisce: “Da settimane non ricevo più lettere da Chiara Mandalà.” Salvo poi rientrare sorprendentemente in scena con un “coup de théatre”, a discutere dell’opera di Dacia Maraini che in Chiara ha interpretato… ma questa è un’altra storia, degna di formare oggetto di specifico commento…
Bruno Elpis
Nella home page del sito www.brunoelpis.it trovate l’intervista esclusiva che, grazie all’amico Angelo Fàvaro, ho realizzato con Dacia Maraini. In essa la scrittrice conferma che lo spunto fornitole dalla “Chiara siciliana”… è reale!
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