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Il castello d'Otranto
 
Il castello d'Otranto 2009-08-31 12:31:14 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    31 Agosto, 2009
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Il primo romanzo gotico

Strano tipo Horace Walpole, che nella prefazione alla prima edizione del 1765 del Castello d’Otranto, dice che l’opera altri non è se un libro stampato a Napoli nel 1529, trovato nella biblioteca di un’antica famiglia inglese e da lui tradotto. In ciò si comporta né più ne meno come James Macpherson che pubblica nel 1760 i Canti di Ossian, attribuendoli a un leggendario bardo di nome appunto Ossian.

Un altro elemento di curiosità è dato dal fatto che Walpole tesse smisurate lodi dell’autore dell’opera, sconosciuto, ma che, ipotesi nell’ipotesi, potrebbe essere un astuto sacerdote cattolico.

Il castello d’Otranto, opera preromantica, ha un notevole successo e allora Walpole nella prefazione alla seconda edizione si rivela, peraltro ricevendo più di un biasimo.

Al di là della vicenda della paternità questo romanzo, che non potrà mai essere ricordato come un capolavoro della letteratura, presenta tuttavia caratteristiche peculiari tali che ne decretano la doverosa memoria, trattandosi del primo libro di genere gotico.

Si rilevano infatti quelle caratteristiche di mistero, di passioni occulte, di incombenza della morte, del realizzarsi di antiche profezie, di personaggi del tutto straordinari e immaginari, che uniti a un’atmosfera cupa, di tensione psicologica, costituiscono gli elementi basilari per opere successive, senz’altro di maggior pregio, quali, una per tutte, Frankenstein di Mary Shelley.

Non è che allora il romanzo di Walpole meriti di essere letto solo in considerazione delle sue caratteristiche innovative?

Purtroppo devo rispondere che l’opera non presenta altri particolari elementi di valore, perché i personaggi appaiono degli stereotipi, tutti buoni o tutti cattivi, per non parlare della trama in cui i dialoghi sono avulsi dalla tensione che è invece presente, anche se assai contenuta.

C’è da considerare peraltro l’epoca, il modo elaborato di scrivere e di parlare, che toglie quell’indispensabile senso di immediatezza e di logicità di comportamento in protagonisti sottoposti a prove naturali e sovrannaturali tali da impedire loro qualsiasi forma di reazione calma e ponderata.

Di questo se n’era accorto anche Walter Scott, che nell’introduzione al Castello d’Otranto del 1826 prende un po’ le difese di Walpole, attribuendogli finalità che, probabilmente l’autore, già deceduto, non si era mai posto.

Scrive, fra l’altro, Scott “ Il suo scopo era quello di raffigurare la vita e i costumi dell’epoca feudale com’erano veramente e di dipingerli nel tumulto e nelle fortunose vicende messe in atto dalla macchina del sovrannaturale, un sovrannaturale che la superstizione del tempo accoglieva con passiva credulità.”.

Il discorso non fa una grinza, ma il medioevo di Walpole risente troppo dei canoni della letteratura inglese del settecento, con i personaggi che, ancorché passionali, si esprimono in modo lezioso in qualsiasi circostanza, con una ricchezza di vocaboli che non era tipica nel Medioevo anche nelle classi più abbienti e pertanto maggiormente istruite; di conseguenza non mi sento di avallare questa ipotesi.

Secondo me, invece, più aderente alla realtà è il giudizio espresso nel 1919 da Virginia Woolf, che, sulla scorta della passione di Horace per gingilli, anticaglie, per quel piccolo castello in stile gotico che si era fatto costruire, parla di un libero sfogo dell’immaginazione, in cui le visioni e le passioni lo affascinavano, tributando così di fatto alla sua opera quell’importanza dovuta più alla fantasia, del tutto fuori dalla norma dell’epoca, e che giustamente farà ricordare lo scrittore inglese come il capostipite del genere gotico.

Eppure, nonostante gli evidenti difetti che ho evidenziato, sono proprio gli stessi a costituire motivo di interesse, perché comunicano l’aroma di un mondo passato, in cui il formalismo si anteponeva a tutto, e il fatto che questo comportamento si riflettesse anche in campo letterario rappresenta per l’uomo più pragmatico del XXI secolo una preziose fonte di archeoletteratura per aiutare a comprendere un’epoca, in cui, non dimentichiamolo, nacque anche il romanzo d’avventura, con quel Robinson Crusoè, di Daniel Defoe, che tanto ha alimentato i nostri sogni giovanili.

Sono in ogni caso dell’idea, che, pur con i suoi limiti stilistici, ancor oggi possa costituire una gradevole lettura per gli appassionati degli amori impossibili e delle storie a lieto fine, dove a trionfare è sempre il bene, anche e soprattutto grazie all’elemento soprannaturale.

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