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Genesi di un racconto dell'orrore
Essere elogiati dal maestro del thriller, Stephen King, non è da tutti. E pochi possono dire di aver meritato la sua ammirazione come Shirley Jackson, dotata di una straordinaria abilità nle mantenere il lettore in costante tensione, con la sensazione che da una pagina all’altra succederà qualcosa di tragico ed irreparabile, ma senza un solo inciampo nel banale o nella violenza gratuita.
Al centro di questo eccellente romanzo, troviamo i Blackwood, una famiglia dal destino a dir poco tragico: alcuni anni prima dell’inizio della storia, una cena a base di arsenico ha decimato la famiglia, lasciando le sorelle Constance e Mary Katherine sole con lo zio Julian, costretto sulla sedia a rotelle proprio a causa dell’avvelenamento.
Il periodo immediatamente successivo è molto duro per Constance, subito accusata della strage e costretta a difendersi in un processo che, pur assolvendola legalmente, non le risparmia l’astio e il sospetto dei suoi compaesani. Ed è proprio questo a costringere ciò che resta della famiglia Blackwood a trascorrere i seguente sei anni in un isolamento quasi totale.
A smuovere la stasi temporale scesa sulla villa sarà l’arrivo improvviso del cugino Charles, evento di cui si feliciterà solo Connie, mentre zio Julian e Merricat non fanno mistero della loro ostilità verso l’estraneo. Questa semplice visita è la scintilla che darà in breve cita ad un incendio devastante.
A dispetto di molti personaggi che fanno capolino nel romanzo, la narrazione è incentrata in modo esclusivo sui quattro protagonisti, sui quali torreggia a sua volta il duo formato dalle sorelle Blackwood, unite da un legame fortissimo.
La vicenda spinge inevitabilmente il lettore a provare un senso di protezione nei confronti del debole zio Julian, che dietro l’apparente fragilità mentale nasconde un’arguzia e un umorismo unici. Parallelamente si prova un odio quasi istantaneo per Charles, specie perché a differenza di altri personaggi non mostra mai un vero pentimento per i suoi errori.
Per questo riguarda le protagoniste, ho trovato un po’ irritante Conni, con la sua aria da svampita e la sua codardia di fronte alle difficoltà; d’atro canto ho adorato Merricat per il modo particolare in cui guarda al mondo. Da notare come spesso ci sia uno scambio nei ruoli delle due sorelle; infatti quando Connie è spaventata Mary la difende, mentre è Connie a riprendere Mary quando questa tiene dei comportamenti infantili. Ciò rende inizialmente arduo capire quale sia la sorella maggiore, nonché “accettare” che sono entrambi giovani donne e non delle ragazzine.
Nel romanzo Villa Blackwood è a tutti gli effetti un personaggio, oltre che principale sfondo delle vicende. A caratterizzare l’abitazione è certamente la presenza di tante stanze lasciate intatte negli anni, che hanno così dato vita ad un vero museo in onore dei defunti; in questa conservazione forzata si esprime una delle fissazioni di Merricat.
La ragazza ripone inoltre la sua fede nel Pensiero Magico, ovvero è convinto di poter influenzare fisicamente la realtà soltanto con un pensiero, una parola o perfino un talismano.
Strutturalmente, il romanzo è composto da capitoli abbastanza lunghi, che spesso terminano con un cliffhanger atto a mantenere viva la curiosità nel lettore.
In generale l’autrice alterna ad una scena in cui la tensione cresce in modo lento e costante, un altro con un improvviso picco di tranquillità normalità. Nella parte finale invece, non ci sono simili variazioni, sostituite da un continuo aumento della tensione che trasmette un forte senso d’ansia.
Da segnalare la presenza diffusa di ripetizioni nelle descrizioni e soprattutto nei dialoghi, dove questo elemento trasmette delle sensazioni diverse in base al personaggio che parla, sempre mantenendo un chiaro intento rafforzativo.
Come lettrice, mi sono scervellata per capire chi ci fosse dietro l’avvelenamento, ma la Jackson è stata una maestra nel seminare indizi fuorvianti, senza però negarmi la verità.
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