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DI RUGGINE SI MUORE
Dal fondo della bottiglia anche il mondo appare distorto, avviluppato in una spirale opaca che si arrampica su una luce diffusa, filtrata, smaltata; dal fondo della bottiglia la rifrangenza dell’alcol fa precipitare lo sguardo in un mare nebbioso, sfinito, allucinato; dal fondo della bottiglia anche la mente cede a se stessa e si spalanca ad una verità tanto netta da essere sordida, vischiosa, mistificata. Tutto è ruggine in questo libro, la terra rossa, polverizzata, il whisky denso, ambrato, il fiume marrone, epatitico, inesausto. Quello stesso fiume che con la sua danza sinuosa incanta tutti i personaggi, questi uomini cirrotici che si muovono come inebetiti dall’atonia nella giostra perpetua e monotona della loro quotidianità, della loro normalità e della loro fragile, inesistente perfezione. Quel fiume che scorre impetuoso e con cui tutti sono chiamati a confrontarsi: chi per riempire il vuoto della noia, quando anche l’alcol cede il passo alla realtà, chi lo impreca perché al di là sogna la propria felicità, la propria famiglia, chi lo prega per salvare la propria dignità e perché solo dall’altra parte, in Messico, negli ambienti caldi e morbidi di un bordello, ha trovato la serenità o la perdizione.
Simenon ci consegna un libro scuro e fangoso, crudele e sfiancante, nei ranch apatici che si estendono tra le promesse degli Stati Uniti e la povertà del Messico, lontano dalle placide architetture della sua Liegi e dai fasti di Parigi, in fondo al male e al dolore, mentre pagina dopo pagina, tra le ombre del ricatto, costruisce il dramma fino a farlo esplodere. Ed è all’allucinazione della sbronza perpetua che affida il destino di questi uomini, consumati dalla noia e dai miti della rispettabilità, quasi che solo in questo obnubilamento perpetuo dei sensi possano sfogarsi tanto odio, tanto rancore, tanta ferocia. Perché qui davvero non c’è calore che illumini il nero della trama, non c’è verità che riscatti la vita melmosa di questi uomini, non c’è un sentimento vero, reale, edificante: ogni relazione è finzione, ogni parola una lama, ogni bicchiere un gradino verso la dissoluzione. E anche l’unico amore per cui, a voler stringere la trama, lottano i due fratelli protagonisti, diventa strumento di rivalsa, ricatto, sopraffazione. Simenon sa che il mondo è una lotta fra lupi e agnelli, fra chi picchia e chi subisce, fra chi ha e fra chi non ha e soprattuto, con caustica, desolata certezza, sa che fin dall’inizio è stato Giacobbe, il fratello scapestrato, meno meritevole, a ricevere l’eredità di Dio. E solo con una punta di sarcasmo, come se questa ammissione gli costasse tutto il senso del libro, nota che in fondo Esaù ha perso tutto per un piatto di lenticchie.
Quando Simenon scrive questo libro, durante il suo soggiorno americano, sa di dover scontare una colpa: quella di aver consigliato al fratello minore, reo di omicidio, di arruolarsi con la Legione Straniera per fuggire. Una consiglio dettato dall’affetto, ma, forse, anche un tentativo per togliersi di torno la pericolosa reputazione del fratello, negli anni cruciali che lo stavano consacrando a rinomato scrittore. Eppure proprio seguendo quel consiglio, il fratello perderà la vita, consiglio che, la madre, non gli perdonerà mai. È proprio mettendo in scena lo scontro fra due fratelli che Simenon tenta di scavare e affogare il rimorso o il dolore, forse cercando un’espiazione, forse rassegnandosi alla natura dura e feroce degli uomini. Solo nelle pagine finali, sull’orlo del baratro, si respira la luce di una possibile comprensione, di un nodo sciolto e una trama ricucita, ma è l’illusione di un attimo che non sa redimere il mondo. Perché tutto è freddo e inaridito e, dal fondo della bottiglia, anche l’unica donna che tutto aveva capito e prima di tutti aveva intuito la fine, si chiude in un silenzio che, per nostra sfortuna, sa più di indifferenza che dolore.
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