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A tinte azzurre
“L’enigma della camera 622” segna il gran ritorno in libreria di Joel Dicker, giovane autore tra l’altro del fortunato “La verità sul caso Harry Quebert”.
Dati i precedenti, dovremmo indicare lo scrittore svizzero come un autore di gialli sui generis, un romanziere che a modo suo, in verità anche nuovo, e diverso dal consueto, si diletta a costruire comunque gradevoli enigmi e piacevoli misteri irrisolti, a uso dello svago librario del suo lettore. Con tutti i cliché possibili del genere: viene già nelle prime pagine perpetrato un delitto, quasi sempre il più abietto tra i reati, un omicidio; non si giunge a soluzione immediata data l’apparente inspiegabilità dell’evento occorso; qualcuno, non necessariamente un funzionario delle forze dell’ordine a tal scopo preposto, indaga accuratamente.
In un modo o nell’altro s’individuano possibili colpevoli, malgrado difficoltà e depistaggi, grazie all’acume dell’investigatore di turno: quindi, scoperta del movente, colpo di scena finale con spiegazione a sorpresa dell’esatto svolgimento del crimine, le sue motivazioni più o meno tanto occulte quanto banali, l’individuazione del sicuro colpevole che viene immancabilmente assicurato alla giustizia.
La fortuna di Joel Dicker, e il suo talento, consistono nel fatto che non fa niente di tutto questo.
I romanzi di Dicker non hanno nulla a che fare con i puzzle logici e appassionanti alla Agatha Christie, la Regina del romanzo giallo propriamente detto.
Differiscono anche dai pur valenti polizieschi nostrani, ciascuno a suo modo originali e gradevoli, che vedono protagonisti vicequestori che spinellano beatamente, squadre di poliziotti “bastardi” raccolti qua e là tra gli scarti dei commissariati cittadini, avvocati penalisti, investigatori privati vari, sostituti procuratori improbabili che scorrazzano in tacchi a spillo tra i sassi di Matera.
I libri di Dicker nemmeno richiamano i police procedural americani, o i mystery sensu strictu, o i delitti locali all’italiana, tanto di moda oggi nelle fiction televisive, dove ad indagare spesso e volentieri con esito felice sono personaggi che poco hanno a che fare, per professione nativa, con l’indagine e il delitto, come per esempio parroci di provincia, professoresse di liceo, specializzande di medicina legale, e chi ne ha più ne metta.
Joel Dicker sfugge a una qualsiasi superficiale etichettatura, sopra ogni altra cosa egli è semplicemente uno scrittore, un bravo romanziere, uno che scrive libri per il piacere stesso di scrivere, prima di ogni altra cosa.
Può piacere o no, ma scrive varie cose buone, e le sa scrivere bene.
Si tratta di un giovane encomiabile per un qualsiasi lettore, giacché egli scrive principalmente per se stesso, per un proprio bisogno esistenziale; perciò scrive bene e meglio, giunge facilmente al cuore del lettore, lo emoziona, come ogni lettore desidera essere deliziato tutte le volte che sfoglia le pagine di un libro, e come ogni bravo scrittore deve saper fare.
Dicker non fa fatica, si applica, lavora, scrive, cancella, riscrive, non si stacca dalla tastiera, trascura tutto per scrivere, proprio perché per lui non è una fatica, non è un lavoro, è amore per la scrittura.
Quando fai qualcosa che ti piace, non stai lavorando, stai seguendo la tua passione, e la passione non concede requie, è vero, ma provvede essa stessa a ricaricarti. Un circolo chiuso, un privilegio.
Joel Dicker è un bravo artigiano della scrittura, s’industria alacremente, ha talento, e il prodotto del suo talento ha un valore ancora maggiore perché costruito in giovane età.
Lo dichiara lui stesso, sic et simpliciter:
“…una storia prende le mosse innanzitutto da una voglia: quella di scrivere. Una voglia che si impadronisce di te e che niente può ostacolare, una voglia che ti allontana da tutto…la malattia degli scrittori…Puoi avere la trama migliore del mondo, ma se non hai voglia di scrivere, non concluderai niente.”
Joel Dicker ama scrivere, e allora scrive. Lo ripeto non piace a tutti, ma scrive piacevolmente.
Scrive di tutto: scrive di sé stesso, letteralmente, e manco a farlo apposta la sua partner nel romanzo non lo chiama mai con il suo nome, ma semplicemente: “Scrittore”, come volevasi dimostrare.
Scrive della sua vita, della sua arte, scrive di amori e di editori, d’inizi e di fiaschi, di città, dove è nato e dove è stato. Di persone cui è grato, di donne di cui si è innamorato, e da cui è stato piantato.
Parla di viaggi, di alberghi, di camere di albergo con numerazione insolita; descrive fatti passati del tempo e li attualizza con gli eventi correnti, inventa personaggi, e ne segue la sorte, gli intrecci, la crescita, gli sviluppi, le coincidenze.
Romanza su un delitto irrisolto, e allora il romanzo si tinge di giallo; s’incanta in una lunga e travagliata storia d’amore, e allora il libro assume tonalità rosa.
Descrive vite disastrate, corrose dal bisogno, dalla povertà, dalla miseria e che anelano condizioni di vita migliori, quasi una rivincita sulle ristrettezze, i disagi e le privazioni dell’esistenza; allora possiamo dire che questi suoi capitoli sono pervasi dal verde della speranza.
Enuncia fatti misteriosi, nascosti, celati agli occhi del pubblico: in questo suo “Enigma” ci sono Servizi segreti, insospettabili agenti sotto copertura, intrighi politici e diplomatici; il mondo della grande finanza e dell’egemonia mondiale delle banche svizzere, con i giochi di potere che sempre si scatenano attorno alle grandi fortune, delitti e segreti, persone di mondo e sordidi personaggi privi di ogni scrupolo, un noir vero e proprio quindi.
Direi che se una tonalità va scelta per questo tomo, in definitiva, è l’azzurro quello più appropriato, come rimanda la copertina del libro: azzurro come il cielo, perché quella di Dicker è una bella storia, lunga e avvincente, una storia grande come il cielo, e bella come quello.
Un grande palcoscenico dove si alternano mimi e saltimbanchi, valenti attori ed esperti capocomici, truccatori, trucchi e truccati, nobili russi, sapienti analisti di bilanci e medici analisti della psiche umana, vecchi ebrei, maschere greche, trucchi alla Diabolik e alla Fantomas, governanti innamorate del padrone di casa, banchieri disposti a folli baratti e baratti realizzati con un misto di magia e possessione diabolica, perché in fondo la vita è un’illusione, una maschera, un travestimento, un gioco di prestigio:
“Quando si vuole veramente credere a qualcosa, si vede solo quello che si vuole vedere”.
Ancora, si narra di avventure, di pistole, di passioni, di anelli scomparsi, di cime innevate di neve e acque turchine delle isole greche.
Su tutto, aleggia la colonna sonora delle musiche di Wagner, o di un vecchio carillon a molla.
Più che le storie che scorrono sul palcoscenico, Dicker eccelle nel dietro le quinte; si dilunga sugli antefatti, sui trascorsi, sul passato per comprendere il presente, perciò il romanzo si rinnova continuamente, i racconti si presentano con altra veste, gli intrecci si disfano e si riformano con trame nuove e si percorrono risvolti inesplorati, tutto si può dire della sua Storia, mai che annoia.
Soprattutto, c’è tutto l’originalità dello scrittore Dicker in questo suo libro, un giallo dove la vittima assassinata, si badi, la vittima, non l’assassino, si scopre chi è solo dopo due terzi del libro.
Quale giallo comincia così, identifica la vittima con tanto ritardo?
Questo non è un giallo di Joel Dicker, è un romanzo di Joel Dicker, che si tuffa a corpo morto nella scrittura:
“Quando mi concentro sulla storia, vengo completamente assorbito. È come se ci fossi anche io nel romanzo, all’interno dello scenario. E ci sono tutti quei personaggi attorno a me…”
Direi inoltre che l’”Enigma della camera 622” è anche una bella storia d’amore, il numero neanche è casuale, magari richiama una data o un orario con un significato affettivo per i protagonisti; è una bella, lunga e duratura storia sentimentale, di quelle rare, uniche, speciali, eppure contrastate e controverse, perché:
“…Facevamo fiorire, ognuno per conto proprio, il nostro piccolo giardino segreto, ma siamo stati incapaci di coltivare un orto insieme”.
Una storia d’amore grande in tutti i sensi, tra un uomo e una donna, ma anche tra padre e figlio, tra docente e discente, tra chi non ha figli e chi non ha identità, tra chiunque abbia un cuore e sappia amare:
“Cosa siamo capaci di fare per difendere le persone che amiamo? È da questo che si misura il senso della nostra vita.”
Siamo grati a Joel Dicker per questo suo libro: ci ha donato un bel romanzo, e non è poco.
“La cosa più importante, in fondo, non è come va a finire, ma in che modo ne riempiamo le pagine.”
Esattamente come diceva Daniel Pennac, la vita è: “Come un romanzo”.
Lo afferma, uguale, anche Joel Dicker.
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