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Hill House, che sana non era
“Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salviano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse. Il silenzio si stendeva uniforme contro legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola”.
Eleanor Vance ha trentadue anni, ma per quel che la riguarda potrebbe averne quindici. Ha passato gli ultimi undici segregata in casa a prendersi cura della mamma malata e, dopo la morte di quest’ultima, si scopre incapace di vivere, di amare e essere corrisposta. Theodora, non fosse che sono entrambe donne e giovani, non ha nulla in comune con Eleanor. È una donna emancipata, un’artista, impegnata in una relazione saffica, schietta e sicura di sé. Luke è un ladro e un imbroglione, erede di Mrs. Sanderson, proprietaria di Hill House. A segnare i destini dei tre personaggi è il professor Montague, un antropologo molto orgoglioso del suo percorso accademico che fa da contraltare alla sua vera passione: indagare sui fenomeni paranormali. È proprio l’ignoto uno dei cardini attorno a cui ruota l’intera vicenda raccontata da Shirley Jackson, che servendosi del cliché letterario della casa infestata, apre una analisi ben più profonda sulle insicurezze e le paure insite nell’animo umano. «A che servono gli altri?» chiederà un giorno Eleanor a Luke. Cosa vogliamo noi dal prossimo, se è dentro di noi che si svolge la vera battaglia, se è nel nostro intimo più profondo che risiedono le ragioni del nostro essere.
Su invito del professor Montague, intenzionato ad indagare e catalogare i fenomeni dentro la sinistra Hill House, la cui fama di luogo maledetto e impenetrabile la precede, i tre giovani si ritrovano a coesistere per una settimana nell’oscura dimora. La scelta dei candidati non è certo casuale: Eleanor, quando era molto piccola, è stata protagonista di una manifestazione di un poltergeist pochi giorni dopo la scomparsa del padre. Theo, invece, sembra in possesso di facoltà incredibili, che vanno dalla premonizione alla telepatia. Luke si ritrova coinvolto su ordine espresso della vecchia zia, favorevole ad affittare al professore solo a patto che anche un membro effettivo della famiglia Sanderson prenda parte all’esperimento. Come notato dal professore, però, in Luke si nota da subito un certo istinto all’autoconservazione, che lo rende un candidato ideale. A completare il quadro dei personaggi, fanno da sfondo i due governanti della casa, Mr. e Mrs. Dudley che, oltre ad accogliere gli avventori ed ammonirli sulla natura malsana della loro spedizione, si limitano a sorvegliare, di giorno, i quattro inquilini e a tenersi, di notte, a debita distanza da Hill House. Interverranno, quasi in chiusura della storia, miss Montague, moglie del professore, donna guidata da materialismo e rigidità mentale, convinta sostenitrice dell’esistenza dei fantasmi come entità ectoplasmiche, e il suo accompagnatore Arthur.
Gli eventi non tardano a prendere la piega attesa dal lettore, e già dopo la seconda notte i protagonisti cominciano ad avvertire i primi segnali e i primi campanelli d’allarme. Strani rumori alle porte delle camere da letto, passi non riconducibili a nessuno, scritte vergate col sangue e altri dettagli gotici riescono ad alimentare la tensione, che seppur non raggiunga mai picchi vertiginosi, aleggia tra le pagine del romanzo senza più abbandonarlo. Ben presto, proseguendo nella lettura, emerge sempre più nitido il fatto che è Hill House stessa la fonte di quel disagio crescente, che si insinua subdolo nei pensieri dei quattro ospiti. “L’incubo di Hill House” non è una storia di fantasmi, almeno non nel senso convenzionale del genere. I fantasmi con cui si ritroveranno faccia a faccia i quattro, in particolar modo la fragile e suscettibile Eleanor, sono quelli della mente, del passato che riaffiora e che non dà tregua. Già nelle primissime pagine la Jackson ci dice senza mezzi termini che, per quanto si ricordi, Eleanor non è mai stata felice. Non si è mai sentita a casa, amata o attesa da qualcuno. Questa sua assenza di legami, di radici (uniti al morboso rapporto con la madre inferma, di cui si sentirà sempre vittima e carnefice), sarà la causa della sua inesorabile discesa nella follia, nel richiamo ammaliatore della casa, che respira e, vigile, osserva e attende, sola. Hill House esercita sui suoi abitanti una forza attrattiva che li scardina dalla realtà, un effetto che si incrementa con il passare del tempo e che non lascia scampo alle fragilità di Eleanor, di cui l’autrice descrive, con pagine di grande effetto, la lenta e inesorabile trasformazione, tra monologhi interni, dialoghi serrati, visioni oniriche e percezioni paranormali. La casa le parla, la prende per mano e la fa volteggiare in un valzer di follia, fino ad avere la meglio.
Con questo romanzo, divenuto un culto per il genere, e che ha fatto scuola per altri celebri autori che hanno proseguito sul suo solco, Shirley Jackson offre un suo punto di vista sulla psiche umana, sul richiamo del passato che riaffiora. Un dramma insolubile e che va oltre la vita stessa del singolo individuo, per gravare eternamente sul genere umano. Se infatti la triste vicenda della povera Eleanor trova una sua inevitabile conclusione, nulla osta a Hill House di restare lì, immobile, in attesa della prossima vittima. Con uno stile elegante, efficace, fluido e mai banale, l’autrice seppellisce il luogo comune secondo cui non si possa fare grande letteratura affrontando generi letterari non convenzionali. “L’incubo di Hill House” non è un romanzo di paura, con una trama delineata e colpi di scena pronti a farvi rizzare i capelli, nascosti dietro gli angoli bui e i pannelli di quercia della malsana dimora. È un’opera ricca e particolareggiata, che intervalla alla prosa momenti di lirismo descrittivo, sapientemente dosati, e una buona dose di ironia che conferisce veridicità al tutto. Al termine della lettura resta una vaga sensazione di malessere, un’inquietudine che deve essere metabolizzata. Hill House non dà scampo, è ovunque e in nessun luogo, erta a simbolo di quanto di più angoscioso e corrotto vi sia nella vita. Non ammette complicità, non si piega ai sentimenti. “Qualsiasi cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola”.
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