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Il destino degli uomini
Quando nel 1948 riceve la notizia della morte del fratello, arruolatosi nella Legione straniera su suo consiglio, Simenon scrive due libri nerissimi, forse per espiare le sue colpe, forse per addomesticare i suoi fantasmi. E così prendono vita La neve era sporca e Il fondo nella bottiglia. Se nel secondo la storia si tende fino alla rottura nella dicotomia insanata fra due fratelli, tra la terra rossa delle pianure americane, nel primo è invece Frank, giovane diciannovenne, a compiere la sua parabola di caduta e consapevolezza, tra le nevi stuprate di una indefinita città del centro Europa. La neve era sporca è per molti motivi un testo atipico per Simenon: la freddezza analitica e feroce, il tratto tagliente e logico della disamina dei personaggi lascia spazio, parola per parola, ad un pathos insolito, lacerante e caldo. Ed è proprio questa fiamma interna, questo fuoco contratto, a consumare gli uomini esausti di questo libro, a ridurre in cenere bianca le difese umanissime di cui si circondano. La stessa cenere bianca che si deposita come neve, impura e sporca, sulle loro vite. Perché se c’è una cosa che Simenon sa bene, è che nessuna purezza, nessun candore, è possibile nel mondo, non fosse altro che la realtà è un compromesso e, come tale, corruzione. Ed è la famiglia il cancro primitivo, l’olezzo, la fanghiglia, il degrado. Perché è nel rapporto con i genitori che si forma il dramma e diramano le metastasi della propria perdizione. Il grande tema che percorre queste pagine è, nona caso, la ricerca del padre e tutto il libro non è altro che la continua ricerca di questo maschile che continuamente sfugge. È il tentativo di riempire questo vuoto, il bisogno spasmodico di avere una guida, a muovere le azioni di Frank. E quando l’incontro finale sembra avverare questa originaria istanza, la verità è pura e semplice: “quello di un uomo è un mestiere difficile”. E allora questo romanzo, in cui tutto è crimine, l’omicidio, lo stupro, il furto, si dimostra alla fine un capovolto racconto di formazione, e cioè la compiuta descrizione di un massacro annunciato. Ed è un massacro perché Frank ha scelto che lo sarà, perché la cocciuta pervicacia che è in fondo ottusa resistenza a se stesso, null’altro è che il frutto di un’intelligenza tiepida. Non bisogna mai credere alla maturità ostentata di questo personaggio, mai cedere al mito della sua evoluzione, perché Frank è solo Frank, un diciannovenne. Anni dopo Simenon riprenderà il tema di questo romanzo in un suo altro libro, L’orologiaio di Everton, dove è il rapporto compiuto fra padre-figlio a scoppiare. Il motore narrativo è, in entrambi i casi, il superamento del limite, la soglia oltre quale tutto è troppo oltre per poter tornare in asse. È questo orizzonte, questo tranello minaccioso teso dal destino, a chiamare i personaggi di Simenon e a condurli all’estrema conseguenza delle loro scelte. Perché ogni volta, il vero protagonista, è il destino degli uomini.
E così Frank, incontro al suo destino, artefice di se stesso, consuma la sua parabola tra le sbarre di un carcere, sconfitto nella lucidità che si era imposto di mantenere, da una subitanea consapevolezza: che resistere per l’orgoglio di resistere non serve a niente. Simenon ci lascia alcune delle sue pagine più dense, più pastose, più intransigenti. E forse stona un po’ l’innaturale, incerta, ambientazione del libro, in cui Simenon, paradossalmente, non sembra trovarsi davvero a suo agio. Perché le regole del gioco valgono anche per l’autore: quando sono il dolore e la realtà a bussare alla porta, anche la neve candida della scrittura si sporca.
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