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L'orrore della quotidianità
È possibile che l’orrore e il terrore riescano a sostanziarsi nel pacato susseguirsi di ordinari gesti quotidiani? L’angoscia e l’opprimente peso dell’esistenza possono mimetizzarsi nel noioso tran tran di ogni giorno, di ogni settimana ognuno inevitabilmente uguale ai precedenti? Per Shirley Jackson sì.
L’A. riesce a calare i suoi lettori in un’atmosfera melmosa e pervasiva che penetra nei pori e sembra impossibile da lavare via; un’atmosfera che lascia un malsano sentore di minaccia, un brivido cupo sottopelle che non ci abbandona neppure una volta che si sono chiuse le pagine che lo contengono.
Eppure la vita di Mary Katherine Blackwood (detta Merricat), appare trascorre lieta nella sua grigia monotonia. Assieme alla sorella maggiore Constance, allo zio Julian, invalido e un po’ “suonato”, e al gatto Jonas occupano la sontuosa residenza Blackwood; la grande tenuta consente loro di vivere agiatamente, con tutto il necessario a loro portata, riducendo al minimo i contatti con il mondo esterno e solo per procurarsi i pochi alimentari che il loro orto non produce e per il continuo rifornimento degli onnipresenti libri.
Constance è buona e servizievole con loro: li accudisce e vezzeggia con amore. Accetta serenamente anche le loro stramberie. Eppure, nonostante la sentenza di assoluzione, tutto il paese è convinto che sia stata proprio lei l’assassina che avvelenò la sua famiglia, quella che aggiunse l’arsenico nello zucchero per i mirtilli, quella che causò la morte tra atroci dolori dei genitori, del fratellino, della zia Dorothy e rese invalido Julian. Ma ora tutto fila liscio a casa Blackwood, anche se ogni tanto Merricat è costretta a scendere in paese per qualche provvista e così rischia di dover subire le cattiverie degli abitanti; nulla è fuori posto, superato il cancello che separa il grande parco dal resto del mondo. A casa, tutto va bene, tutto è in pace, almeno sino all’esiziale cambiamento causato da Charles, cugino delle ragazze, piombato improvvisamente e in modo totalmente indesiderato nelle loro esistenze. Merricat ha fatto ogni magia possibile per evitare questo increscioso evento, ma, ora che lui si è installato nella villa, una nuova plumbea tragedia si precipiterà sulla loro esistenza in un climax lungamente annunciato. A quel punto non si comprenderà più da che parte staranno i mostri e da quale le vittime. Il mesto dolore si fonderà col terrore, l’ira con la follia, la mesta rassegnazione con i tormentosi sensi di colpa in un purgatorio continuo che appare troppo simile a un inferno in terra.
La fama di Shirley Jackson, quale maestra del thriller, non è certo immeritata, ed è dovuta in gran parte a questo breve romanzo, nel quale un’aura angosciosa striscia in ogni pagina, anche in quelle apparentemente più innocue. La cosa singolare è che il subdolo raccapriccio che ci pervade discende da una verità che si comprende ben presto, anche se mai viene affermata in modo apertamente esplicito. Eppure, se non è troppo difficile immaginare cosa sia effettivamente accaduto a casa Blackwood, si oscillerà continuamente tra la repulsione per il fatto di sangue di sei anni prima e l’odio e la repulsione per ciò che ne è derivato come conseguenza dopo. Quando, poi, saranno chiari i ruoli reciproci la cappa calerà ancor più opprimente e soffocante.
La conclusione, sapientemente soffusa e indefinita, come avvolta in una caligine senza tempo, ci lascia a un tempo insoddisfatti e ulteriormente angosciati con un malessere che mette i brividi.
Proprio per tale motivo, se da un lato non posso non riconoscere a questo romanzo le caratteristiche di capolavoro del suo genere, dall’altro non riesco neppure a ricavarne una profonda piacevolezza. Troppe sono le sensazioni che suscita, tutte negative e demoralizzanti. Odio, rabbia, sgomento, depressione, disprezzo, avversione, sgomento, afflitta empatia, nessuno di questi fa rima con piacere, ma tutti confluiscono a inspessire i muri della plumbea prigione delle sorelle Blackwood che noi siamo chiamati a condividere.
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Commenti
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E' indubbiamente un libro da leggere, anche se, mi ripeto, alla fine lascia un forte sentore di amaro in bocca, seppure non proprio di arsenico. :-)
La cosa sorprendente è che la Jackson riesce ad instillare il senso dell'orrore e della disperazione senza mai usare scene forti o violente, ma al contrario usando quasi sempre toni pacati. Si muove in punta di piedi, nondimeno riesce a scavarti dentro. Non voglio anticipare nulla, ma su questo romanzo si potrebbe scrivere un trattato di psichiatria.
Aggiungo: ho altri due libri suoi sul tavolo che aspettano di essere presi in mano, ma mi sa che per un po' passerò a letture più lievi, ne sento fisicamente il bisogno.
Buona lettura!
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