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Il thriller matrioska
Hannah è una scrittrice australiana che ha avuto un discreto successo con i suoi romanzi mistery: ha venduto parecchio, anche negli Stati Uniti. Leo, invece, è un suo fan sfegatato; vive a Boston e, pure lui, si cimenta nello scrivere libri, ma con molto meno successo editoriale: il suo romanzo, ormai, ha collezionato sin troppi rifiuti. Così Leo si consola scrivendo lettere su lettere alla sua autrice preferita, la quale, condiscendente, gli invia, in anteprima, i capitoli della sua nuova opera, ricevendone consigli, suggerimenti relativi alla città di Boston (dov’è ambientato) e sproni a continuare.
“Omicidio in biblioteca”, dell’australiana-cingalese Sulari Gentill, è uno strano romanzo che dei thriller o dei polizieschi classici ha solo la parvenza esteriore, senza averne anche la carica emotiva e senza suscitare la curiosità e il mistero che ci dovremmo aspettare.
In effetti si tratta di un inconsueto libro matrioska, ove lo strato esterno è costituito appunto da questo rapporto epistolare tra il misterioso Leo Johnson di Boston e la scrittrice australiana della quale non sentiamo mai la voce, ma di cui leggiamo, assieme a Leo, i capitoli man mano che vengono redatti.
Più all’interno troviamo, poi, la storia, raccontata da Hannah; quella di Winifred Kincaid (per gli amici Freddie) — giovane scrittrice australiana che si trova a Boston grazie a una borsa di studio per la letteratura e che si sta impegnando a scrivere un romanzo thriller ispirandosi alle vicende che le stanno accadendo — e di tre giovani da lei conosciuti nella Boston Public Library: Cain McLeod, scrittore con già un successo all’attivo, ma con un passato oscuro, Marigold Anastas, studentessa di psicologia super tatuata, ma fragile come un biscotto, e Whit Metters svogliato studente di diritto con una falsa sicurezza di sé.
Ancora più all’interno in questo gioco ad incastri, c’è il romanzo di Freddie: perché l’occasione per conoscere i suoi tre nuovi amici, le è stata data da un urlo risuonato in biblioteca dove si trovava per concentrarsi. Il grido era stato lanciato da una ragazza trovata poi morta in una delle sale. Così Freddie cerca di ricavare un mistery da questo fatto tragico e dalla personalità dei suoi nuovi amici e nel frattempo di indagare, come investigatrice dilettante, su chi possa essere l’autore del crimine. L’autore, tra l’altro, potrebbe proprio essere una delle sue nuove conoscenze, come lei stessa ci anticipa nei suoi scritti.
Più all’interno ancora ci sono il passato turbolento e misterioso di Cain e quello delle persone che, da giovane, ha frequentato e conosciuto: peraltro anche lui era arrivato al successo letterario con un libro autobiografico sulla violenza e la vendetta. Ma pure l’ossessiva passione di Marigold per Whit e le storie d’amore che si intrecciano e ingarbugliano con le indagini della polizia, e i sospetti reciproci hanno un loro corso semi-autonomo. Insomma, sono anch’esse, altre, tante “bamboline” inserite l’una nell’altra.
Non conosciamo nulla del romanzo di Freddie, se non quello che lei ci racconta, ma si può facilmente intuire che ricalchi, come un’ombra proiettata su un muro, le vicende che la vedono come protagonista. Insomma, abbiamo una aspirante scrittrice (Freddie) che altri non è che l’alter ego di una scrittrice affermata (Hannah) a sua volta alter ego dell’unica autrice in carne ed ossa (la Gentill).
La matrice poliziesca si sposta continuamente in avanti e indietro su tutti questi livelli, non mancando neppure di coinvolgere il livello più esterno, quello di Hannah e Leo, cioè, in teoria, quello della vita reale. Tuttavia nessun livello riesce a raggiungere un vero pathos che coinvolga e attragga.
Così, se, da un lato, ho trovato l’idea di partenza abbastanza originale e ben trovata, purtroppo, però, a mio avviso, la realizzazione non è risultata all’altezza dei propositi.
La vicenda poliziesca è solo imbastita e neppure con troppa cura. In alcuni passaggi prosegue in modo fiacco, svogliato e, anzitutto, impacciato. In generale la trama è prevedibile, abbastanza banale e impalpabile. Ma soprattutto, m’è parso che la costruzione generale sia troppo approssimativa e non regga a una attenta analisi sulla logica conseguenzialità degli accadimenti. Ma, se c’è una qualità essenziale in un thriller, è proprio la precisione con cui il meccanismo narrativo si muove e agisce; qui la debolezza e ingenuità dell’impalcato è sin troppo evidente.
Lo stile è decisamente semplice e abbastanza immaturo. La stessa Boston ci viene descritta come potrebbe farlo chi la conosce solo attraverso le descrizioni altrui o dopo una sbirciatina rapida a Google Maps. In definitiva il romanzo di Hannah è piuttosto povero e i capitoli, sin troppo brevi e senza un vero approfondimento di personaggi, luoghi e situazioni, sono interrotti con fastidiosa frequenza dalle lettere di Leo, il quale, addirittura, tenta di spoilerare gli sviluppi futuri della trama o di forzarne lo svolgimento verso quelle che sono le sue speranze di autore fallito. L’effetto che ha suscitato in me è una irritazione generale per i suoi reiterati puntigli. Che poi, alla fine, anche questa sua ostinazione trovi una motivazione finale nell’epilogo, è insufficiente a rendere graditi gli intermezzi.
Traendo le conclusioni da quanto sopra non mi sento di promuovere a pieni voti questo romanzo. La Gentill è autrice affermata in Australia e con un buon seguito di pubblico, mentre questo è il primo libro pubblicato in Italia. Mi viene solo da augurarmi che questo romanzo non rappresenti il meglio della sua produzione, perché è un’opera molto acerba e piena di difetti, anche se non è del tutto immeritevole di lettura.
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