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SULL'INTRANSIGENZA DELLA REALTÀ
C'è quasi una tenerezza di fondo che aleggia fra le righe di questa Everton sempre uguale a se stessa, una certa pietà che sembra sciogliere il rigore della trama e allentare il ritmo della catastrofe, un indefinito "odore di pane appena sfornato" che scalda, per una volta, la trasparenza gelida del disincanto. L'odore di un bambino che dorme nel suo lettino, quel figlio cui Dave Galloway ha deciso di consacrare la sua vita, le sue attenzioni, il suo affetto e la sua comprensione. Quando la madre se ne era andata, dopo appena un anno dalla nascita di Ben, col suo profumo volgare e le sue scarpe in disordine, Dave aveva pensato solo alla felicità del figlio. Era felice Ben? "Sì, dad" rispondeva, sempre, poche parole sempre uguali. Un bravo ragazzo, tutto sommato. Eppure quel ragazzo ha ucciso un uomo, è scappato con una ragazza ed è inseguito dalla polizia di cinque stati. Chi è Ben? Dave non se lo chiede e anzi balbetta confuso risposte vaghe ai giornalisti che lo assediano, perché quello che vuole, l'unico suo desiderio, è ritrovare il figlio e ripetergli che non è successo nulla, che non è arrabbiato con lui, che tutto si può risolvere. E in questo stupore ovattato, Dave sarà costretto a confrontarsi con un figlio che rifiuterà di vederlo.
Simenon strappa i suoi personaggi dalla vita di sempre per condurli sull'orlo della fine, al punto in cui, comunque andrà, nulla potrà essere come prima. Il figlio ha oltrepassato la linea della fine, il padre si è trascinato al suo seguito per non perderlo, perché anche se è un assassino, resta pur sempre suo figlio. Da questa prospettiva, oltre la soglia del bene e del male, Simenon ci costringe a dubitare di chi pensiamo di conoscere, di chi crediamo di capire per sconfessare, ancora una volta, la nostra idea di "sapere". E lo fa nel modo più estremo e assurdo possibile, perché fino alla fine nessuno sa e soprattutto nessuno sembra chiedersi, il motivo di quel gesto. Non lo fanno i giornalisti che scavano nel sordido e nel dolore e che sanno rendere sporca anche la verità, non lo fa la polizia che al movente preferisce l'evidenza del crimine e solo alla fine lo farà il padre, ricostruendo le tracce del destino negli uomini della sua famiglia. Nonno, padre e figlio alle prese con una dicotomia cruciale e infantile insieme: superare o meno la linea tra vivere e sopravvivere. E quando il problema diventa capitale, quando il peso di nascere tra chi "è sculacciato" fa esplodere la rivalsa, l'unica via per vivere è uccidere e poi annientarsi. Perché è solo nel sordido che questi personaggi trovano la loro redenzione, perché in fondo, per chi non ha il coraggio di scegliere ciò che si è, la realtà è solo una moneta che oscilla fra uccidere e morire. D'altronde vivere, ah sì, vivere, è la parte difficile.
Rispetto ad altri suoi libri, Simenon si dimostra più indulgente, non c'è condanna, non c'è cinismo, ma anzi un rispetto sacro nell'amore di questo padre per il figlio e allora la scrittura si fa più distante, sincera ma non spietata, perché la realtà è sempre realtà, ma l'amore di Dave per il figlio assassino è, paradossalmente, l'unico sentimento onesto che Simenon ci ha raccontato. E forse è proprio questa tenerezza di fondo che ha reso "L'orologiaio di Everton" uno dei libri più letti di Simenon, anche fra chi lo frequenta saltuariamente: è pur sempre una speranza.
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