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Esistono case infestate?
Hill House è un grande edificio, infossato tra cupe colline. Ha una sinistra fama: gli abitanti del paese vicino la evitano e la odiano, i pochi che hanno osato abitarla sono sempre stati sconvolti da esperienze traumatizzanti, se non addirittura tragiche. L’aspetto stesso della villa ha un che di distorto e malvagio, minaccioso. Pure i coniugi Dudley, i custodi, sono decisamente inquietanti.
Proprio per ciò l’edificio è stato scelto dal prof. Montague per condurvi i suoi esperimenti sulle emanazioni paranormali. Suoi compagni d’avventura, e cavie della situazione, sono Theodora, ragazza esuberante, ma fatua e molto piena di sé, Luke Sanderson, giovane superficiale e di scarsa onestà, imbarcato nell’avventura solo in quanto erede della famiglia proprietaria dell’immobile e Eleanor Vance, ragazza fragile, sensibile e iperrecettiva, che reca su di sé le ferite psicologiche causatele dalla dolorosa esperienza di undici anni spesi ad assistere la madre malata.
I quattro dovranno trascorrere alcune settimane nella casa e annotare tutte le manifestazioni “insolite”, in modo da fornire materiale di ricerca a Montague. Dopo la prima notte di quiete la casa non tarderà a farsi sentire, nel senso letterale del termine. Ben presto, poi, l’ambiente sinistro prenderà il sopravvento sulle loro coscienze, soprattutto su quelle dei più deboli e indifesi.
Può una casa essere cattiva? Può, in generale, un bene inanimato provare desideri, emozioni, pulsioni? E sulla base di questi desideri, emozioni, pulsioni, può influire sugli esseri senzienti al punto da condizionarne le scelte?
Queste domande in sé mi lasciano parecchio scettico e sconcertato, se non proprio sprezzantemente divertito. Quando non scelgo, scientemente, ambientazioni fantastiche, preferisco gli approcci razionali agli enigmi della vita. L’idea stessa del paranormale o di case infestate mi infastidisce, perché è priva di qualsiasi spiegazione logica. La ritengo idonea giusto ad animare una sera di Halloween. Non ho una grande esperienza in letture gotiche e horror e i pochi film sul genere che ho avuto l’occasione di vedere non mi hanno mai molto coinvolto. In particolare mi hanno irritato tutte le storie in cui c’erano edifici che plagiavano i loro abitanti conducendoli alla fine tragica a cui erano predestinati sino al momento in cui avevano varcato la loro soglia.
Tuttavia non posso non riconoscere a Shirley Jackson l’indubbia abilità di manipolare l’immaginazione dei suoi lettori. Quindi sapendola una scrittrice di gran classe mi sono avvicinato a questo libro con buone aspettative che non sono state deluse; non tutte, almeno. Ma una punta di insoddisfazione m’è rimasta.
La storia ha il pregio di non calcare troppo la mano sul paranormale. Non ci sono misteriose presenze, apparizioni spettrali o emanazioni ultraterrene. In fondo oltre a farci partecipi di un paio di notti “da tregenda”, durante le quali i muri riecheggiano per spaventosi colpi; del fatto che, in alcuni locali, aleggino dei “punti gelidi” che ghiacciano coloro che vi si soffermano; o che l’edificio emani una “personalità malvagia”, nulla di particolarmente ultraterreno ci viene offerto. Il racconto gioca principalmente sul piano psicologico dei protagonisti e sull’alterazione delle loro percezioni. Coloro che sono attaccati di più alla concretezza della vita terrena vengono solo parzialmente influenzati dall’atmosfera spettrale, anzi, terminate le manifestazioni, le irridono. Chi, invece, è di suo tendenzialmente più permeabile a questi influssi ne viene catturato e sconfitto.
Questo approccio che predilige i drammi e i conflitti interiori a quelli banalmente fisici alla ghostbuster è vincente. Tuttavia mi è sembrato che all’intreccio manchi di qualcosa, che lo sviluppo della tragedia sia solo in parte esplicitato. L’evoluzione della psiche di Eleanor scende troppo rapidamente i gradini che la condurranno al baratro finale. C’è carenza di introspezione della ragazza, ma pure dei suoi compagni. Il carattere di Eleanor appare esageratamente alterato, sin da subito, quindi poco credibile. L’iniziale, disperata ricerca di una realtà addolcita, che sostituisca il vuoto della sua vita passata, è troppo fanciullesca per una trentenne, troppo forzata. Il successivo cupio dissolvi che la spinge a ricercare l’annullamento nella compenetrazione assoluta con la realtà di Hill House giunge bruscamente, a tappe forzate e in modo abbastanza ingiustificato.
La Jackson è abilissima a inventarsi atmosfere agghiaccianti limitandosi ad accennarne i contesti, lasciando alla fantasia del lettore (con le sue costruzioni mentali) il compito di riempire gli spazi rimasti vuoti, magari in modo ancor più terrifico di quanto avrebbe potuto ipotizzare lei stessa.
Tuttavia in questo caso forse il non detto lascia troppe lacune difficili da colmare. Le pur abili descrizioni della Jackson pretendono troppo all’immaginazione. Insomma, non sono riuscito a trovare una effettiva risposta alle domande che ho posto più sopra e la storia mi è parsa un po’ irrisolta.
Ma forse la colpa è solo mia. Il malizioso Ambrose Bierce in uno dei racconti ci fa ammonire da un suo personaggio, dicendo che una storia dell’orrore può sortire il pieno effetto per la quale è stata concepita solo se il lettore acconsente a porsi nelle condizioni ideali per essere terrorizzato. Io, in questo caso, ho letto il romanzo in assolate giornate di luglio: Può essere che mi sia mancato l’animus adeguato.