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Quello che più mi stupisce di Dürrenmatt è la sua capacità di scrivere in modo piano, fluido, quasi elementare nella sintassi, senza però rinunciare un solo istante alle profonde e alte ambizioni delle sue opere, che, sostenute da trame originali e beffarde, non temono di affrontare temi spinosi come la giustizia e il destino. A ben vedere Dürrenmatt non ha mai scritto il suo libro capitale, il suo capolavoro memorabile, perché, come in Simenon o Balzac, ogni sua opera è la stella di una più ampia costellazione: è lo sguardo d’insieme che da questa traspare a rappresentare il vero approdo della sua letteratura. In questo libro, di poco posteriore a “La panne”, l’autore si prefigge di svuotare il giallo del proprio significato, perché ogni giallo, con la sua schiera di detective, indizi, deduzioni, si fonda su una gabbia così coerente da risultare fasulla; il problema, ci suggerisce Dürrenmatt, è che nel giallo classico, quello scintillante di Agatha Christie, quello inscalfibile di Conan Doyle, la realtà è piegata alla volontà dell’autore e tradisce, in questo senso, la verità. Così in questo libro, che si occupa di un delitto orribile, di un omicida efferato, che rincorre per 150 pagine una fine, il tema non è la soluzione del caso trovata con il più logico dei ragionamenti deduttivi, ma l’impossibilità di ingabbiare il mondo nelle rigide caselle della comprensione umana. Emblema di questa dissoluzione del predomino umano sulla realtà è il detective protagonista del romanzo che nella sua parabola dal genio alla follia riconosce sulla propria pelle lo sgretolarsi della ragione, braccato dal senso di colpa per una promessa tradita, per una pace impossibile.
Con questo romanzo Dürrenmatt inaugura un filone giallo che, a onor del vero, ha avuto una certa fortuna: sorvolando sulle serie TV di più immediato consumo, sono molti i registi che si sono cimentati sulle ossessioni della giustizia, sulla sua fallibilità, sul beffardo accadere degli eventi, basti pensare alla splendida prima stagione di True Detective, ad alcuni gelidi finali di Law & Order o alla scurissima Mindhunter di David Fincher. In questo sgretolarsi delle certezze del contemporaneo, l’opera di Dürrenmatt appare, nella sua tragica e necessaria inappellabilità, quasi veggente e aggiunge, se possibile, una vena ulteriore di pessimismo alle conclusioni cui era giunto precedentemente. Peccato solo per un finale fin troppo preparato e allungato, certo scenicamente efficace, sardonico e quasi cinico, ma che lascia davvero l’impressione di essere seduti a un tavolino a godersi lo spettacolo. Il fatto è che la trappola narrativa di Dürrenmatt è talmente brillante da imprigionare il suo autore. E per questo ci piace.
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