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ESTATI DIVERSE
“Billy Summers”, l’ultimo lavoro di Stephen King, è una buona storia, raccontata anche meglio, il che vuol dire scritta con chiarezza, ordine e coerenza, in linea con lo stile dello scrittore del Maine è anche un bel tomo, però mai pesante o prolisso, tutt’altro. Molte pagine, nessuna ridondante.
Come suo solito, direi; questo è un romanzo il cui autore, che, come nessuno, sa prendersi cura, nutre massimo rispetto e alta considerazione per il suo lettore tipo, anela che si comprenda compiutamente tutto quanto ha da dire, sia le righe che ha scritto che quanto altro ha sottinteso tra le righe, desidera che il suo lettore si sistemi comodamente, smorzi le luci e accenda la lampada diretta sulle pagine, si isoli, si estranei e si delizi alla grande, operando una full immersion in tutto quanto riportato nelle pagine, azioni ed emozioni, che è poi il modo migliore di gustare un libro, qualsiasi libro, e di converso decretarne il successo.
King per primo lo sa benissimo, tutto questo, perché prima ancora di essere un grande scrittore è un formidabile lettore, il primo assioma è conseguenza del secondo dogma, per questo egli quando scrive ce la mette tutta, si prodiga al massimo per ricreare quella sospensione, quell’estraniarsi dalla realtà materiale e catapultarsi in quella cartacea, che solo certi libri e certi autori sanno realizzare alla grande. Serve chiarezza, onestà, precisione, talento, e non poche pagine.
King fra questi, senza discussioni, ed il merito principale sta tutto nella passione che tutt’ora, malgrado decine di titoli di successo all’attivo e milioni di copie vendute in tutto il mondo, prodiga nel suo lavoro. Quella di King è una dipendenza per lui, una piacevole dipendenza, quasi un’ossessione, che in più conta su un vastissimo mercato di affezionati, ansiosi di inebriarsi con un’ennesima variante dell’arte kinghiana.
Ecco perché ogni suo lavoro, e questo non fa eccezione, in genere è esteso, diffuso, circostanziato, interessante, si legge con piacere e con facilità, ci si immerge subito in ambienti ed atmosfere evocate ad arte e con valore ed ingegno del mestiere dal nostro. Da notare, a maggior riprova, che questa in esame non è una storia dell’orrore e del paranormale, qui ed ora l’autore definito dai più il Re dell’Horror è estremamente pragmatico e razionale, ma mai prosaico, però.
Stephen King non rifugge mai dall’esprimere sentimenti ed emozioni, e quindi a offrire poesia con la sua prosa, egli è, prima di ogni altra cosa, un signor scrittore, un autore che tutt’oggi scrive storie innanzitutto per sé stesso, prima ancora che per deliziare i suoi fedeli lettori, che sono milioni nel mondo. Lui per primo si diverte a leggere ed a scoprire quello che il suo talento narrativo gli suggerisce, quanto inventa man mano che la storia va avanti motu proprio, è quel tipo di autore che si fa guidare dalla trama e dalle azioni dei suoi personaggi, non forza la mano agli uni ed agli altri, nemmeno lui sa come si orienta il racconto, come termina, dove va a parare, e cosa si inventeranno i protagonisti, che fine faranno, è questa passione di scrivere per scrivere, questa imprevedibilità e originalità creativa, che è alla base del suo enorme e meritato successo.
Stephen King ha scritto spessissimo di orrori, in passato, ha pubblicato romanzi in cui vivono normalmente ai giorni nostri, come niente fosse, vampiri, fantasmi, mostri celati nelle fogne, ma quello non era altro che un pretesto narrativo, come fanno molti autori, King si è cimentato in un genere, quello dell’Horror, come altri fanno con il romanzo giallo o un noir, per parlare di ben altro.
Così ha fatto King, semplicemente ha posto in diretto confronto i mostri classici, così come pervenutici dalla letteratura di genere e dai film tratti da quei testi e oramai ben radicati nell’immaginario collettivo, con i veri, reali, fattivi e concreti orrori della società americana contemporanea, quella in cui King vive. Perciò indirettamente cita violenza, corsa dissennata alle armi, guerra, terrorismo, abusi sulle donne, maltrattamenti domestici, pedofilia e quant’altro di peggio sa offrire la moderna società: da un simile confronto speculare tra orrori veri e finti, posti uno di fronte all’altro allo specchio, la realtà esce perdente, a conti fatti è meglio, molto meglio affrontare un vampiro, dopo tutto una croce ed un paletto di frassino piantato nel cuore è tutto quanto serve per dissolvere l’incubo. In “Billy Summers” non serve nemmeno quello, tutto il testo riporta direttamente i guasti della più deleteria America trumpiana, che si rivelano alla resa dei conti autentici orrori.
Non c’è nulla di rovinoso che non si ritrovi in queste pagine: dal terrorismo alle missioni militari estere nei paesi coinvolti, la guerra e la guerriglia, i lutti e le gravi mutilazioni nel corpo e nel morale dei giovani americani, la disoccupazione, la dissoluzione di un efficiente apparato assistenziale e sanitario alla portata di chiunque, l’ubriachezza diffusa e molesta e la dipendenza da droghe, la loro diffusione capillare. E ancora, i maltrattamenti familiari, le famiglie disgregate, le istituzioni e le case famiglie inadeguate, le violenze carnali e via dicendo. Certo, non è tutto un fluire negativo del narrato, si riportano anche, e volentieri, i valori americani della famiglia, dell’amicizia e della solidarietà, l’amore e la cura per i figli, in sintesi se in passato King si era cimentato a descrivere le diverse stagioni della sua America, grande, diversa, differente e però con un comune humus di buoni sentimenti, un’etica ed una morale solidale ed inclusiva, questa volta si sofferma sulle “estati” del protagonista, vale a dire sui momenti eclatanti della vita di un giovane particolare.
Billy Summers è un soldato, un giovane con un vissuto familiare tragico e violento alle spalle, da cui si è allontanato entrando a militare nel glorioso corpo dei Marine. L’esercito è la sua unica casa, diviene la famiglia che non ha mai avuto, che lo accoglie e gli fornisce un ruolo ed una identità.
Ma l’esercito è un posto dove i giovani vengono formati, portati ad eccellere in qualche specialità, e poiché nell’Esercito si insegna prioritariamente ad uccidere i propri simili, e per farlo servono le armi, ecco che Billy si rivela un talento nell’uccidere a distanza, diviene un provetto cecchino.
Fino a quando, stufo di lutti e mutilazioni che portano via uno alla volta inesorabilmente i membri della sua famiglia acquisita, i suoi commilitoni, Billy abbandona l’esercito per fare ritorno alla vita civile. La quale non è pronta, non è preparata né predisposta al ritorno dei reduci portatori di pesanti problematiche, neanche se ne accorge o gli dedica attenzione, per cui Billy, che con il suo talento dopotutto non fa altro che reiterare l’uccisione dei fantasmi che hanno tormentato la sua infanzia, nell’illusione di scacciarli per sempre, si ricicla proficuamente sul mercato americano come killer a pagamento. Con una caratteristica peculiare: Billy non accetta ogni e qualsiasi contratto, ma si riserva di accettare o meno un incarico di killer, solo dopo essersi assicurato della “cattiveria” della vittima designata. In sintesi, Billy Summers non uccide chiunque, ma solo i “cattivissimi”, persone a loro volta assassini, efferati membri della delinquenza organizzata, coinvolti in faide con bande rivali, o lerci individui dediti a violenze gratuite ed efferatezze varie.
Come dire, un modo di autoassolversi, un voler ribadire che dopotutto lui colpisce il male ma non è uno dei cattivi. Tuttavia, il giovane è troppo intelligente per non capire che la sua è solo una scusa di comodo per salvare le apparenze con sé stesso. Quest’alibi che si è costruito a proprio uso e consumo per autoassolversi moralmente è destinato ben presto a crollare, giunge il momento in cui Billy è per la prima volta costretto, giocoforza, a fare i conti con sé stesso, diventa lui stesso bersaglio della propria autoanalisi. Per una serie di circostanze infatti Billy, che nutre una passione sconfinata per i libri e la lettura, è costretto a fingersi per un certo tempo, uno scrittore recluso per lavorare al suo libro. Solo che Billy finisce per scrivere sul serio, si immedesima anima e corpo, e senza sforzo, nel suo ruolo, questo gli piace, lo rapisce, lo inebria. Racconta allora su un word processor la sua vita, le sue esperienze, si rende conto di quanto scrivere, come una catarsi, lo gratifichi e lo esalti, riconsidera tutta la sua esistenza, si rende conto come diversa avrebbe potuto essere tutta la sua esistenza, afferra per mano il potere della scrittura come mezzo per riscrivere la propria etica, analizzare i propri comportamenti, scegliere la parte giusta dell’esistenza in cui camminare.
Stephen King ha vergato un pezzo veramente magnifico, al proposito, l’essenza dell’arte della scrittura, perché un vero scrittore scrive e perché un vero lettore legge:
”…sapevi di poterti sedere davanti ad uno schermo o un quaderno o cambiare il mondo? È una cosa che non può durare, perché il mondo torna sempre quello che è nella realtà, ma, prima che succeda, la sensazione che provi è incredibile. Non c’è niente che valga di più, perché puoi fare in modo che le cose vadano esattamente come vuoi tu…”
Con “Billy Summers” Stephen King impartisce una lectio magistralis, una sublime lezione sull’arte di scrivere, le fatiche e gratificazioni dell’atto creativo letterario, il modo come incanalare e gestire il talento narrativo innato in chiunque, poiché ognuno ha in sé la propria storia, unica e peculiare, le proprie trame, gli sviluppi insospettabili, una pletora di fatti e personaggi che desiderano solo di essere evidenziati. Come dire, “Billy Summers” è come fosse una rivisitazione di “On writing” dello stesso King, il manuale su come si diviene un grande autore, dove la penna è un fucile di precisione, e il target è la pagina scritta.
I bersagli sono l’educazione, la crescita, la lettura, e l’amore, naturalmente, che fa parte essenziale della vita, qualunque tipo di amore:
“…un cucciolo si attaccherà sempre ad un cane che ha deciso di nutrirlo anziché cacciarlo via o sbranarlo. E lo stesso farà un anatroccolo.”
Di tutto questo, e anche di più, parla essenzialmente Billy Summers, che è ora trasformato incantevolmente da King in un cecchino che pigia non il grilletto di un fucile ma le lettere sulla tastiera. Con ottimi risultati, trasmissibili.
Il finale è uno dei migliori dello scrittore del Maine, accusato spesso di concludere i suoi romanzi in maniera affrettata, non all’altezza dei capitoli precedenti, ma questo a mio parere non corrisponde al vero. Stavolta, comunque, King si è superato, ha creato un finale nel Finale che lo coinvolge in prima persona, si autocita, alla grande, e con lui uno dei suoi testi migliori, un classico, ma con bravura, abilità, maestria, tanto di cappello.
Orrore o no, è il Re. Da leggere.
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