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Il gioco dell'odio
Al calar della sera, nel vicolo Sébastien-Doise, tutto è ovattato, dolciastro, attutito. Il ticchettio della pioggia, il flebile zampillare della fontana, famiglie a tavola scorte attraverso la calda luce delle finestre. Ma c’è una casa, alla fine della strada, dove l’aria è tesa, gelida e irrespirabile. Perché quella che inscenano ogni giorno Marguerite ed Emile è una ferocissima guerra. Una guerra senza liti o urla, fatta di dialoghi muti, di impercettibili lampi nelle pupille, di epigrafici bigliettini lasciati sul pianoforte, di fremiti spiati di sottecchi. È il gioco dell’odio.
Marguerite ed Emile sono due settantenni, vedovi vicini di casa che hanno deciso qualche anno prima di sposarsi. Un matrimonio di convenienza, figlio della paura della solitudine, che fin dall’inizio ha mostrato incomunicabilità e inconciliabilità. Lui, uomo rozzo e volgare, con i suoi passi pesanti e i suoi sigari puzzolenti. Lei, donna fredda e superba, ancorata alle apparenze e agli antichi fasti della propria famiglia. Nessuno dei due ha fatto un passo verso l’altro, rendendo la loro vita insieme uno sterile allestimento, svuotato di parole, carezze, affetto.
Al calar della vita, i due anziani non possono far altro che tirare le somme, come tutti, e lasciarsi inconsapevolmente travolgere dai ricordi, dai rimpianti, dalla tenerezza di un passato lontano. Cosa rimane allora a cui aggrapparsi, se accanto a sé non è rimasto nemmeno un brandello d’amore ma solo una figura estranea e indifferente? È qui che Simenon ci stupisce con la sua lucida spietatezza, rovesciando schemi e aspettative: c’è ancora l’odio. L’odio, unica fiammella di vitalità in un’esistenza ormai priva di scopo e passione. L’odio, unica ancora di salvezza per dimenticare l’incipiente arrivo della morte.
“Nessuno dei due poteva deporre le armi, era diventata la loro vita”.
La pillola della realtà, come al solito, ci viene servita senza edulcoranti morali o stilistici, travolgendoci con la sua fluidità narrativa e obbligandoci a guardare dentro un male domestico, borghese, normale e, paradossalmente, quasi salvifico. Mai come in questo romanzo, il sapore che rimane sulle labbra è puro fiele.
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