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Pinturas rojas come il sangue
Nell’estate del 2016 Parigi scopre che un nuovo efferato serial killer si aggira tra le sue strade. La prima vittima è la giovane spogliarellista Sophie. È stata trovata in una discarica, completamente nuda, legata, anzi strangolata, con la sua stessa biancheria intima, brutalmente sfregiata per simulare uno straziante urlo alla Munch, reso più agghiacciante dalla pietra atrocemente incastrata nella sua gola. Dopo alcune settimane di infruttuose ricerche, a cura della seconda sezione criminale, le indagini sono affidate alla squadra di Stéphane Corso, capo della prima sezione.
Corso è un poliziotto caparbio e ostinato sul quale pesa il burrascoso passato, fatto di abbandoni, orfanotrofi, vita precaria presso famiglie affidatarie, microcriminalità, violenze fatte e subite, abuso di droghe e alcool. Recuperato a una vita “normale” (o quasi) grazie alla protezione della Bompart, Capo della Criminale, ormai si dedica anima e corpo solo al suo lavoro, convinto che l’unica forma di redenzione per lui stia nel far rispettare la legge… a qualsiasi costo. Sul suo presente grava pure la difficile relazione con la ex moglie Èmiliya, in pubblico brillante funzionario ministeriale, ma nell’intimità una perversa sadomasochista. Lei gli contende con tutti i mezzi più sporchi l’affido del figlio, il piccolo Thaddée, e Stéphane ne teme l’esiziale influsso.
Nonostante questa difficilissima situazione personale l’ispettore si mette rapidamente al lavoro e, in pochi giorni, delinea la tipologia del presunto assassino, il quale, nel frattempo, ha fatto una nuova vittima, amica fraterna della prima. Il secondo omicidio ricalca in tutto e per tutto il primo ed entrambi richiamano alla mente i raccapriccianti dipinti dell’ultima fase artistica di Goya, quella delle pinturas negras e delle ancor più inquietanti pinturas rojas recentemente venute alla luce.
Così l’attenzione di Corso, indirizzato da un collega in pensione, si interesserà di un idolatrato pittore: Philippe Sobieski. Tutti gli indizi convergono su di lui. Già condannato a diciannove anni per un omicidio a scopo di rapina che ha alcuni punti di contatto con le odierne uccisioni, ha un trascorso carcerario da efferato giustiziere e una psicologia contorta e violenta. Pratica il bondage e tutte le forme più crude di sesso. Ha ritratto le due vittime di cui era amante. I suoi quadri trasudano violenza e depravazione. Però, ha un alibi per le ore dei delitti ed è tenuto in palmo di mano da tutti gli ambienti culturali di Francia per il crudo ed esasperato realismo delle sue opere. È considerato un genio, la pecora smarrita ritornata all’ovile. Forte di queste protezioni e del fascino ambiguo che esercita, tenterà di beffarsi della polizia. La tenacia di Corso sembrerà aver la meglio sui suoi giochetti. Tuttavia è davvero lui l’assassino?
Il “polar” è un genere letterario di grande successo in Francia. Etimologicamente la parola dovrebbe essere la crasi dei termini policier e noir, ma il richiamo al gelo della calotta artica non è meramente casuale. Gli autori francesi più di tutti gli altri scrittori di thriller accentuano i lati crudi della vicenda narrata. Non provvedono ad alcuna autocensura, non smussano le descrizioni, non glissano sugli aspetti più orribili, ma, al contrario, analizzano, accentuano la crudezza, radicalizzano le situazioni. Nulla è lasciato all’immaginazione; tutto è indirizzato a far rabbrividire il lettore.
Nell’iniziare “La Maledizione delle Ombre” mi ero già predisposto, con una certa angoscia, ad affrontare una simile rudezza di immagini, una brutalità, una tensione emotiva che non ti fanno fiatare sino alla fine.
Questo romanzo non fa eccezione: la trama è dura e cruda sino all’esasperazione e il linguaggio adoperato l’asseconda. L’A. scava senza pudore nelle più segrete e oscure pieghe dell’animo umano. Non mancano descrizioni forti, soprattutto nella prima parte del romanzo, contesti ben oltre il limite dell’accettabile. Alcune minuziose descrizioni rasentano la bassa macelleria e, inevitabilmente, suscitano repulsione. Ci si può fare una “cultura” (non richiesta) sulle più incredibili perversioni sessuali e sulle tecniche di tortura, pornografia estrema e degradazione del corpo umano. Tuttavia la storia è narrata con un distacco da analista. L’esposizione spesso risulta asettica come fatta da un freddo osservatore esterno.
I sentimenti di Corso (personaggio non particolarmente simpatico né oltremodo deduttivo) ci vengono descritti, ma non se ne diviene partecipi. Gli omicidi efferati suscitano orrore, ma non empatia.
Molto intelligente, apprezzabile e, soprattutto, inquietante è il filo conduttore (ufficiale) del romanzo: la relazione tra la brutalità umana e l’impeto artistico che agita una psiche tormentata. Lo stile accurato di Grangé, poi, rivela una profonda, indiscussa cultura e una puntigliosa documentazione. Forse un po’ troppo puntigliosa la descrizione di Parigi, quasi da guida turistica, così particolareggiata da consentirci un “pedinamento” di Corso nelle sue peregrinazioni, ma, tutto sommato è interessante.
Complessivamente, però, ho avuto la sensazione che manchi quel quid decisivo per fare del romanzo una storia pienamente convincente. La trama risulta troppo arzigogolata, contorta, ben oltre la plausibilità: sono troppe le situazioni nelle quali si deve far ricorso alla sospensione dell’istintiva incredulità e chiudere un occhio su passaggi zoppicanti sotto il profilo logico. Le oltre cinquecento pagine, poi, risultano eccessive: è impossibile mantenere la propria attenzione viva su ogni passaggio.
I colpi di scena si susseguono, soprattutto nella seconda parte del libro, in un crescendo rossiniano, ma spesso giungono prevedibili, un po’ perché non sono tutti così sorprendenti, un po’ perché si intuisce che sono necessari a tenere viva la storia che, altrimenti, perderebbe di interesse e si avvilupperebbe su sé stessa. L’epilogo vorrebbe essere una sorta di coup de theatre da grande prestigiatore, ma, in fondo non risulta neppure così stupefacente. L’A. ha abusato troppo, durante tutto il testo, di improvvisi cambi di rotta, assuefacendo in tal modo il lettore che, alla fine, smette di meravigliarsi, quando addirittura non riesca a precorre i tempi e prevedere le varie “sorprese”.
In conclusione, pur essendo un romanzo buono e ben scritto, non riesce a toccare tutte le giuste corde per divenire davvero un’opera effettivamente memorabile. Piacevole se ci si accontenta di farsi trascinare dalla storia senza porsi domande, un po’ meno se si analizzano con attenzione le varie situazioni. Peccato!