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Un classico della narrativa gotica
La vita sembra scorrere tranquilla nel Castello dei Blackwood con il tempo scandito dal rituale quotidiano colazione, pranzo, cena. Gli abitanti sono solo 3: Constance, la sorella Mary Katherin (Merricat) e lo zio Julian, fratello del padre; a loro si aggiunge il gatto Jonas. In realtà nulla è come sembra. Già dal fulminante incipit si intuisce che Merricat ha qualche “problema”: “…con un pizzico di fortuna sarei potuta nascere lupo mannaro…Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono… e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Tutti gli altri membri della famiglia sono morti”. Constance, dopo essere stata scagionata dall’accusa di aver avvelenato la famiglia con l’arsenico 6 anni prima, non esce più di casa per il terrore di incontrare persone; Julian, paralizzato su una sedia a rotelle, conseguenza del veleno che ha ingerito in minima parte, è piuttosto svampito. Aiutati dall’alta recinzione che costeggia la magione, i Blackwood vivono isolati dal resto della comunità tranne per gli approvvigionamenti che Mary fa in paese (fra grandi turbamenti mentali) e per il tè settimanale con l’amica di famiglia Helen Clarke. La Jackson, come sempre, è maestra nel delineare le diverse personalità ma si supera nella descrizione di Mary (l’Io narrante del romanzo). Infantile, psicotica, Merricat vive in un mondo fantastico a suo agio solo nel parco che circonda il castello facendo della natura circostante il suo habitat naturale. Ma Mary ha anche un sesto senso e quando d’improvviso si presenta e si stabilisce in casa il loro cugino Charles, figlio di un altro fratello del padre, intuisce che questa presenza è pericolosa per il precario equilibrio familiare. Charles, infatti, fa colpo su Constance prospettandole una nuova vita da cui né Mary né lo zio Julian sembra debbano farne parte. Merricat prova ad opporre a Charles i suoi amuleti, le sue parole magiche, i più fantasiosi sortilegi per allontanarlo, invano, dal Castello fino al drammatico epilogo finale. La Jackson, in questo breve romanzo, torna ancora una volta sui suoi dilemmi classici: qual è il confine tra il bene e il male? Dove risiede la cattiveria umana? Solo nelle azioni delittuose o non piuttosto nello scherno della comunità nei confronti di qualcuno? È lecito aver paura degli altri (i concittadini nel loro insieme in questo caso) o bisogna aprirsi agli altri come i Clarke, i Wright, i Carrington?
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