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UN ANTI-GIALLO DOMINATO DAL CASO
“Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota. [...] Matthäi non poteva accettarlo. Voleva che i suoi calcoli tornassero anche nella realtà. Perciò dovette rinnegare la realtà e sboccare nel vuoto."
Come suggerisce il sottotitolo al romanzo (“Un requiem per il romanzo giallo”), Dürrenmatt ha scritto con “La promessa” una sorta di anti-giallo, sovvertendo non tanto la struttura narrativa (che anzi, con la stratificazione dei piani di racconto – lo scrittore che “riceve” la storia da un narratore, il quale a sua volta riporta in forma più o meno indiretta i fatti vissuti da un terzo – richiama alla mente il romanzo ottocentesco, e penso ad esempio a Puskin, Lermontov, James, ecc.) e l’intreccio (il delitto, l’investigazione, la caccia all’assassino) tipici del genere, quanto le sue premesse teoriche e le sue conclusioni. Per Dürrenmatt la detective story non è più infatti un gioco puramente intellettuale e speculativo, una costruzione astratta, avulsa dalla realtà (o meglio, che con la realtà ha lo stesso rapporto che giochi di società come il “monopoli” o il “risiko” possono avere rispettivamente con il mondo degli affari e della guerra), bensì un microcosmo che rispecchia fedelmente le leggi della vita, e che come la vita è inesorabilmente dominata dal caso, dall’arbitrio, dall’irrazionale, da quell’elemento cioè che spesso i romanzieri polizieschi escludono accuratamente e come per partito preso dalle loro trame. Il commissario Matthäi fallisce così la sua ricerca del colpevole non perché ha commesso un errore di strategia o ha trascurato un indizio importante (al contrario, egli non ha sbagliato proprio nulla, è addirittura un genio, a detta del suo ex superiore), ma solo per una coincidenza “idiota”. Tra i tanti possibili (e classici) finali, che il capitano della polizia cantonale enumera con chiaro intento ironico allo scrittore, proprio questo, così banale e all’apparenza poco plausibile (appunto perché vero, come insegna Pirandello, il quale aveva capito da tanto tempo che la realtà supera per inverosimiglianza l’immaginazione), non avrebbe mai trovato diritto di cittadinanza in un poliziesco tradizionale. E già che ho tirato in ballo Pirandello, aggiungo che all’autore di “Enrico IV” e “Il fu Mattia Pascal” sarebbe molto piaciuta la follia di cui cade preda Matthäi, la cui straordinaria intelligenza è messa fuori uso e si cortocircuita a causa del sassolino maldestramente finito nel suo delicatissimo ingranaggio per colpa dell’insospettabile caso.
Visto in questa ottica, Matthäi non è solo un detective sconfitto nella sua sfida all’assassino, ma più in generale assurge a simbolo dell’uomo il quale cerca pervicacemente di governare la realtà con la sua razionalità, di addomesticare il mondo con il suo intelletto, di ridurre la vita a schemi e logiche prevedibili a priori, ma in questo suo sforzo è fatalmente sopraffatto dall’assurdo sempre in agguato (Kafka docet). In questo senso, “La promessa” è quasi un romanzo esistenzialista, e il suo protagonista, titanicamente perdente come il capitano Achab di “Moby Dick”, può essere assimilato all’eroe dell’assurdo per eccellenza, ovverossia il Sisifo di Camus, come questi costretto dalla propria epica grandezza a trascinare per l’eternità, con dolorosa e sofferta consapevolezza un peso incomprensibilmente immane, senz’altro senso che non sia l’orgogliosa e testarda fedeltà a quell’invincibile istinto che, dalla cacciata dall’Eden in poi, passando per l’Ulisse di Dante e il Josef K. de “Il Castello”, spinge da sempre l’uomo a tentare di spostare in avanti i propri limiti, anche a costo di sfidare l’interdetto divino e bruciarsi le ali in quel volo che, per la disparità delle forze a disposizione rispetto all’obiettivo prefisso, è quasi un romantico suicidio.
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Commenti
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Vedo però che il voto da te assegnato non è altissimo.
Ciao,
Manuela
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