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La guerra dei Van Allen
Vic Van Allen è un tranquillo abitante di Little Wesley, cittadina nei pressi di New York. Conduce una esistenza pacata e regolare. Potrebbe vivere di rendita, ma gestisce pure una piccola tipografia artigianale dedita alla pubblicazione di volumi di gran pregio editoriale e si dedica a una serie di hobbies stravaganti: ebanisteria, allevamento di lumache e cimici, per il puro piacere di osservarle, giardinaggio. Ha una bambina allegra e intelligente di nome Trixie e una moglie bella ed esuberante, Melinda. Ma è proprio Melinda a causargli gli unici crucci della sua tranquilla esistenza. Da quando è nata Trixie è divenuta inquieta e scontrosa, al punto che i due dormono in camere separate. La loro vita in comune consiste solo in un mondo di cocktail party, feste in piscina, barbecue e abuso di alcolici. Ma soprattutto Melinda si concede sin troppe avventure extraconiugali. Vic ha sempre finto di ignorare i flirt della moglie, mostrandosi tollerante e quasi apatico sulla infedeltà della donna, anche se gli amici lo esortano a reagire. Però non sopporta che gli amanti di lei siano tutti persone vacue, sciocche, noiose e intellettualmente inferiori. Soprattutto lo innervosisce il loro tentativo di ingraziarsi pure la sua benevolenza. Così quando l’ennesimo corteggiatore, crollato sul divano sbronzo marcio, lo ringrazia per essere così accondiscendente nei suoi confronti (perché “Chiunque non capisca quando esagera…”) Vic con un sorriso sinistro gli dice che quando effettivamente non ne può della gente che non gli piace lui… la ammazza. E a conferma di ciò porta a esempio il fatto che un ex amante di Melinda sia stato ucciso a New York da mano ignota. Vic, ovviamente, non c’entra nulla con l’omicidio, ma, sebbene i suoi amici siano convinti che si sia trattato solo di una battuta feroce, la voce si diffonde rapidamente e per qualche mese la notizia ha l’effetto sorprendente di sfoltire il numero di uomini che frequentano Melinda e di riportare la pace in famiglia.
In seguito, però, arrestato il vero colpevole, la situazione torna a peggiorare. Così Vic, una sera, preso da un raptus, passa davvero dalle malvagie vanterie ai fatti concreti con l’ultimo amante. Nonostante non si trovino le prove del crimine, Melinda si dice certa che a uccidere Charley sia stato proprio lui e, da quel momento, la situazione tra moglie e marito diverrà incandescente in un crescendo rossiniano.
Patricia Highsmith (l’autrice de “Il talento di Mr. Ripley”) è sempre stata un’autrice iconoclasta e cinicamente amorale; si conferma tale anche in questo suo libro del 1957. Il romanzo crudo e senza scrupoli etici ci fa scivolare, con la lentezza di una colata lavica e con la sua stessa letalità, da una situazione di partenza già di per sé intollerabile (un matrimonio intossicato dalle sfacciate infedeltà della donna e dalla perdita di interesse reciproco nei coniugi), sino ai brutali omicidi commessi da Vic, che ormai ha superato il confine ultimo di ogni umana tolleranza. La narrazione scivola pigra, descrivendoci in modo asettico e impersonale (forse un po’ troppo) il progressivo degrado dei rapporti tra i due sullo sfondo dell’apparente serenità della periferia americana, fatta di serate tra amici e notti passate a bere per noia.
Vic, nonostante i reati che va via via commettendo, continua a restare ai nostri occhi la vittima di questa incredibile situazione. Peraltro è un padre amorevole, un serio e coscienzioso professionista sul lavoro, rispettoso dei suoi pochi dipendenti, un amico leale. E cerca di essere pure un marito corretto e comprensivo. Tutto ciò mentre Melinda, quasi a volerne irridere e sfidarne la tolleranza, non fa che approfittare della sua apparente indifferenza, giungendo a umiliarlo alle feste e agli incontri sociali ove non si perita di esibire le conquiste di turno comportandosi in maniera sfacciatamente provocatoria o di invitare l’amante del momento in interminabili notti a casa propria passate a bere, a ballare in modo troppo intimo e ad aspettare che Vic se ne vada a letto per potersi concedere al compagno occasionale.
Quindi, senza rivelare il finale, peraltro intuibile, si deve riconoscere l’indubbia abilità dell’A. a far sì che tutte le simpatie vadano a Vic (nonostante sia il “cattivo di turno”) e che vi sia, cioè, una sentita partecipazione per la tragedia che incombe su di lui. La trama è giocata sui tormenti interiori e sulle lotte psichiche dell’uomo, da un lato intenzionato a tener disperatamente in vita un matrimonio “normale” solo di facciata, ma esacerbato nella sua essenza, dall’altro divorato dai rimorsi non già per i crimini commessi, ma per dover fingere e mentire con gli amici che lo sostengono e, sino all’ultimo, lo credono innocente, un sant’uomo. Perché Vic, in effetti, è intimamente buono e mite, perché l’omicida, in fondo, è un altro sé stesso, suscitato in lui dalle sfacciate sfide della moglie. Insomma, l’A. con la sua perversa abilità riesce a ribaltare il nostro senso morale, a mostrarci il mondo osservandolo “dall’altra parte dello specchio”.
Giunti alla parola fine, non può mancare uno straziante pensiero per le sorti della piccola Trixie, l’unica anima veramente pura della vicenda che, si può supporre, verrà travolta dalle conseguenze della tragedia che ha colpito la sua famiglia.
In conclusione è un ottimo romanzo, un po’ maligno e ambiguo, ma in grado di tenere col fiato sospeso sino alla fine e, magari, pure a commuovere il lettore.
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Una nota conclusiva: da questo romanzo sono già stati tratti numerosi film. In particolare Michel Deville nel 1981 girò una pellicola con Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant, abbastanza fedele alla storia originale. Di questi mesi, invece, è l’uscita di una versione americana con Ben Affleck con un finale totalmente opposto a quello voluto dalla Highsmith. Segno che i tempi sono mutati...