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3 marzo 1944
È il 3 marzo del 1944, il treno 8017 è fermo nel bel mezzo della galleria di Balvano. Partito con il suo carico di anime, di uomini, donne e bambini clandestini da Napoli per quel di Potenza, luogo ove la guerra altro non è che un ricordo lontano e la fame non esiste non mancando per nessuno il cibo, è adesso il palcoscenico dove è la morte a regnare sovrana. Corpi su corpi si intravedono nel suo ammasso dolente e fermo, sembra che stiano dormendo eppure alcun alito di vita è più presente in loro. Ma cosa è successo? Cosa è davvero accaduto a quel convoglio e ai suoi passeggeri? E perché quel mistero si è celato così a lungo negli anni quasi come se fosse un fatto dimenticato, un qualcosa di appartenente ad un’altra vita ad un altro mondo?
Ma facciamo un passo indietro di qualche mese. Brando Carenza è chiuso nel suo fortino di silenzio, un silenzio spesso come un muro ed eretto per proteggersi da quei pensieri, lui che deve farsi carico della famiglia anche se è appena un ragazzo. Un giovane uomo che è una delle tre voci narranti dell’opera.
«Brando non ha pianto. Lui non lo fa mai. Lui osserva, ascolta, pensa e chiude tutto nella cassaforte del suo silenzio.»
Conosciamo così anche Nora Moscati, anch’essa giovanissima, che conosce soltanto un sonno fatto di leggerezza, un velo sottile dal quale è sovente destata. È tormentata da quelle Malombre che la terrorizzano e che sono al contempo anche premonitrici che le si palesano innanzi agli occhi. Da una spilla a forma di farfalla mai si separa, è quanto le è rimasto del fratello Pietro, al fronte.
E conosciamo infine Rocco Saturno piccolo grande uomo che ha imparato che la guerra non fa distinzioni tra grandi e piccini, che nessuno risparmia.
«Pure la misura del tempo fallisce durante la guerra. […] La memoria può essere veleno […] perché se si permette alla paura di tornare travestita da ricordo, quella piglia tutto.»
Tre voci, le loro, che si incontrano e che ricostruiscono il mistero che ci riporta agli anni del Secondo conflitto mondiale, a quei giorni di auspicata sopravvivenza.
È con uno stile fluido e magnetico che Manlio Castagna trattiene il suo lettore destinandolo di una storia che sorprende per autenticità e trasporto, che conquista pagina dopo pagina e in cui sono racchiusi messaggi importanti tanto che non fatica a restare nel cuore anche a distanza di tempo dalla lettura. Allo stile pulito ma minuzioso, evocativo e pungente del narratore, si aggiungono ricostruzioni storiche curate in ogni dettaglio, sia nelle ambientazioni che proprio nel dato di quello che fu. L’opera non manca di far riflettere il conoscitore e nella finzione del narrato riporta alla luce anche elementi di verità perché le ragioni che si celano dietro quelle morti, quel treno fermo, riguardano un nemico silenzioso che ha sorpreso i nostri viaggiatori che altro non desideravano che credere in un futuro, appigliarsi a una speranza del domani tanto da rinunciare anche alla propria identità. Perché il destino ha sempre modi beffardi per manifestarsi.
Castagna ben mixa finzione e realtà, ci offre un titolo succoso, empatico e intriso di emozione che si lascia divorare e che riporta all’attenzione un fatto troppo a lungo (e da troppi) dimenticato. Una lettura per grandi e per piccini, una lettura che resta.
«Ci sono cicatrici così profonde che il tempo non riesce nemmeno a scolorire, figurarsi a cancellare.»
«Quando perdi le radici, il vento ci mette un attimo a portarti via.»