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Il feuilleton di Simenon
Nel 1936 Simenon era già un autore affermato, grazie ai gialli con Maigret e agli indovinati noir e non piaceva solo al lettore medio, ma anche a letterati assai famosi come André Gide. Confortato da questi elementi positivi e indubbiamente consapevole delle sue capacità deve aver pensato che fra tanti successi ne mancava uno relativo a un romanzo di maggior spessore, quale poteva essere costituito dalle vicende di una potente famiglia avviata a un inarrestabile declino. E a passare dall’idea alla realizzazione non ci mise molto, solo i mesi di luglio e agosto del 1936; nacque così Il testamento Donadieu, un romanzo corposo, considerate le sue 393 pagine.
Strano clan, quello dei Donadieu, che vivono fra La Rochelle e Parigi, che conducono una vita ritirata, ma che tutti assieme, come in processione, vanno a messa alla domenica per un rito anziché per una fede; è un’esistenza senza un acuto, monotona, anzi grigia, prigionieri della loro stessa potenza. Un giorno però accade un fatto straordinario: il capostipite, l’armatore Oscar Donadieu scompare, senza lasciare traccia, nemmeno un rigo. E’ l’inizio della fine, perché nonostante la proverbiale meticolosa efficienza e la non scalfibile sicurezza quello che si potrebbe definire l’ordine Donadieu mostra dapprima una crepetta che però in breve si allarga e si dirama fra La Rochelle e Parigi fino ad arrivare al crollo di questa grande famiglia, trascinando nel baratro anche l’arrivista Philippe, inseritosi di soppiatto fra gli apparentemente rigidi legami del clan. Costui, figlio del proprietario di un cinema ridottosi quasi in miseria per operazioni finanziarie sbagliate, circuisce Martine, la figlia dello scomparso Oscar Donadieu, il cui cadavere verrà poi ritrovato nel limo del porto senza che possiamo sapere se si sia trattato di incidente, di suicidio o di omicidio; il suo intento non è nobile, né quello di un vero innamorato, in quanto ha un unico scopo, vale a dire impadronirsi delle fortune dei Donadieu, che ritiene colpevoli delle disgrazie finanziarie del padre. Non vado oltre per quanto concerne la trama di questo lungo romanzo, limitandomi a far presente che la passione dell’autore per il giallo e per il noir qui sembra assente, se pur tuttavia i morti ammazzati non mancano e tutti legati, direttamente o indirettamente, a questa famiglia. Il finale, poi, non potrebbe essere più pirotecnico e a onor del vero mi sembra che in tale circostanza Simenon abbia usato più di una forzatura, travalicando il limite dell’equilibrio per piombare in una specie di tragedia greca. Il romanzo non è certamente un capolavoro, ma ha il sapore di certi drammoni propri dei feuilleton e in effetti è giusto ricordare che Il testamento Donadieu uscì agli inizi a puntate su Les feullets bleus, senza dimenticare che era stato commissionato dal quotidiano Le Petit parisien. A mio parere è uno di quei libri, denso di intrecci, di tresche e di atmosfere grevi, adatti a un lettore che, amante delle tinte forti, desidera un prodotto che gli consenta di trascorrere diverse ore immerso nella realtà fittizia di un mondo in cui amore e morte non solo convivono, ma vanno felicemente a nozze. Per concludere si tratta di un’opera di non grande pregio, la tappa di un percorso che però avrebbe portato George Simenon a scrivere romanzi di notevole valore, quali, e solo a titolo di esempio, La finestra dei Rouet, I fantasmi del cappellaio e L’angioletto.