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Colpevole! Nonostante ogni ragionevole dubbio?
Il romanzo è la storia di quattro donne tormentate.
Kate Woodcroft: è un avvocato penalista, lavora per il Crown Prosecution Service britannico e si occupa di preferenza di casi di violenza carnale a danno di donne e minori. Le viene proposto il procedimento a carico di James Whitehouse, sottosegretario nel governo Tory in carica. Accusa: aver violentato in uno degli ascensori della Camera dei Comuni una sua collaboratrice, Olivia, con la quale aveva intrecciato una relazione da lui bruscamente conclusa pochi giorni prima. Kate non ci mette più di un attimo ad accettare quel caso. Si butterà anima e corpo per ottenere la condanna dell’uomo politico. Anzi, man mano che il processo prosegue, la sua determinazione aumenta sino a far sospettare che esistano pure inconfessati motivi personali dietro a questa sua pervicacia.
Olivia: è davvero una vittima o sta montando tutto per vendicarsi dell’uomo che amava e che l’ha scaricata in malo modo dalla mattina alla sera?
Sophie, la moglie di Whitehouse: per quanto umiliata e scossa dalla scoperta dell’infedeltà di James, non crede alla sua colpevolezza. Lo ama teneramente ed è fermamente certa che egli sia un uomo gentile, padre ammirevole, incapace di simili gesti. Tuttavia durante le udienze la sua fede comincia a vacillare. James sarebbe davvero incapace di una brutalità come quella che gli viene imputata? E lei riuscirà a sopportare questo dubbio atroce che la rode?
Holly Day: la sua storia si alterna, in flashback, alla vicenda processuale contemporanea. Alla fine degli anni ’90 era una giovane “provincialotta” di Liverpool, matricola a Oxford, con borsa di studio per Anglistica. Era una ragazza piena di speranze, catapultata in un mondo esclusivo popolato da “figli di papà” ricchi e amorali che credono sia loro tutto concesso, tutto perdonato e tutto sanabile con qualche fascio di banconote da cinquanta. Alla fine del secondo semestre dovrà ricredersi amaramente su quell'ambiente che, sino ad allora, l’aveva esaltata ed affascinata. Riuscirà a riprendere il controllo della sua vita così crudelmente devastata?
“Anatomia di uno scandalo” non è un legal thriller sullo stile dei romanzi di John Grisham, come ad un primo sommario esame potrebbe apparire. Il tema centrale del romanzo è il processo a carico di James Whitehouse e la storia si sviluppa attorno alle varie fasi dibattimentali, ma si tratta in realtà di un romanzo a tema e, soprattutto, a tesi.
Il tema, ovviamente, è quello della violenza carnale sulle donne, vista dalle donne stesse; donne che spesso si sentono più colpevoli dello stupratore per quello che hanno subito: perché temono di aver fornito “segnali” sbagliati; di non essere state chiare nell'esplicitare il loro rifiuto; di essere state LORO ad indurre il comportamento brutale. Da qui discende anche la difficoltà di ottenere giustizia, soprattutto quando tra uomo e donna esiste già un rapporto consolidato e, quindi, nella coscienza comune (anche femminile!), l’atto sessuale in sé verrebbe ritenuto consensuale, a prescindere, se non addirittura “dovuto”.
La tesi del romanzo, invece, è che si dovrebbe sempre ricercare la giustizia sostanziale non quella del caso specifico, che giustizia non è. Il violentatore dovrebbe essere condannato sempre e comunque, per quello che è per davvero, e non per quello che, in aula, si è riusciti a dimostrare che ha fatto (o non fatto) nel caso concreto. Non è giusto farla franca solo perché in quell'unica determinata circostanza, portata in dibattimento, la prevaricazione non risulterebbe così evidente o, magari, perché si è stati abili a convincere la giuria. Per un reato così abietto si deve pagare il fio, se serve mettendo sul conto pure reati (o colpe) risalenti a decenni precedenti, purché giustizia sia fatta.
La tesi è interessante e meriterebbe di un approfondita analisi. Nel romanzo, però, gli argomenti usati a sostegno di ciò non sono persuasivi. La giustizia non può confondersi con la vendetta, con la ritorsione, altrimenti vittima e carnefice diventano indistinguibili. Invece nel romanzo si respira soprattutto rancore, astio e brama di rivalsa più che ansia nel riaffermare il sacrosanto diritto all'autodeterminazione delle donne. Quindi Sarah Vaughan si dimostra un avvocato assai meno abile a difendere la propria opinione di quanto Kate Woodcroft lo sia nella finzione letteraria.
Detto questo “Anatomia di uno scandalo” è un buon libro scritto, con sagace tempismo, su un tema estremamente attuale e scottante. Non è, però, un romanzo perfetto. La trama si snoda in modo piuttosto piatto, senza clamorosi sussulti. I rovesciamenti di fronte ci sono, ma seguono il normale alternarsi di accusa e difesa, proprio come in Tribunale, senza colpi di scena.
Le uniche due “sorprese” ci vengono "telefonate" e sono piuttosto prevedibili e scontate, quasi attese. Anche il finale, sin troppo diluito e solo parzialmente consolatorio, non aggiunge molto al contesto generale. Esso appare solo come una promessa di vendetta che, forse, potrà concretizzarsi in futuro. L’A. sembra quasi voler ammettere, amaramente: “purtroppo nel mondo reale le cose finiscono così, senza il botto finale”!
In generale si può riconoscere che sia un romanzo ben scritto, con stile fluido, ma freddo ed impersonale. Anche quando si descrivono le emozioni più forti non ho avvertito una particolare tensione emotiva: sembra di trovarsi di fronte ad un resoconto giornalistico. Nessuno dei personaggi, siano vittime o (presunti) carnefici, riesce a catturare con la sua personalità. Nessuno è davvero simpatico, nessuno veramente odioso, nessuno è ineccepibile. Ognuno, prima o poi, mostra le sue pecche, i suoi lati oscuri assieme a quelli buoni. Tutto ciò è umano, ma non giova al racconto che risulta abbastanza monotòno.
Nel lettore maligno si instilla pure il dubbio che l’A. si sia posta pure un secondo fine (meno nobile): quello del pamphlet, dell’attacco sottile contro una certa classe politica di segno opposto alle sue convinzioni. E’ difficile ignorare, infatti, che i “buoni”, siano tutti di simpatie Laburiste, mentre l’imputato sia un deputato Conservatore; che lo siano tutti coloro che lo sostengono o si comportano secondo la stessa (scarsa) morale; che egli si chiami Whitehouse (tradotto, guarda caso, fa “Casa Bianca”… nell'era del “trumpismo”); che lo scandalo, invece, sia stato rivelato da “the Guardian” giornale di note tendenze liberal con il quale pure l’A. ha lungamente collaborato. L’A. in postfazione, nega ogni relazione a fatti reali, ma, come diceva un nostro politico del passato, “A pensar male si fa peccato, tuttavia…”
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Per concludere mi permetto di aggiungere alcune osservazioni alla traduzione (che, se volete, si possono tranquillamente ignorare).
Tutto il romanzo ruota attorno ad una espressione verbale che James avrebbe usato e che viene indicata come l’indizio probante della violenza e della non consensualità del rapporto carnale. Nella traduzione, però, questa sensazione non si avverte. Intendiamoci la parola utilizzata è sicuramente volgare e rozza, probabilmente pure arrogante, forse offensiva, per gli animi più impressionabili, ma, in italiano, non ha quell'effetto drammaticamente dirompente che viene percepito dai protagonisti. Non è quella frustata che si pretenderebbe di infliggere: o, se lo è, viene inferta con un fascio di spaghetti cotti. Posso supporre che ciò dipenda o da una diversa sensibilità britannica al lemma usato o dalla traduzione non particolarmente efficace o proprio dalla mancanza di una espressione italiana che rechi in sé una tale carica emotiva. Purtroppo mancando questa connotazione di ferocia si indeboliscono le basi del castello accusatorio smontando così la credibilità del romanzo. Peccato!
Poi, il termine “Patrocinante della Corona”, usato per rendere l’espressione inglese “Crown Prosecutor” (la professione di Kate, equivalente al nostro Sostituto Procuratore della Repubblica, ovviamente con i dovuti distinguo in considerazione del diverso sistema giudiziario) è piuttosto improprio e un po’ goffo. Fa quasi sorridere perché suggerisce l’idea di un avvocato inesperto, alle prime armi, quando, invece, Kate è un vero dobermann della Pubblica Accusa.
Infine ho trovato parecchio fastidioso che sia Kate che la sua avversaria in giudizio (Angela) siano definite costantemente “avvocata”, al femminile, quando in inglese l’espressione “barrister” è indeclinabile. E’ vero: tradurre al femminile il nome delle professioni è divenuto di moda per una certa corrente giornalistica italiana eccessivamente “political correct”. Tuttavia “avvocata” è sgraziato, in contrasto al buon uso della lingua italiana, ma soprattutto si scontra con la pratica concreta in ambito curiale. Nessuna donna, che eserciti la professione forense (neppure coloro che agitano continuamente la bandiera femminista), vorrebbe sentirsi affibbiare una qualifica che suona come uno sberleffo più che un omaggio alla femminilità: potrebbe rispondere con epiteti tutt'altro che femminili! Perciò, per favore, evitiamo!