Dettagli Recensione
Viaggio al termine della notte
Un romanzo che ho riletto di recente, e volentieri.
Ispirato a farlo, in verità, non tanto dalle cronache degli ultimi tempi, bensì da un piacevole scambio di opinioni con l’utente di Q LIBRI Marianna Archeomari, cui simpaticamente dedico questo mio pensiero.
Grazie Marianna, ti sono debitore di qualche ora di gradevole rilettura.
La realtà supera sempre la fantasia.
Non s’inventa mai nulla, che poi la vita non sappia ripresentare in proposito di più, e meglio.
Avreste mai detto appena pochi mesi or sono, ancora alle prese con le difficili digestioni post natalizie, che di lì a poco un parassita subcellulare, neanche una struttura autonoma con tutti i crismi di una cellula vivente, ma un miserabile protista, ci avrebbe dato tanto filo da torcere a noialtri umani, costretti giocoforza a rivedere completamente il nostro stile di vita e di interazione sociale?
Pure, è cronaca dei nostri giorni.
L’arte però, quando è espressa da valenti rappresentanti, ci si avvicina parecchio.
A tutti, nei giorni di quarantena forzata, sarà certamente emerso dai ricordi di scuola Boccaccio e il suo Decamerone, che ebbe il suo motivo di essere proprio in virtù di una pandemia, batterica stavolta, il Covid19 ancora doveva essere di lì a venire.
A qualcuno, poi, sarà anche venuto in mente il romanzo “Cecità” del Premio Nobel Josè Saramago, scrittore portoghese.
Anche qui, una pandemia improvvisa, che costringe i poveri disgraziati che ne rimangono vittime a essere reclusi in….chiamiamole così, particolari, ma molto particolari, unità di terapie intensive, dove gli orrori non mancano.
Il primo però che ha fatto romanzo particolareggiato di una pandemia virale rapidamente contagiosa, e con un indice di mortalità vicino allo sterminio totale della razza umana, è stato Stephen King, con il suo “L’ombra dello Scorpione”, e pure in epoca non sospetta, la prima uscita del romanzo in Italia risale, infatti, al 1978.
Scordatevi il titolo italiano, non significa niente e nulla ha a che fare con la trama, sarà stata una trovata pubblicitaria di richiamo del lettore.
Molto più chiaro il titolo originale, “The Stand”, in italiano la posizione, il palco.
In estrema sintesi, all’epoca o giù di lì il mondo intero era nella realtà scosso, colpito e impaurito per i guasti nefasti di un virus allora completamente sconosciuto, l’HIV, come tale identificato più tardi, agente etiologico dell’ AIDS, e di cui tutti, medici compresi, ignoravano qualsiasi cosa.
Tranne il fatto che, per fortuna o iella nera, secondo i casi, si trasmetteva con i rapporti sessuali promiscui.
Specialmente nella comunità gay, o in certi ambienti della prostituzione, o in caso di sesso non protetto, e non in altre situazioni, almeno in apparenza, con tutte le conseguenze di emarginazioni sociali del caso, la caccia alle streghe, il dagli all’untore, e le inevitabili condanne al pubblico ludibrio di benpensanti, moralisti e religiosi.
Ebbene King, come suo solito attento osservatore della realtà sociale americana, coglie il pretesto per ingigantire l’evento, lo accentua, lo esaspera, ne peggiora portata, diffusione, contagiosità e mortalità, aggiungendoci una diretta responsabilità di militari, a mò d’invettive a guerrafondai incapaci e irresponsabili.
Lo trasforma in orrore.
Dopodiché, letteralmente s’issa su un palco, prende posizione, resta neutrale, e placidamente si pone in osservazione, quasi dall’alto, con una visuale davvero ampia, testualmente spazia da uno stato americano all’altro, e con la sua magistrale capacità descrittiva ci delinea perfettamente uomini e cose, stati d’animo ed eventi.
In sintesi, come reagisce l’umanità presa alla sprovvista da un evento che è in sé e per sé horror vero, reale, tangibile, allo stato puro.
Tragico, stupido e banale, come lo è sempre l’horror che deriva, è colpa degli uomini stessi.
Il Re dell’Horror, com’è noto King al grande pubblico, dimostra qui, ancora una volta, tutta la sua grandezza di scrittore, spesso misconosciuta dai letterati puri.
Lo scrittore del Maine non sta qui a dilungarsi su angeli e demoni, come qualcuno assai superficialmente lo riduce, King descrive ben altro orrore.
Mostra a chiare lettere quello che diventa l’uomo quando giocoforza gli avvenimenti esigono una precisa scelta di parte.
Il romanzo inizia subito a spron battuto, ha un decorso progressivamente, e irreversibilmente tragico e angosciante, senza se e senza me ci introduce nel cuore della storia, l’evento da cui tutto si origina a cascata. Da un laboratorio supersegretissimo, di quelli dove si studiano e si approntano le migliori armi chimiche e virali per la guerra batteriologica, quindi gli agenti etiologici di bazzecole tipo ebola, peste, vaiolo e cosucce del genere, sfugge al controllo, fuoriesce e si diffonde rapidamente per tutti gli Stati Uniti, il campione assoluto dei germi patogeni.
Non è che un banalissimo virus influenzale; solo che muta talmente in fretta che l’organismo non fa in tempo a creare gli appositi anticorpi, figuriamoci poi approntare un vaccino adatto.
È contagiosissimo, quasi il 97% dell’umanità ne sarà vittima, non esiste cura efficace, e quello che è peggio, i contagiati al 100% sono spacciati, muoiono dopo pochi giorni, se non poche ore, dal contagio, senza possibilità di scampo.
Questo virus quindi, denominato Capitan Trips, letteralmente viaggia per il mondo, si diffonde ovunque, e spedisce in fretta chi infetta a compiere il gran viaggio nelle celesti praterie.
Contamina i soli esseri viventi appartenenti al genere umano, per fortuna, ma data la sua rapidissima contagiosità, si diffonde in tutti gli Stati Uniti d’America, e poi anche, e di proposito, nel resto del mondo, secondo l’etico assioma tutto umano, quanto stupido, del mal comune mezzo gaudio.
Seguono quindi scene di apocalittico delirio, si dilegua ogni parvenza di legge, di ordine e di regole civili, qualsiasi etica e morale comportamentale viene meno, viene messa al bando qualsiasi scrupolo o freno inibitorio.
Ognuno bada alla sua sola sopravvivenza, ovunque restano abbandonati nelle strade, nei negozi, nelle case, i morti da virus o da mano umana.
Imperversano, come sempre durante un’apocalisse, furti, violenze, sopraffazioni, fughe, saccheggi, non esistono più remore, divieti, controlli.
Il caos, l’illegalità e la paura regnano sovrani tra i pochi superstiti, che neanche sanno il motivo per cui il loro organismo fortuitamente è immune dal mortale contagio.
A questo punto King ci porta nel cuore della storia, sfodera il meglio di sé, sviluppa un colossale romanzo corale, proprio un canto gregoriano a più voci.
Di più, un vero romanzo distopico, un volume poderoso in cui racconta tanti personaggi, tutti uniti tra di loro, ma è come se raccontasse tante storie, tanti piccoli romanzi nel romanzo, e il tutto ad un ritmo veloce ma piacevole, fluido e stuzzicante, una brezza primaverile rivitalizzante per il lettore.
Secondo logica, la situazione vorrebbe che i superstiti si unissero, facessero fronte comune davanti ad una simile avversità, che ha cancellato di colpo la civiltà come la conosciamo.
Si supportassero a vicenda, se non con amore almeno con un minimo di empatia e di solidarietà, per ricostruire un nuovo mondo, traendo debito insegnamento dalla luttuosa esperienza, serbandone memoria a monito, ricostruendo una nuova civiltà ripartendo da basi etiche, che aborriscano armi, violenze, crudeltà, iniquità ed ingiustizie.
Ma dove? Ma quando mai? Ma come vi viene? Ma non esiste! Ma vien via! Pura utopia.
Gli uomini non si smentiscono mai: e si dividono.
Da una parte, abbiamo un gruppo eterogeneo di persone normalissime, diverso per ceto, età, indole, e inclinazioni, che sono accomunati da un’unica, banale caratteristica: la compassione per i propri simili.
Questo gruppo annovera la studentessa universitaria incinta Frannie Goldsmith, l’operaio Stu Redman, il cantante pop Larry Underwood, il sordomuto Nick Andros, il demente e ritardato Tom Cullen, e altri ancora, tutte persone diversissime tra di loro, una variegata umanità mirabilmente descritta, e nei minimi particolari esistenziali, da King.
Lo scrittore del Maine si sbizzarrisce alla grande, sciorina tutto il suo incommensurabile talento narrativo, scrive, descrive, ritrae, analizza, scava, riporta, commenta, coinvolge, immedesima, incanta.
Focalizza il suo talento in pari misura su ognuno dei membri più rappresentativi di questo gruppo di sbandati, strappati ad un’esistenza semplice e comune, basata su valori universali non solo materiali, ma incentrati a priorità umane di solidarietà, condivisione, compartecipazione.
Tutti insieme guidati da una leader assai improbabile, eppure convincente, reale, di immenso valore umano e spirituale, una vecchissima signora di colore, Mother Abigail, la leader carismatica di questo gruppo di sopravvissuti, il gruppo della gente normale e perbene, i campioni dell’american way of life, sotto l’egida della Bibbia, del Bill of Rights, della legge Divina e Umana, e del Quinto Emendamento.
In contrapposizione a questo, il gruppo dei cattivi, un'altra ghenga di sopravvissuti, che comprende un folle piromane, detto "Pattumiera", un capo della polizia fuori di testa e tanti altri pazzoidi, violenti, delinquenti, dissoluti, immorali, che manco a farlo apposta hanno la loro base nella città più peccaminosa e dissoluta d’America, Las Vegas, la capitale del gioco, della perdizione, della bassezza umana, l’emblema della perdizione e del vizio.
Alla loro testa, chi poteva esserci?
Se la vecchia, paciosa e bonacciona Mother Abigail è il leader dei buoni, alla testa dei cattivi ci deve essere per forza un cattivone della peggior risma, un vero satanasso, se non il diavolo in persona, tale Randall Flagg, l'Uomo che cammina.
Sulle strade buie e oscure, anche sotto il sole di mezzogiorno.
In sintesi, Stephen King mette in scena l’eterna lotta del Bene contro il Male, un lungo viaggio al termine della notte, contrappone la casetta con il camino al casinò scintillante di neon, l’umile lavoro manuale alla tecnologia per la distruzione di massa, l’amore e la passione alla lussuria e alla depravazione.
Facendo agire e parlare i tanti, diversi e intriganti personaggi che pullulano nel romanzo, cosicché davvero il fedele lettore assiste da un palco in prima fila all’evolversi dell’umana avventura.
Si snoda su un copione già visto, sempre uguale, che vede la storia dell’umanità contraddistinta dall’incapacità di schierarsi compatti da una parte sola, non quella più giusta o meno sbagliata, semplicemente quella più umana.
Quello che, a mio avviso, rende questo poderoso romanzo davvero bello da leggere, è non solo la fluidità, la velocità delle azioni e dello svolgersi degli eventi che sono descritti, la capacità analitica dell’animo umano da parte di King che sa “rendere” i pensieri stessi dei protagonisti in guisa di dialoghi correnti, ma è anche, paradossalmente, l’estremo realismo del racconto.
Stephen King non racconta favole, scrive storie che suscitano emozioni da favola, non termina il romanzo con una conclusione felice come le fiabe, lo termina esattamente come andava finito, con verosimiglianza.
Come un romanzo, vero, reale, vissuto.
Lo scrittore americano non è un buonista o un illuso, scrive di cose vere e tangibili, e proprio per questo suo estremo realismo tutti i suoi personaggi, a ben vedere, si assomigliano.
Ciascuno di loro è un uomo, e perciò è buono e cattivo contemporaneamente.
Non bianco o nero, semplicemente; ma tutte le sfumature della gamma cromatica conosciuta.
Nessuno di per sé è dichiaratamente un arcobaleno o una notte completamente buia; sarebbe troppo facile e poco veritiero, non da King, non da grande scrittore.
Che cosa prevale in un uomo, lo determinano le circostanze, l’indole, le esperienze di vita, i caratteri, e in ultima analisi il libero arbitrio.
Non termina bene, o male, il romanzo: è un finale normale. Sapiente nella sua semplicità.
L’uomo alla fine resta sempre uguale a se stesso.
Sì, magari rimane scottato da qualche brutta esperienza, tipo una pandemia, e però, passata la buriana, qualcuno finisce sempre per ubriacarsi, il sabato sera, e dare fastidio agli altri, se non peggio.
A quel punto, magari, le forze dell’ordine non ce la fanno più a rimettere in riga i facinorosi, e qualcuno comincia a pensare che sarebbe il caso di armarli, gli agenti, i poliziotti, procurargli armi, celle e manette, autorizzarli all'uso della forza.
Davanti a queste cose, le solite cose, tanto vale dare un segnale, alzarsi, andarsene a realizzare altrove, novelli pionieri, o Adamo ed Eva, un uomo nuovo, una società a misura d’uomo. Altrove
Non si può stare sempre su un palco, a osservare, in posizione.
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