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Il titolo sbagliato
Ecco un altro romanzo che avrebbe potuto ambire ad una valutazione più alta, non fosse stato martoriato nell'edizione italiana. Perché la Rizzoli non si è accontentata di risparmiare due lire eliminando i trattini che indicavano il cambio da un POV all'altro, ma è riuscita a confondermi ulteriormente le idee stravolgendo il titolo; questo cambiamento non solo anticipa al lettore una rivelazione di cui leggerà solo nel finale, ma fa sorgere inutili dubbi su chi sia il protagonista della storia e tra chi si sviluppi il contrasto principale, là dove l'originale "Speaking in Tongues" metteva da subito in chiaro il fulcro della storia, ossia le capacità oratorie di cui fanno sfoggio eroe e villain.
La struttura della storia è quella di un thriller abbastanza convenzionale: mi ha ricordato ad esempio le atmosfere de "La psichiatra" di Wulf Dorn; a fare la differenza è la scelta di includere tra i punti di vista quello dell'antagonista, trattandolo come uno degli altri personaggi e mostrandoci quindi i suoi pensieri e le difficoltà che affronta. La trama segue il rapimento della liceale Megan Collier ed i conseguenti tentativi dei genitori, Tate e Bett, di ritrovarla dal momento che sono certi non possa essersi allontanata di sua iniziativa; purtroppo anche con la sinossi Rizzoli ha fatto un pessimo lavoro (non che con la cover ci abbia azzeccato, ma su quella posso sorvolare), perché fa sembrare Megan poco più di una bambina quando in realtà è una diciassettenne, parla di un divorzio recente mentre i suoi si sono separati da ben quindici anni e vaneggia di fantomatiche sedute della ragazza con un certo dottor Peters: quello che vediamo all'inizio della storia è invece il loro primo ed unico incontro, durante il quale lui subito riesce a raggirarla e rapirla.
L'introduzione è proprio uno dei punti deboli del romanzo perché è troppo rapida, come anche il resto della narrazione, e sembra dare per scontate delle informazioni sulla situazione familiare dei Collier. Un altro difetto si nota nelle scene in cui compaiono dei personaggi giovani dal momento che Deaver, proprio come William Landay, inserisce in continuazione "cioè, tipo, capito" come fossero degli intercalare; e questo non è un problema se viene fatto per identificare un solo personaggio, ma qui tutti gli adolescenti parlano in questo modo! Purtroppo i difetti di questo romanzo non finiscono qui: i due peggiori sono l'esagerazione di alcune scene come il piano della siringa di Aaron (non spoilero oltre, tranquilli), che rendono davvero inverosimile una narrazione per il resto ben ancorata nella realtà, e la superficialità di diversi passaggi.
Il romanzo include infatti delle tematiche decisamente forti, come criminalità organizzata, omicidio, razzismo, stupro e pedofilia, ma nella fretta generale non perde neppure mezza riga per trattare con la dovuta attenzione questi elementi. Ad esempio, quando entra in scena per la prima volta Joshua, c'è un timido tentativo di far notare come venga discriminato ingiustamente per la sua etnia, ma poi l'autore se ne dimentica del tutto, tant'è che Tate non avrà mai l'occasione di ritrattare il suo pregiudizio; nel contesto della trama, quel dettaglio risulta fine a se stesso.
Oltre al già citato POV dell'antagonista, sul lato degli elementi positivi troviamo un stile molto diretto ed estremamente scorrevole, seppur per nulla distintivo a mio parere, e dei personaggi decisamente intelligenti ed in grado di prendere l'iniziativa quando necessario. Più di tutti mi ha colpito Megan, sia nelle scene in cui la vediamo tentare la fuga sa sola, sia nelle interazioni con Tate che risultano emozionanti a loro modo. Non ho parole invece per il suo rapporto con Bett, in particolare con quel finale troppo all'acqua di rose rispetto al tono generale del romanzo.