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La sottile linea dura
Si conferma presso Adelphi sin dal 1985, anno in cui ha avuto inizio la pubblicazione dei romanzi duri di Simenon, l’attenzione per il belga. Non c’è da stupirsi di fronte al numero 78, tanti sono i titoli, compreso questo, in catalogo.
Leggo sempre volentieri Simenon, anche quando la trama, come succede per questo romanzo, langue, non è sviluppata e pare essere monca e priva di quel tempo necessario per la costruzione del corpo testuale. Tempo che il belga, stando alle sue “Memorie intime”ha sempre utilizzato in modo molto pragmatico, dedicando in maniera meticolosa solo le prime ore della giornata alla scrittura e dedicando tutte le altre alla dimensione più vitale dell’esistenza: la famiglia, gli amici, il mare, i viaggi e le sue innumerevoli passioni. Il mare, appunto, è una di queste e viene richiamato prepotentemente dalla sua memoria emotiva anche nel freddo e innevato Tirolo durante una vacanza, tanto da fargli sentire l’esigenza di rinchiudersi in camera accanto a una stufa di maiolica per far compiere un balzo all’odore salmastro della costa normanna in modo così repentino e prepotente da far evaporare il pur intenso e cristallino sentore dei pini.
E allora, con l’arrivo di una nave in porto l’atmosfera diventa di colpo brumosa, pesante e asfittica: tutto langue, solo l’arrivo del peschereccio Centaure, in un mare grosso che non promette niente di buono, rianima il paese, un piccolo borgo marinaro, poca gente la cui esistenza è scandita dal mare e da esso ne viene segnata. Qui vivono i due gemelli Canut, Pierre e Charles, e proprio l’arresto del primo, capitano del peschereccio, allo sbarco in quella brumosa mattina, dà il via all’azione: è accusato dell’omicidio di uno dei superstiti del Telemaque, imbarcazione che trent’anni prima affondò lasciando alla deriva su un canotto pochi uomini che, ripescati dopo una ventina di giorni, raccontarono come fecero a sopravvivere, in barca con loro il cadavere del giovane papà dei Canut, la cui morte è sempre stata ricondotta all’ombra nera dell’antropofagia. Ora anche l’ultimo dei superstiti è morto e la colpa ricade, per via indiziaria, su Pierre. A Charles, il compito di scagionare il fratello mentre langue in prigione.
Come si intuisce gli elementi ci sono tutti per destare la giusta attenzione del lettore che, grazie alle magistrali pennellate da atmosfera, si trova gradevolmente immerso in un’ottima lettura, salvo appurare poi che l’ingranaggio del giallo prende il sopravvento sull’approfondimento psicologico e che la sottile linea dura fatica stavolta a insinuarsi se non, debolmente, nelle ultime trenta pagine quando l‘ambivalenza umana fa capolino e i rapporti interpersonali paiono sgretolarsi in un amaro ritratto di famiglia, appena accennato.