Dettagli Recensione
Shutter Island
L’Ashecliffe Hospital è un luogo molto particolare già sin da quella visione che appare quando sopraggiungi in prossimità dell’isola e ne inizi a scorgere le sembianze in lontananza. Manicomio criminale per malati mentali è ancora, un luogo, dove vengono adottate cure sperimentali e innovative sui pazienti, cure attorno alle quali ruota un alone di mistero e misticismo e la cui legalità è altrettanto dubbia quanto la relativa applicabilità.
Quell’isola al largo di Boston, Shutter Island, ha le sembianze di un relitto sospeso sul mare e la cupezza di quelle strutture che al loro interno racchiudo segreti innominabili e indicibili. La scomparsa inspiegabile di una delle pazienti ivi ricoverate, Rachel Solando, porta il Dipartimento di Stato a intervenire e a inviare sul posto l’agente Teddy Daniels, abituato a lavorare in solitaria, ma questa volta affiancato da Chuck Aule, personalità eclettica e ironica che ben riesce ad ambientarsi in ogni circostanza con naturalezza e spontaneità. Teddy è celebre e stimato nel settore, soffre però di profonde e intense emicranie causate dagli orrori vissuti nei giorni di combattimenti durante la Seconda guerra mondiale e a causa della perdita della moglie in un modo alquanto violento e brutale. Perdita, questa, che non ha ancora superato. Daniels e Aule una volta sul posto si scontrano con le ferree regole imposte dal nosocomio e in particolare saranno costretti a cercare di vincere le reticenze del dottor Cawley che sposa la terapia della parola e dei rapporti umani tra pazienti ma che al contempo vuol celare quelle che sono le terapie e le ombre dell’ospedale nel loro dettaglio. Ogni accesso agli atti dei pazienti subisce una sottile forma di ostracismo che non sembra possibile vincere. Talune tecniche particolarmente invasive, e non solo limitabili all’elettroshock, sono a Shutter Island utilizzate da tempo ma assenti sono le prove al riguardo. I sospetti, dunque, che la squadra di agenti federali possa trovarsi sul posto anche per indagare su ciò non sono assenti e spingono l’itero personale a una maggiore chiusura circa eventuali fuoriuscite di informazioni. Ma cosa è successo a Rachel Solando? È davvero scomparsa? E perché tutto quell’alone di mistero attorno alle attività del manicomio criminale? Quali saranno le sorti di Teddy e Chuck? Cosa si cela dietro le apparenze di questo castello di specchi che si susseguono tra loro confondendo e smaccando tra colpi di scena che si susseguono?
“L’isola della paura” di Dennis Lehane è uno scritto che non mancherà di appassionare gli amanti del genere e che verrà, laddove ancora non visto, a essere ben accompagnato dalla trasposizione cinematografica composta da un cast di alto livello. L’elaborato nel suo essere caratterizzato da molteplici intrighi si prefigge anche di far riflettere su tematiche di grandi attualità quali ad esempio la malattia psichiatrica e la realtà di cure non sempre lecite che venivano – e talvolta ancora sono – sperimentate su pazienti altrettanto spesso dimenticati in quanto facenti parte di un mondo scomodo e silenzioso, chiuso in sé e circondato da mura invalicabili. Tratta, ancora, dell’amore che viene a essere tratteggiato da scene oniriche, da sogni che si trasformano in incubi, in fantasmi del passato mai affrontati.
La trama è volontariamente a tratti confusa, talvolta anche troppo nella sua evoluzione tanto da destabilizzare il lettore o rischiare una sua caduta di interesse, lo stile è fluido ma difetta di empatia e quindi, per quanto i fatti avvincano e il conoscitore brami di sapere, non riesce a coinvolgere completamente. I personaggi sono delineati in modo abbastanza soddisfacente e per questo sono sufficientemente vividi nella mente.
In conclusione, uno romanzo valido, piacevole, adatto a chi cerca storie avvincenti ma senza troppe pretese e non indimenticabile.