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Una clessidra
«[…] La donna pendeva da un cappio legato a un lampadario. Gli dava la schiena, la testa china sul collo spezzato. Le afferrò le gambe nella disperata speranza di trovarle ancora vive. Sotto di lei, una morbida scarpa di pelle giace sul pavimento. Mentre le afferrava i polpacci, uno sguardo rivolto al viso sopra di lui gli rivelò un paio di amare verità.
La prima era che la vita che un tempo ardeva luminosa in quel corpo si era spesa e non sarebbe più tornata, per quante preghiere avrebbero recitato, per quanto abili fossero stati i medici. Era sparita come la luce di un giorno ormai andato.
La seconda verità che gli si impone, serrandogli il respiro nel petto, fu che la donna che stringeva, la donna che oscillava nella brezza, non era la lontana, inafferrabile Coraline Tooke. No. La povera donna era sua madre, Firenze. Quella povera creatura tragica, maltrattata, piena di rimorsi. Impiccata a una corda bianca, di quelle destinate al legname grezzo o alle barche.»
“The turnglass. La clessidra di cristallo” di Gareth Rubin è quello che si suole definire un libro tête-bêche e cioè due storie che uniscono due misteri e due epoche diverse ma per mezzo di un filo conduttore che collega le vicende. Si tratta di una vera e propria tecnica narrativa che veniva utilizzata soprattutto in passato dagli stampatori.
Siamo a Londra, è il 1881. Qui Simeon Lee, medico, è ossessionato dal colera. Vuole sconfiggerlo, studiarlo, ma non riesce ad ottenere i fondi di cui necessita per portare avanti le sue ricerche. Per questo decide di accettare un incarico alquanto particolare: si recherà a Colchester, Contea dell’Essex, e da lì nell’isola di Ray, da un lontano parente, il reverendo Oliver Hawes che manifesta un peggioramento delle condizioni di salute e che assisterà. Sull’isoletta sorge la residenza del sacerdote, Turnglass House, edificio a due piani che è sormontato da una banderuola fatta a clessidra di cristallo. È qui che vivono padre Oliver e sua cognata Florence su cui verte una condanna agli arresti domiciliari a seguito dell’aggressione al marito di poi morto. Che sia stata lei ad avvelenare l’uomo nonostante il confino nell’edificio stesso in un’ala che impedisce ogni contatto e che ricorda una gabbia di vetro? Per il dottor Lee non c’è tempo da perdere, ha inizio una corsa contro il tempo.
1939, Los Angeles. Ken Kourian sta avendo un grande successo. Il suo sogno dopo la laurea a Boston era proprio quello di sfondare nel cinema. Conosce per caso Oliver Tooke, scrittore acclamato e figlio del governatore dello Stato e con lui trascorrerà molti momenti nella villa in vetro sormontata da un segnavento a forma di clessidra di cristallo. Tuttavia, la morte di Oliver interromperà quella che era la quiete del luogo. Ken lo troverà cadavere in quella che è la “torre d’ispirazione” e cioè il luogo dove lo scrittore si rifugiava per scrivere. Sarà rinvenuto morto a causa di un colpo di pistola alla testa. Che si sia suicidato proprio dopo la pubblicazione di “Turnglass House”, l’atteso romanzo? Insieme alla sorella Coraline, Ken si recherà sull’isola di Ray dove sorge la casa di famiglia dei Tooke per indagare. E ripartirà proprio dal romanzo che torna indietro nel tempo, rievocando la storia del dottor Simeon Lee che nel 1881 cercò proprio di salvare la vita del reverendo Hawes.
«[…] È quello su cui ho lavorato. In un certo senso. Persone che cambiano da un punto di vista all'altro. Da un anno all'altro." Fissò dalla soglia le onde nere che sciabordavano sugli scogli. "Le persone cambiano".»
La formula usata da Gareth Rubin in “The turnglass. La clessidra di cristallo” è molto originale e lascia a chi legge una libera interpretazione sul come leggere lo scritto e sul come considerarlo. Che si tratti di un volume unico diviso in due o di due storie che si fondono tra loro, il romanzo solletica la curiosità.
Lo scritto si costruisce interamente su un gioco di specchi e pian piano ricompone il puzzle. A ciò si aggiunge uno stile narrativo che accompagna pagina dopo pagina e che muta la sua veste a seconda delle situazioni che incontra. Lo stile, cioè, cambia e muta a seconda dell’epoca storica di riferimento così da rendere ancora più veritiero e plausibile il narrato. È nella conclusione dei due narrati che però resta un poco di amaro in bocca. Se da un lato siamo incuriositi dalle vicende, dall’altro il dubbio sullo sviluppo e l’epilogo scelto resta. È come se mancasse qualcosa, come se mancasse quel qualcosa a far sì che il romanzo funzioni nella sua interezza doppia. Anche dal punto di vista del ritmo a tratti è come se ci fosse un rallentamento, non regge ai colpi di scena e il lettore finisce con l’intuire il dove si andrà a parare. Cade quello che è l’incanto narrativo, per dirla alla Umberto Eco.
In conclusione, “Turnglass. La clessidra di cristallo” di Gareth Rubin è un romanzo dai buoni intenti, che regala ore di piacevole intrattenimento, ma che resta in parte incompiuto, irrisolto e questo lascia molte perplessità nel lettore che resta con quel retrogusto amaro in bocca.
“Potresti”, ammetti Oliver.
“Ma non lo farai.”
“Dimmi perché.”
Oliver si infilò le mani in tasca.
“Perché hai troppo rispetto del confine tra giusto e sbagliato. Forse è proprio quello che ho bisogno d'avere intorno. Non dovrai aspettare molto.
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