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Trilogia di New York
 
Trilogia di New York 2019-09-30 06:44:03 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    30 Settembre, 2019
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KAFKA A NEW YORK

“New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé.”

I tre racconti (o romanzi brevi) della “Trilogia di New York”, pur pubblicati separatamente alla loro uscita, fanno parte di un “unicum” difficilmente distinguibile. «In sostanza – afferma lo stesso Auster – le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza». “Città di vetro”, “Fantasmi” e “La stanza chiusa” – aggiungo io – sono tutti e tre pervasi da una identica tensione speculativa, sono ambientati nella medesima città e prendono persino tutti e tre in prestito lo stesso schema narrativo (vale a dire la detective story, trasfigurata in un geniale meccanismo kafkiano di impronta metafisica). Iniziamo dalla metropoli, la New York del titolo. New York è un’ambientazione che sta appartata, quasi in disparte, ma si fa ugualmente sentire, eccome. E’ una città in cui ci si sente irrimediabilmente fuori da se stessi, simbolo della solitudine e dell’alienazione umane, luogo dove ritrovarsi e perdersi all’infinito. E perdersi è proprio quello che fa Daniel Quinn, che già all’inizio del primo racconto è diviso tra tre personalità: la sua, quella di William Wilson (nome emblematico, che rimanda all’omonimo racconto di Poe), il nome con cui firma i suoi romanzi, e infine quella di Max Work, il detective privato protagonista dei romanzi (“Nella triade di sé che Quinn era diventato, Wilson fungeva da ventriloquo, Quinn stesso era il pupazzo, e Work la voce animata che garantiva uno scopo all’impresa”). Quando decide di assumere addirittura una quarta personalità (l’investigatore Paul Auster), e si cala anima e corpo nell’indagine poliziesca commissionatagli da Virginia Stillman (rintracciare e pedinare il suocero che, uscito di prigione, cercherà probabilmente di uccidere il figlio), finisce per smarrire definitivamente il proprio io in preda a una strana forma di follia e trasformarsi progressivamente in uno di quei tanti barboni che aveva visto innumerevoli volte nelle sue peripatetiche escursioni per la città, senza più casa, soldi, identità (guardandosi allo specchio non si riconosce più) e nessun altro scopo nella vita se non quello di scrivere sul taccuino rosso che – unica cosa rimastagli (persino i vestiti alla fine getta via) – continua a portarsi appresso (“Cosa succederà quando non vi saranno più pagine nel taccuino rosso?”). Qui le strade di New York, lungo le quali Quinn pedina Peter Stillman, sono citate una per una, con ossessiva pedanteria, in una topografia la cui massima oggettività contrasta curiosamente con l’assurdità quasi surreale della vicenda.
Il secondo racconto prende spunto da un’altra inchiesta investigativa, per molti versi simile alla precedente, se non altro perché dalla registrazione oggettiva e fedele dei movimenti di un’altra persona ci si sposta gradualmente su un piano psicanalitico e metaforico: il protagonista Blue, ingaggiato da White, si cala infatti talmente in profondità nei panni dell’individuo che spia dalla finestra (tale Black) e di cui segue i rari spostamenti da identificarsi totalmente in lui e, come in uno specchio, vi vede alla fine riflessa la propria vita sprecata (Blue ha rinunciato a tutto, persino alla fidanzata, per dedicarsi anima e corpo al caso affidatogli) e si accorge per di più di essere stato per tutto il tempo tenuto a sua volta sotto sorveglianza. In questa condizione di deprivazione dell’io che vive un’esistenza riflessa si può leggere – kafkianamente – l’assoggettamento dell’uomo a un fato misterioso e inspiegabile. Anche in questo racconto, come nel primo, a un massimo di descrizione realistica corrisponde un minimo di verità e l’assenza di una qualsivoglia comprensibilità del senso ultimo della storia.
Nel terzo racconto si assiste a un ulteriore salto di qualità. Va da sé che il protagonista si improvvisa anche lui detective per rintracciare Fanshawe, l’amico scrittore misteriosamente scomparso, dato per morto ma che lui sa con certezza essere vivo da qualche parte. Se Daniel Quinn faceva dell’uomo da pedinare la sua ragione di vita e Blue arrivava a vedere in lui lo specchio di se stesso, il protagonista de “La stanza chiusa” finisce addirittura per sostituirsi a Fanshawe, pubblicando i suoi libri, sposandone la moglie e adottando il suo figlio. Qui la perdita del concetto si sé raggiunge il suo massimo livello: l’io si dissolve, e al suo posto non rimane nulla a cui appigliarsi. Curiosamente, la stessa sensazione la prova il lettore, al quale non è mai concessa la soddisfazione di trovare un senso alle storie che legge. Tutti i tre racconti infatti non portano ad alcuno svelamento dei misteri che nelle loro pagine hanno contribuito a creare: Quinn “sparisce” nella stanza dove si era rinchiuso (e dove era misteriosamente nutrito da una presenza ignota), Blue uccide Black senza riuscire a comprendere perché gli è stato commissionato il lavoro di sorvegliare il suo uomo (che rapporto c’è tra Black e White? e perché Black ha sulla sua scrivania i rapporti che ogni settimana Blue inviava a White?), di Fanshawe ascoltiamo solo una voce sussurrata attraverso la fessura di una porta ma non veniamo mai a sapere cosa c’è scritto nelle pagine del taccuino rosso in cui egli ha esposto le ragioni della sua scomparsa. L’effetto è disorientante, ma, se si riflette bene, è perfettamente calzante con una filosofia in cui nulla ha senso, in cui cose e persone sono entità sostituibili (non è un caso che nel libro ricorrano più volte i nomi di Quinn, Peter Stillman, Henry Dark e oggetti come il taccuino rosso) e le parole non sono in grado di produrre alcun significato.
Quest’ultima considerazione ci porta a quello che è l’aspetto più propriamente meta-letterario della “Trilogia”. Il romanzo di Auster è, a ben guardarlo, una amara riflessione sul ruolo alienante della scrittura e sul posto che lo scrittore ha nel mondo. Sia Quinn che Blue e Fanshawe fanno della scrittura la loro ragione di vita e nella scrittura (anche solo di banali rapporti da investigatore privato) si dannano irreparabilmente. Auster sembra dirci che lo scrittore è l’alienato per eccellenza, che vive un’esistenza riflessa, staccata dalla realtà (si pensi al dialogo tra Black e Blue travestito da mendicante intorno a Whitman, Thoreau e Hawthorne e alla definizione dello scrittore come colui che “non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c’è veramente”), colui che non ha più scopo (come Fanshawe) non appena la sua opera è terminata. Persi tutti i punti di riferimento (anche quello sul ruolo salvifico dell’arte), messi di fronte a un destino incomprensibile e inconoscibile, negata loro ogni catarsi spirituale, ai personaggi di Auster, come tanti Joseph K., non rimane altro che consegnarsi alla morte come all’unica, estrema possibilità di salvezza: non un autentico afflato di redenzione, ma solo una ansia febbrile e irrazionale di dileguarsi nel nulla.

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Commenti

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Giulio, non ho letto questo libro che raccoglie tre romanzi brevi. Dalla tua presentazione, mi pare di cogliere quel filo di pessimismo che lega parecchi autori americani contemporanei, che mi paiono chiusi in una sorta di moderno nichilismo.
Il tema della scrittura letteraria mi sembra interessante, di per sé.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
30 Settembre, 2019
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Sì, Emilio, si potrebbe in effetti parlare di nichilismo moderno, anzi - più propriamente- postmoderno, anche se l'intento principale di Auster è soprattutto meta-narrativo, volto a fare dei suoi tre romanzi una sorta - per dirla con Borges - di thriller metafisico.
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