Dettagli Recensione
UN MONDO DI GHIACCIO E DI CENERE
“Il male non ha un piano B. È semplicemente incapace di mettere in conto il fallimento.”
“Il passeggero” è stato probabilmente il romanzo più atteso degli ultimi decenni. Se ne parlava da così tanto tempo che a un certo punto avevo quasi temuto che non sarebbe mai riuscito ad essere pubblicato con il suo autore ancora in vita. Il fatto è che sedici anni da un romanzo meraviglioso, epocale come “La strada” sono davvero tanti, e in questo lasso di tempo lo scrittore di Providence era uscito dal suo silenzio artistico solamente con un dramma teatrale, “Sunset Limited”, e con la sceneggiatura cinematografica di un film di Ridley Scott, “Il procuratore”. Si capisce pertanto come l’attesa per questa nuova, forse ultima e definitiva, doppia opera (a ruota, nel giro di poche settimane, è uscito in America, completando una sorta di dittico ideale, anche “Stella Maris”) fosse spasmodica, con un forte rischio – come spesso accade in casi del genere – che l’entusiasmo si trasformasse in cocente delusione a causa dell’improbo paragone con gli smisurati capolavori che l’avevano preceduta e con cui fatalmente avrebbe dovuto essere confrontata. Quello che faccio di solito in questi frangenti è immaginare che il libro che ho sotto gli occhi sia stato scritto da uno scrittore esordiente e, spogliandolo in tal modo dell’aura carismatica ma anche un po’ ingombrante del romanziere celebre, verificare con imparzialità se esso sia in grado di eccellere per meriti suoi propri, e non solo grazie all’inconscia soggezione nei confronti di un autore ormai entrato nel mito e a cui si perdonerebbe probabilmente qualsiasi peccato, veniale o meno. Alla prova dei fatti, dopo una lettura insieme esaltante e faticosa, devo riconoscere che “Il passeggero” è riuscito a superare ogni più rosea aspettativa: è un McCarthy in purezza, potente, apocalittico, profetico, che l’età non ha per fortuna né addolcito e neppure fatto tentare dalle rischiose sirene della demagogia e del sentimentalismo; ma è anche un’opera che azzarda – come spiegherò più avanti – nuove soluzioni narrative, nuove prospettive, e non si accontenta delle confortevoli soluzioni del déjà vu, della maniera.
Il romanzo è la storia di Bobby Western, un personaggio che è fin troppo facile (nomen omen) interpretare come un simbolo, una sineddoche dell’intera società occidentale. Egli è una figura a prima vista abbastanza implausibile (è contemporaneamente un fisico teorico, un pilota di Formula 2 e un sommozzatore professionista!), eppure nel giro di poche pagine si rivela come uno dei personaggi più affascinanti mai ideati da McCarthy: uomo schivo, di poche parole, apparentemente impassibile di fronte ai colpi del destino, ma tormentato nel profondo da un’angoscia esistenzialista e dai sensi di colpa di un doloroso passato mai elaborato del tutto, Western mi ricorda vagamente il Suttree degli esordi. Deuteragonista del romanzo è Alicia, la sorella bellissima, geniale e schizofrenica di Bobby, morta dieci anni prima degli avvenimenti narrati, le cui allucinazioni si intercalano, scritte in carattere corsivo, nel corpo della storia, in apertura di ogni capitolo. La mente disturbata di Alicia dà vita a una serie di personaggi immaginari, che invadono il suo mondo reale, ma che invece di essere, come si potrebbe supporre, degli incubi, sono (in particolare lo squinternato, scurrile e focomelico Talidomide Kid) l’espressione di un disperato istinto di sopravvivenza, un estremo, solipsistico grido di aiuto destinato a soccombere di fronte a una orribile e annichilente forma di depressione suicida. La morte di Alicia è una sorta di punto di non ritorno per Bobby, il quale era perdutamente innamorato della sorella (il tema dell’incesto era tra l’altro già stato affrontato da McCarthy nel suo secondo romanzo, “Il buio fuori”) e che da quel momento si trascina, novello Sisifo, un insopportabile fardello di rimorsi per non essere riuscito a salvarla, condannandosi consapevolmente a una vita di irredimibile infelicità (come gli rimprovera l’amico Sheddan, “la sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. Ma l’infelicità è una scelta”). Tutto questo genera un effetto curioso: dal momento che la fine è in qualche modo già avvenuta, il romanzo sembra curiosamente procedere a ritroso, anziché in avanti, in una sorta di falso movimento in cui il climax non è tanto rappresentato dalle vicissitudini del protagonista quanto dalla presenza di una lettera che Alicia ha scritto a Bobby prima di suicidarsi e che il fratello si ostina a non voler leggere, in un paradossale, infantile e commovente gesto di conservazione della memoria, ben sapendo che fin quando non l’avesse letta egli avrebbe potuto tenere viva l’illusione di nuove parole dell’amata sorella ancora in serbo per lui.
McCarthy ne “Il passeggero” gioca in maniera spregiudicata con le aspettative del lettore. Non solo il contenuto della lettera di Alicia non viene mai svelato, ma anche il plot che viene delineato nelle prime pagine (un passeggero misteriosamente scomparso dall’aereo precipitato al largo della costa della Louisiana) si rivela un mero pretesto. Come nel caso de “L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon, la trama thriller viene soltanto abbozzata e poi inopinatamente abbandonata a se stessa. Ogni tanto compaiono come dal nulla – è vero – dei misteriosi funzionari, emissari di non si sa quale organizzazione (l’FBI?), che, kafkianamente, pretendono di interrogare Western, gli perquisiscono la casa in sua assenza, gli bloccano il conto corrente bancario e l’automobile, costringendolo a fuggire e a peregrinare come un vagabondo per gli Stati Uniti e l’Europa nel tentativo di far perdere le sue tracce, ma tutto rimane inspiegato, senza alcuna giustificazione logica, quasi fosse, più che il frutto di un’indagine poliziesca, la materializzazione di un’incommensurabile istanza metafisica. La fuga di Western è una fuga reale, attraverso paesaggi descritti con scabro realismo, ma è anche una fuga metaforica, dai propri rimorsi e sensi di colpa. A McCarthy non interessa titillare banalmente il lettore con ingegnosi intrecci gialli, scoperte sorprendenti e colpi di scena rivelatori, ma piuttosto affermare la propria visione tragica della vita. I tanti dialoghi di cui è intessuto il romanzo non vertono quasi mai sull’aereo precipitato, sul passeggero scomparso o sulla misteriosa morte del collega Oiler, quanto sul Vietnam, sulla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki, sull’omicidio del presidente Kennedy. Come le tante, drammatiche immagini che punteggiano “Mao II” di De Lillo e ne svelano la profonda riflessione sul ruolo delle masse nella civiltà contemporanea, così i dialoghi di McCarthy (secchi, incisivi, incalzanti, apodittici, come abbiamo imparato a riconoscerli leggendo le sue opere precedenti) sono perfettamente funzionali a palesare un mondo inospitale, freddo, cattivo. “La verità del mondo costituisce una visione raccapricciante al punto da far impallidire le profezie del piú funereo degli indovini che mai l’abbiano abitato. Non appena ne convieni, l’idea che un giorno tutto questo sarà ridotto in polvere e disperso nel nulla piú che una profezia diventa una promessa”. L’amore e l’amicizia, soprattutto l’amicizia (quel sentimento per cui “condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue”) sono delle sporadiche oasi nel deserto di un’esistenza fatta di solitudine e di sofferenza (rovesciando paradossalmente l’incipit di “Anna Karenina”, lo scrittore americano afferma che “non esiste un terreno comune della gioia come esiste del dolore” e che “nella natura collettiva della sofferenza non possono esserci dubbi”). Amori e amicizie sono destinati a scomparire e a tornare solamente nella veste di sogni, di allucinazioni, di fantasmi (come John Sheddan nell’ultimo colloquio con Western nel silenzio di un teatro abbandonato), capaci solo di far risaltare per contrasto il vuoto di affetti e di sentimenti, la solitudine ontologica dell’uomo. “L’ultimo degli uomini è solo nell’universo che si oscura intorno a lui. Piange ogni cosa con un unico pianto. Nei resti pietosi ed esausti di quella che un tempo fu la sua anima non troverà niente da cui plasmare la benché minima cosa divina che lo guidi negli ultimi di questi giorni”. Il bene è destinato a soccombere (“Una disgrazia non può essere cancellata da nessun bene. Può solo essere cancellata da una disgrazia peggiore”) e il suicidio sembra quasi la soluzione inevitabile a questo male di vivere, per il quale la gente opterebbe in massa se solo non avesse paura della morte (“Credo che molta gente sceglierebbe di essere morta se non dovesse morire”). Il nichilismo di McCarthy approda a una desolante condizione di “non essere”, a un paralizzante desiderio di scomparire, di non essere mai esistito. Come un montaliano osso di seppia abbandonato dai flutti sulla spiaggia, l’uomo si ritrova deprivato e inaridito, in balia di una sorte indecifrabile e spietata. Alla luce di queste considerazioni, l’invito di Alicia a Bobby, “non avere paura”, risulta talmente paradossale da far sì che agli occhi del protagonista queste parole diventino le più spaventose che possano essere pronunciate.
L’altro grande tema del romanzo è l’inconoscibilità del mondo. Non solo il mondo è un inganno, una menzogna, ma non esiste nessuna verità, neppure una qualche verità controfattuale sulla quale mentire. La scienza, che ne “Il passeggero” assume un ruolo di primo piano (la matematica di Alicia, la fisica del padre di Western, il quale aveva collaborato anni prima al Progetto Manhattan di Los Alamos), è sì capace di descrivere il mondo, ma non di comprenderlo. Gli stessi sviluppi più recenti della fisica quantistica sono impotenti ad approdare a una qualche verità ultima; anzi, più ci si addentra nella conoscenza della materia, più ci si immerge nello studio di particelle di scala sempre più infinitesimale, e più questa verità sfugge (“Quando ti accosti a certe descrizioni matematiche della realtà non puoi evitare di perdere quel che viene descritto. Qualunque indagine soppianta ciò che indaga”). McCarthy, che già aveva giocato con il paradosso del gatto di Schrodinger in “Non è un paese per vecchi (intelligentemente i fratelli Coen, nella loro trasposizione cinematografica del romanzo, avevano lasciano in dubbio se Chighur avesse ucciso o meno Carla Jean, in quanto la macchina da presa rimaneva all’esterno della sua casa e non sapevamo con certezza quale fosse stato l’esito del lancio della moneta, se testa o croce), raggiunge conclusioni di un agghiacciante pessimismo (“In ultima analisi non c’è niente da sapere e nessuno per saperlo”) che né la religione né tantomeno l’arte sono in grado di alleviare. Con il suo stile spoglio, ruvido, essenziale, imbottito di paratassi, McCarthy sembra aver rinunciato definitivamente a qualsiasi ruolo ermeneutico della sua letteratura. Eppure nella sua opera più recente vi sono delle importanti novità che vale la pena di sottolineare. Se si riesce a superare il fastidio di qualche passaggio a vuoto (ad esempio, il faticoso e interminabile dialogo scientifico tra Western e Ashler sembra una sorta di bignami sulla storia della fisica del Novecento in forma di conversazione, in cui fanno capolino Bohr, Dirac, De Broglie e persino Einstein, e che ricorda un po’ ciò che “Il mondo di Sofia” aveva fatto con la storia della filosofia, solo molto più difficile; è probabile che McCarthy, come il Bellow de “Il dono di Humboldt” con l’antroposofia di Rudolf Steiner, abbia voluto mettere a frutto i tanti anni trascorsi al Santa Fe Institute in compagnia di eminenti scienziati), se si riesce – dicevo – a superare questo fastidio, si può godere della presenza di personaggi femminili che nelle opere precedenti non erano mai stati così incisivi e affascinanti (Alicia, Debussy), oltre che di una riflessione sulla paranoia nel mondo contemporaneo che lo avvicina ai grandi autori del postmodernismo americano (anche se sotto la maggior parte degli aspetti, lo stile in primis, egli è agli antipodi del postmodernismo). Si pensi ad esempio al dialogo tra Western e Kline sull’omicidio di JFK, che ci fa ricordare come la tragica sparatoria di Dallas e le teorie complottistiche cui ha dato origine siano state il soggetto di un famoso libro di Don De Lillo, “Libra”. Lo stesso Kline preconizza (“Il passeggero” è ambientato negli anni ’80 del secolo scorso) quelli che, con la diffusione di internet e della moneta elettronica, sono stati i recenti sviluppi della tecnologia e i loro influssi sulla libertà individuale (“La verità è che siamo tutti in arresto. O lo saremo presto. Non hanno bisogno di limitare i tuoi movimenti. Gli basta sapere dove sei”). McCarthy non è mai stato così lucido nel descrivere la deriva del mondo contemporaneo, ma in questo sforzo di attualizzazione è riuscito a conservare quella “gravitas” e quella intensità che sempre gli sono state riconosciute come suo marchio di fabbrica. “Il passeggero” ha infatti, pur nella sua apparente, algida freddezza, una carica emotiva fortissima, quasi insostenibile, che continua a risuonare come un’eco assordante anche molto tempo dopo aver chiuso l’ultima pagina del libro. Bobby Western, questo “uomo a pezzi sulla ruota della devozione”, questa “tragedia greca mancata”, questo “accumulatore di infelicità”, è l’alfiere perfetto del nichilismo mccarthyano: non è un’idea peregrina pensare che sia lui il vero passeggero del titolo, colui che si fa trasportare dalla vita passivamente, con impotente imperturbabilità, incapace di fare alcunché di fronte al dolore del mondo (il mulo punto da uno sciame di vespe, l’automobilista rimasto intrappolato nell’automobile uscita fuori strada), se non fuggire senza un progetto e senza una meta precisa di fronte ad esso. Non c’è allora nessuna speranza in questo romanzo senile, forse opera-testamento definitiva di McCarthy? Non è proprio così: nelle ripetute, ossessive domande che Western rivolge ai suoi interlocutori sulla presenza di un aldilà, di una vita dopo la morte, risuona la nostalgia di un qualcosa che possa trascendere l’atroce disperazione di “un mondo di sangue e massacri”. Forse, sembra suggerire McCarthy con riferimento all’amica trans di Bobby, Debussy, “la bontà divina appare in posti strani”, ossia dove meno la si aspetta. Il fuoco de “La strada”, che il protagonista si sforzava di tenere acceso, testardamente convinto che fosse la cosa più importante in un universo crudele e inabitabile, è qui diventato il ricordo degli occhi di Alicia, da preservare ad ogni costo contro l’incalzante ed impietoso lavorio della dimenticanza. E’ quindi, per tornare alla domanda di poc’anzi, ancora concepibile, nonostante tutte le evidenze contrarie, un residuo di speranza? La risposta la si può forse trovare nel ricordo di uno scambio di battute tra Bobby e Alicia: “Le aveva chiesto se credeva in una vita ultraterrena e lei aveva detto che non la escludeva. Che era possibile. Dubitava soltanto che fosse destinata a lei”. Questa frase, così triste ed accorata, mi ricorda tanto quel colloquio di Gustav Janouch con Franz Kafka, in cui lo scrittore praghese, alla domanda “Al di fuori di questo mondo che conosciamo, c’è ancora speranza?” rispondeva malinconicamente “Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi”.
“Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta.”
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