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VIAGGIO POETICO E SENTIMENTALE
“C’è una letteratura per quando ti annoi. Fin troppa. C’è una letteratura per quando sei calmo. Questa è la letteratura migliore, io credo. C’è anche una letteratura per quando sei triste. E c’è una letteratura per quando sei allegro. C’è una letteratura per quando sei disperato. Quest’ultima è quella che volevano fare Ulises Lima e Belano.”
I “detective” del titolo sono Ulises Lima e Arturo Belano, i fondatori di un velleitario movimento poetico d’avanguardia messicano, autodenominatosi “realvisceralismo”, i quali, nella terza parte del libro (che in realtà è cronologicamente la seconda), vagano nel nord del Messico alla ricerca di Cesarea Tinajero, la mitica fondatrice, mezzo secolo prima, di una corrente poetica che portava lo stesso nome e che il tempo trascorso ha destinato all’oblio. Il folgorante romanzo di Roberto Bolaño è, se così si può dire, un’opera “in absentia”. A mancare è innanzitutto l’oggetto dell’investigazione, la fantomatica poetessa che ha lasciato ai posteri una sola poesia (che è in realtà un enigmatico disegno) e che i due giovani ritrovano, invecchiata, abbruttita e dimenticata praticamente da tutti, solo per vederla morire tra le loro braccia (in uno scontro a fuoco con un magnaccia che li aveva inseguiti per riprendersi una prostituta in fuga che sta viaggiando in loro compagnia). A mancare, o meglio a rimanere sullo sfondo, sono poi, e soprattutto, i due protagonisti, che non compaiono mai in prima persona, ma che il lettore segue grazie al diario di un entusiasta diciassettenne alla scoperta del sesso e della poesia (nella prima e terza parte), e (nella lunga parte centrale) alle interviste di una miriade di personaggi i quali, nell’arco di una ventina d’anni, hanno avuto la ventura di incrociarli per le strade di mezzo mondo (Messico, Spagna, Francia, Austria, Israele, Africa): culturiste, teppisti, alienati mentali, autostoppiste, omosessuali, immigrati clandestini, ereditiere anoressiche, avvocati logorroici, fotografi free-lance, scrivani pubblici, e poi – naturalmente – poeti di tutte le risme, giovani o vecchissimi, famosi (Octavio Paz) o misconosciuti, vanagloriosi frequentatori delle fiere del libro o autori che non hanno mai pubblicato un verso, tradizionalisti o avanguardisti. Da questo originale procedimento, il ritratto di Belano e Lima appare sempre un po’ sfuocato (chi sono veramente i due: sinceri idealisti alla ricerca delle radici della poesia messicana o semplici avventurieri, eroici apostoli di una stagione irripetibile dell’arte sudamericana o patetici avanzi di una boheme che con gli anni li ha relegati ad un ruolo di tutt’altro che epica marginalità?), ma quello che conta è lo sfondo, una narrazione policentrica fatta di rapidi schizzi, fugaci accenni, veloci notazioni, eppure in grado di dare corpo, come in un collage, a un mondo e a un’epoca potentemente originale e affascinante.
Alla fine quello che rimane è soprattutto il senso del tempo che passa e inesorabilmente cancella ogni traccia delle ambizioni, degli ideali e delle speranze della gioventù. Ulises Lima e Arturo Belano nel corso del libro diventano come Cesarea Tinajero, dapprima prepotentemente alla ribalta della vita (nell’età dei vent’anni e di una giovinezza che sembra non dover mai finire e può permettersi il lusso di venire sprecata con disinteressata noncuranza), e poi sempre più sfuggenti e inafferrabili, fino a diventare delle misteriose ombre in dissolvenza. Bolaño sembra dirci che il significato della nostra esistenza rimane al di là della comprensione degli altri, e che quando si cerca (come i due “detective” con Cesarea) di portarlo alla luce si finisce solo per distruggerlo (in questo senso, la morte di Cesarea altro non sarebbe che una metafora). Forse a resistere al tempo è solo la “memoria sentimentale”, arbitraria, parziale e non oggettiva, che pure sa conservare, sublimate, le uniche immagini che (meglio di qualsiasi opera o testo scritto) meritano di sopravvivere, quelle – privatissime e non tramandabili – del cuore (come avviene con Amadeo Salvatierra, il vecchio scrivano che era stato segretamente innamorato di Cesarea in gioventù). Queste considerazioni, per quanto permeate da uno svagato understatement e da un impalpabile umorismo (che sembrano essere le cifre stilistiche dell’autore), danno al romanzo un innegabile tono elegiaco, che impregna di sé anche l’altra protagonista sullo sfondo, la “messicanità”, di cui “I detective selvaggi” sembra porsi nel suo insieme come una singolare ed eccentrica allegoria.
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Dell'autore mi pare di aver letto qualcosa tempo fa ("Il libro degli abbracci" ?). Se questo libro è suo, non mi ha lasciato molto.