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Ogni scarrafone... è bello a Rosemary sua.
(Lieve Spoiler)
Probabilmente ero rimasta l’unica a non aver letto questo libro (e, di conseguenza, a non aver visto il film), anche se credo che, insieme ad Alien, sia una delle cause remote delle mie viscerali idiosincrasie per la maternità (non so come, ma intendo scoprirlo).
Ho comunque colmato entrambe le lacune.
1966, New York. Rosemary e Guy prendono in affitto un appartamento in un palazzo dallo fama sinistra: sorelle antropofaghe, suicidi, adoratori del maligno, cadaveri di neonati. Ovviamente fanno tanto di spallucce a questi infausti presagi, si trasferiscono e stringono amicizia con una coppia di arzilli vecchietti, i Castevet, loro vicini.
Piano piano gli arzilli creano una solida rete di isolamento intorno alla giovane coppia, composta dalle loro bizzarre, ma apparentemente innocue conoscenze.
E cominciano ad avvenire cose strane: il suicidio di una giovane conoscente di Rosemary, l’improvvisa cecità di un attore “rivale” di Guy, il misterioso coma di vecchio amico che aveva cercato di mettere Rosemary in guardia. Lo stesso Guy, cambia: dapprima molto tiepido sulla questione “genitorialità”, decide improvvisamente di mettere in cantiere un erede.
Per accennare soltanto, gli arzilli sono niente meno che una setta di stregoni che evocano satana, fanno vari e raccapriccianti riti con il sangue e lavorano per far reincarnare il maligno (o qualcuno che lo evochi, non mi è chiarissimo). Ottengono facilmente la complicità di Guy e decidono che sarà Rosemary la madre della loro reincarnazione.
Questa storia si poteva raccontare in molti modi. Forse non è originalissima, ma offre spunti interessanti e – soprattutto nel finale – qualche brivido lo cagiona. Invece la narrazione scorre piuttosto piatta e, nonostante le descrizioni siano minuziose, i dettagli realistici, i dialoghi verosimili, non riesce mai a catturare il lettore (o meglio: a catturare ME lettore).
Difficile provare empatia per i personaggi (a parte qualche sorriso che all’inizio strappa Rosemary, giovanissima sposina, alle prese con ultrasessantenni un po’ noiosi, chiacchieroni e ficcanaso). Analogo difetto anche nel film (e non sorprende, perché Polansky a tratti cita Levin in modo quasi letterale) in cui fa la differenza Mia Farrow con i suoi occhioni blu sgranati e la ninnananna che apre e chiude il film.
E dire che il finale funziona e poteva davvero essere geniale. Sarebbe stato bello entrare in risonanza con questa donna che alla fine di questa scia di sangue e delitti decide di fare la madre di satana (basta che si chiami Andrew e non Adrian), anche se ha gli occhi gialli di un rettile (ma un broncetto tanto carino).
Peccato.
PS non posso fare a meno di chiedermi come avrebbe raccontato questa storia uno che con i personaggi femminili fa grandi cose, uno tipo King, per dire.