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Ma davvero repetita juvat?
Ernest Cunningham è diventato famoso. Dopo aver pubblicato un romanzo giallo tratto dalla truce storia di omicidi della quale, suo malgrado, si era trovato a essere tra i protagonisti e nella quale una buona parte della sua famiglia era restata vittima o autrice, è entrato nell’empireo degli scrittori polizieschi.
Proprio per tale motivo si trova a bordo dell’Afghan Express, più brevemente chiamato il “Ghan”, un lussuoso treno turistico che attraversa da nord a sud l’Australia centrale, da Darwin ad Adelaide. Infatti sul treno è stato organizzato il 50° Festival Australiano del Giallo e, assieme a lui, condividono gli scompartimenti dei vagoni riservati al Festival, un famoso autore scozzese di best sellers; una autrice di legal thriller, una di gialli psicologici e uno scrittore che basa le sue trame sulla patologia forense, oltre a un super-premiato scrittore di opere letterarie di alta levatura. Ognuno ha un ospite; inoltre una piccola comitiva di appassionati di letteratura poliziesca fa loro da contorno per assistere alle conferenze, ai dibattiti e alle tavole rotonde che si terranno nei quattro giorni di viaggio.
Purtroppo dove c’è Ern ci scappa sempre il morto e, così, dopo il primo giorno di viaggio in cui si sono avuti solo battibecchi e invidiose ripicche tra gli invitati, uno degli ospiti muore improvvisamente, la seconda mattina. Morte naturale o omicidio? Ern, che non riesce a trovare lo spunto per scrivere il suo secondo romanzo, punta sulla prima ipotesi, però chi è stato a commettere il crimine e, soprattutto, chi aveva il movente per farlo?
Toccherà a lui e ai colleghi giallisti (superstiti) scoprire il colpevole, tuttavia, su quel treno, tutti hanno un buon motivo per quell’omicidio e per quelli che seguiranno…
Il primo romanzo di Stevenson era stata una piacevole sorpresa, con uno stile leggero e scanzonato, l’A. era riuscito a scrivere una storia non banale che, ripigliando gli schemi dei gialli classici alla Christie, Conan Doyle, o Van Dyne, aveva ridato vita al filone del giallo investigativo/deduttivo, un po’ giocandoci sopra con discreto umorismo, un po’ provocando i lettori con continui interventi e riflessioni in prima persona rivolte direttamente a coloro che si trovano dall’altra parte del foglio di carta stampata.
Con questa seconda opera, però, l’A. ha erroneamente supposto che ripresentando il medesimo canovaccio e cambiando solo l’ambientazione e i personaggi coinvolti, l’alchimia avrebbe nuovamente funzionato. No, errato: certe invenzioni funzionano solo la prima volta, proprio perché è la novità a giocare il ruolo principale nel rendere piacevole la narrazione. Se non si hanno nuove idee e non si cercano nuove strade, il riproporre il medesimo schema diviene solo un riscaldare la stessa minestra; cambiare le spezie non è sufficiente a renderla più appetitosa.
La trama appare eccessivamente e artificiosamente arzigogolata e contorta e, a dispetto delle dichiarazioni iniziali dell’A. di essere totalmente onesto e trasparente coi lettori, sono decisamente troppe le trovate con cui viene infarcito il libro, i conigli estratti magicamente dal cappello al momento più opportuno, le scoperte spiazzanti stile soap opera; e non tutte, ahimè sono davvero plausibili. Lo stile continua a essere leggero e scanzonato, talvolta anche un po’ troppo, ma tocca le medesime corde che hanno fatto da sottofondo al primo libro, quindi, risulta ripetitivo e, alla lunga, stancante.
Poi, Ernest non perde occasione per ammiccare in modo che non è più goliardico, ma, direi, gigionesco, ricordandoci le regole per il giallo classico o, peggio, spoilerando i troppi colpi di scena che sono disseminati lungo la storia e che, alla fine, non risultano più tali.
Quanto a questi ultimi, si raggiunge l’apice; in questo romanzo non ci viene risparmiato nessuno dei luoghi comuni della letteratura di genere: agnizioni, disvelamenti di enigmi, segreti che vengono dissepolti, morti apparenti che ricompaiono improvvisamente, scambi di persone e personaggi che si celano dietro a pseudonimi o prestanome.
Tra le innumerevoli trovate di “spiritosa onestà” nei confronti del lettore ho trovato decisamente ostentato e sciocco aver precisato il numero delle volte in cui il nome dell’assassino sarebbe stato fatto prima della sua identificazione e il continuo aggiornamento del conteggio per ognuno dei sospetti, quasi ci si trovasse davanti al tavoliere di Cluedo o ad un Giallo-quiz televisivo.
Insomma il voler raccontare una vicenda di per sé seria e grave (com’è un omicidio) in modo burlesco può essere divertente come prima trovata, ma non può essere certo lo schema ideale da replicare all’infinito. Alla fine il romanzo non annoia, ma neppure diverte troppo e non si vede la fine di giungere all’epilogo che, in questo caso, è pure scivoloso a causa di una trovata finale che poteva pure essere evitata.
Poi, permettetemi una domanda conclusiva: ma l'A. doveva proprio scimmiottare e, sostanzialmente, burlarsi di uno dei romanzi più iconici della letteratura poliziesca (mi riferisco, ovviamente a "Assassinio sull'Orient Express") utilizzando la medesima ambientazione e, in sostanza, gli stessi ritmi?
Dalì si permise di sostituire al volto di Monna Lisa il suo ritratto con tanto di baffoni, ma era pur sempre un grandissimo della pittura mondiale, mr. Stevenson non è neppure lontanamente emulo di Agatha Christie e forse le deve un maggiore rispetto.
Indicazioni utili
- sì
- no