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Le mani sporche di sangue
Palestina o Israele? Chi è il cattivo? Chi è il buono? E noi, da che parte stiamo?
Troppo spesso qui in Europa le discussioni sul conflitto mediorientale si risolvono in battibecchi tra tifoserie avverse, ognuna determinata da ideologie, simpatie o idiosincrasie. Ma non ai fatti. I fatti, invece, parlano chiaro, ci raccontano che violenza e fanatismo tendono a prevalere in entrambe le parti, mentre i torti e le ragioni si mescolano e si confondono. In ogni caso, che sia israeliano o palestinese, chiunque possieda una coscienza, chiunque sia intenzionato a vivere in pace e auspichi il compromesso si ritrova nella posizione più scomoda, e pericolosa. Qui nella vecchia Europa, invece, chi rifiuta di schierarsi per una squadra si attira la stessa ostilità dalle due tifoserie. Probabilmente, quest’ottusità così radicata deriva da una cattiva coscienza storica, nutrita nei riguardi di entrambi i popoli.
In questo romanzo, il conflitto è uno dei protagonisti, con tutta la sua complessità.
E poi, c’è il generale dalle mani sporche di sangue, sospeso dal coma in un limbo senza tempo. Il generale è un personaggio storico facilmente riconoscibile. Sospeso nel suo spazio onirico, fa fatica a rendersi contro del luogo in cui si trova, della vita che ha lasciato, della morte che lo segue nascosta dietro una vecchia canzone. Il generale, trafitto da ricordi e da simboli, ripensa al suo ruolo nella terra e lo rivive.
“Tu sei qui per alzare il valore della taglia sulla testa di ogni ebreo. Rendila costosa. Rendila una rara e raffinata delicatezza per chi ama il sapore del sangue ebraico”.
C’è Ruthi, la donna che ha assistito il generale mentre si occupava di organizzare vendette e rappresaglie, di alzare il prezzo sulla taglia ebrei, di trattare con il suo nemico preferito. Ora lo assiste mentre il generale è inerme, in coma, immerso nei suoi ultimi sogni, in attesa di comprendere che il suo tempo sta per finire. Ma lei è sveglia e spera, con ostinazione e lucida follia, che si risvegli.
C’è un ragazzo senza qualità ma dotato di coscienza e sensibilità, incaricato di sorvegliare un uomo accusato di aver tradito il suo popolo, un uomo arrestato senza diritti e senza processo, ormai perduto in una vita che è peggio della morte. Il ragazzo ottempera agli ordini, ma lo fa malvolentieri, perché tra lui e il prigioniero, il traditore, con il tempo è germogliato un legame speciale, fuori luogo ma tenace come i fiori che spuntano tra le rocce.
C’è il traditore, Z, un uomo che non voleva tradire, ma cercare una disperata conciliazione servendo sia il suo paese sia il popolo palestinese sia la giustizia, e invece ha trovato una lunga agonia. Ora si ritrova sepolto vivo, non in una prigione ma una cella tagliata fuori dal mondo e dalla vita. Gli rimane un’unica esigua possibilità di espressione: scrivere lettere indirizzate al generale. Gli rimane anche il ragazzo che lo sorveglia, con cui ha instaurato un legame che potrebbe ricordare la sindrome di Stoccolma, ma è diverso.
Ci sono due spie, un uomo palestinese e una donna israeliana, che si amano perdutamente e rischiosamente, ma non possono incontrarsi alla luce del sole, allora organizzano una cena nelle viscere della terra. Una cena simbolica, ovvio. Loro ci riescono.
Anche i personaggi di questo libro sono simbolici, ma sono vivi, e sono tutti collegati, in modo diverso e imprevedibile, tra loro; insieme, tessono una storia ricca di spunti di contraddizione e di riflessione e una trama complessa, splendida, da scoprire.
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Certo, a Sabra e Shatila nel 1982 furono i falangisti cristiani di Bashir Gemayel a compiere manualmente l'eccidio, ma l'esercito israeliano stava intorno al quartiere per "fare la guardia" ed era perfettamente al corrente (a livello degli alti comandi) di ciò che stava avvenendo là dentro. Vero anche che la Palestina era sotto il mandato britannico dopo la fine della prima guerra mondiale fino al '48, ma al suo interno risiedeva da secoli la popolazione araba che poi lo stato israeliano ha cacciato via; la stessa popolazione araba che invece, quando gli ebrei iniziarono ad approdare tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento sull'onda del movimento sionista, non aveva ributtato mica a mare i nuovi arrivati. Insomma, una questione davvero complicata e spinosa, nonché fortemente drammatica soprattutto per i diretti interessati.
Grazie per questo scambio di opinioni :)
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Io ci sono stata in Palestina e ti assicuro che vedere la situazione con i propri occhi dà un'idea diversa da quella che ci si può fare dal di fuori. Mi chiedo perché un popolo come quello ebraico, con tutto ciò che ha sofferto durante i secoli fino alla vergognosa Shoah di decenni neanche troppo lontani, abbia potuto fare tutto quel che ha fatto e sta ancora facendo. Il governo israeliano, specie col Likud al potere, persegue una chiara politica di pulizia etnica, e questo viene sostenuto addirittura da eminenti storici non arabi, ma ebrei (si veda I. Pappè, "La pulizia etnica della Palestina"). Fortuna che non tutti i cittadini si sentono rappresentati dal proprio governo e vigilano addirittura sul rispetto dei diritti umani che troppo spesso viene calpestato i Israele ai danni dei palestinesi. Condanno, naturalmente, anche Hamas e le frange più estreme e violente della resistenza palestinese, ma quando ti tolgono tutto, persino la dignità della propria terra non ti resta più niente se non la disperazione.
Mi annoto il titolo di questo libro, grazie, Antonella!