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Il piccolo borghese del Sol Levante
Questo è un romanzo che può apparire lievemente insolito come stile di scrittura, per le nostre consuetudini letterarie occidentali, ma non più di tanto, è una buona storia, solo in un contesto differente, poiché l’autore, Isaka Kotaro, è uno dei più celebri scrittori giapponesi, poco noto da noi ma famoso e pluripremiato in patria per la sua lunga e prolifera carriera, costellata di successi.
Pertanto, luoghi, personaggi, abitudini, ambientazione, gastronomia, usi e costumi che fanno da indispensabile substrato ad ogni buona storia, appaiono qui diversi da quelli ai quali siamo abituati.
Sono però particolari trascurabili, Tokyo per esempio, né più meno, è identica a qualsiasi grande metropoli del resto del mondo, basta ricordarsi solo che ha una densità abitativa esasperata, come in Cina ma in un territorio al confronto meno esteso. La popolazione nella capitale è dell’ordine di qualche milione di abitanti, dà l’idea di un grande formicaio, un agglomerato urbano brulicante di individui, ognuno indaffarato in una precisa funzione. Qualcuno di loro, ha ben poco di umano, come è statisticamente logico da aspettarsi.
“…Gli esseri umani sono più simili agli insetti che ai mammiferi…”
E quindi, in questa storia qualche umano richiama più gli insetti che i propri simili, per esempio le cicale, o le locuste, o i calabroni, che possono anche essere dannosi, o cattivi e vendicativi, e se proprio bisogna tirare in ballo i mammiferi, una balena, magari.
Questa, in estrema sintesi, l’essenza de “La vendetta del professor Suzuki” di Isaka Kotaro.
Una storia del tutto diversa da altri autori del sol levante, niente a che fare con la relativamente recente pubblicazione della trilogia alla caffeina di Toshikazu Kawaguchi, per dire.
La grande realtà metropolitana giapponese è babelica, agitata, frenetica, come può esserlo Londra o New York, con la differenza che qui almeno per la stragrande maggioranza della popolazione si tratta ancora di solo nativi, i classici cittadini giapponesi.
Appartenenti per lo più alla classe sociale media, comuni benpensanti e tradizionalisti, ben integrati ed inseriti nella loro società, dediti religiosamente ai propri millenari riti. Notoriamente ligi al lavoro, al dovere, alla famiglia ed all’imperatore, insomma una sorta di solerti borghesi piccoli travet, come si incontrano dovunque nel mondo.
Attorno ad uno di questi, il signor Suzuki, si snoda la vicenda descritta in questo romanzo.
La buona narrativa ha infatti accezione transnazionale, anche in posti singolari si ritrovano tipi umani caratteristici comuni nel resto del mondo: Suzuki è un tranquillo professore di matematica, innamoratissimo della propria moglie, la cui esistenza scorre placida tra l’insegnamento, a cui si dedica con passione, più per autentica vocazione didattica che per professione atta a sbarcare il lunario, e appunto l’amore intenso, reciproco, inestimabile, e perciò più unico che raro, per la propria metà, con cui progetta un futuro di espansione familiare sperabilmente lungo, lieto e felice.
Un giorno però accade l’imprevisto, tragico, improvviso e crudele: la moglie di Suzuki, in sintesi l’essenza della sua esistenza, la sua principale ragione di vivere, mentre attraversa la strada, ovviamente ligia alle leggi ed al codice della strada, viene brutalmente investita e uccisa da un’auto pirata. Auto pirata per modo di dire: poiché ben presto si appura chi era alla guida dell’autovettura assassina, neanche serve tanto acume investigativo per giungerne a capo, poiché i responsabili quasi ne rivendicano la paternità con tracotanza e delittuosa strafottenza.
Sono infatti delinquenti della peggiore specie, sicuri dell’impunità, incuranti delle conseguenze come solo chi detiene potere, e potere criminale per di più, può permettersi di mostrare impunemente.
Alla guida, infatti, c’era il figlio prediletto del potentissimo capo della Mafia locale, la Reijo; il figlio destinato un giorno a succedere al potente boss, un erede al trono malavitoso che intanto neanche è nuovo a simili atti delittuosi, giusto per farsi le ossa con una sana gavetta delinquenziale, conta infatti già al suo attivo diversi omicidi stradali, sia perché dedito per diletto all’uso di droghe e alcool nel mentre sfreccia a tutta velocità per le affollate strade cittadine, sia più che altro perché intende visibilmente rimarcare con la paura, impegnandosi in questi delitti gratuiti, il potere politico ed economico del suo clan.
Suzuki comprende subito che malgrado tutti siano al corrente di chi sia responsabile del vile assassinio, nessuno, né polizia, magistrati, avvocati, politici, o chiunque altro gli potrà rendere giustizia, persone come i mafiosi Terahara padre e figlio sono ricchi, violenti, feroci, potenti, intoccabili, possono contare su tutta una rete di corruzioni e protezioni che li salvaguardano.
Allora Suzuki, seppellita l’amata consorte, decide di trasformarsi in giustiziere solitario, lascia la sua vita precedente e si fa assumere addirittura presso la società paravento della Mafia, finanche con compiti e mansioni delinquenziali, pur di ottenere vendetta, deciso rendere personalmente pan per focaccia, privare della vita il figlio prediletto del boss Terahara.
“…mia moglie è stata ammazzata quasi per gioco dal figlio di Terahara, e io mi sono infiltrato per vendicare la sua morte…”
Suzuki né più né meno intende trasmutarsi da piccolo borghese del Sol Levante nel borghese piccolo piccolo, protagonista del bel romanzo di Vincenzo Cerami, di cui ne fece una magistrale trasposizione sullo schermo Alberto Sordi nel film omonimo.
“…Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vendicare la moglie…”
Il che non è una cosa facile: come Suzuki avrà modo di verificare personalmente, il mondo della malavita, la dimensione del Male, non è qualcosa di logico, è un pianeta pazzesco ed improbabile, alieno alle persone comuni, i normali cittadini per bene, ossequiosi non tanto della legge in sé ma del vivere civile a misura umana. Un mondo assurdo, a sé stante, dove è impossibile esista la vita comunemente intesa, irrazionale, insensato, Suzuki constaterà cioè direttamente manu propria la banalità del male, e la sua inconsistenza. Il sonno della ragione, dell’empatia umana, dell’onestà, della solidarietà e compassione genera mostri, ma più che altro partorisce figure folli, filosofie illogiche, degenerazioni aberranti.
Destinate in un modo o nell’altro a finire male esse per prima, proprio per la loro natura abnorme e fallace, impossibilitata a preservare la specie dei protagonisti, destinati a soccombere e sostituiti da nuove, analoghe, devianze, che ridondano lo stesso male, un serpente che morde sé stesso avvelenandosi di continuo.
Delinquere può essere redditizio a breve, ma è sempre distruttivo per chi lo fa.
Sempre è una scelta perdente, perciò mai conveniente, perché fuori norma, senza logica.
La società malavitosa e delinquenziale è sempre tossica e negativa, per quelli stessi che la usano; è una anomalia rispetto alla corretta, e comune, umanità, una perdita di tempo ed energie che se ben canalizzate garantirebbero invece una resa assai più conveniente in tema di civiltà dell’esistenza.
Il crimine non è arioso, è una realtà relegata in spazi ristretti anche fuori dai luoghi di pena, asfissiante, alienante e refrattaria ai contatti empatici costruttivi, tutti diffidano di tutti, a torto o a ragione, tutti finiscono per scontrarsi tra loro, tutti in un modo o nell’altro sono destinati ad una inevitabile brutta fine.
Lo dimostrano platealmente i protagonisti negativi della nostra storia, oltre ai mafiosi padre e figlio leggiamo per esempio del Cicala, un qualsiasi killer prezzolato che uccide su ordinazione, ma non solo le vittime designate, per soprammercato, e senza sovraprezzo, anche quanti gli sono intorno ad ogni buon conto:
“…e pensi di farla franca? Ammazzando tre persone solleverai un vespaio! I media ci sguazzeranno, la polizia farà indagini a tappeto!”;
oppure la Balena, altro killer non da meno, che si vanta di compiere omicidi perfetti inducendo le sue vittime a suicidarsi, così come lui stesso definisce le defenestrazioni delle sue vittime, o ancora lo Spingitore, abile a spingere le sue vittime sotto le ruote dei treni della metropolitana o delle auto ai semafori pedonali.
Suzuki avrà modo di avvicinarli e averne cognizione, di tutte queste figure grottesche, illogiche, impensabili, dapprima con stupore, poi con incredulità e sconcerto, gli verrà in soccorso nella sua missione la sua mente analitica di matematico, poi il ricordo dell’amata consorte, sempre indissolubilmente presente al suo fianco, legata dall’anello della fede che porta al dito.
Soprattutto la fede, intesa sia come l’anello sia come il credere nella forza e nel valore della propria umanità, è quanto lo scuote dall’intontimento, dal torpore, dall’inezia in cui il lutto subito lo aveva sprofondato e gli fa comprendere come la giustizia non deve, non può realizzarsi abbassandosi al livello dei colpevoli, ma innalzandosi dall’assurdità di quel vivere.
La giustizia è azione riparatrice insita nelle azioni commesse, quelle nefandezze prima o poi, più spesso prima malgrado quando si pensi, si ritorcono contro gli autori stessi dell’infamia; l’arroganza, la stupidità, la tracotanza, il vivere da malavitoso per l’essenza stessa di quell’esistenza sono propositi illusi e allucinati, con inevitabile crollo finale che fa catarsi della stupidità di quell’agire malevolo.
“…Noi non viviamo, sopravviviamo soltanto…”
Isaka Kotaro, ha una bella mano, nulla da dire; possiede un’ottima linea descrittiva, una bella penna, incisiva e scorrevole, racconta bene e chiaro, con precisione, delinea fatti, situazioni e personaggi con cura e attenzione per i particolari. La prima parte del romanzo decolla con qualche difficoltà, un alternarsi di capitoli di pari passo con l’alternarsi dei personaggi principali, ma sono difficoltà dovute al doversi familiarizzare con figure molto al di fuori dei canoni consueti. La parte centrale segna addirittura un momento di pausa sconcertante, direi un primo piano sequenza lungo e fuori norma, laconico e asciutto per poi riprendere di colpo con un ritmo avvincente, molto più agevole, celere, un crescendo con finale repentino. Nel complesso un libro particolare, che può apparire eccentrico o stravagante, in realtà è un lavoro fruttifero, concludente e conclusivo, descrive una realtà che appare diversa a quella di cui siamo abituati, ma a ben leggere, è lo stesso nostro quotidiano, usuale e prevalente; perciò, è un romanzo efficace ed efficiente, di tutti. Ad ogni latitudine.
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