Dettagli Recensione
NEL CIMITERO DEI LIBRI DIMENTICATI
“«In questa storia c’entrano i libri.»
«I libri?»
«Libri maledetti, l’uomo che li ha scritti, un misterioso personaggio fuggito dalle pagine di un romanzo per poterlo bruciare, un tradimento e un’amicizia perduta. E’ una storia d’amore, di odio e di sogni vissuti all’ombra del vento.»
«Sembra il risvolto di copertina di un romanzetto, Daniel»
«Non per niente lavoro in una libreria. Ma questa è una storia vera. […] E come tutte le storie vere comincia e finisce in un cimitero, anche se molto particolare.»”
Confesso di essermi approcciato alla lettura de “L’ombra del vento”, uno dei maggiori best-sellers degli ultimi vent’anni, secondo forse solo ai romanzi di Dan Brown e di J.K. Rowling, con un misto di desiderio (quello di concedermi, durante le assolate vacanze estive passate in spiaggia sotto l’ombrellone, una lettura scorrevole e disimpegnata), paura (di scontrarmi una volta di più con la legge non scritta ma ineluttabile in base alla quale molto raramente la quantità – di copie vendute – si associa con la qualità) e perfino senso di colpa (per essere passato dagli amati Faulkner e Nabokov a uno scrittore forse irreparabilmente compromesso con le più bieche e opportunistiche leggi del mercato). Per fugare subito ogni dubbio vorrei iniziare questa recensione con l’ammissione, per nulla scontata, che il romanzo d’esordio di Carlos Ruiz Zafon è un’opera che supera brillantemente le aspettative del lettore, purché egli non abbia, per partito preso, “la puzza sotto il naso”. L’autore spagnolo dimostra certamente una notevole astuzia nel momento in cui, nel prologo, introduce quel luogo suggestivo e fantastico che è il Cimitero dei Libri Dimenticati, una labirintica biblioteca segreta “dalle geometrie impossibili”, percorsa com’è da tunnel, ballatoi, scale e piattaforme, nella quale vengono conservati tutti quei libri che per i motivi più diversi rischierebbero di scomparire per sempre, in attesa che ad essi possa venire concessa, tornando nelle mani di un nuovo lettore, una seconda vita. Si tratta di una vera e propria “captatio benevolentiae” del lettore, dal momento che Zafon, parlando di libri, e dell’amore e del rispetto che bisognerebbe nutrire per essi (“Ogni libro possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza”), si accaparra aprioristicamente il suo rispetto e la sua ammirazione. Creando questa sorta di “orfanotrofio” dei libri, in cui gli adepti come il giovane protagonista Daniel “adottano” un libro, Zafon fa un’operazione simile a quella di Ray Bradbury in “Fahreneit 451”, nel quale – come si ricorderà – ogni membro della comunità degli uomini-libro che custodisce il patrimonio letterario dell’umanità, tramanda oralmente un’opera per preservarla dai roghi del regime autoritario e simil-nazista che ha proibito la lettura (e non a caso ne “L’ombra del vento” c’è un misterioso personaggio, Lain Coubert, che si aggira per le strade di Barcellona bruciando i libri). In realtà il romanzo di Zafon fa sfoggio solo superficialmente di una coscienza “bibliofila” (a differenza di Bradbury non c’è qui nessuna riflessione meta-narrativa sui rischi che la letteratura corre nella società contemporanea, ad esempio per l’avvento di nuove e pervasive forme di media) e ben presto rivela la sua natura di feuilleton, con tanto di storie d’amore tragicamente romantiche, case abbandonate che custodiscono innominabili segreti, personaggi enigmatici dalla dubbia identità, rivelazioni inattese che emergono dal passato, agguati notturni, colpi di scena e sorprendenti agnizioni. Contrariamente alla moltitudine degli scrittori che si sono cimentati e continuano a cimentarsi con la narrativa popolare, Zafon mostra però, fin dalle prime pagine, anche una precisa consapevolezza critica della natura della sua opera, citando Dumas (il sorriso enigmatico del padre di Daniel “che doveva aver preso in prestito da un romanzo di Dumas), Verne (“Sembra un’invenzione uscita dai libri di Jules Verne”, esclama Daniel, riferendosi alla serratura che chiude il portone del Cimitero dei Libri Dimenticati) e la letteratura d’appendice in genere (quando fa dire a Isaac, il vecchio custode del Cimitero, “Quel tipo sembra uscito dalle pagine di un romanzo d’appendice” e “Le piacciono i romanzi d’appendice”). “L’ombra del vento” risulta pertanto un’originale, intelligente, e financo colta, operazione di rivisitazione dei canoni e dei luoghi comuni di un certo tipo di letteratura ottocentesca, quella di Dumas e di Hugo, con sconfinamenti nel romanzo gotico (penso soprattutto a “Il fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux). Con i dovuti distinguo, Zafon fa in fondo una cosa non dissimile da quella messa in atto venti anni prima da Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, libro che, dietro alla sua trama “gialla”, nascondeva la sua natura di erudito pastiche, con rimandi al romanzo storico, al saggio filosofico e alla letteratura didattica e morale. Col capolavoro di Eco vi sono diversi punti in comune, oltre all’intreccio thrilling: la biblioteca come epicentro di tutti i misteri e la coppia di improvvisati detective (Daniel e il suo mentore Fermin sembrano occhieggiare l’Adso da Melk e il Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”). Oltre a questa consapevolezza, che potremmo quasi definire post-modernista, Zafon possiede anche una considerevole capacità narrativa. La sua storia (anzi le sue storie, dal momento che il romanzo ne sviluppa parallelamente due, quella di Daniel e quella di Julian Carax, le quali si intrecciano e addirittura si sovrappongono, con esiti molto interessanti che fanno sì che il primo diventa, con il trascorrere del tempo, quasi un doppio del secondo, a cui lo legano non solo analoghe esperienze di vita – l’amore di Daniel per Bea che rimanda a quello di Julian per Penelope, la comune passione per i libri – ma anche singolari coincidenze – il possesso della penna appartenuta un secolo prima a Victor Hugo), la sua storia – dicevo – è ottimamente architettata, e ancor meglio sviluppata nell’arco delle sue quattrocento pagine, con i momenti di suspense che si alternano sapientemente a quelli romantici, le sequenze drammatiche a quelle più leggere e ironiche. Lo scrittore spagnolo è bravo anche a creare personaggi che, seppur manicheisticamente dicotomizzati, sono capaci di imprimersi indelebilmente nella memoria del lettore, dal picaresco Fermin Romero de Torres (un logorroico e donchisciottesco personaggio, dotato di smisurati appetititi – anche sessuali -, che nondimeno si dimostrerà nel corso del romanzo munito di insospettate doti di profondità filosofica, di coraggio e di fedeltà) al perfido Francisco Javier Fumero (il sadico e spietato ispettore della polizia criminale, che uccide e tortura senza pietà per vendicarsi della sua vergognosa infanzia), dal misterioso Julian Carax (l’autore di introvabili romanzi, sulle cui labili e inconsistenti tracce si metterà Daniel per ricostruire la sua storia di passione e dannazione) fino alle tante femmes fatales (figure affascinanti e autenticamente romantiche, spesso costrette a pagare con un tragico destino la loro dedizione all’essere amato). Certo, non tutto è perfetto ne “L’ombra del vento”. Le coincidenze (che un personaggio del romanzo definisce “le cicatrici del destino”) proliferano in maniera francamente inverosimile (basti pensare che Julian Carax, Fumero, Jorge Aldaya – il fratello della ragazza amata da Julian – e Miquel Moliner – il marito di Nouria, per un certo tempo a sua volta compagna di Julian – erano stati tutti allievi dello stesso collegio), e certi flashback (in cui peraltro Zafon dà sfoggio di una fantasia che richiama il realismo magico di Garcia Marquez, come nel caso dei sogni profetici della domestica Jacinta e della rievocazione del Tenebrarium) hanno un po’ la funzione di pedanti spiegoni. Questi difetti appaiono però emendabili e veniali, soprattutto perché, in un’opera che si legge tutta d’un fiato, vengono più che compensati da un’appassionata rivisitazione degli anni della guerra civile e del franchismo, e soprattutto dalla originale e suggestiva descrizione di una Barcellona lontanissima dai cliché turistici, una città magica, “che ti entra nel sangue e ti ruba l’anima”, fredda e piovosa, ambigua e misteriosa, in cui negli stretti vicoli del Barrio Gotico e del Raval o nelle solitarie strade del Tibidabo la nebbia può nascondere ad ogni angolo sorprese e incontri inaspettati.
Indicazioni utili
Commenti
8 risultati - visualizzati 1 - 8 |
Ordina
|
L'autore certamente ha delle potenzialità, ma qui compaiono solo frammentariamente, sotto una spinta troppo accattivante (penso, nelle intenzioni) della trama. Un'opera non riuscita che, comunque, riesce a farsi leggere.
8 risultati - visualizzati 1 - 8 |