Dettagli Recensione
Mathilde e Léopoldine
«Ogni famiglia ha uno scheletro nell'armadio.»
Avvicinarsi a Georges Simenon è sempre un’esperienza unica. Nel bene e nel male. Questo perché i suoi lavori non sono mai “una cosa sola”. Possono essere un giallo e un romanzo d’introspezione, possono essere un romanzo d’introspezione e psicologico, possono essere, come in questo caso, un noir mixato a un romanzo che scarna ed eviscera l’animo umano più oscuro. Ed è bene ancora precisare che, la citazione di cui ab initio, riporta e trasporta già in quelle che sono le emozioni e vicissitudini presenti tra queste pagine dove, a far da padrona, è proprio una famiglia. Nei suoi pregi e nelle sue pecche.
Pochi i personaggi tra cui dominano le sorelle Mathilde e Léopoldine, un luogo unico ove le vicende si sviluppano, malumore e claustrofobia, un segreto racchiuso nel passato, un odio atavico che caratterizza le due donne, sono elementi cari all’autore che qui ritroviamo e che scopriamo man mano che la lettura prosegue.
Una narrazione che tiene viva la curiosità conducendo il lettore a cercare ed attendere un colpo di scena imprevisto e imprevedibile ma dove tutto è calibrato e ponderato al millimetro, anche nel suo non arrivare dell’evento scatenante e risolutivo. Il lettore è incuriosito da quanto accade, condotto per mano. E come sempre Simenon disegna un cerchio immaginario che si tratteggia e ricompone nel suo complesso solo nelle ultime pagine dove tutto trova collocazione sino a che il puzzle si delinea. Lo stesso odio che talvolta può risultare immotivato o giungere quale conseguenza di futilità ha in realtà un suo perché e si radica proprio in un tempo trascorso e stato, un tempo che si ripercuote nel presente come nel futuro.
«La cosa non sfuggiva a Mathilde, ma lei aveva già la sua battaglia da combattere. Aveva sempre avuto bisogno di un'idea fissa, di un'ossessione. Come altri rimpiazzano un amore con un altro amore, lei rimpiazzava un odio con un altro odio.»
Un odio, un rancore che si dipinge nelle parole delle sorelle, che arriva quasi a giustificare una meschinità e istinto di vendetta e crudeltà sempre pronto a infliggersi gratuitamente sul malcapitato di turno.
Non vince tanto, come romanzo, per quel che effettivamente si succede nell’evolversi, anzi. La trama, al contrario, è statica, si sviluppa in modo tale da far presupporre un colpo di scena che si pregusta ma non assapora. Per questo attrae e trattiene ma anche sorprende o può stancare.
Ecco allora che il vero delitto prende forma proprio in quel passato che prima o poi sembra essere destinato a tornare a galla.
Quello presente in queste pagine è un Simenon duro e crudo, un Simenon da gustare in solitudine, senza fretta, poco alla volta. Le sensazioni e le riflessioni si radicano così nel lettore, la vendetta emerge e come ogni vendetta si lascia gustare fredda. Non vi è spazio per sentimenti positivi, non vi è spazio per un riscatto propositivo. Sono pagine claustrofobiche e capaci di trattenere con pura e semplice naturalezza.
«E l'odio diventava tanto più spesso, tanto più vischioso, tanto più pesante, tanto più perfetto quanto più lo spazio si riduceva.»