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Il deserto di cenere dell'Askja
Da sempre la musica folkloristica è una passione irrinunciabile per l’ispettore Kornelíus Jakobsson, della polizia criminale di Reykjavík. Una passione che ha portato avanti cantando in un coro di donne, lui che dal suo aspetto possente e robusto tutto sembra tranne che l’uomo adatto a dedicarsi a siffatta attività. Abbiamo conosciuto la sua figura in “Heimaey”, opera che lo vedeva alle prese con il ritrovamento in una solfata di un cadavere spellato dal ventre in giù e al contempo con la mafia lituana.
Questa volta, però, Kornelìus si trova alle prese con un nuovo delitto di sangue che sporca il cuore più profondo dell’Islanda. È infatti nel deserto di cenere dell’Askja che viene avvistato il corpo imbrattato di sangue di una donna da un ragazzo, fotografo, intento a riprendere i sacri muschi.
«Si potrebbe credere che stia dormendo su un letto con lenzuola spiegazzate di cotone nero. Un ginocchio è rialzato e il viso è nascosto nell’angolo del braccio destro. L’altro braccio è steso lungo il corpo, con il palmo della mano verso il cielo. È proprio quel palmo al rovescio a dare l’impressione che sia morta. I capelli rossi e ricci a corolla somigliano a un ciuffo di muschio. Corpo immobile e bianco in mezzo alla lava scura. Non completamente nudo, in realtà. Gli rimane un calzino bianco a un piede.»
Tuttavia, Jakobsson non fa in tempo ad arrivare sul luogo del delitto che il corpo è scomparso. Che sia viva o che sia morta la ragazza? La circostanza è molto strana e nessuno sembra riuscire a dargli risposta, nemmeno quell’unico uomo, Eriksson, che vive nella landa ma che è affetto da Alzheimer.
«Dove è potuta finire quella povera donna? Perché il corpo se era morta, è scomparso? E perché, se non era morta, è ugualmente scomparso? Come fa una donna nuda nelle Alte Terre a scomparire senza lasciare tracce?»
Al contempo, negli stessi giorni ma nella capitale, Botty, una giovane poliziotta si trova a dover fare i conti con uno scenario simile: sul fondo di un cratere vengono rinvenuti i frammenti di una bottiglia di vodka intonsa di sangue ma del corpo vittima destinatario del colpo non vi è traccia. Anche in questo caso, l’unico testimone, non ha memoria.
La circostanza riporta alla mente dell’ispettore un caso occorso durante gli anni Settanta e all’interno del quale due delitti si erano risolti senza cadaveri e con una ammissione di colpevolezza da parte di rei senza memoria dell’azione delittuosa. A complicare ulteriormente il quadro, un cecchino dal sangue freddo e senza scrupoli.
Quello che ci propone questa volta Ian Manook con “Askja” è un thriller ricco di colpi di scena e dove nulla deve essere dato per scontato. Le ambientazioni sono perfettamente descritte tanto che quello che ha inizio non è soltanto un viaggio nel mistero quanto anche un percorso nella natura, per quei tratti di una isola vulcanica selvaggia e da scoprire. Si noti bene, infatti, che nel componimento, esattamente come nella saga di Yeruldelgger in cui protagonista era la Mongolia, l’Islanda è una protagonista in piena regola e non solo scenario dove gli eventi si susseguono.
Le vicende seguono una linea narrativa precisa e composta da una narrazione che alza sempre più il livello di suspense man mano che il componimento va avanti. I personaggi che caratterizzano lo scritto sono inoltre tutti ben delineati: da Jakobsson a Botty ciascuno è chiaro e vivido nella mente del lettore.
Al tutto si somma uno stile evocativo, coinvolgente e pungente, uno stile fatto da dialoghi rapidi ma anche da atmosfere che arrivano con tutte le loro sfumature.
“Askja” è per questo un buon secondo episodio della trilogia iniziata con “Heimaey” e non mancherà di deludere le aspettative dei lettori più esigenti. Non solo, è un titolo che coinvolge e incuriosisce e che trattiene tra le pagine per trama quanto anche per arcano che si nasconde dietro la facciata di un paese solo esteriormente politicamente corretto.