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Il marchio del male
Le imprese Vanger, pur in declino, restano uno dei gruppi societari svedesi più influenti. Merito di Henrik Vanger, amministratore delegato, che è riuscito nell’impresa di tenere unita il più possibile una famiglia allargata molto particolare: dei singoli membri Henrik conosce bene il potenziale e le tare caratteriali (cosa fondamentale per chi deve rispettare la regola voluta dai fondatori del gruppo imprenditoriale, cioè che le quote azionarie rimangano saldamente ancorate alla famiglia di sangue). E’ per questo che, al momento di lasciare la guida del gruppo per sopraggiunti limiti di età, ha individuato nel nipote Martin la persona adatta a sostituirlo.
Nessun problema, dunque, se non fosse per quel cruccio che assilla Henrik da 36 anni: la scomparsa della nipote Harriet, che egli vedeva come sua erede naturale per la guida delle società. Un evento accaduto in un momento di particolare confusione sull’isola di Hedeby (il “regno” della famiglia Vanger), dovuta all’incidente che coinvolse un’autocisterna e per mezza giornata tagliò fuori il luogo da ogni collegamento esterno. Eppure sull’isola, in quella convulsa giornata del 1966, qualcuno ha avuto la freddezza di pensare a togliere di mezzo Harriet e farne sparire le tracce. Presumibilmente la stessa persona che tormenta Henrik inviandogli, ogni anno al suo compleanno, un fiore incorniciato, proprio come usava fare la ragazza prima di scomparire nel nulla.
Anche per questo il vecchio Vanger non è riuscito a dimenticare, al contrario di altri membri della famiglia.
“Uomini che odiano le donne” è il primo volume di una trilogia, scritta dallo svedese Stieg Larsson e conosciuta universalmente come “trilogia di Millennium” (dal nome della rivista diretta da Mikael Blomkvist, il giornalista d’inchiesta che nella saga si reinventa investigatore).
La vicenda “gialla” riguardante i Vanger è ben costruita ma non originalissima. In più, sconta qualche “debolezza” (come nella parte che svela la chiave di lettura degli appunti di Harriet, non intuita nel corso dell’indagine ufficiale e invece indovinata da un personaggio secondario della storia).
Piuttosto, a rendere questo libro un’avvincente lettura sono:
- l’intelligenza dell’autore nell’utilizzare la trama per aprire uno squarcio su problematiche sociali diffuse: si parte dalla violenza sulle donne evocata nel titolo del libro (narrata nella civilissima Svezia, ma – come tristemente noto – attualissima in diverse realtà), per giungere all’economia malata, condizionata dalle multinazionali e dai poteri forti (interessante il passo del libro in cui Larsson – a sua volta giornalista ampiamente dedicatosi a temi finanziari – distingue tra le sorti dell’economia di un Paese e quelle dell’andamento del suo mercato borsistico);
- uno stile di scrittura scorrevole e molto attento ad illustrare al lettore i diversi concetti messi in campo, in modo da non lasciarlo mai indietro;
- infine – e qui Larsson è davvero bravissimo – la capacità di concepire un maxi-preambolo che funge da architettura di tutti gli snodi della storia: ci vogliono 130 pagine (un intero libro!) prima di iniziare a trattare il “mistero” dei Vanger, eppure nessuna sensazione di “pesantezza” ne risulta al lettore. Al contrario, si tratta di pagine che servono a caratterizzare con accuratezza i due (memorabili) protagonisti della storia: Mikael Blomkvist, che, nel peggior momento della sua carriera giornalistica, viene reclutato da Henrik Vanger come ultima carta utile a portare alla luce la sorte di Harriet; e Lisbeth Salander, ragazza problematica e singolare in ogni suo comportamento (per questo, sotto tutela), a sua volta reclutata da Blomqvist quando quest’ultimo prende coscienza di tutte le abilità informatiche che ella riesce ad utilizzare a fini investigativi.
L’accoppiata tra un cinquantenne aggrappato all’etica (nonostante tutto) e una ventiquattrenne abituata a lottare per ottenere ogni minima cosa (a partire dal rispetto di chi la circonda) funziona: le parti in cui i due personaggi vengono presentati e quelle – ben avanti nel libro – in cui interagiscono, sono tra le più godibili… a tacer del fatto che la contraddittoria figura di Lisbeth assomma in sé una serie di capacità sconosciute al miglior James Bond. Proprio per questo – nonostante l’autodefinizione di “freak” che compare nel corso del romanzo – è decisamente il personaggio destinato a catturare la scena (come testimoniano anche le successive trasposizioni cinematografiche della saga).
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