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Perdermi, perdersi.
«La città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l’obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore. Il mondo era fuori di lui, gli stava intorno e davanti, e la velocità del suo continuo cambiamento gli rendeva impossibile soffermarsi troppo su qualunque cosa. Il movimento era intrinseco all’atto di porre un piede davanti all’altro concedendosi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo.»
Tre sono i racconti che compongono la “Trilogia di New York” di Paul Auster. Seppur pubblicati separatamente, “Città di vetro”, “Fantasmi”, “La stanza chiusa”, danno vita ad un’unica storia che rappresenta – come asserisce l’autore – un diverso stadio di consapevolezza.
A far da scenario a tutte e tre le vicende è New York, una città con i suoi caotici silenzi, con i suoi misteri e con le sue mille voci inascoltate tra solitudine e alienazione. È il luogo, cioè, perfetto all’interno del quale perdere le coordinate e al contempo perdersi. Daniel Quinn, scrittore che divide il suo io in William Wilson, pseudonimo di cui si avvale per firmare le sue opere e, Max Work, di fatto detective protagonista di queste, viene assoldato, nel primo episodio, da Virginia Stillman in vece del marito, per assumere un’ulteriore personalità, quella di Paul Auster. L’obiettivo è quello di indossare i panni di un investigatore privato per seguire i passi del suocero, per anni recluso in carcere, adesso tornato in libertà. L’anziano è un pericolo perché potrebbe in qualunque momento e in qualsiasi modo mettere a repentaglio l’incolumità dell’omonimo Peter Stilman. Eh sì, perché padre e figlio portano lo stesso nome e sono legati da un passato fatto di almeno nove anni di vessazioni e segregazione. Nel momento in cui Quinn decide di indossare questi panni, finisce con il perdersi completamente. Spezzato tra quattro volti e quattro personalità, perde completamente di vista chi è.
In “Fantasmi” ha inizio un’altra inchiesta investigativa che segue per molti versi la precedente essendo impostata con una linea narrativa molto simile ed essendo simile anche il piano metaforico nonché la psicanalisi connessa. In questo secondo racconto a prevalere è la visione fatalista che persiste e si afferma senza possibilità alcuna di essere contestata.
“La stanza chiusa” vede nuovamente il prodigarsi delle gesta di un investigatore per rintracciare Fanshawe, scrittore presuntivamente deceduto o forse ancora vivo. In questo caso vi è un’evoluzione di quanto già precedentemente letto perché il personaggio che nel primo testo faceva dell’uomo da pedinare la ragione della sua esistenza, in questo, vi si sostituisce. Il risultato è quello di uno spossessamento di se stessi che finisce con il raggiungere la totale dissoluzione del proprio io.
Per l’intero flusso del componimento il lettore è spiazzato e messo in discussione da una realtà rappresentata che è interamente percepita quale assurda, irreale. In verità l’obiettivo principale del romanziere è quello di trasportarci in quella che è la quotidianità di chi fa dello scrivere il proprio mestiere e dunque di far soffermare l’attenzione su quel dato imprescindibile che porta ad una totale estraneazione dalla dimensione comune per vivere con distacco, quasi per riflesso altrui. Effetto, questo, a cui conseguono le più nefaste conseguenze.
Un volume stratificato, riflessivo, complesso, che chiede di essere letto con sguardo attento e che chiede di immedesimarsi, di mostrare empatia. Un libro che suscita interesse e che non delude le aspettative di chi decide di avvicinarvisi.
«Non dormiva più con la luce accesa, e da molti mesi aveva smesso di ricordare i suoi sogni.»
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